TRENTAMILA TIROLESI
IN BRASILE. DAL RACCONTO DI UNA “TRAGICA EPOPEA” ALLA SCOPERTA DI UNA
EMIGRAZIONE RIUSCITA.
di Renzo M.
Grosselli
1. Il “generoso Sessantotto” e la storia del
popolo.
Il Sessantotto e il
periodo che lo seguí, furono caratterizzati da una ripresa su vasta scala, in
Italia, degli studi di taglio sociologico ed antropologico che tendevano a
riportare alla luce, connotare, approfondire e in ultima istanza valorizzare
vari aspetti di storia popolare. Rimettere sotto i riflettori dell’attenzione
sociale, quindi, i momenti piú significativi che avevano condotto l’umanitá,
specie quella bianca che abitava l’Occidente del pianeta, al transito tra una
societá tradizionale (per le masse popolari, civiltá sostanzialmente contadina)
ed una societá capitalistica ed industrializzata. Questa tensione idealistica,
sanissima e motore di conoscenza e pure di veritá, non poteva non allargare
l’interesse degli studiosi di molti ambiti del “sociale” al fenomeno migratorio
che aveva accompagnato d’appresso lo sviluppo capitalistico europeo. Certamente
l'accento di questi studi calava anche, talvolta soprattutto, sugli aspetti di
ingiustizia, dolore, privazione che le masse popolari erano state costrette e
subire sia con la loro entrata in fabbrica che con l'attraversamento di confini
politici ed oceani. Non era necessario inventare nulla, non era necessario
ingrandire niente: la documentazione era lá per garantire che milioni di esseri
umani erano stati costretti a trasferimenti brutali, a soffrire e perire per
rincorrere un sogno di mancanza di sofferenza o anche di maggiore benessere e
libertá, in condizioni fisiche e psicologiche talvolta incredibilmente severe.
Era il caso, ad esempio, dei processi immigratori scaturiti dalla volontá delle
classi dirigenti latino-americane che, vogliose prima di trovare la propria
indipendenza dalle madrepatrie europee e poi di metterla ancora piú a frutto
economicamente, richiamarono sul territorio americano milioni di popolani
europei. Terra difficile, l'America dell'Ottocento: quasi un mare verde, fatto
di vegetazione.
Ci fu chi, come me,
andó lá. Entró negli archivi e nelle universitá, percorse i territori "tirolesi"
per anni, alla ricerca di testimonianze scritte ed orali. E, pur avendo sotto
gli occhi un Brasile diverso, solo sfasato di un poco nei confronti dello
sviluppo euro-statunitense, avendo cioè la possibilitá di capire immediatamente
quali orizzonti di emancipazione aveva offerto l'America a questi emigranti,
dopo solo un secolo dal loro inserimento nel "mare verde", fu piú logico sondare
il terreno delle sofferenze evidenti, delle ingiustizie evidenti.
Sono
trascorsi trent'anni abbondanti dal 1968, vent'anni da quando anche noi iniziammo quelle indagini, di qui e di lá dell'oceano. E giá da un poco abbiamo iniziato a completare le considerazioni fatte allora (non lo dimentichiamo, comunque, dopo giorni, mesi, anni di studio accanito in archivio, sui libri, attraverso la raccolta di memorie orali). E un paio di veritá ci paiono ormai
assodate storicamente circa i flussi migratori europei verso il Brasile delle
colonie, specialmente nei tempi dell'impero: i programmi governativi brasiliani
di occupazione della foresta e di sviluppo di comunitá basate sulla piccola
proprietá agricola e sull'artigianato, quali motori di un successivo sviluppo
industrializzante, ebbero successo e cosí furono premiati dal successo anche i
progetti di centinaia di migliaia di contadini e braccianti europei che decisero
di lasciare l'Europa per ricostruire delle comunitá contadine in America
Meridionale.
Questa
é l'idea con cui io apro oggi questo convegno di studi sui "tirolesi" in Brasile, questa é l'idea che sostenni un paio di anni fa quando discussi la mia tesi di dottorato alla Pontificia Universitá Cattolica di Rio Grande do Sul di Porto Alegre, sotto il coordinamento della professoressa Nuncia Santoro de Constantino (e da cui venne ricavato un libro dato alle stampe, in italiano, in Brasile: <Noi tirolesi, sudditi felici di Don Pedro II, Edizioni Est 1998, per interessamento di Rovilio Costa, una delle personalitá che precocemente avevano influenzato la direzione dei miei studi nel campo dell'emigrazione).
2.
“Tirolesi-tedeschi” in Brasile: da metá Ottocento alla fondazione di Treze
Tilias.
I "tirolesi" in
Brasile dunque. Ma allora é necessario mettersi d'accordo sulla parola
"tirolese". Include certamente, dato il periodo storico, sia le genti
dell'attuale Trentino, nella seconda metá dell'Ottocento definito ufficialmente
Tirolo Meridionale o Tirolo Italiano, che quelle dell'Alto Adige e della regione
di Innsbruck che costituivano il Tirolo storico, il Tirolo di lingua tedesca.
Detto questo, sia i "tirolesi italiani" sia i "tirolesi tedeschi" furono della
partita. Sono molto minori le tracce lasciate dai secondi sui libri di storia e
negli archivi brasiliani anche perchè, con certezza, fu molto minore il numero
di loro che si trasferí nelle foreste brasiliane. Pur non esistendo studi
specifici, chi scrive queste note si é imbattuto spesso in informazioni storiche che li riguardano (non foss'altro perchè erano genericamente definiti "tirolesi" come i trentini). Certamente i primi di loro giunsero in Brasile prima dell'afflusso massiccio dei trentini. Ad esempio, giá nel 1860 era segnalato che nella Colonia Santa Leopoldina, in Espirito Santo, abitata soprattutto da contadini germanici e da minoranze svizzere e olandesi, dimoravano anche 82 tirolesi.[1]
Di loro sappiamo solo che parlavano il tedesco e supponiamo fossero del Nord
Tirolo, senza averne conferma alcuna. In quegli stessi territori coloniali una
localitá, non lontana dall’attuale cittadina di S. Teresa in cui é massiccia la
presenza di trentino-brasiliani, venne chiamata Tyrol. Ci saranno poi altre
localitá denominate Tyrol (o Tirol), create da immigrati europei, stavolta di
lingua italiana. A Nova Trento, S. Catarina ad esempio, dove oggi la localitá
inizialmente denominata “Ronzenari” si chiama appunto cosí, o ancora in una zona
non identificata dello Stato di Rio de Janeiro dove un gruppo di trentini prese
terra nelle fazendas di un tal Saturnino Braga.[2]
“Strada dei tirolesi” era stata battezzata una linea coloniale popolata nello
stabilimento denominato Blumenau, in S. Catarina.[3]
Infine, ma certamente la lista non é completa, nella seconda metá degli anni
Settanta era nata nei pressi della capitale del Paraná, Curitiba, la Colonia S.
Maria do Novo Tyrol, abitata in maggioranza da trentini del Primiero.[4]
Ma l’afflusso di
tirolesi di lingua tedesca (impossibile a questo stadio della ricerca sapere se
del Nord o del Sud del Tirolo storico) é dimostrabile anche in altre colonie dei
tempi dell’impero. Nella Colonia catarinense fondata dal dottor Hermann Bruno
Otto Blumenau sino al 1874, cioé prima dell’arrivo dei “tirolesi italiani”, si
erano stabiliti 29 tirolesi, precisamente dal 1861 al 1868.[5]
Abbastanza cospicuo, anche se finora non definito numericamente, fu l’afflusso
di contadini tirolesi-tedeschi nella Colonia Dona Francisca, sempre in S.
Catarina, soprattutto tra gli anni ’60 e ’70, con alcuni casi pure negli anni
’80.[6]
Ma nella bibliografia internazionale non é difficile incontrare, qui e lá, prova
dell’entrata nelle colonie brasiliane di tirolesi-tedeschi anche in Rio Grande
do Sul e Paraná. Ora, l’unica cosa che possiamo affermare con certezza é che si
trattó di un flusso non corposissimo, costituito da molte centinaia di
individui, forse addirittura pochissime migliaia nell’arco di mezzo secolo.
Un flusso
immigratorio, comunque, che si concluse solo nel periodo tra le due guerre
mondiali con la colonizzazione di territori dell’Ovest di S. Catarina, nella
zona di Joaçaba. Fu la cosiddetta “epopea di Andreas Thaler”, all’epoca ministro
dell’agricoltura austriaco che fondó una colonia per i suoi compatrioti. Nel
1933 creó la “Societá Austriaca di Colonizzazione all’Estero” con sede ad
Innsbruck e visitó varie terre dell’America Meridionale, scegliendo infine il
Sud brasiliano dove il 13 ottobre del 1933 installó, presso Joaçaba, il primo
gruppo di 84 tirolesi a cui si aggiunsero a partire dal 1937 altri compatrioti
sino a raggiungere la cifra di circa 800 persone. Tra loro non vi erano
solamente contadini ma anche artigiani di varie professioni e pure personale
dirigente con un certo livello di studi alle spalle. La colonia venne chiamata
Dreinzenlinden (successivamente e sino ad oggi Treze Tilias). Lo stesso Thaler,
certamente un idealista, si trasferí in quella terra dove morí affogato a causa
di una alluvione il 28 giugno 1939. Nel 1963 Treze Tilias diventava municipio.[7]
3. I
“tirolesi-italiani” cerniera tra due mondi: il gruppo Tabacchi e il rush
italiano.
