Indice:

    Il coro parrocchiale tra cronaca e storia
    A cent'anni da "la piena dell'otantadò"
    Una capanna bivacco a ridosso dell'Ortigara
    Figure di paese - TA PUM
    Una storia di spie
    Il fonte battesimale compie 400 anni
    I dieci Comandamenti
    I centosei anni di Maria Denicolò
    La miniera di Civeron
    Dalle "memorie" di don Malfatti
    Rievocazione quasi totale della sommossa del '28 a Castelnovo
    La festa di Santa Margherita
    La sagra di S. Margherita del 1923
    La sagra di S. Margherita a Castelnuovo
    GRAZIE AD UNA TELENOVELA I BRASILIANI SI INNAMORANO DELL'ITALIA




Il coro parrocchiale tra cronaca e storia

Il coro che canta di domenica alla " Messa granda" è un'abitudine. Sentire il "Veni Creator " al primo dell'anno o lo "Stabat Mater" alla processione del Voto, o lo " Jesu Redemptor" a Natale, e ancora l' "Iste Confessor" a S. Leonardo e il "Libera" del Perosi nel giorno dei Santi o per qualche funerale, tutto per noi è abitudine. Ma quanto tempo è passato e quante persone hanno speso sere e sonno perché questi canti diventassero tradizione di paese?
Siamo risaliti negli anni lontani a cercare notizie e storia del nostro coro, anche se storia e notizie sicure nessuno si è preoccupato di lasciarne. Ci siamo allora affidati alla memoria dei nostri ultra ottantenni e ultra novantenni oltre a fatti e circostanze tramandate verbalmente e a qualche cenno in libri rari.
Memoria d'uomo non può dirci sulle origini del coro in paese. Sappiamo però che un sacerdote, certo don Angeli, lasciò un legato di cento fiorini per l'organo in chiesa, che fu messo a punto nel 1804 dal costruttore Inocenzo Cavazzani. L'avvenimento è da collegarsi logicamente con l'esigenza al tempo di un gruppo di coristi. Altre notizie non si hanno per tutto l'arco del secolo.
Verso la fine dell'800 sappiamo che il coro era formato da sole voci maschili (voci virili, si dice), gente locale, contadini per la maggior parte, che cantavano in chiesa le messe gregoriane e tutte le domeniche i vespri. Sì, alla domenica si cantavano i vesperi ed ogni cantore aveva la sua antifona in fondo al salmo. Anzi, qualcuno ricorda ancora un cantore che con la sua voce da basso profondo intonava l'ultimo dei cinque salmi: In exitu Israel de Aegypto, domus Jacob de populo barbaro e sottolineava con forza le ultime note del "barbaro", quasi a significare il disprezzo per quel popolo (l'egiziano), che barbaro, poi, non era affatto, ma solo di diversa religione.
Erano gente alla buona i nostri cantori, che certo non sapevano di musica: cantavano ad orecchio e con buona volontà le lodi al Signore. La ricompensa veniva per loro il giovedì grasso in canonica con il tradizionale " pasto dei cantori ". La parola " pasto " spiega più l'ansia dell'attesa, giacché il contenuto del pranzo era fatto di cibo comune, sempre quello: polenta e crauti con l'aggiunta di cotechino, lucanica e pancetta; il tutto annaffiato da molto vino. E per la fine secolo, con la fame che c'era in giro, non si può obiettare che il "menù" fosse povero. Al riguardo, si dice di un cantore (G.L.), la cui moglie era occupata a Nenzig (Voralberg), la quale, al termine appunto della settimana grassa, era solita fare ritorno a casa. Per l'uomo la concomitanza del pranzo sociale con l'arrivo di lì a poco della sposa era un fatto importante, tanto che andava in giro ad informare: " Dobia l'è el pasto e sabo gen la Frau " (questa era la moglie).

All'epoca era parroco don Angelo Martinelli (in paese dal 1893), che assistito dal sacrestano Giovanni Demonte, alle cinque e mezzo del mattino, anche d'inverno, celebrava Messa. Quando occorreva, due cantori a turno recitavano con lui l'ufficio dei defunti. Non tutte le mattine, perché, nonostante il poco compenso richiesto, la gente non aveva neanche i centesimi necessari per l'ufficio. La chiesa era gelida; nelle pile d'acqua santa ghiacciava fino a marzo. I due cantori uscivano di chiesa intirizziti, ma ciascuno con qualche soldo in tasca quale compenso avuto dal parroco per il servizio e quei soldi finivano subito nella bottega della Menega o del Maestro per un bicchiere di acquavite o di assenzio.
Capocoro a fine '800 era Luigi Brusamolin (1838-1894), perito tragicamente nel Maso in piena mentre, alla foce, recuperava tronchi d'albero convogliati a valle via acqua. Membri della cantoria erano, oltre al capocoro Leonardo Brendolise (detto Tisi), Luigi Riccabona (caduto in guerra), Angelo Lorenzin, Giovanni Lorenzin (Caligaroto), Lorenzo Franzoi (Soela), Giuseppe Brusamolin (fratello del capocoro e di don Antonio), Luigi Denicolò (Stela), Leonardo Smarzaro, Giovanni Longo (Titon), Francesco Andriollo (Franzelon), Luigi Bombasaro (Tabio), Luigi Demonte (Momi), Antonio Wolf (Tonele), Bernardo Demonte (Cianelo), Giovanni Carlin (Neo). All'organo stava Elia Coradello (1819 - 1894) o Enrichetta, moglie del sindaco Federico Maccani al quale è dedicata la strada di Rivazzale.

Com'era il complesso vocale dell'epoca? Numeroso, come Si può dedurre dall'elenco fatto e sicuramente incompleto. Quanto al modo di cantare, sono giunte a noi notizie anche di " fiaschi " e di " giaroni ", per dirla in termini tecnici, che sarebbe come " 'ndar for pai somenai ". La qual cosa non ci sorprende, perché è patrimonio di ogni corale liturgica anche l'insuccesso e il " fiasco " per l'appunto; e ancor più occorre essere indulgenti con i nostri nonni che, con la cultura del tempo, dovevano masticare di latino e di pentagramma. Si racconta anche di Messe avviate con canto solenne e finite basse per sopravvenute difficoltà di esecuzione.
In un altro aneddoto ci risulta coinvolto il coro del paese e le cronache sembrano confermare la verità dell'accaduto. Per lo scampato pericolo della peste, il Comune adempiva, il primo giugno di ogni anno, ad un voto fatto dal paese a san Vendemian, in quel di Strigno.
A spese del Comune, veniva celebrata una Messa cantata nella chiesa del santo del paese vicino con la partecipazione del coro parrocchiale.
E i cantori vi andavano, nonostante l'urgenza l'urgenza dei lavori di campagna, cui si aggiungeva a casa l'insaziabile avidità dei bachi da seta (cavalgeri) per le foglie di gelso cui occorreva far fronte con abbondanti spelature di " morari ".