Sui “tirolesi
italiani”, invece, ci é possibile dilungarci ben piú, alla luce di un ventennio
di studi, in Trentino, in Italia e in Brasile. E il primo aspetto che vorremmo
sottolineare é questo: i trentini, con la loro funzione storica di cerniera tra
mondo tedesco continentale e mondo italiano peninsulare, furono i primi tra gli
italiani (mentre i flussi immigratori tedeschi scemavano) a raggiungere il
Brasile in quella che puó essere definita una emigrazione organizzata e di
massa. A voler essere didascalici, indicarono la via agli altri italiani, da
subito quelli del Nord e Nord-Est. Si trattó della cosiddetta “Spedizione
Tabacchi”.[8]
Si potrebbe
osservare che non si trattó del primo gruppo organizzato di emigranti italiani
che aveva raggiunto il Brasile nei decenni precedenti. Ricordiamo l’inserimento
di un certo numero di liguri nei territori di foresta di S. Catarina, ai confini
di quello che 40 anni dopo sará il Distretto coloniale di Nova Trento.[9]
Si era nel 1836 e furono poco meno di 200 gli “italiani” che si stabilirono in
quella colonia. Ma si trattó di un caso isolato, che non avrebbe avuto nessun
seguito immediato. Si dovrá attendere l’emanazione della Legge delle Colonie,
nel 1867, e la sottoscrizione da parte del governo centrale di Rio di un
contratto con l’armatore Caetano Pinto (che garantirá il trasporto gratuito
degli emigranti dall’Europa alle colonie brasiliane), nel 1874, per assistere all’inizio
dell’immigrazione massiccia italiana in terra brasiliana. Ed in questo senso le
quasi 400 persone portate in Espirito Santo dal trentino Pietro Tabacchi (in
maggioranza della Valsugana trentina, poi di altre valli dell’allora Tirolo
Italiano a cui si aggiungevano 3-4 famiglie venete) possono a tutti gli effetti
essere considerate le anticipatrici di quel “rush immigratorio italiano” che in
Brasile scemerá solo a partire dallo scoppio della prima guerra mondiale. Un
flusso costituito nei decenni che vanno dal 1870 a fine secolo soprattutto da
genti del Nord Est italiano (con aggiunte di piemontesi, lombardi ed emiliani),
veneti i piú numerosi, poi, tra la fine del secolo e il primo quindicennio del
Novecento anche da percentuali significative di meridionali e di
centro-italiani.[10]
Pietro Tabacchi era
riparato in Brasile negli anni ‘50 a causa del fallimento delle sue imprese
economiche a Trento. Lá era riuscito a riassestare le sue finanze ed aveva
creato un piccolo impero economico nella zona di Santa Cruz, Espirito Santo: la
base delle sue attivitá era il commercio del legname, poi anche il commercio al
minuto di altre merci. Infine, Pietro Tabacchi aveva acquistato delle terre e, a
partire dalla seconda metá degli anni ’60 aveva pensato di metterle a coltura.
Con una buona idea in testa e un presentimento che si rivelerá geniale. In primo
luogo Tabacchi capí che l’area in cui viveva e che voleva mettere a coltura era
adatta alla coltivazione del caffé (che giá si stava sviluppando, nelle grandi e
medie proprietá nel Sud di Espirito Santo). Ma il trentino intuí anche che stava
volgendo al termine l’epoca della schiavitú negra in Brasile e che il paese
avrebbe potuto pensare di sopperire alla scarsitá di manodopera attraendo in
loco quelle centinaia di migliaia, quei milioni di contadini europei che
l’espandersi del sistema di produzione capitalistico stava espellendo dalla
campagna. Tabacchi propose al governo imperiale vari tipi di contratto, legati
sia alla sua attivitá di commerciante di legname che a quella di proprietario
terriero: in tutti i casi alla base delle sue proposte stava l’idea di
trasferire in Brasile un certo numero di famiglie contadine europee. Dopo alcuno
dinieghi, finalmente il governo brasiliano accettó di mettersi al tavolo della
trattativa con l’imprenditore trentino e al sorgere del nuovo anno, nel 1874,
circa 400 contadini sbarcarono nel Porto di Vitoria per essere poi diretti verso
le terre del Tabacchi a Santa Cruz.
La “Spedizione
Tabacchi” costituí il secondo e definitivo fallimento professionale
dell’imprenditore di Trento che dopo pochi mesi rendeva l’animo a Dio,
amareggiato per la ribellione dei trentini che aveva portato in Brasile e per la
sempre piú probabile perdita dei capitali che aveva investito nell’impresa. Ma
la sua idea[11]
era certo un’idea vincente: Tabacchi aveva proposto a quei contadini, che era
andato a prendersi in Trentino o Tirolo Italiano, il trasferimento in Brasile
dove avrebbero lavorato per lui per qualche tempo per, alfine, diventare
proprietari di un lotto di terra. Se le cose non funzionarono fu soprattutto per
il fatto che a quella gente venne reso noto, giá all’arrivo sul territorio
brasiliano, che lo Stato brasiliano offriva condizioni di ottenimento della
proprietá della terra piú vantaggiose: prezzi piú bassi e metraggi piú ampi. E
non molto lontano dalle proprietá del Tabacchi stava la Colonia S. Leopoldina,
stabilimento coloniale pubblico. Ma certamente l’esperienza di Pietro Tabacchi
in termini storiografici si pone come esperienza pioniera, che diede il via
all’entrata massiccia di famiglie contadine italiane in Brasile, verso gli
stabilimenti coloniali pubblici e privati. E quei primi trentini che, a contatto
col mondo tedesco che da decenni stava spedendo nelle foreste brasiliane
migliaia di contadini, si costituirono come trait d’union col mondo
italiano.
4. Ventimila
trentini in colonia, diecimila nelle fazendas.
Fonti sicure che
definiscano le entrate di immigrati europei in Brasile non esistono. Ed anche
quando sia possibile imbattersi in documentazione ad hoc, come i registri di
immigrazione tenuti per conto dello Stato di S. Paolo e a tutt’oggi ben
conservati presso il Centro Historico do
Imigrante di S. Paolo, i dati disponibili sono incompleti e spesso poco
leggibili.[12]
Ad esempio la grafia dei nomi é talvolta incomprensibile, la nazionalitá degli
immigrati quasi mai é indicata. Nonostante ció, venti anni di ricerca che ci ha
portati nei maggiori archivi pubblici e privati delle zone in cui si stabilirono
i trentini (archivi di stato di S. Catarina, Paraná, Espirito Santo, S. Paolo,
archivi coloniali dei tre stati, ma anche Arquivo Historico do Itamaraty di Rio
de Janeiro) e nei piú importanti archivi trentini, ci hanno permesso di
ricostruire con buona approssimazione i numeri e la ubicazione dei trentini sul
territorio brasiliano (e pure le epoche di entrata).
Dapprima proponiamo
una tabella che riguarda le entrate trentine nelle colonie imperiali, relative
quindi ad un periodo che va dal 1874 al 1884 (l’impero fu abbattuto dai
repubblicani nel 1889 ma tutte le colonie “di popolamento” erano state
emancipate entro il 1884):
TIROLESI-ITALIANI
NELLE COLONIE IMPERIALI
Santa
Catarina:
4.500-5.000
Espirito
Santo:
2.400-2.600
Paraná:
circa 500
San
Paolo:
200-250
Rio Grande do
Sul: circa
4.500
Totale 12.000/13.000
Si tratta di numeri
che necessitano di una qualche spiegazione, pur tratti da documentazione
coloniale ufficiale. In primo luogo, centinaia di coloni appaiono piú di una
volta in questa somma. E’ il caso, ad esempio, di quei trentini che, sbarcati
contro il loro volere in Espirito Santo ed inseriti nelle locali colonie
pubbliche, sapranno in seguito farsi valere e saranno accompagnati nelle colonie
del Sud, specialmente in Rio Grande do Sul. Va detto peró, che anche dopo
l’emancipazione delle colonie governative e la successiva soppressione della
legislazione del 1867, piccoli gruppi di famiglie trentine continuarono a
raggiungere il Brasile, richiamate dai parenti che vi si erano stabiliti.
Quindi, nel 1889 non doveva essere troppo distante dalle 12.000-13.000 persone
segnalate il numero di trentini che era entrato nelle colonie imperiali. E
questo numero dovette avvicinarsi alle 15.000 unitá, ed anche superarle, verso
il 1914 quando, con lo scoppio della prima guerra mondiale, praticamente si
seccó del tutto quel flusso emigratorio. Abbiamo, infatti, prove dell’entrata di
trentini in Rio Grande do Sul, Paraná, Espirito Santo anche nei periodi
immediatamente precedenti alla guerra.
Ora, i numeri di cui
sopra, trattano quasi sempre di trentini che “entrarono” nelle colonie. E non ci
é dato sapere il numero di quelli che le colonie le “lasciarono” nel volgere di
poco tempo. Ma i nostri studi assicurano che il numero di questi ultimi non
dovette essere elevato, ma stabilizzato su percentuali piuttosto basse: i
contadini trentini, infatti, non disponevano assolutamente di risorse che
permettessero loro di rifiutare l’assegnazione della terra e di abbandonare la
colonia per rientrare in Europa o trasferirsi in Argentina o altrove. E
spostarsi in altra zona brasiliana (cosa che alcuni gruppi fecero, di fronte
alle difficoltá insperate di inserimento nella colonia che avevano scelto o che
era stata loro assegnata) non voleva dire migliorare la propria condizione.
Quindicimila
trentini circa, quindi, entrarono nelle colonie imperiali dove ottennero un
lotto di terra, mediamente delle dimensioni di 20-25 ettari (un lotto poteva
essere richiesto anche dai figli maschi con etá minima di 18 anni), a prezzi
piuttosto bassi e pagabili in cinque rate a partire dal secondo anno di
permanenza in Brasile.[13]
Abbiamo visto che
poche centinaia di emigranti trentini erano state sistemate anche nelle colonie
pubbliche, rare e di piccolissime dimensioni, aperte nella allora provincia, poi
stato, di S. Paolo. Nel caso dei trentini si trattava di stabilimenti aperti
alle porte della capitale S. Paolo. Saranno invece molti di piú i
“tirolesi-italiani” che entreranno nei decenni successivi nelle fazendas
pauliste e, meno, nelle cittá dello stato.
Ecco i numeri che ci
sono venuti da stime che abbiamo approntato dopo una attenta analisi dei
registri di immigrazione conservati presso il Centro Historico do Imigrante di San
Paolo.
1875/1882
600-1.200
1883/1890 3.000-4.000
1891/1897
1.200-1.600
1898/1910
350-700
1911/1914
400/500
TOTALE
5.550-8.000
Quindi
siamo giunti ad un numero complessivo di 20.000-25.000 trentini che entrarono
nelle colonie del Brasile Meridionale o trovarono occupazione nella fazendas del
caffé pauliste. Dobbiamo peró annotare due altri fenomeni. In primo luogo anche
altri stati delle fazendas del caffé ricevettero flussi di immigrazione
trentina. Ad esempio Rio de Janeiro e Minas Gerais. Non abbiamo condotto
indagini negli archivi pubblici e privati di quegli stati ma abbiamo a
disposizione una vasta documentazione trentina che ci conferma l’arrivo in
quelle terre di famiglie provenienti da Trento. Giá durante gli anni ’70 erano
giunte in Trentino le informazioni di famiglie contadine stabilite nella colonia
carioca di Porto Real ed in seguito vennero fornite dalla stampa trentina varie
informazioni circa lo stabilimento nella fazenda di Saturnino Braga, sempre a
Rio de Janeiro, di un gruppo di contadini della zona di Vezzano. Il fenomeno
copriva certamente una realtá quantitativa piú vasta. Ed i numeri furono ancora
maggiori per quanto riguarda Minas Gerais. Solo nel 1910-1911 le autoritá
trentine manifestarono il loro allarme per un migliaio di contadini che si erano
diretti verso le fazendas di Minas.[14]
Non solo, in quello stesso stato furono diecine, forse centinaia, gli emigranti
trentini che trovarono lavoro in certe miniere.
A questi
numeri dobbiamo sommare quelli dei trentini che prima della Grande guerra si
stabilirono direttamente nelle cittá brasiliane. Non si trattó di numeri a
quattro cifre ma diecine e diecine di loro, ne abbiamo prova, furono
commercianti a S. Paolo e Florianopolis, artigiani e piccoli imprenditori edili
a Vitoria e nell’hinterland paulista,
costruttori di ferrovie in Paraná e a S. Paolo.
Infine,
non vanno dimenticati i minori flussi immigratori trentini in Brasile (ed anche
sudtirolesi) tra le due guerre e nell’immediato secondo dopoguerra. Negli anni
’20 e ’30 verranno richiamati soprattutto nelle fazendas di proprietá dei
parenti a S. Paolo e, in minor misura, negli ex territorio coloniali degli stati
del Sud e di Espirito Santo. Tra il 1945 e 1950 invece si trattó di piccoli
gruppi di operai e tecnici che trovarono lavoro nell’industria della Grande San
Paolo, richiamando lá le loro famiglie.
Quindi,
il numero di 30.000 tirolesi che abbiamo posto come titolo di questo convegno,
non pare certo una stima azzardata. Anzi, diciamo che furono probabilmente
30.000 i soli trentini che entrarono in Brasile (poche migliaia, aggiunti a
questi, i tirolesi-tedeschi dell’attuale Sudtirolo).
5. Contadini poveri, poverissimi,
miserabili.
Quando
i primi trentini giunsero in Brasile dovettero accorgersi che niente e nessuno
li stava attendendo: eppure loro erano migliaia e pronti a stabilirsi
definitivamente in quelle terre. Su questo aspetto si dilungarono molto, con
descrizioni fin troppo veritiere ed a volte truculente, gli osservatori, non
sempre neutrali, dell’epoca. I giornali italiani e poi qualche libro, sempre piú
libri, riportarono puntuale notizia delle difficoltá incontrate da quei pionieri
nelle foreste brasiliane. E di tutti gli imbrogli a cui furono soggetti.
In
Brasile, innanzitutto, vennero accolti dalla borghesia locale con un moto di
astio e quasi di repulsione. Non si aspettavano questi contadini, e qui stiamo
riferendoci esclusivamente ai tirolesi-italiani, macilenti, denutriti e vestiti
di stracci. Ed in effetti, a guardare le fotografie di quella gente, addirittura
qualche anno dopo il loro arrivo in terra brasiliana, ci si accorge di come si
trattasse di persone sofferenti. Le classi dirigenti brasiliane si attendevano
massicce leve di immigranti tedeschi, solitamente ben organizzati, con al
seguito il minimo indispensabile per mettere casa in foresta e pure qualche
intellettuale ed organizzatore che potesse mettere ordine nelle colonie.
Giunsero
contadini allo stremo delle forze. In quei decenni di fine secolo si calcolava
che il 23% dei bambini nati in Trentino morisse durante il primo anno di etá e
che la vita media in regione si aggirasse attorno ai 36-37 anni. Solo il 51,9%
dei nati vivi in Trentino raggiungeva i 20 anni di etá. Il 13% dei bambini
moriva per una patologia che i medici di allora definivano “debolezza congenita”
e descrivevano quasi si trattasse di moribondi a causa della fame. In effetti,
si trattava di pargoli messi al mondo da madri sottoalimentate, che lavoravano
duramente ed in ambienti malsani, sino all’ultimo giorno di gravidanza. Che poi
ricevevano a loro volta alimentazione scarsa ed inadeguata, vivendo in ambienti
malsani e praticamente senza attendimento medico-sanitario. Tra quei contadini
erano diffuse la tubercolosi, la rachitide, la scrofola e la pellagra. C’erano
villaggi trentini (Terragnolo nel 1896, ad esempio) in cui un terzo della
popolazione soffriva di pellagra.
A mo’ di
riassunto diremo che a quella gente, almeno da qualche decennio, mancavano
soprattutto due cose: terra sufficiente da coltivare e, quindi, reddito
sufficiente per procurarsi un’alimentazione adeguata (se non anche abiti ed
abitazioni adeguate a rispondere alle sfide del clima alpino).[15]
Una statistica del 1902, quando ormai l’auge della crisi economico-sociale nel
Tirolo Italiano era stata superata, stabiliva che l’azienda agricola media si
assestava in quella terra sulle dimensioni di 1,4 ettari. La maggioranza delle
famiglie contadine, quindi, disponeva di meno di un ettaro di terra, non tutta
adatta alle coltivazioni ed i contadini di montagna giungevano appena al mezzo
ettaro. Ma va detto che, soprattutto a partire dagli anni ’60, molte famiglie
contadine avevano perduto la loro terra: a causa dell’imposta fondiaria e della
complessiva crisi di trasformazione dell’economia locale, dal 1860 al 1890 si
ebbero in Trentino 33.000 aste forzate di terreni e, solo tra il 1880 e il 1890
i proprietari terrieri diminuirono da 45.000 a 40.000.[16]
Non
giunsero massicciamente i tedeschi nelle foreste brasiliane (tra Ottocento e
Novecento ne arriveranno all’incirca 250.000, contro piú di 1,5 milioni di
italiani[17])
ed i borghesi locali accettarono inizialmente con un certo astio i nuovi
arrivati (con i tirolesi, massicce leve di veneti e lombardi, meno, di
piemontesi ed emiliani, tutti piú o meno nelle stesse condizioni di bisogno). I
giornali locali, nel vedere scendere dalle navi (che tra l’altro fornivano loro,
talvolta almeno, scarsissima ed inadeguata alimentazione, dopo attese spesso di
settimane nei porti) quella massa macilenta, scrivevano cose di questo genere:
“Non sono questi gli immigrati di cui la Provincia ha bisogno. Dovremo
considerarli come veri pensionati dello stato, non avendo nemmeno di che vestire
ed andando stracciati”.[18]
Impressioni come questa, aggiunte al fatto che quelle autoritá, tra cui si
trovavano giá i primi ex coloni tedeschi naturalizzati brasiliani, si
aspettavano genti tedesche, peggiorarono vieppiú il trattamento che quegli
immigrati di etnia italiana riceveranno nei primi difficilissimi mesi della loro
permanenza in Brasile.
I
trentini o tirolesi-italiani entrarono in gran numero, rispetto almeno alla
consistenza assoluta della popolazione trentina che viveva sulle Alpi, in
Brasile. E, altra caratteristica che li differenzió dal resto degli italiani,
entrarono nelle colonie imperiali in un lasso di tempo ristrettissimo. Una
percentuale altissima di coloro che vi si sará stabilitá alla fine, era entrata
in Brasile tra il 1874 e il 1878, anzi, la maggioranza aveva preso terra in
colonia negli anni 1875-1876.[19]
E questo perchè, dopo un periodo iniziale, breve, in cui furono colte di
sorpresa, le autoritá austriache si opposero con tutti i mezzi legali a quel
flusso migratorio. Da una parte su istanza delle locali classi dirigenti che
vedevano partire la manodopera delle loro campagne e cosí aumentare il costo del
lavoro, dall’altra temendo seriamente, dopo le prime notizie americane, che
quella massa di povera gente avrebbe cercato in tutti i modi di rientrare in
patria e le casse pubbliche avrebbero dovuto allora far fronte a spese ingenti
per soccorrerla. La qual cosa non successe, almeno con questa prontezza ed
efficacia, con le autoritá italiane che, per un certo periodo almeno, si
scagliarono contro quei flussi emigratori ma in realtá fecero ben poco per
limitarli o direzionarli diversamente.