Il rientro avveniva di solito entro mezzogiorno. Ma una volta che i cantori si accodarono a Gigio capocoro sulla strada di Strigno, venne mezzodì senza che nessuno facesse ritorno. E venne sera e venne il giorno dopo: silenzio sul fronte. Si può capire l'inquietudine delle famiglie: fu fatta una delegazione di coraggiosi per indagare sull'accaduto. E dopo tre giorni, capocoro ed artisti furono intercettati a Villa Agnedo bevuti e canterini. Le cronache sorvolano sui convenevoli dell'incontro.
Nei primi anni del '900 alla guida del coro si mise Angelo Andriollo (detto Rosso), il quale diresse le esecuzioni fin quasi alla morte, sopraggiunta nel 1924. L'organo, all'epoca, era collocato sopra la porta d'ingresso e l'aria veniva compressa nelle canne da un mantice azionato a mano.
In quegli anni, un paesano era sacerdote e sapiente maestro nel Seminario principesco vescovile di Trento. Si chiamava don Antonio Brusamolin (1837-1904); di lui resta un quadro ad olio su tela in Seminario. Per suo merito arrivarono in paese le prime Messe figurate (cioè a più voci), quali la Terza, la Sesta, la Diciottesima di Michael Haller altre di Ignathius Mitterer, entrambi autori tedeschi. Ad esse vanno aggiunti mottetti ed altri inni sempre portati in paese da don Antonio. Purtroppo la prima guerra mondiale distrusse l'organo, spartiti e carte musicali.
In occasione di funerali, i cantori erano presenti con il "Miserere" del Berara, pezzo forte del coro eseguito anche più tardi fino agli anni cinquanta e poi dimenticato.
A conclusione di questo periodo è da ricordare l'ingresso del nuovo parroco, don G. Battista Mal fatti, nel 1911. Poco dopo la prima guerra mondiale richiamò la maggior parte dei cantori sui fronti di battaglia. Per quelli rimasti ci fu la triste esperienza del profugato nel maggio del 1916. E del coro non si parlò più fino al 1920.

A Serajevo il 28 giugno 1914, fu assassinato l'arciduca Francesco Ferdinando: l'impero d'Austria invase la Serbia e fu la guerra mondiale. In paese arrivarono molte cartoline di precetto per i giovani (e non più giovani) di leva subito trasferiti in Galizia, sul fronte Russo. Già alla fine del 1914 a Castelnovo si piangevano oltre venti caduti. La chiesa si affollava di gente in angoscia per supplicare il Signore di mettere fine a tanto disastro, da parte sua il coro, pur ridotto attorno ad Angelo Andriollo (padre di Aldo, attuale cantore)accompagnava le preghiere dell'assemblea.
Un anno dopo l'esercito italiano sfondava il confine di Primolano a seguito della dichiarazione di guerra dell'Italia all'Austria: il fronte di fuoco si stabilì presto sul corso del torrente Maso e ai lutti dei mesi precedenti s'aggiunsero i bombardamenti in valle dai forti austriaci della Panarotta e del Pizzo di Levico. Ci furono case sfondate dalle bombe, paesani arrestati per temuta attività spionistica, altri reclutamenti di giovanissimi e di adulti (anche di 52 anni).
In un paese svuotato delle braccia più vigorose, le funzioni in chiesa erano ridotte al minimo e di notte; neanche le campane suonavano, perché gli Austriaci le avevano tolte per fare cannoni.
Passò un anno, venne il maggio del 1916, quando la milizia andò per le corti a dare l'ordine di abbandonare il paese per destinazione ignota. Siamo abituati a vedere e nei film l'uscita di Mosé dall'Egitto come una fuga di gente cenciosa verso le sponde del Mar Rosso. Qualcosa di simile deve essere stata quella lunga fila di uomini e di carriaggi verso Bassano e poi oltre per altre città e paesi. La dispersione durò tre anni: molti per epidemia da febbre spagnola, o per vecchiaia, e, ancor più, per nostalgia, non fecero ritorno.
A fine conflitto, il prezzo pagato del paese alla guerra fu di 36 caduti, 71 morti profughi oltre alle vedove e agli orfani. Tra i cantori vanno ricordati: Luigi Riccabona, ucciso al fronte e altri 3 cantori Leonardo Brendolise, Giuseppe Brusamolin, Leonardo Smarzaro sepolti in cimiteri lontani. I reduci non trovarono più il paese, ma mozziconi di case: Castelnovo distrutto, incendiato rapinato di quanto era rimasto. Il tutto con la gioia di aver vinto la guerra: il bollettino della vittoria parlava chiaro ... Ma in paese furono molti a non voler mai accettare nell'intimo l'idea di aver cambiato padrone.
Angelo Andriollo s'adoperò per ricomporre subito il coro con gli elementi della vecchia guardia ed altri dotati di apprezzabili qualità per il canto.
La nuova cantoria era formata dai fratelli Abramo, Adolfo e Gino Montibeller (nel 24 sarà il nuovo capocoro), il cugino Giovanni Montibeller, Leopoldo ed Angelo Denicolò con il padre Luigi, Bruno Coradello Ermanno Brendolise, Eugenio Brusamolin e Leonardo Andriollo.

Della chiesa, durante il periodo di guerra, s'era fatto un magazzino militare e un ricovero per cavalli Al ritorno, i paesani dettero di gomito per restituire decoro al luogo di preghiera, cambiare le tegole rotte, chiudere le finestre con lamiere ed anche con canne di granoturco, essendo introvabile la carta. L'organo era andato perduto, ma in questa chiesa rabberciata alla meglio, riprendeva la celebrazioni della messa. La diceva don G. Battista Malfatti parroco già dall'11, al quale capitò anche la triste sorte di essere internato dagli Austriaci a Katzenau e di subire il processo di un tribunale militare per una serie di accuse di attività anti austriaca. Un brutto capitolo per la storia del paese.
Ritornato, don Malfatti fu di molto aiuto alle famiglie per la liquidazione dei danni di guerra. Anche del coro egli si fece attento sostenitore: esperto di musica, insegnò nuove melodie. A lui dobbiamo il merito se a Natale sentiamo la dolce aria di " Placida Notte ". Questo canto don Malfatti lo trascrisse a memoria ricordando il famoso " Stille Nacht " di Gruber, che, forse, allora famoso non era. Il coro, intanto, andava ampliando il suo patrimonio musicale: alle messe di don Antonio Brusamolin si aggiungevano la Beltiens, la Grassi, la Mitterer e la Ravanello.

Il 1922 fu anno di grossi scossoni in Italia, ma, in misura più modesta, lo fu anche per il paese. Infatti, dopo 104 anni di stimato servizio La famiglia Demonte (i moneghi) dava le dimissioni da sacrestano; vi subentrava nell'incarico Leonardo Andriollo, detto Nardeto, anche lui destinato a diventare figura caratteristica e cerimoniere in chiesa. Il 20 luglio 1922 arrivavano le nuove Campane, benedette in forma solenne l'1 ottobre In quei mesi, per rendere più spediti i lavori di restauro della chiesa, le funzioni venivano celebrate nella sala del teatro municipale (attuale palestra). Là fu amministrata la cresima dal Vescovo, Mons. Endrici, ad una folta schiera di ragazzi e ragazze, anche maturi per altezza e per età, eppure non ancora cresimati a ragione della lunga guerra.

Restituita la chiesa all'antico decoro, presto si ripresero le tradizionali processioni del Venerdì santo, di san Marco, ed altre. Alle processioni si trovava raccolto quasi tutto il paese e gli uomini di maggior prestanza si sentivano lusingati nel reggere i due pesanti gonfaloni di seta rossa damascata con le figure di san Leonardo e di santa Margherita, oltre al drappo triangolare, rosso vivo pure quello, in onore del Santissimo. Fu durante la processione del Voto del 33 che il portatore di un gonfalone, Giovanni Venzo, uomo di lodevole zelo, venne colpito da malore: trasportato in una casa vicina, vi morì poco dopo. Ovviamente il gruppo dei cantori era assiduo alle cerimonie liturgiche con canti adatti: il Vexilla Regi 5 per il Venerdì santo, le litanie per le rogazioni maggiori (S. Marco) e minori (attraverso la campagna), il Pange lingua ed il Sacris solemnis nel giorno del Corpus Domini. Anzi, per questa ricorrenza, veniva eseguito il Tantum ergo a ogni capitello in cinque versioni diverse. A santa Margherita, in luglio, si andava cantando le litanie della Madonna lungo il sentiero per concludere all'ingresso in chiesa con l'invocazione: " Santa Margherita ora pro nobis ". Qui il canto si faceva esplosione di voce ed un brivido di commozione coglieva quella gente in preghiera.
Nelle ultime processioni dell'anno erano d'uso lo Stabat Mater per la festa del Voto nella versione di Giovanni della Croce (eseguito per la prima volta nel 1387 in piazza San Marco a Venezia) e le litanie della Madonna nella domenica del Rosario, sull'aria di vari autori, tra i quali anche compositori locali (Gino Montibeller e Bruno Coradello).
A seguito della distruzione dell'organo per eventi bellici, don Malfatti acquistò nel giugno del 1923 un armonium dalla ditta Galvan per 1.200 lire. Suonava il maestro Lenzi di Roncegno. L'anno appresso era il 1924 - moriva Angelo Andriollo, il capocoro della ricostruzione, che per vent'anni aveva diretto il gruppo dei coristi, ridando ad essi la voglia di cantare anche nelle angosce della guerra. Proprio ai suoi funerali, per la prima volta diresse Gino Montibeller (il postino, 1902 - 1966) che, alle esequie del predecessore, ebbe così il battesimo di nuovo maestro.

Gino Montibeller e Bruno Coradello avevano studiato musica e tecnica del canto con Rigo dal Borgo, maestro della locale banda; alla sua scuola i due coristi s'erano applicati anche nell'uso di strumenti come il mandolino e la chitarra; Bruno suonava il violino e l'organo.
Il coro intanto allargava il patrimonio musicale: alla Messa " granda " cantava l'epistola in latino, nel pomeriggio accompagnava i Vespri. Il gruppo si componeva di dodici effettivi per espresso desiderio di don Malfatti che nei componenti della cantoria voleva raffigurare i dodici Apostoli.
Gino, postino di professione e capocoro per vocazione, si andava affinando nell'arte del dirigere: la passione per la musica lo portava a solfeggiare anche per strada quando distribuiva la posta. A prove di canto era maestro esigente: chiedeva dizione corretta del latino a cantori che volentieri lasciavano per via qualche finale di troppo; voleva rispetto del tempo come da spartito e memorabile era il suo detto: "I quarti se i beve e no se i magna".
In quegli anni, sempre magri, i cantori facevano calcolo anche del piccolo compenso che veniva da funerali; la stessa cosa valeva per i "ceregoti", tra i quali il sottoscritto. Ma con il passare del tempo, il coro si aprì anche al canto profano; imparò canzoni per circostanze liete, quali "Il giorno" per sposi, "Salve pastor" per Messe novelle, "Giorni sì placidi" per agricoltori e serenate.
Forte di questo patrimonio "mondano", una sera d'inverno (era il 17 gennaio) i coristi vollero tenere compagnia, in occasione dell'onomastico, al compaesano don Antonio Coradello, sacerdote a Spera e poi arciprete a Strigno. Nel profondo dell'oscurità, a piedi e sfidando il gelo, la compagnia si dispose sotto le finestre di don Antonio e levò alle stelle la sua armoniosa serenata. Che fece il mite don Antonio? Ascoltò, poi aprì la porta e offrì da bere. Il coro bevve. Bevve il coro. Si trattò poi di ritornare a casa scendendo le scalette ghiacciate che da san Valentino portano a Scurelle. Gino Montibeller, in quell'ora di intimo raccoglimento, pensò di consegnare l'inseparabile mandolino a braccia più robuste e si affidò a Genio Brusamolin, grosso e possente basso. Ed ecco che il Brusamolin d'improvviso cedette sulle gambe, per cause tutt'oggi non chiare, mentre il prezioso mandolino scivolò tra braghe e suolo, sì che si fece morbida la fragorosa caduta della massa umana. Tra la costernazione di Gino e le risate degli altri, Genio si levò in piedi: sotto c'era un ammasso di stecche e un pugno di cordicelle. Arrivati a tarda notte sulla piazza di Scurelle i resti del mandolino furono collocati sulla nuda terra e intorno il coro intonò il " Libera me, Domine " del Musch. Poi il mandolino fu affidato alle pietose acque della vicina roggia. Cose successe, che si riferiscono per cronaca.
Mentre il coro si concedeva qualche esibizione in trasferta, don Malfatti dava inizio ai lavori di ampliamento della chiesa parrocchiale. Nel 1931 fu abbattuta la facciata per allungare la navata di alcuni metri con sassi portati dal Maso da cavalli e buoi. Il frontale venne ricostruito uguale, in stile romanico, abbellito con un rosone centrale raffigurante il Buon Pastore. All'interno furono ricavate due cappelle dedicate a S. Antonio e a S. Teresa; lo scalpellino Angelo Carraro da Villa (Bocaleto) lavorò alla preparazione delle acquasantiere, trainate in paese su carro con due mucche e ci volle la spinta di ragazzi corsi in aiuto delle bestie perché le pile arrivassero alla porta della chiesa. All'opera di carpenteria si applicarono con " pioveghi " molti paesani e così anche per il rifacimento del tetto con tegole tipo " castoro ". Dagli scavi effettuati per l'occasione vennero alla luce numerosi resti umani, a conferma dell'abitudine nel passato di seppellire i morti in prossimità della chiesa.

Nel 1932 la ditta Mascioni di Cuvio (Varese) apprestò l'organo che tuttora accompagna le nostre celebrazioni. All'inaugurazione esegui suonate classiche mons. Dalla Porta, organista di santa Maria Maggiore di Trento. In seguito, alla consolle sedettero Bruno Coradello e Luigi Bastiani. Quest'ultimo era del Borgo e, per strana coincidenza, proprio a Castelnovo trovò la morte per incidente d'auto, davanti all'Enal.

CARMINO EPIBOLI
1982, varie puntate da "Voci Amiche"

       


A cent'anni da "la piena dell'otantadò"

16 - 20 settembre e 27 - 28 ottobre 1882: cent'anni fa ci fu la grande piena.