6. Caos, imbrogli e suppliche:
“Gesticolando alla maniera meridionale”.
Quando i
trentini giunsero numerosi sul territorio brasiliano, il settore
dell’immigrazione e colonizzazione pubblica non era preparato ad accoglierli.
Successe praticamente in tutte le province. E furono mesi di caos. I contadini
dovettero sottoporsi ad attese snervanti in baracconi improvvisati ai porti, poi
nei baracconi delle colonie, cioé in mezzo alla foresta. E si trattava quasi
sempre di gente partita dalle Alpi con il massimo del freddo, in pieno inverno,
e giunta in Brasile al culmine del caldo, in piena estate.[20]
Il clima e le abitudini igieniche non adatte portarono tra quelle gente qualche
epidemia. Che l’ammassamento in baracconi sparpaglió tra le loro fila: si ebbero
decine, centinaia di morti per febbre gialla, dissenterie tropicali. Poi
malattie della pelle, agli occhi, malaria.
Il
governo brasiliano aveva messo in cantiere leggi, contratti e regolamenti per
attirare vaste masse di emigranti europei. E quando arrivarono non aveva
predisposto nulla, o poco almeno, per accoglierli: non c’erano baracconi a
sufficienza, assolutamente non erano stati misurati lotti a sufficienza nella
foresta, non erano state approntate case e nemmeno era stato disboscato. In
fretta e furia, sotto le minacce e le lamentele dei nuovi arrivati, si cercó di
porre riparo alla cosa. E fu il caos che duró svariati mesi. Durante i quali si
riempirono all’inverosimile, ad esempio, le colonie pubbliche di Santa Catarina.
Che in breve “scoppiarono” ed allora si riempirono all’inverosimile quelle di
Espirito Santo. Che scoppiarono a loro volta. Allora si aprí un nuovo fronte in
Rio Grande do Sul ed i problemi si spostarono laggiú.
In
qualche caso e in qualche zona brasiliana si arrivó davvero al disastro,
talvolta colpevole. Sulla costa paraneanse, ad esempio, tra il 1877 e il 1878,
migliaia di immigrati italiani rischiarono di morire, sbandati in territori
insalubri ed a clima tropicale, e
centinaia e centinaia morirono effettivamente.[21]
Un poco dappertutto si ebbero sommosse, anche se scarsissimi spari e pochissimi
morti o feriti e, invece, piú frequenti minacce di marce sulle capitali.
Su questi
aspetti, e su altri (quali la corruzione di parecchi funzionari pubblici ed il
fatto che la colonizzazione era vissuta in Brasile anche come terreno di
battaglia politica tra conservatori e liberali che si avvicendavano al governo,
locale e nazionale) ci siamo dilungati molto nei nostri studi. Qui annotiamo
solo, senza smentire una parola di quanto dicemmo, che si trattó di una pagina
incredibilmente drammatica della vita di quegli emigranti: segnata dalle
difficoltá estreme, dal dolore, dalle privazioni e dalla
morte.
I
trentini, ma anche gli altri italiani[22],
risposero alla loro maniera a questa sfida estrema. Ecco come interpretavano il
loro atteggiamento le autoritá coloniali brasiliane: “Fatto indiscutibile era
che ognuno di questi coloni aveva il suo problema ed esigeva soluzioni per esso,
alla maniera meridionale, gridando e gesticolando. Ed i problemi erano i piú
vari possibili”.[23]
Da una parte c’era il fatto che i problemi erano drammatici ed era urgente
risolverli per non dover soccombere. Dall’altra parte il fatto che in Austria ed
in Italia quelle famiglie avevano comunque una “ultima possibilitá” che era
quella di rivolgersi alle pubbliche autoritá per chiedere, o pietire, un aiuto
estremo. Di qui una serie incredibile di petizioni, alcune delle quali (noi
stessi abbiamo raccolta prova consistente di ció) erano esilaranti: gente che
chiedeva contributi per seppellire qualche parente, altra che chiedeva il
rimpatrio per le ragioni piú strane o la pensione per aver combattuto con
l’esercito austriaco. I piú, peró, chiedevano solo l’applicazione corretta dei
contratti o, comunque, aiuti momentanei atti a fare fronte ai bisogni estremi di
quei primi mesi. Del resto, quella documentazione (come pure quella che negli
archivi trentini era raccolta nei fascicoli denominati “Poveri”) va letta per
quello che realmente rappresentava. Quei contadini con le loro suppliche
mettevano in essere una vera e propria strategia di sopravvivenza, tentando una
negoziazione coi pubblici poteri che aveva le sue regole. Insomma, si trattava
di messaggi che andavano destrutturati o letti con lenti particolari.[24]
7. Il
rapido superamento del bisogno nella testimonianza dei preti
italiani.
In realtá
non ci vollero molti mesi, ad ogni famiglia contadina, per trovare un equilibrio
decente, una condizione di vita “possibile” e comunque migliore di quella che
quella gente aveva conosciuto in Tirolo o in Italia. Lo dicevano, anche se in
qualche modo potevano essere sospettati di parzialitá visto che avevano guardato
di buon occhio e talvolta favorito quei flussi migratori, i pochi preti che
avevano seguito i contadini in Brasile. Cosí, nel momento in cui stavano ancora
giungendo massicce leve di emigranti nella Colonia Itajahí-Principe Dom Pedro,
in Santa Catarina, ed il caos a cui ci siamo riferiti non era certo cosa del
passato, il gesuita piemontese Giovanni Maria Cybeo cosí scriveva al giornale
cattolico trentino: “Per ció che riguarda il temporale, dico che i coloni di S.
Catarina, se si lagnano, in generale si lagnano a torto: terre fertili e in
abbondanza, acque buone, clima sano e temperato, e che vogliono di piú?”.[25]
Un’impronta ideologica era evidente in considerazioni come questa. Tanto che il
Cybeo nella stessa comunicazione accennava alle lusinghe dell’Europa massonica
da cui erano fuggiti quei contadini. Ma altre fonti testimoniano che giá dopo
alcuni mesi dallo stabilimento in quelle terre, la deforestazione di un pezzo di
lotto e la sua messa a coltura, le famiglie contadine si trovavano a vivere,
mediamente, in condizioni migliori che in Europa. La terra innanzitutto: gente
che in Trentino disponeva della proprietá di 0,5 ettari di campagna, o anche che
aveva perduto la proprietá durante gli ultimi decenni, si trovava a disporre di
20-30 ettari di foresta, magari anche 50 o 60 per le famiglie che erano giunte
con qualche figlio maschio maggiorenne al seguito. Poi la mancanza di una
gerarchia sociale che li schiacciasse ai piedi della scala: nelle colonie
brasiliane non vi erano nobili, non vi erano borghesi, si trovavano scarsissimi
preti ed i pochi commercianti, che si configureranno come l’inizio di una classe
dirigente, ci metteranno qualche anno o qualche decennio a creare le loro
fortune. Lo stato brasiliano, poi, era presente solo nelle sedi coloniali, con
un direttore, due o tre funzionari e un paio di militari. Che spariranno, quasi
sempre e quasi tutti, di lí a pochi anni quando le colonie saranno emancipate.
Quindi, due fatti di non poco conto vanno presi in considerazione: i contadini
ora disponevano di molta terra e non dovevano piú, per il momento almeno ma per
un buon numero di anni, sottostare a regole sociali inique che li avevano voluti
obbedienti per centinaia di anni.
Ma il
Brasile e l’America stavano dando dell’altro a quei contadini. In primo luogo,
da subito fu sconfitta la fame, la scarsitá di cibo. Se nelle primissime
settimane dall’arrivo di una leva di immigranti si poté talvolta assistere a
qualche “fatto di fame”, dovuto alla disorganizzazione ed alla cattiva
distribuzione o conservazione di viveri, quasi generalmente i coloni furono
riforniti di generi alimentari per settimane, spesso per molti mesi e poterono
procurarsi cibo attraverso la caccia. Poi, con le prime coltivazioni, fu
l’abbondanza. Un’altra novitá di assoluto rilievo, era costituita dal clima. Chi
giungeva in piena estate, certo, soffriva gli eccessi di calore ed umiditá di
quelle terre. Ma trattandosi in genere di territori sub-tropicali, spesso
ubicati su altipiani (come in Rio Grande do Sul o Espirito Santo), la
temperatura non raggiungeva “vette impossibili”. Dopo qualche rettifica, che
certo non costó poco tempo nè poca sofferenza culturale, in termini di dieta e
di vestiario, dopo l’abbattimento della foresta, quel clima poteva spesso dirsi
“ideale” e comunque molto piú favorevole di quello alpino: qui non c’erano i
lunghi inverni rigidi che sulle Dolomiti si portavano via i bambini ed i vecchi
e le temperature medie annuali indicavano lunghe primavere e lunghissime estati,
con inverni brevi e clementi.
Di lí a
pochi anni molti sacerdoti, non solo italiani, confermarono che quel flusso
migratorio aveva avuto successo. Arcangelo Ganarini, il prete valsuganotto che
aveva seguito la sua gente a Nova Trento, Santa Catarina, parló di quella
localitá, nel 1889 e poi ad inizio del Novecento, come di “un’oasi felice”.[26]
Ed aggiunse: “Qui é sconosciuta quella povertá squallida che obbliga i Comuni a
sostentare famiglie intere durante tutto l’inverno e a pagargli l’affitto di una
mansarda dove possano ospitarsi. E’ vero che non possiamo definire ricchi i
nostri coloni; ma loro sono comunque proprietari indipendenti, che in
maggioranza giá pagarono le loro terre al governo e che godono per intero del
frutto delle loro fatiche senza vedersi obbligati a ripartirlo con chicchessia.