" Voci Amiche " la ricorda riportando la " Relazione " pubblicata dalla Società degli Alpinisti Tridentini, Trento, Tipografia Editrice Marietti, 1882.
" Questa vallata fu orribilmente devastata dalle acque e le conseguenze del disastro vi si fanno sentire più fortemente che altrove, perché il paese era già ridotto all'estrema miseria dalle tristissime annate agricole, che lo privarono del prodotto di bozzoli e di uva. Quest'autunno sì nella prima che nella seconda piena il Brenta ed i rivi che dalle nude pendici delle ripidissime montagne scendono ad ingrossarlo, strariparono ovunque trascinando seco attraverso campi e prati l'enorme congerie di ciottoli e ghiaia, che si andava staccando fino dalla cima dei monti e franava o dilamava nei rivi già nei loro bacini di formazione.
Questi rivi laterali sono in numero sì grande che la rovina è assolutamente indescrivibile, perché lo strato di ghiaia onde ricopersero le campagne è di altezza tale che si giudica impossibile il rimetterle a coltura. La condotta di materiale fu poi tanto abbondante che ormai il letto di questi torrentelli si trova ad essere alzato di tanto, che essi scorrono ovunque ben più alti delle circostanti campagne e rattenuti solo da deboli ripari fatti colle ghiaie stesse ammonticchiate.
Maggiore ed immediato si presenta perciò il pericolo di vedere ad ogni acquazzone ripetersi le tristi vicende di quest'annata, perché se la catastrofe in Val d'Adige non può rinnovarsi che col ripetersi del fatale concorso di circostanze che determinarono la piena del 1882, in Valsugana ogni pioggia alquanto forte può produrre l'ingrossamento momentaneo di uno o l'altro dei rivi e cagionare nella limitata zona dallo stesso minacciata le eguali rovine, che negli altri paesi vennero causate da eventi di quasi secolare intermittenza.
Pur troppo con questa prospettiva ai miseri abitanti di questa valle non resta che l'unica risorsa dell'emigrazione che indubbiamente si effettuerà in massa, se non verrà provveduto ad assicurare alla popolazione la possibilità di raccogliere il frutto delle proprie fatiche.
Già sulla via che da Pergine mena a Levico si riscontrano i primi danni di un certo rilievo prodotti dal rio di Vignolo.

A Levico il Rio maggiore fece molti guasti specialmente nella valle verso monte Fronte dove occorreranno serre ed impiantagioni, perché questo rivo non finisca a distruggere un giorno o l'altro quella borgata, oggi sì fiorente perché ritrovo di molti forestieri e bagnanti durante l'estate.

Sul tenere di Novaledo parecchi torrentelli inghiaiarono molte campagne con gravissimi guasti, ed il paese stesso è minacciato continuamente.

A Roncegno la Larganza estese il proprio cono di deiezione allo sbocco nel Brenta per oltre 100 metri in larghezza ed un chilometro in lunghezza seppellendo sotto la ghiaia campi, vigneti e prati e determinando un forte rigurgito del Brenta, che ridusse a palude le campagne superiori. Anche la strada venne fortemente danneggiata in questa località.

Poco più sotto il torrente Chiavona straripando inghiaiò e desertò vigneti e campi per un estensione parimenti assai ragguardevole.

Borgo venne allagato dal Brenta ad un'altezza di oltre un metro e le acque distesesi in tutta la campagna a monte della borgata vi fecero marcire tutto il raccolto di polenta e di uva, il primo calcolato a 1500 quintali.

Il torrente Moggio distrusse tutti gli argini dalla sua sortita dalla valle di Sella fino allo sbocco nel Brenta e invase le campagne circostanti dopo aver riempito di ghiaia il proprio letto. Occorrerà una spesa di oltre fi. 60000 per rimettere l'arginatura e questa è assolutamente indispensabile per salvare la stessa borgata dalla rovina, che potrebbe derivarle da questo rivo, se dirigesse il corso verso di essa mentre le rive sono indifese.

Il torrente Ceggio, empito il proprio letto di congerie, altro se ne aprì dirigendosi verso Castelnovo, per la qual cosa sono indispensabili nuove arginazioni. Questo torrente e il Moggio sboccano nel Brenta uno di fronte all'altro, per cui accumulano una quantità di materiali nel letto del fiume, che è costretto a rigurgitare allagando Borgo.

Sul tenere di Castelnovo il torrente Maso, che sin dallo sbocco della Valle di Calamento aveva menato orrendi guasti, tracimando da ambe le sponde, rompendo gli argini e sconducendoli per estesissimo tratto, fece rovinare una casa, allagò completamente il paese, che è oggi in pericolo permanente.

Corre altrettanto pericolo Scurelle sull'altra sponda, il quale paese ebbe nella seconda piena danni ancora maggiori che nella prima. Riparazioni di urgenza richiederanno fi. 60000.

A Villagnedo il torrente Chieppena ruppe i muraglioni così che minaccia continuamente i due paesi e scorre già per un tratto di un chilometro e mezzo in un alveo nuovo sulla sponda destra attraverso le campagne, che prima devastò completamente.

A Grigno il torrente di egual nome fu più furioso ancora degli altri. Cadde un ponte all'imboccatura della valle e produsse una deviazione del torrente, il quale precipitò sul villaggio trascinandovi una immensa quantità di congerie. Vent'otto case furono per intiero distrutte, inghiaiate tutte le altre fino ad un altezza di quattro e cinque metri. In qualche luogo dei dintorni la ghiaia raggiunge 7 metri d'altezza. I danni delle sole case ascendono a fi. 105000, quello delle campagne desertate per vani chilometri a fi. 25000.

Il corso del Brenta per questi inghiaiamenti è alterato in modo che occorrerà pure una grandissima spesa di regolarizzazione.

Le opere di riparo costeranno ingentissime somme in questa valle, ché si dice non occorrino meno di fi. 800000, per difenderla da un frequente ripetersi di questa catastrofe. E senza di esse è impossibile che possa conservarvi la popolazione dei numerosi paeselli, che oggi vive trepidante sotto l'incubo della perenne minaccia di restare senza tetto e senza pane.

* * *

Anche la ridente Valle di Tesino venne orribilmente devastata dalle passate inondazioni. I torrenti Chieppena, Gallina, Grigno, Tolvà, Vanoi, Solcena e Senaiga distrussero campi, prati, strade, asportarono molini, seghe e ponti. Oltre di ciò numerosi franamenti e scoscendimenti di monti compirono l'opera distruggitrice dei torrenti.

Pieve Tesino. Il torrente Chieppena distrusse per intiero il nuovo ponte di pietra, rovinò tutta la strada postale, e scondusse molti prati e parte di bosco. Numerose frane coprirono molti campi, e nella selva del Vanoi danneggiarono grandi tratti di boscaglie di molto valore, come pure molti pascoli delle malghe Copelà, Laghetti, Capriolo, Coldosè e Valsorde. Tutte le strade di comunicazione furono guastate in parte da franamenti di terreni, ed in parte da allagamenti dei torrenti Grigno, Tolvà e Vanoi. Il totale dei danni fra privati e comune ammonta a fi. 34822.

Cinte Tesino. Anche questo povero Comune col suo piccolo territorio subì forti danni fatti più sensibili perché avanti alcuni anni venne quasi distrutto da un incendio.

Il guasto maggiore venne fatto dal torrente Grigno che scondusse e inghiaiò una grande quantità di campi e prati e distrusse per intero quattro edifici privati, un molino ed una sega. Anche qui estesi franamenti danneggiarono molti boschi e prati. Il danno totale fra comune e privati ascende a fi. 18000.

Castel Tesino. In tutto il territorio di questo comune si scorgono orribili devastazioni prodotte dai franamenti di terreno, che distrussero boschi e grande estensione di campi e prati.

Del pari i torrenti Grigno, Vanoi e Senaiga straripando da ogni parte allagarono scondussero ed inghiaiarono tutti i campi e prati posti lungo le loro sponde. Danno totale in questo Comune fi. 44400.

In tutta la piccola valle di Tesino fra privati e comuni si ebbe un danno complessivo di fi. 97222 ".

dalla raccolta di DON ARMANDO COSTA
da "Voci Amiche", Sett. 1982

       


CASTELNOVO
Una capanna bivacco a ridosso dell'Ortigara

Della " Grande Guerra " l'Ortigara, assieme Carso e al Piave, resta come uno dei nomi più evocati ed emblematici.
La furia dei combattimenti che vi imperversarono e che in pochi giorni causarono forse più alte perdite (" la tomba degli alpini ") che si siano verificate in una sola battaglia, è certamente la causa principale per cui la sinistra gloriosa montagna continua ad attirare frotte visitatori. Per i quali è molto comodo raggiungere in automobile fin quasi alla vetta percorrendo le agevoli strade dell'altipiano.
Molto diversa è la sorte di chi all'Ortigara sale partendo dalla Valsugana. Il versante nord è ripidissimo, diruto e selvaggio, ed è percorso da pochi sentieri, qualche volta seriamente esposti, la maggior parte dei quali oltre a tutto va scomparendo. Non è raro il caso che purtroppo vi accadano disgrazie come successe nel 1962 quando due giovani persero la vita sfracellandosi sulle rocce della " Vai Bruta ". Ma è proprio il fatto che si tratti di una stupenda e vasta zona di montagna ancora incontaminata che la rende meta di una sempre più ampia cerchia di alpinisti ed escursionisti dal palato fine. Tra essi vi sono molti giovani o addirittura giovanissimi. Ed è proprio a questi ultimi che va dato credito di una iniziativa la quale confuta. caso mai ve ne fosse ancora bisogno, certi clichés per cui la gioventù di oggi è condannata in blocco come priva di ideali ed aspirazioni che non siano dettate da irragionevoli infantili ed egoistiche contestazioni. Un gruppo di giovani di Castelnovo ha infatti portato a termine un'impresa ammirevole. Si è già detto che la zona è vasta e per chi non la conosce veramente bene, pericolosa. Ciò era dovuto anche al fatto che mancava qualsiasi posto che offrisse la possibilità di trovare rifugio in caso di emergenza da quando la minuscola malga di Val Caldiera " a quota 1579" era stata abbandonata ed era andata in rovina. Si trattava di un " baito " a ridosso del passo dell'Agnela, che oltre a essere utilizzato da qualche pastore di pecore serviva quale posto di bivacco e rifugio per alpinisti e cacciatori. Al posto del baito il gruppo di giovani decise di costruire una solida, anche se rudimentale, capanna Il Comune di Castelnovo diede loro il permesso di tagliare il legname occorrente allo scopo e i pompieri dello stesso luogo misero a disposizione la loro jeep per il trasporto di una parte del materiale verso Cima Ortigara attraverso Marcesine. Per tutto il resto, comprese le spese per il materiale di copertura ecc. ha provveduto il gruppo di giovani di cui si sta parlando. Per alcuni week-end hanno lavorato sodo, dormendo all'addiaccio, e rinunciando al riposo settimanale. La capanna è ora quasi completa; mancano ancora qualche suppellettile, letti, ecc. Forse la SAT o qualche altro Ente potrebbero intervenire aiutando chi ha dimostrato di sapersi aiutare. Perché i giovani vogliono che la capanna serva a tutti coloro che al gruppo dell'Ortigara vanno, oltre che per ricordare chi lassù è rimasto per sempre, per ritemprare il corpo e lo spirito.

Vittorio Gozzer
da "Voci Amiche", Marzo 1972

       


FIGURE DI PAESE
TA - PUM

Estate del '15 sul fronte del Carso. Per il controllo di un lembo di terra, tutto pietre e doline desolate, migliaia di uomini si affrontano in continue azioni di guerra. Arginata la furia delle forze italiane, ai primi di luglio il contrattacco austriaco respinge il nemico oltre Isonzo. Monfalcone e i cantieri navali ricadono sotto il dominio dell'Asse, mentre sull'altopiano prospiciente la città le truppe si adoperano alla fortificazione delle linee in attesa della nuova offensiva. Che non tarda ad annunciarsi.
Sul finire del mese, quintali di proiettili martellano i pendii dell'altopiano a copertura delle ondate di fanti che di tanto in tanto si lanciano su per la china; la tragica storia dell'Isonzo è cominciata: per due anni, in undici memorabili battaglie, sul san Michele, il Sabotino, il monte Nero, il san Gabriele, sull'Hermada e sulla Bainsizza si disputeranno le fasi più aspre della guerra; gli italiani vi lasceranno oltre duecentomila morti e così anche gli austriaci. Più tardi, accennando ai fatti, qualche autore scriverà dell'inferno del Carso.
Inquadrati nei reparti austro-ungarici, nel 1° reggimento Landerschùtzen e nel 4° reggimento Kaiserjaeger, combattono anche nostri paesani, a difesa di un tratto di fronte lungo poco meno di 10 km. Sono: Giuseppe Longo (" el monco "), Armenio Coradello (" el mulinaro "), Antonio Brusamolin, Giacomo Brendolise, Giovanni Venzo (poi sacerdote), Lodovico Rampanelli, Angelo Coradello (" Angeluza "), che vi perderà la vita.
E' la notte tra il 3 e il 4 agosto. L'offensiva italiana si protrae da una decina di giorni. Cadorna, in questa fase, lascia poco operoso il fronte del Trentino e dell'altopiano di Asiago, perché vuole piegare la resistenza austriaca sull'Isonzo e occupare al più presto Trieste. Ma i difensori si aggrappano ai pezzi e sparano con rabbia sui reparti italiani. Sulle rampe, nelle doline, nelle buche di granate si ammassano i morti; nessuno pensa a loro, ognuno bada a sé ed è già tanto se a sera la vita è ancora salva. La linea non cade. Nella notte, un proiettile dum - dum colpisce Giacomo Brendolise e gli recide i legamenti di un piede. Beppi Longo è accanto al compaesano, vede l'amico accasciarsi, gli si fa appresso. Per regolamento, egli non dovrebbe abbandonare la posizione, neanche per assistere un commilitone ferito; ma il regolamento, al più, sta nel fondo del tascapane e Beppi si prende cura del paesano: se lo appoggia sulle spalle e lo trascina a Doberdò, al pronto soccorso. Qui, un ufficiale ordina al soccorritore di lasciare il compagno e di far ritorno in linea. Mentre Beppi obbedisce, Giacomo viene introdotto nell'ospedale da campo. Sono molti i feriti che già occupano quel piccolo ricovero di retrovia. Di fronte a lui un altro soldato è disteso sotto una coperta: accanto gli sta un frate che scambia con il ferito qualche parola. Ma il modo di parlare del soldato è familiare, sembra Castelnovato! Così, quando il frate si allontana, Giacomo si accosta al giaciglio, alza la coperta e nel ferito riconosce Angeluza, in fin di vita. Riceve in consegna un messaggio, scritto in precedenza, da far recapitare alla famiglia. Una comune lettera di soldato al fronte, ma in essa non si dice degli ultimi avvenimenti. Poco dopo Angeluza muore e Giacomo scrive in calce alla lettera di sapere che Angelo è ferito in modo grave.
Nella stessa notte, il fuoco degli italiani colpisce anche Beppi. Una granata esplosa vicino gli mozza di netto un braccio e altre schegge si conficcano nel torace. Solo più tardi da ambo i fronti vengono alzate le bandiere della Croce Rossa. Strano a dirsi, gli eserciti si massacrano, ma secondo principi di buona educazione, da "galantuomini", cosicché, all'alzabandiera della Croce Rossa, la pietà prende il posto della ferocia e le ostilità sono sospese. Anche sul Carso tace la mitraglia; i barellieri provvedono al recupero dei feriti e Beppi è raccolto da soldati italiani. Sarà ricoverato a Genova; dopo tre anni farà ritorno al paese. Mutilato, a vent'anni, il sistema nervoso scosso. Vivrà tanto ancora, con pochi affetti familiari, nel ricordo delle cariche sulle doline, vagabondo per il paese come un esaltato, deriso dai bambini, commiserato dagli adulti. Durante il ventennio gli sarà tolta la pensione di guerra, perché egli non saprà apprezzare con il necessario entusiasmo gli ideali del rinato impero romano!