Per questo motivo la maggior parte preferisce le sue attuali condizioni a quelle
in cui si trovavano in patria”.[27]
Sempre da S. Catarina, ma stavolta da Rodeio, rispondeva il francescano tedesco
Lucinio Korte nel 1907: “Il popolo qui, benchè non ricco, vive tuttavia contento
e per le altre nazioni serve come esempio di industria e moralitá”.[28]
Dal Sud catarinense rispondeva il prete italiano Giuseppe Marzano: “In Italia
erano proletari e son diventati proprietari”.[29]
Nei
decenni precedenti si erano espressi anche i cappuccini francesi, della Savoia,
che si erano stabiliti nelle colonie italiane di Rio Grande do Sul: “Vinte le
prime difficoltá, i nostri coloni italiani, si trovarono in una situazione
materiale ben migliore di quella che avevano goduto in Italia”.[30]
E il prete di Bassano del Grappa Pietro Colbacchini verso il 1890 userá
descrizioni quasi idilliache per definire la condizione dei coloni veneti, con
minoranze lombarde e trentine, che vivevano nelle colonie ai confini con la
capitale paranaense Curitiba.[31]
Pur con alcuni esagerazioni di taglio idealistico (Colbacchini amava
visceralmente il Brasile tanto da presentare a sua volta un progetto di
colonizzazione di terre vergini con immigrati italiani[32])
il prete veneto proponeva alcune considerazioni interessanti: “Fin qui (i
contadini, nda) non furono angosciati da tasse, non molestati da quelle
imposizioni legali, che ogni giorno piú si moltiplicano nei paesi d’Europa;
esenti da qualunque servizio militare, sono trattati (meno casi eccezionali) con
giustizia dalle autoritá, visti di buon occhio dai nazionali, sebbene destino
gelosie, piú o meno celate, per il loro progressivo stato di proprietá”.[33]
8. Il
successo di quella colonizzazione nelle testimonianze dei consoli
italiani.
Le parole
dei preti che avevano seguito le famiglie contadine nelle foreste brasiliane
potrebbero apparire sospette. Perchè in quegli anni in Italia, all’interno della
Chiesa Cattolica e specie tra i suoi bassi gradi, tra i parroci e cappellani di
valle, si era formata una corrente di pensiero che aveva auspicato e talvolta
persino organizzato e diretto dei flussi di emigrazione verso le terre vergini
sudamericane. Ció che si anelava era, da una parte la fuga della classe
contadina da un processo di proletarizzazione, e di conseguente laicizzazione, a
cui era sottoposta in Italia, dall’altra la formazione di comunitá contadine nel
vuoto socio-culturale delle foreste subtropicali. Comunitá, queste ultime, che
avrebbero dovuto essere organizzate attorno ai valori cattolici, alla Chiesa ed
ai suoi ministri. Cosa che in gran parte avvenne.[34]
Ecco allora che possiamo legittimamente supporre che un “occhio benevolo” stesse
dietro alcune delle considerazioni che abbiamo proposto piú sopra.
Ma la
stessa cosa non vale, al contrario piuttosto, per le autoritá consolari italiani
che nei decenni successivi allo stabilimento di quei coloni in Brasile,
visiteranno ripetutamente quelle comunitá e ne scriveranno rapporti corposi ai
superiori italiani. In anni in cui era bene non stimolare ulteriormente
l’emigrazione italiana verso il Brasile in quanto ormai poteva dirigersi
massicciamente solo verso le fazendas del caffé di S. Paolo. Un destino, questo,
che tanti grattacapi stava procurando al governo italiano ed alla sua diplomazia
che, in tempi successivi, cercó varie volte di ostacolare questo
flusso.
Giá verso
gli anni ’80 vi furono consoli italiani che dal Brasile parlarono di buone
condizioni di vita degli immigrati di quella nazionalitá (quindi anche dei
tirolesi-italiani che vivevano fianco a fianco con loro, negli stessi
stabilimenti coloniali). Ma fu negli anni ’90 che queste informazioni si
moltiplicarono. Alberto Roti scriveva da Santa Catarina: “Le condizioni dei
coloni in complesso sono buone, anche nei nuclei piú distanti, come Crisciuma e
Nova Venezia; il tempo delle dure prove é passato; siamo nel periodo dei
miglioramenti. Io credo quindi essere da consigliare all’agricoltore italiano,
destituito di mezzi e deciso ad emigrare, di dirigersi allo Stato di Santa
Catarina”.[35]
Il console Carlo Croce gli facevo eco dal Paraná nello stesso anno: “Quasi tutti
gli italiani agricoltori proprietari vivono comodamente e se si consideri che
tutti sono venuti senza risorse pecuniarie di sorta, non apparirá lieve il
risultato di constatare che, nel maggior numero di famiglie, anzi nella loro
totalitá, non manca il necessario; in moltissime si vive senza strettezze, in
molte si risparmia e coi risparmi si accrescono gli averi”.[36]
Nel 1896 ecco il console Dall’Aste Brandolini scrivere da Espirito Santo: “Le
acque sono ottime, il clima é temperato, l’aria é eccellente; insomma tutti i
coloni dicono che pare loro di trovarsi nel proprio paese. I terreni sono
sufficientemente fertili, benchè pochi di prima qualitá. I vecchi coloni sono
ormai tutti in condizione agiata; essi sono proprietari di una bella casa del
valore tra i 2 e i 5 contos, hanno muli e cavalli, animali bovini e suini e un
ben fornito pollaio; il loro cafezal conta almeno 10.000 piante e tutta la
proprietá puó valutarsi in media 15 contos (circa 15,000 lire in oro) per ogni
famiglia e il prodotto annuo é di circa 5 contos. Ma molti, moltissimi sono i
coloni che hanno altri lotti comprati posteriormente, o tengono danari collocati
a frutto. Vi sono anche parecchi capitalisti, possessori di fortune al di sopra
dei 25 contos fino a 40 ed anche 60. Vi saranno pure dei poveri e dei
disgraziati, che peró non mi si fecero avanti”.[37]
Pur nella
crisi di sviluppo che colpí il Brasile a partire proprio da quegli anni ’90,
furono molto pochi i consoli che non si riferirono al successo sostanziale di
quei flussi emigratori. Nel, 1905 il console italiano a Porto Alegre, cavaliere
Ciapelli, diceva che “a nessuna famiglia manca, fino dai primi anni
dell’installazione, di che sostentarsi abbondantemente, ed eccettuato qualche
raro caso, tutte hanno un residuo di prodotti da vendere o da permutare con i
generi di cui abbisognano e che non sono di produzione locale”.[38]
Umberto Ancarani, invece, scriveva da Caxias do Sul dove erano moltissimi anche
i tirolesi-italiani: “Il sistema di colonizzazione di questo stato avendo fatto
di tutti gli emigrati altrettanti proprietari delle loro terre, era naturale che
essi si affezionassero a questo paese, e che considerassero il Brasile, e
specialmente il Rio Grande del Sud, come la loro patria d’adozione. Quasi tutti,
chi piú chi meno, riuscirono ad assicurarsi un buon sostentamento; ed oggi si
compiacciono di mettere a confronto le condizioni in cui era Caxias quando vi
vennero, con lo stato in cui si trova ora”.[39]
Ma
potremo fornire altri giudizi consolari di questo tono. Ci limitiamo ancora a
ricordare quello forse piú equilibrato, offerto dal console Tancredi Castiglia
che nel 1906 scriveva al Ministero degli Esteri italiano dal Paraná: “I nostri
contadini qui emigrati - asseriva - ben di rado si pentono della decisione presa
e, purtroppo, que’ pochissimi che in casi eccezionali rivedono il loro paese non
tardano a ritornare in Paraná”. Non era certo il paradiso terrestre il Brasile,
osservava, il contadino non si faceva ricco e non usufruiva di lusso. “Forse é
questo - concludeva il console - l’ideale dell’avvenire: la mediocritá, non
aurea, accessibile a tutti”.[40]
Alla
vigilia della prima guerra mondiale una commissione ad alto livello spedita
nelle colonie brasiliane dalla Federazione Nazionale dei Lavoratori della Terra,
metteva il sigillo a considerazioni di questo tipo: “La parte meridionale del
Brasile - sosteneva in un rapporto finale - e precisamente gli stati di S.
Paulo, del Paraná, di Santa Caterina e di Rio Grande del Sud, per le condizioni
delle acque, dell’atmosfera e del suolo, in una parola per tutto quel complesso
di fenomeni che nella pratica servono a caratterizzare un clima, possono dirsi
confacentissimi alla immigrazione agricola italiana”. E piú in lá: “Malgrado
tutte le manchevolezze segnalate nel campo economico-sociale della immigrazione
rurale al Brasile, si puó concludere non sfavorevolmente ad una immigrazione
della manodopera terriera nel Sud del Brasile”.[41]
A partire
da quel periodo, certo, non paiono assennate considerazioni che imputino le
condizioni di vita dei figli e nipoti di quei primi immigrati alla scelta dei
loro antenati: perchè ormai da almeno quarant’anni quella gente stava in Brasile
e seguiva le sorti, economiche, sociali e politiche del grande paese americano.
Sorti diverse da quelle europee, evidentemente. Semmai, funzionalmente al nostro
discorso, ci verrebbe da segnalare come i nipoti di quegli emigranti evitarono
non solo di combattere e di vedere combattute sul loro suolo due guerre
mondiali, come accadde ai trentini rimasti in patria (a parte i pochi
trentino-brasiliani che fecero parte del corpo di spedizione che nella seconda
guerra mondiale affiancó in Italia gli anglo-americani) ma furono estranei ad
uno dei periodi piú difficili e sofferti della moderna storia popolare italiana,
quello tra le due guerre mondiali che il Brasile, semmai, visse in termini di
sviluppo economico e sociale.
9. La
voce degli stessi contadini: “Stiamo bene, non torneremo”.
Ma forse la
pena, brevemente, di accennare al fatto che furono gli stessi contadini
trapiantati in Brasile a far sapere in patria delle loro condizioni di vita. E
della scelta di non fare piú rientro. Non solo e non tanto dopo pochi giorni o
settimane dal loro arrivo in Brasile, la qual cosa come é stato da piú parti
osservato era sospetta.[42]
Ma dopo un serio e prolungato “periodo di prova”, costituito spesso da uno o piú
anni di permanenza in loco.
Nel 1879
Giobbe Piccoli di Villa Agnedo, trasferitosi nella Colonia Blumenau, in S.
Catarina, faceva sapere ai suoi: “Le stagioni sono andatte bene, le intrate
sonno abondanti di ogni sorta di gieneri; Mi in questo anno in febbrajo o
racolto nella mia colonia 60 sacchi di grano turco, che un sacco é di 60 chilli,
che poderia racolgierne di piú ma son sollo e non posso lavorarne di piú perchè,
ne ho de talgiatta 50 milla metri e messa a coltura; parte campo e parte pratto
e sono tutto pianura e terra buona;
In quanto a
me caro padre statte pur tranquillo che se i Dio mi tiene sani stiamo massa
bene, fino ad ora non ho avutto mai un bontempo talle che le presto 4 anni che
son nel Brasille e non ho bevutto gnancora una taza di vino di uva, ma quest’ano
ho speranza di bevere vino delle mie vitti, a lora sí, grideremo nuovamente e
viva, viva la Merica;
Il primo anno
che son venutto qua se mi avesse datto della mia colonia franchi 50 saria
partito da queste terre, ma adesso non piú, gnanche per 2000 franchi; Mi trovo
contento di essere qui”.[43]
La missiva si
commenta da sè. Vogliamo solo sottolineare la valenza di una frase: “Non ho
avutto mai un bontempo talle”. Giobbe stava evidentemente assaporando il gusto
di poter fare propri tutti i frutti del proprio lavoro, senza dividerli (magari
“ala meza” o, addirittura “al terz”) con il padrone della terra. E anche quello,
di conseguenza, di non dover lavorare indefessamente ogni giorno dell’anno per
poter mettere in tavola il sufficiente alla sopravvivenza.
Ma non si
trattava solo di terra, agricoltura e cibo. Ecco Giuseppe Sgrott di Besenello
che nel 1881 scrisse ai parenti: “In quanto al corpo stiamo benissimo, non vi
sono tutte quele comoditá che vi é in Europa, ma ció non é di prima necessitá per
fare l’uomo felice, perchè, la felicitá consiste nell’essere in grazia di Dio
dal quale dobbiamo sperare la nostra vera felicitá nell’altro mondo poichè giá
ne abbiamo sessanta e piú sulle spale. In quest’anno feci 18 some di gialo[44],
29 sachi di riso, 3 sachi fagioli, 8 barili di zucchero uva ne verebe molta ma é
una qualitá che stenta molto la maturazione. Oh pure una vaca che fece[45]
in questi giorni, 7 porci uno dei quali sará circa 180 kili per consumo interno,
polami poi quanti senedesidera se ne puó avere e con tutto questo sempre la
patria mi viene allamente ma é una malattia generale per la patria nativa che
non si spegnera che con la futura generazzione”.[46]
Dalla Colonia
Azambuja, nel sud catarinense, scriveva nel 1881 Pietro Berti, di Cavedine:
“Cara molie e fili venite che noi avemo tera pertuti noiateri noi lapasion e
quela di non poter abraciarsi mapero che venga anche quel giorno quando venite
non portate niente venite magari nudi che qua si trova ditutto. Noi primi disamo
viva eviva lamerica e gli ultimi la maledige queli che anno la familia come
noiateri venite ma queli che non anesuni e afari magri perchè il governo
afermato i laori e non datera
di soldi é
carestia ma noi abiamo di tutto vache porchi chavali galine 100-200 o dosento e
tante formentac fasoli digo di tuto zuche e in fine si sta molto pene”.[47]
Pietro Berti
era emigrato in Brasile all’etá di 63 anni alla fine del 1876, da Cavedine, con
due figli maschi di 25 e 19 anni. Aveva lasciato a casa la moglie Grazia con i
figli minorenni. Ora, richiamava tutti, dopo aver atteso quasi 5 anni. Nel
frattempo aveva cercato di raggiungere una qualitá di vita decente e,
probabilmente, si era sincerato che le cose nel nuovo continente potessero
continuare al meglio. Il Berti fa sapere alla moglie che coloro che erano giunti
in colonia al tempo in cui la legge coloniale del 1867 era in vigore avevano
potuto sistemarsi al meglio: ottenendo dal governo terra e lavoro salariato per
i primi tempi di permanenza in colonia. Se la passavano male, invece, coloro che
stavano giungendo in quel periodo, dopo la sospensione della normativa
coloniale: non ricevevano terra nè
aiuti finanziari. Poi, il Berti comunicava che di soldi in quelle colonie
inserite in mezzo alla selva ne giravano pochi. Ma per il resto c’era tutto
quanto una famiglia contadina ricercava: “Non portate nulla, venite magari nudi,
perchè qua c’é tutto”.
Nello stesso
anno, il 1882, Andrea Bortolotti di Meano scriveva ai parenti tirolesi dalla
Colonia Caxias (Rio Grande do Sul): “Notizie de il brasile cioé la provinzia de
rio grande del sute questa e la provinzia piú grande de le altre ma glime e
temperata. tere buone che dano ogni qualita di grano, cioé formento segala orzo
vena grano turcho una quantitá uva una quantitá patate facioli fruti dogi
qualita. Quindi noi stiamo bene e bene”.[48]
Di questa
comunicazione vogliamo solo sottolineare la chiusura: quel reiterato “stiamo
bene e bene”, che seguiva l’elenco di tutti i prodotti che la terra offriva ad
esclusivo frutto di chi la lavorava, il contadino.
Di lettere di
questo tenore se ne trovano spesso in archivi pubblici e privati, o riprodotte
sulla stampa dell’epoca. Le avevamo sotto gli occhi anche una ventina di anni fa
ma, pur avendo sempre affermato che quel flusso emigratorio alla fine costituí
un successo per chi vi aveva preso parte, preferimmo sottolineare con maggior
forza informazioni che provavano la sofferenza degli immigrati. Perchè molta
altra documentazione di questo parlava, ma anche per quella “generosa visione
sessantottina” che voleva il popolo sempre lottatore e
sofferente.
10. Contadini nelle fazendas del
caffé. Un percorso piú accidentato.
Piú
complesse, ma non certo univocamente negative, sono le considerazioni possibili
sugli esiti dei flussi migratori trentini verso S. Paolo e in generale le
fazendas del caffé. Vari sono gli studi ad alto livello che hanno riguardato
l’affluenza italiana nelle grandi piantagioni, i contratti a cui dovettero
sottostare gli emigranti, l’evoluzione dei rapporti governativi tra il Brasile
ed i paesi che avevano visto emigrare nelle piantagioni pauliste molti loro
lavoratori[49].
E qui andrebbe forse evidenziata la particolaritá austriaca. A differenza del
governo italiano, l’Austria giá a partire dal 1874 inizió ad ostacolare, con
continuitá e decisione, l’emigrazione verso il Brasile e a partire dal 1877 il
suo ostracismo si rivolse anche ai flussi migratori specifici verso S. Paolo e
le piantagioni di caffé. E la cosa, tutto sommato, funzionó, assottigliando di
molto i potenziali flussi di emigrazione soprattutto verso le fazendas.[50]
Del
resto, ancora una volta i tirolesi di lingua italiana si troveranno a costituire
una avanguardia rispetto agli immigrati con passaporto italiano. Nel settembre
del 1877 circa duecento trentini furono avviati verso la Colonia Salto Grande,
una piantagione di caffé situata nel municipio paulista di Amparo, di proprietá
del visconte di Indaiatuba. Dopo pochi mesi scoppió una querelle che oppose non solo quelle
famiglie al fazendeiro ma a cui dovette interessarsi prima la stampa locale, poi
quella internazionale mentre il governo di Rio de Janeiro fu aspramente
criticato da quelli austriaco, tedesco ed italiano. I fatti di Salto Grande,
almeno sino al 1880, rimbalzarono di qui e di lá dall’oceano e costituirono una
pubblicitá estremamente negativa per il Brasile (tanto che lo stesso imperatore
Don Pedro II cercó di mettere pace tra i contendenti, recandosi invano a Salto
Grande per fare pressione sull’Indaiatuba).[51]
Dopo battaglie legali e diplomatiche che si protrassero per piú di tre anni il
visconte ebbe praticamente partita vinta. Vari di quei coloni avevano dimostrato
di essere stati portati in fazenda con la forza e con l’inganno, essendo partiti
dalla loro patria per raggiungere i parenti nelle colonie del Sud brasiliano e
praticamente tutti denunciarono successivi soprusi e violenze nei loro
confronti, una volta stabiliti a Salto Grande. Nonostante il rabbioso appoggio
trovato presso alcune personalitá locali, parte della stampa, consoli tedeschi,
austriaci ed italiani, molti coloni furono imprigionati e nel febbraio del 1880
un circolare delle autoritá austriache affermava: “Un recente rapporto della I.