E' stata, la sua, una vita rovinata dalla guerra. Quella guerra che ogni anno si vuole celebrare alle porte del cimitero con il discorso edificante di qualcuno venuto da fuori. " El monco " doveva commemorare i caduti, negli anni passati. Non occorreva tenesse discorsi: la sua presenza sarebbe valsa più di un discorso, il suo braccio amputato poteva far capire a tutti che cos'è la guerra. I discorsi delle persone d'occasione sono parole, soltanto parole.

CLAUDIO DENICOLO'
da "Voci Amiche", Ottobre 1975

       


VITA DI PAESE
Una storia di spie

Diciamocelo tra noi: sui " prai da Maso ", nel lontano 1916, si parlò di spie. Di spie? Oh bella, un'altra di nuova.

Dico sul serio. Di spie. Quando il nostro tratto di Valsugana era conteso come linea di confine tra Italiani e Austriaci, tanto che i Castelnovati dicevano " buongiorno " al mattino e " viva il Kaiser " alla sera, in quei tempi si parlò di spie. Tempi duri, tempi grami, da fame. Con le bombe dalla Panarotta e le cannonate dalla linea italiana appostata sul Maso e nel mezzo i paesani alle prese con i problemi di ogni giorno. Tra questi quello di tagliare il fieno. L'erba migliore cresceva sui " prai da Maso ", ma chi se la sentiva di falciarla? Di là dal torrente stavano le truppe, gli ufficiali, i cannoni, le cucine, il servizio segreto, le stalle, il controspionaggio, ecc.

Purtuttavia alcuni osarono, nell'estate, raccogliere il fieno su quella terra bruciata. Lo fecero con ardimento e con paura, più spinti dal bisogno di foraggiare gli animali che non dalla volontà di sembrare eroi.

Eh, ma oltre il Maso c'era il servizio segreto. E per quello, chi erano gli straccioni che andavano per la campagna? Contadini - dicevano loro. E se fossero stati degli osservatori del nemico? O dei venduti del luogo che studiavano le mosse degli Italiani? Insomma delle spie? Questi i pensieri che preoccupavano il CRR:2x3,14 (sigla del servizio segreto italiano).

Delle spie! In presenza di spie bisognava intervenire prima che esse riferissero al nemico la distribuzione strategica delle forze in Valsugana. Così, sul calar della sera di un giorno di giugno, quando il sole declinava oltre il Fravort e i " salgheri " segnavano per terra lunghe strisce d'ombra, con azione fulminea alcune pattuglie italiane invasero i prati e bloccarono di soppiatto i paesani occupati nel far " marei ".

- Chi siete? Che fate? Da dove venite? Queste le prime domande a bruciapelo rivolte agli sbigottiti contadini.
- Sior colonnello, no 'l vede? Semo de qua, semo de Castelnovo. Siamo dietro a tor su la pastura, come che el poi rendarse conto.
- Il vostro atteggiamento, la vostra vicinanza al confine sono molto sospetti e possono compromettere la sicurezza nazionale. Venite con noi.
- Sior generale, noialtri semo pora zente del logo, gavemo da darghe da mangiar alle bestie e da cargar el caro. No podemo vigner dove che lu ci comanda.
- Se vi rifiutate, la vostra posizione si aggrava per resistenza a pubblico ufficiale. Venite con noi e risponderete alle autorità superiori.
Sudati, stanchi, laceri e umiliati, sotto l'accusa di spionaggio, quei poveri Castelnovati vennero condotti a Strigno e rinchiusi in cella sotto sorveglianza.
Si faceva sera. A casa le spose aspettavano " el Gigio, el Nane, ei Tita " che venissero a " moldar " e a portare il latte " al casélo ". Al " casélo ". Illuse! Spio-nag-gio! Capito? Cospirazione contro l'integrità dello stato, collaborazione con le truppe nemiche: queste le accuse infamanti che pesavano sugli arrestati. Processo su due piedi e fucilazione al muro se veniva provata l'accusa, altro che " el late al casélo ".

Passarono i giorni. Nelle carceri di Strigno erano molte le persone dei paesi vicini fermate per accertamenti e, a una a una, esse venivano interrogate dal servizio di sicurezza per la temuta attività anti-italiana. Quando il turno toccò ai Castelnovati, furono allineati davanti alla autorità superiore quei quattro poveracci raccolti sui " prai da Maso ". L'ufficiale li interrogò:

- Da dove venite? Perché eravate là? Quali i vostri scopi? Chi vi paga? ecc. ecc. Ovviamente i paesani confermarono che si trovavano sul confine solo per ragioni di lavoro. Al che l'ufficiale, non trovando argomenti di accusa, ripeteva a tutti la domanda d'uso: - Se vi lasciamo liberi, dove volete andare?
- Oh, sior lu - dicevano i più - mi tornaria a me casa, ma se no se poi, parché l'e massa vizina, su de chi gavaria dei parenti, a Bosentin, a Matarelo, a Vigolo (qualcuno perfino a Innsbruck). Ecco, 'ndarìa in su.
- Bene, diceva l'ufficiale, mettetevi a sinistra. Fra gli arrestati c'era anche un paesano, uomo navigato che aveva girato l'Italia per i suoi commerci di ambulante, e aveva capito come suonava la musica. Alla domanda del militare: dove andate voi?, egli replicò: - Signor generale, mi son da Castelnovo e possiedo qualche campo. Se il governo compera la mia piccola proprietà, io vengo in Italia, torno in Toscana, a Firenze; là sul Lungarno torno a esporre i miei quadri e le mie cartoline, a illustrare quanto è bella la nostra Italia.
- Anca mi, anca mi - disse subito un vicino uscendo all'improvviso dal gruppo, e agitando in avanti la mano - anca mi come me compare, sior generale.
- Bene, soggiunse il giudice, voi mettetevi di qua, a destra. E tornate a casa vostra (rivolto ai due), perché la patria si fida di voi; gli altri siano ricondotti in prigione: per essi gli interrogatori continuano.

CLAUDIO DENICOLO'
da "Voci Amiche", Settembre 1977

       


Il fonte battesimale compie 400 anni

Le origini della nostra chiesa parrocchiale si identificano con quelle del paese stesso, e vanno datate dopo il 1385. Ma la cappella originaria fu costruita come filiale della chiesa plebana del Borgo, alla quale soltanto spettava la prerogativa di avere il fonte battesimale.