R. Ambasciata Austro-Ungherese di Rio de Janeiro, comunicato all’I. R. Ministro
degli Esteri, sulle condizioni degli immigrati tirolesi in Brasile, segnatamente
nella Colonia Salto Grande, provincia di S. Paolo, contiene dettagli da far
raccapriccio. Tutti gli sforzi delle Ambasciate d’Austria e di Germania in
sollievo di tanti infelici non sortirono alcun effetto, nè si puó sperare
nemmeno in avvenire un miglioramento. I lagni di questi emigrati si fanno sempre
piú forti”.[52]
In
seguito la diplomazia italiana (visto che era italiana la maggior parte dei
lavoratori che accettarono di entrare nelle fazendas) avrebbe dovuto affrontare
molti altri eventi di questo tipo e sono migliaia gli articoli di giornale e
riviste, centinaia i libri, che al tempo si occuparono di faccende di questo
tipo.
Noi qui,
peró, vorremmo solo annotare come fu mediamente piú difficile per i contadini
che si stabilirono nelle piantagioni di caffé con contratto di lavoro
subordinato, giungere alla proprietá di un lotto di terra, che era ció che la
maggioranza sperava. Abbiamo avuto accesso ai risultati di un paio di censimenti
agricoli effettuati nello Stato di S. Paolo negli anni 1905 e 1920.[53]
Nel 1905, ad esempio (molto meno leggibile é la statistica del 1920) risultó che
solo il 7% degli italiani che si erano stabiliti definitivamente a S. Paolo
aveva raggiunto la proprietá di un pezzo di terra dopo aver lavorato un certo
periodo di tempo alle dipendenze di altri agricoltori o imprenditori agricoli.
La stessa indagine dice che circa 130-140 famiglie trentine avevano a loro volta
raggiunto la condizione di proprietari terrieri, cioé un 10-15% dei trentini che
si erano trasferiti a S. Paolo.[54]
Considerando che la maggior parte degli immigrati trentini si recava a S. Paolo
con la speranza di rimettere insieme una azienda agricola (per gli italiani va
invece chiarito che molti, del Centro-Sud specialmente, si stabilivano da subito
nelle cittá in qualitá di
artigiani, operai, commercianti) la percentuale dimostra come le fazendas
costituissero davvero “uno specchietto per le allodole” attraverso cui i
latifondisti, facevano balenare la speranza del raggiungimento della proprietá;
speranza che solo per pochi avrá un seguito reale, a causa delle dure condizioni
di lavoro a cui le famiglie erano sottoposte nelle piantagioni, contro compensi
non elevati e talvolta decurtati attraverso imbrogli e soprusi.[55]
Seguendo
poi le vicende che coinvolsero due gruppi di famiglie trentine, fuoruscite dal
lavoro subordinato in fazenda dopo un periodo di 5-10 anni, abbiamo anche potuto
stabilire come fu lungo e tortuoso, per molti di quei contadini, il tragitto che
li portó alla proprietá. E come, sostanzialmente, non furono i risparmi fatti in
fazenda a permettere loro di diventare “padroni”.
Certamente meno difficile e piú
rapida fu la strada verso la proprietá di un lotto delle famiglie che entrarono
nelle colonie pubbliche. Tanto che i rientri in Trentino ed in Italia da S.
Paolo furono percentualmente ben maggiori rispetto a quelli provenienti dagli
“Stati delle colonie”.
Ma pur
dopo considerazioni del tenore di queste ultime ed alla luce dello sviluppo
economico-sociale successivo, sia dello Stato di S. Paolo che della zona delle
ex colonie che si stendeva tra Espirito Santo e Rio Grande do Sul, il fuoco
dello sviluppo brasiliano nel XIX secolo, non possiamo non osservare come quei
flussi immigratori abbiano costituito un successo per le autoritá che li avevano
mobilitati e direzionati verso il Brasile. Nonostante che all’epoca varie voci
si fossero levate per dire il contrario.
Per
quanto riguarda gli emigranti, giá con le loro parole dimostravano il successo
della loro scelta emigratoria. Che poi, nel corso di 125 anni la storia
economico-sociale dell’Europa e del Brasile, si sia sviluppata in modo diverso,
poco importa. Anche alla luce del fatto che, sino almeno a tutta la seconda
guerra mondiale ed i primi anni ’50 le condizioni di vita delle popolazioni
agricole trentine e nord-italiane non potevano per molti aspetti dirsi migliori
di quelle dei pronipoti dei primi immigrati trentini che stavano vivendo nela
campagna del Sud del Brasile.
[1] E. Wagemann: A colonização alemã no Espírito Santo, Rio de Janeiro 1949 p. 24 cit. in R. M. Grosselli: Colonie imperiali nella terra del caffé, Trento 1987 p. 177
[2] La vicenda é narrata in R. M. Grosselli: Vincere o morire, Trento 1986. Gli estremi si hanno anche in “La Voce Cattolica” del 17.3.1883, 24.10.1882 e 26.01.1884
[3] R. M. Grosselli: Vincere, op. cit.
[4] R. M. Grosselli: Dove cresce l’araucaria. Dal Primiero a Novo Tyrol, Trento 1989
[5] Tabella statistica del dottor Hugo Gensch cit. in R. M. Grosselli: Vincere, op. cit. p. 313
[6] R. M. Grosselli: Vincere, op. cit. p. 307
[7] Non sono molti i riferimenti di studio che si possono trovare su questo esempio di colonizzazione tirolese nella bibliografia brasiliana. Proponiamo W. F. Piazza: A colonização de Santa Catarina, Florianopolis 1982 pp. 249-250
[8] Del fatto si parla in R. M. Grosselli: Vincere, op. cit. e Colonie imperiali, op. cit. In lingua portoghese si veda R. M. Grosselli: A expedição Tabacchi e a Colônia Nova Trento, Vitória 1991
[9] Ci riferiamo, ad esempio, a quel gruppo di italiani, probabilmente liguri, che vennero inseriti nelle foreste catarinensi, ai confini di quello che qualche decennio dopo sarebbe diventato il Municipio di Nova Trento. Si era negli anni ’30. Vedi A. Franceschini: L’emigrazione italiana nell’America del Sud. Studi sull’espansione coloniale transatlantica, Roma 1908 p. 538; L. A. Boiteux: Primeira pagina da colonização italiana em S. Catarina, Florianopolis 1929
[10] Solo per limitarci alle entrate italiane nello Stato di S. Paolo, il Commissariato Generale dell’Emigrazione italiano segnalava che dal 1876 al 1925 vi erano entrati 366.000 veneti, 166.000 campani, 113.000 calabresi, 106.000 lombardi, 93.000 tra abruzzesi e molisani, 81.000 toscani, 60.000 emiliano-romagnoli e 53.000 lucani. A questi numeri vanno aggiunti anche i trentini, attorno alle 10.000 unitá, nel 1925 a tutti gli effetti italiani. Vedi Commissariato Generale dell’Emigrazione: Annuario Statistico dell’Emigrazione Italiana dal 1876 al 1925, Roma 1926
[11] Per non peccare di provincialismo annotiamo che giá a partire dagli anni ’40 c’era stato chi, in Brasile, aveva cercato di anticipare la soppressione sulla legislazione schiavistica, che peraltro avverrá solo nel 1888, attraverso “l’importazione” di manodopera europea, da inserire nelle piantagioni. Si era trattato soprattutto di alcuni piantatori di caffé dell’Ovest paulista, capeggiati da Nicolau Pereira de Campos Vergueiro che giá nel 1840 aveva inserito nelle sue piantagioni di Ibicaba una quarantina di famiglie contadine portoghesi. Il suo esempio venne nei decenni successivi imitato da altri piantatori, anche negli stati vicini tra cui quello di Espirito Santo. Vedi R. M. Grosselli: Da schiavi bianchi a coloni. Un progetto per le fazendas, Trento 1991
[12] Ivi pp. 166 e oltre
[13] Sui contenuti della Legge delle Colonie del 1867 e del Contratto Caetano Pinto, come pure sulla applicazione reale di quella normativa si veda R. M. Grosselli: Vincere…, op. cit.
[14] R. M. Grosselli: L’emigrazione dal Trentino. Dal Medioevo alla prima guerra mondiale, S. Michele all’Adige 1998, pp. 125-126
[15] Si questi aspetti ci siamo dilungati in R. M. Grosselli: Noi tirolesi, sudditi felici di Don Pedro II, Porto Alegre 1999 pp. 37/50
[16] Ivi p. 38
[17] J. F. Carneiro: Imigração e colonização no Brasil, Rio de Janeiro 1950 annota 253.846 tedeschi entrati in Brasile dal 1819 al 1940, contro 1.513.115 italiani, 1.462.117 portoghesi, 598.802 spagnoli. L’immigrazione austro-ungarica in Brasile, invece, venne quantificata dalle locali autoritá in 78.358 persone dal 1872 al 1914 (ma i numeri vanno presi con le pinze, dimostrando evidenti incongruenze). Tra questi, circa 27.463 persone entrarono nelle fazendas pauliste. VediSecretaria da Agricoltura, Comèrcio e Obras Públicas do Estado de S. Paulo: Estatística dos immigrantes entrados no Brasil, por períodos, de 1820 a 1919 in “Boletín do Departamento Estadual do Trabalho”, 1921, 38-39. Sui dubbi che questi numeri sollevano, si veda R. M. Grosselli: Noi tirolesi, op. cit. pp. 97/99
[18] “O Despertador” di Florianopolis il 19.6.1875, all’arrivo di una leva di immigrati trentini e nord-italiani
[19] Non esistono serie statistiche affidabili, nè in Trentino, nè in Brasile. Ma una messe di indizi coincidenti, mostrano come tra il 1875 e il 1877 partí il grosso dei trentini alla volta del Brasile. Ad esempio, da due dei Capitanati distrettuali che piú diedero immigrati alla Terra di Cabral, Trento e Borgo Valsugana (gli altri furono quelli di Rovereto e del Primiero) nel 1875, 1876 e 1877 partirono rispettivamente 1.757, 1.761, 937 e 1.826, 182, 155 persone. Negli anni successivi i numeri si assottigliarono paurosamente e definitivamente (si trattava di emigrazione transoceanica, ma in quei due anni quasi solo diretta verso il Brasile). R. M. Grosselli: Noi tirolesi, op. cit. p. 101
[20] Non si trattava di una casualitá, ma di una strategia messa in essere da chi aveva interesse a trasportare in America il maggior numero di persone possibile. Lo spiegava, ad esempio, il Caetano Pinto che segnalava come in inverno fossero piú massicce le richieste di espatrio delle popolazioni rurali europee, quando le condizioni di vita loro si facevano piú dure a causa del clima, della scarsitá di lavoro e di cibo. Vedi W. Piazza: op. cit.
[21] Sulle vicende che riguardarono la Colonia Nova Italia si veda R. M. Grosselli: Dove cresce, op. cit. pp. 184/194
[22] Abbiamo potuto osservare, comunque, che il modo di rapportarsi con le autoritá dei tirolesi-italiani e dei veneto-lombardi erano differenti: piú ossequiosi i primi, piú orgogliosi i secondi che venivano comunque da un ventennio di lotte, anche popolari, per la liberazione e l’unitá dell’Italia. R. M. Grosselli: Vincere, op. cit.
[23] O. R. Cabral: Brusque. Subsídios para a
história de uma colônia nos tempos do Impèrio, Brusque 1958 p.
177
[24] D. Albera: “L’emigrante alpino, per un approccio meno statico alla mobilitá spaziale” in D. Jalla (a cura di): Gli uomini e le Alpi - Les hommes et les Alpes, Casale Monferrato 1991 p. 187
[25] “La Voce Cattolica” 6.8.1878
[26] “Il Popolo Trentino” 2.7.1889 e A. Ganarini: Nova Trento (impressioni di viaggio), Trento 1901
[27] A. Ganarini: Nuova Trento, op. cit.
[28] Lettera ai francescani di Trento del 1907, in Archivio J. Ferreira da Silva, Blumenau
[29] G. Marzano: Coloni e missionari nelle foreste del Brasile, Firenze 1904
[30] B. D’Apremont-B. Gillonay: Comunidades indígenas, brasileiras, polonesas e italianas no Rio Grande do Sul, Porto Alegre 1976 p. 24
[31] P. Colbacchini: “Le condizioni degli immigrati nello Stato di Paraná” in Centro Studi Emigrazione-Roma: La societá italiana di fronte alle prime migrazioni di massa, Brescia 1968
[32] Gli estremi di quel progetto sono stati da noi scovati presso l’Archivio di Stato di Curitiba e riassunti in R. M. Grosselli: Noi tirolesi, op. cit. p. 179. Ventimila emigrati in cinque anni voleva far giungere in Paraná Colbacchini verso la metá degli anni Novanta
[33] P. Colbacchini: op. cit. p. 339
[34] Su questo dibattito, all’interno della Chiesa e della societá trentina ci siamo dilungati in R. M. Grosselli: “Gabelle, militarismo ed altro. Alla radice del mito americano nel Trentino austriaco” in C. Grandi (a cura di): Emigrazione. Memorie e realtá, Trento 1990
[35] A. Roti: “Lo Stato di Santa Carterina nel Brasile” in “Bollettino del Ministero degli Affari Esteri”, ottobre 1895
[36] C. Croce: “Lo Stato del Paraná nel Brasile” in “Bollettino del Ministero degli Affari Esteri”, ottobre 1895
[37] A. Dall’Aste Brandolini: “La colonizzazione nell’Espirito Santo (Brasile)” in “Bollettino del Ministero degli Affari Esteri”, giugno 1896
[38] E. Ciapelli: “Lo Stato di Rio Grande do Sul” in “Bollettino dell’Emigrazione”, 12, 1905
[39] U. Ancarani: “La colonia italiana di Caxias (Rio Grande do Sul; Brasile)” in “Bollettino dell’Emigrazione”, 19, 1905
[40] T. Castiglia: “Lo Stato del Paraná” in “Emigrazione e Colonie. Raccolta di Rapporti dei RR. Agenti Diplomatici e Consolari”, vol. III - America, Parte 1° - Brasile, Roma 1908 p. 183
[41] AAVV: “L’emigrazione agricola al Brasile. Estratto della relazione presentata dalla Commisione della Federazione Nazionale dei Lavoratori della Terra” in “Bollettino dell’Emigrazione”, 10, 1913
[42] E. Franzina: Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America Latina 1876-1902, Milano 1979 osserva giustamente come, attenti alla forma di richiamo di altri flussi costituita dalle lettere contadine, come pure al potenziale distruttivo per l’immagine del Brasile in quanto paese che voleva richiamare immigrati, le autoritá coloniali avevano talvolta usato “l’arma delle lettere”: estorcendole ai contadini o blandendoli con arte per convincerli a inviare in Europa notizie esageratamente positive.
[43] Lettera in possesso di Giovanna Piccoli, Villa Agnedo. Giobbe Piccoli era partito nel 1875 a 27 anni di etá con la moglie Francesca e il figlio Pietro di 6 mesi
[44] Il “gialo” é il mais e la somma equivaleva a 150 chilogrammi
[45] Partorí
[46] Lettera conservata da Beppina Sgrott, Besenello. Giuseppe Sgrott partí nel novembre del 1875, con moglie e tre figli e un fratello con appresso la sua famiglia. Si stabilirono nel Distretto di Nova Trento della Colonia Itajahí-Principe Dom Pedro, in Santa Catarina
[47] Archivio di Stato di Trento 1881, busta 127, fascicolo 68.
[48] Archivio Comunale di Meano, busta 337, Miscellanea 1890-1896
[49]
Per limitarci agli studi d’epoca citiamo quelli di V. Grossi: Storia della
colonizzazione europea al Brasile e della emigrazione italiana nello Stato di S.
Paulo, Milano-Roma-Napoli 1914; B. Belli: Il caffé. Il suo paese e la sua
importanza (San Paulo del Brasile), Milano 1910. Tra gli studi italiani piú
recenti ed approfonditi citiamo quelli di Chiara Vangelista, tra cui il piú
conosciuto, Le braccia per la fazenda. Immigrati e “caipiras” nella formazione
del mercato del lavoro paulista (1850-1930), Milano 1982. Poi Angelo Trento: Lá
dov’é la raccolta del caffé. L’emigrazione italiana in Brasile 1875-1940, Padova
1984 e Do outro lado do Atlântico. Um sèculo de imigração italiana no Brasile,
S. Paolo 1989. Tra gli approfondimenti brasiliani ricordiamo quelli di B.
Sallum: Capitalismo e Cafeicultura. Oeste Paulista 1888-1930, S. Paolo 1982. poi
V. Stolcke: Cafeicultura. Homens, mulheres e capital (1850-1980), S. Paolo 1986.
Sulle dinamiche che permisero, comunque, a molti immigrati di resistere nelle
fazendas si veda Maria Silvia C. Beozzo Bassanezi: Famîlia e força de trabalho
no colonato. Subsídios para a comprensaão da dinâmica demográfica no período
cafeeiro, Campinas 1986
[50] Di questi argomenti ci siamo lungamente ed approfonditamente occupati in R. M. Grosselli: Da schiavi, op. cit. pp. 243/283
[51] La vicenda é ricostruita in R. M. Grosselli: Da schiavi, op. cit. pp. 301/385. Ma anche in T. C. Kirschner: Le colonato a S. Paulo dans le anee 1870, Tesi di dottorato, Universitá di Parigi III, Sorbona-Institute de Haute Estude de l’Amerique Latine, Parigi 1985 e S. Bassetto: Política de mão-de-obra na economia cafeira do Oeste Paulista (período de transição), Tesi di dottorato, Facoltá di Filosofia, Lettere e Scienze Umane, Universitá di S. Paolo 1982
[52] Circolare luogotenenziale 1897 del 22.2.1880 in Archivio di Stato di Trento, Fondi Capitanato Distrettuale di Trento 1880, busta 122, fascicolo 509
[53] Secretaria da Agricultura, Commèrcio e Obras Públicas do Estado de S. Paulo: Estatística agrícola e zootèchnica do Estado de S. Paulo no anno agrícola de 1904-1905, 4 volumi, S. Paolo 1908. Ministèrio da Agricultura, Indústria e Commèrcio: “Relações dos proprietarios dos Estabelecimentos Ruraes recenseados no Estado de S. Paulo” in Recenseamento do Brasil de 1920 (realisado em 1 de setembro de 1920), 3 volumi, Rio de Janeiro 1926
[54] Per un approfondimento della questione si veda R. M. Grosselli: Da schiavi, op. cit. pp. 363/381
[55] Per rispetto della veritá vogliamo aggiungere che una serie di indizi suggerirebbero che nei decenni immediatamente successivi potrebbe essere stato piú massiccio il numero di immigrati che raggiunsero la condizione di agricoltori proprietari della terra coltivata e che, comunque, un grande ed indefinito numero di italiani e trentini si stabilirá alfine nel grande numero di cittá e cittadine dell’”interior” paulista, come artigiani, commercianti etc.