Le funzioni nella chiesetta di san Leonardo venivano celebrate da curati, chiamati rettori, dei quali è possibile ricostruire una serie abbastanza tardiva: Marco della Bella di Telve (1465 -1480), Rodolfo Butini (1480-1508?), Simone di Castellalto di Telve (1508 - 1516), Odorico Costede di Trento (1517? - 1528), Lodovico Balzani (1528 -..), Domenico de Premion (1531...), Giovanni Cavalieri di Trento (1554 - 1567), Nicolò Floriani di Villa Lagarina (1567-1582).

Fu appunto in seguito alla richiesta fatta dal curato N. Floriani che il 24 aprile 1577, cioè quattrocento anni fa, venne concesso anche alla chiesa di san Leonardo il fonte battesimale. Ne è fede la data, in cifre romane, incise sullo zoccolo del fonte, anche se essa indica propriamente l'anno in cui fu realizzata l'opera: MDLXXVI (1576).
Si può considerare il 1577 come l'inizio effettivo della storia della parrocchia di Castelnovo, costituentesi in maniera autonoma da quella del Borgo, dotata di un proprio battistero e con pievani che risiedevano stabilmente in paese. La chiesa matrice del Borgo conservò però alcune prerogative che furono osservate per parecchi secoli . Così i parroci delle chiese filiali (ancor prima di Castelnovo si erano staccate Roncegno e Telve) avevano l'obbligo di presentarsi o di mandare un sacerdote delegato nella chiesa madre, per ricevere l'olio consacrato la mattina del Sabato santo, ed assistere alla funzione; inoltre i parroci di Castelnovo e Telve dovevano intervenire alle funzioni della chiesa del Borgo anche alla vigilia di Penntecoste nella solennità della Natività di Maria Santissima (alla quale è dedicata la chiesa arcipretale). Il parroco del Borgo invece, aveva il diritto di presiede ai funerali dei parroci delle filiali, e celebrava la Messa cantata nel giorno del Patrono, ma quest'ultima osservanza fu presto abbandonata per Castelnovo.

Dopo il 1582 vi furono, nel nostro paese, i seguenti parroci: Dietrico Minati di Grigno (1582 -1621), Francesco Poppi dal Borgo (1621 - 1667), Giacomo Antonio Cibbini di Telve (1668-1707), Cristoforo Bortolotti di Volano (1708 - 1748), Benedetto Gelmo dal Borgo (1749 - 1756), Bartolomeo Fedele dal Borgo (1757-1770), Pietro Minatti di Grigno (1771 - 1787), Stefano Angeli di Cloz (1788 - 1802), Giuseppe Vettorelli di Strigno (1802 -1811), Matteo Bononi di Pinzolo (1811-1834), Pietro Confalonieri di Riva (1835 - 1840), Giovanni Maria Granello di Pieve Tesino (1841 - 1847), Giovanni Battista Dorigato di Castello Tesino (1847-1866), Francesco Candotti di Trento (1866-1878), Ernesto Egger di Fiera di Primiero (1879 - 1884), Carlo Hellweger di Cavalese (1885 - 1887), Domenico Martinelli di Calceranica (1887 - 1892), Angelo Martinelli di Calceranica (1893 - 1911), Giovanni Battista Malfatti di Lizzanella (1911 - 1934), Tullio Bortolini di Centa (1934 - 1956), Giuseppe Smaniotto dal Borgo (1956 - 1963), Mario Toniatti di Montagnaga di Pinè (1964 - 1975), Luigi Dalprà di Nosellari di Folgaria (dal 1975).

da "Voci Amiche", Luglio 1977

       


I dieci Comandamenti

Per documentazione, riportiamo la descrizione de "I dieci comandamenti di Castelnovo" firmata da Giuseppe Gerola, e pubblicata ne "Il nuovo Trentino" martedì 3 maggio 1921.

Quella che in questi ultimi anni era la sacrestia della parrocchiale di Castelnovo, in origine invece altro non era che la campata absidale della cappella primitiva: un piccolo vano rettangolare, orientato, ma privo della sporgenza semicircolare, coperto di volta gotica a crociera con bei costoloni, e munito di due finestrine archiacute, fra le quali doveva erigersi il vecchio altare. Il piccolo loculo aggiunto a settentrione corrisponde a sua volta all'antica sacrestia.

Mentre la mancanza del giro absidale non ci consente di rimontare - nella datazione della chiesa - molto addietro nei secoli, lo stile architettonico, mantenuto nella sobria parsimonia del gotico primitivo, più che indice di arcaismo ci sembra prodotto di rustica semplicità: per cui saremmo tentati di assegnare la chiesa alla fine del Quattrocento. In quell'epoca stessa l'ingenua mano di un artista nostrano, che amava trattare pittura come la silografia, a soli contorni con delicate compiture di tinte unite, ravvisava le pareti con quegli affreschi che ora la paziente opera del parroco don Malfatti va rimettendo alla luce: solenni figure di evangelisti nella volta e gustosissime scene della vita di S. Leonardo sulle pareti, con rispettivi castighi dichiarativi.
Nel ripristinare l'arcata originale che immetteva in quella chiesetta, fu scoperto l'intonaco della spallatura di sinistra e, vergata in bei caratteri gotici di diligente fattura, emerse la seguente epigrafe:

Li diese comandamenti

Uno solo Dio tu debi adorare -
El suo santo nome vanamente non nominare -
Le feste comandate debi santificare -
El tuo padre e la madre honorare -
Homicidio guarda de non fare -
La roba de altri non furare -
In nessun modo non fornicare -
Falsa testimonianza non dare -
La roba de altri non desiderare -
La moiere del tuo proximo non cercare.

Ai dieci comandamenti del lato sinistro, corrispondevano forse i sette precetti nel fianco destro, non ancora rimesso in vista. Il breve testo, compilato a guisa di filastrocca, è interessante per noi (a parte lo spostamento, giustamente spiegabile del resto, dell'ultimo comandamento), anche per la forma linguistica in cui è dettato.
I documenti volgari del nostro Trentino dal secolo XIV in poi non sono certo rari. Un primo elenco ne ha offerto Carlo Battisti nell'Archivio trentino del 1904, discutendone al tempo medesimo il valore glottologico. Desiderio Reich lo ha completato nell'annata 1912 dello stesso periodico. E nuovi testi ha dato alle stampe Carlo Teodoro Postingher negli Atti dell'Accademia degli Agiati dell'anno seguente.
Ma in genere i nostri studiosi hanno forse peccato di esagerazione nel considerare quei documenti come testimonianza dei veri dialetti locali, mentre la maggior parte delle volte altro dessi non sono che manifestazioni di quella lingua aulica veneziana che stava allora per così dire di mezzo, letteralmente parlando, fra il latino e il vernacolo. Prima che il dialetto fiorentino, per merito soprattutto dei grandi poeti e prosatori toscani del trecento, si affermasse come lingua letteraria italiana, nessun altro volgare era ammesso nell'uso scritto fra noi all'infuori di quella lingua veneta la quale teneva incontrastato il campo delle cancellerie curiali del dominio della Serenissima, dalla Lombardia fino alle Romagne, dalle Alpi ai lontani possedimenti d'Oltremare.
Ce presso le popolazioni rozze e ignoranti di allora una tale lingua, fluttuante essa stessa nell'uso, abbandonata all'arbitrio del volgo, e tanto simile d'altra parte ai singoli vernacoli della regione veneta, potesse trasformarsi nell'uso comune fino ad accogliere in notevole abbondanza vocaboli, frasi, desinenze e costruzioni tutte proprie dei dialetti strettamente locali, è cosa troppo ovvia ad immaginarsi, quando si pensi che lo stesso fenomeno di intrusione di termini vernacoli avveniva pure di fronte al latino, il quale continuava ad essere governato da leggi grammaticali generalmente studiate.
A misura della maggiore o minore immistione degli elementi indigeni nel paese, tale lingua accentuava più o meno il suo carattere vernacolo:

ma il substratum era pur sempre costituito da quel parlare veneto, al quale soltanto consideravasi autorizzato a ricorrere per la scrittura, chi non avesse voluto usare della lingua latina.
Chi rilegga i più vecchi fra i nostri testi vernacoli veri e propri, che pur non risalgono più indietro del Settecento, come i componimenti di Giuseppe Felice Givanni, di lacopo Turrati o di Carlo Sieli, si meraviglierà a riscontrare un abisso fra quel dialetto ed il nostro parlare d'oggigiorno, sia veneto sia toscano. E come è ragionevole credere che un tale divario fosse ben più accentuato ancora nei secoli più remoti, laddove viceversa tutti quei vecchi componimenti non si distaccavano gran fatto dagli altri testi coevi delle regioni finitime, è d'uopo ammettere che i pretesi saggi dell'antico vernacolo trentino altro non siano il più delle volte che semplici prodotti del consueto volgare veneziano, più o meno inquinato da idiotismi locali, attraverso ai quali solo per faticoso processo di studio è lecito ricostruire - e solo in parte - l'eloquio dei nostri proavi.

Dalla raccolta di Don Armando Costa
In "Voci Amiche", Sett. 1983

       


I centosei anni di Maria Denicolò

Grande festa la vigilia di ferragosto presso la casa di riposo di Borgo per il compleanno di Maria Denicolò. Un compleanno eccezionale e di tutto rispetto, che probabilmente non teme "rivali" nel nostro Trentino: 106 anni Maria è nata infatti nel lontano 14 agosto del 1887 a Castelnuovo, ma in Valsugana non ha familiari, anche perché lei rimase nubile. Con i genitori espatriò per il Brasile quando aveva pochi mesi di vita e vi rimase fino a 15 anni lavorando già nella coltivazione del caffè e del tabacco.

Fece poi ritorno in Italia, ma per ri-espatriare in alcuni paesi d'Europa: Germania, Svizzera ed altri ancora. Maria era figlia maggiore di una famiglia numerosa e anche per questo dovette lavorare fin dalla sua prima infanzia e contribuire al sostentamento dei familiari. Per lunghi anni visse a fianco dell'ultimo fratello, che morì a Castelnuovo quando lei aveva già varcato la soglia dei cento anni. Poco dopo Maria Denicolò entrò nella casa di riposo di Borgo. Era esattamente il 2settembre1987. Il carattere dolce, il suo essere sempre paziente e serena hanno fatto di Maria D. il simbolo della nonnina di tutto l'istituto. In sei anni di permanenza Maria ha fatto le confidenze della sua vita a tutto il personale che le sta a fianco. Per il giorno del suo compleanno nel parco antistante l'ospizio, i parenti, il presidente Giuseppe Nicoletti, la direttrice Mariella Galvan con tutto il personale dipendente, gli ospiti, gente di Borgo e di Castelnuovo, hanno organizzato una grande festa in onore di Maria per solennizzare questo suo eccezionale traguardo. Brindisi augurali, specialità gastronomiche e musica hanno fatto da cornice alla lieta ricorrenza.

(da "L'Adige")
In "Voci Amiche" di Agosto - Settembre 1993

       


La miniera di Civeron

Monte Civeron, m. 1034. Malga Civeron si trova invece a una altitudine che varia fra gli 850 e 870 metri.

Questa bella località, che fa parte del comune di Castelnovo, a ponente viene delimitata dalla Val Prosiglia, a levante giunge alla Coalba.

Alla Coalba c'è la miniera di carbon fossile (qualità lignite), da molti anni però inattiva.

Il periodo di sfruttamento di questa miniera va dal 1916 a tre anni circa dopo la prima guerra mondiale. Le entrate alla miniera erano due, così contrassegnate: la n. 5 e la n 7.

Nel 1918, subito dopo la fine della guerra, a Civeron lavoravano 300 prigionieri tedeschi, naturalmente con maestranze e capi italiani, accantonati nei baraccamenti che in precedenza erano serviti alle truppe per il fronte dell'Ortigara.

Il trasporto del carbone veniva fatto per mezzo di una teleferica che partiva dalla Coalba e giungeva sul principio di malga Civeron dove aveva l'impianto motore. Qui c'era una stazione teleferica. Il carbone veniva trasbordato su un altro tronco che lungo il fianco del monte scendeva alla Belisenga.
Da detta stazione un altro tronco saliva a val Caldiera; esso, giunto nei roccioni sottostanti lo Stol del Prete, faceva capo in una baracca dove c'erano i motori; da qui altre minori teleferiche raggiungevano, per i rifornimenti, più alte quote. Naturalmente, l'impianto che dalla stazione saliva, dopo il 1918 era rimasto completamente abbandonato.
Stando nei pressi di Olle si vedeva il percorso segnato dai tralicci specie nel prato di Santin e ricordo si udiva molto bene il metallico " cran cran " delle carrucole al loro passaggio sui ganci di sostegno ai cavi portanti.
Giunto alla base, il carbone veniva scaricato dai cassoncini nei carrelli.
Alla Belisenga lavoravano 200 prigionieri fra ungheresi e slavi. Il grande impianto motore (che funzionava a benzina) era comandato dal capo meccanico, un ungherese di nome Walter Alcuni metri più a valle dell'impianto motore c'era una costruzione in cemento armato alta 7 metri, per metà sopra il livello del terreno e per metà sotto (ancora a tutt'oggi intatta).
Lì dall'alto, entravano i due grossi cavi portanti tenuti tesi all'interno da due piombi del peso di 200 quintali l'uno. Anche qui gli uomini erano accantonati in baracche. Due grandi tunnel nel monte servivano per deposito materiali e munizioni. Sull'argine destro del torrente Fumola c'era un grande cantiere dove lavoravano falegnami, fabbri e l'arrotino, con attrezzature che funzionavano a forza d'acqua.
Da questa base, lungo l'argine scendeva un doppio binario con un rettilineo di 420 metri fino al ponte del Fumola.
Otto carrelli carichi per volta scendevano e otto vuoti salivano, azionati da un cavo a congegno motore. Al ponte, i carrelli, due a due, venivano presi in consegna dagli uomini; poi, seguendo prima via Pozzi, attraversavano Olle e scendevano verso Borgo prendendo in ultimo tratto via dietro le Mura. Prima del ponte della ferrovia della Valsugana, sulla sinistra, i carrelli passavano su una pensilina e da lì venivano scaricati direttamente nei vagoni merci. I carrelli vuoti venivano poi trainati al punto di partenza da muli.

Ricordo qui un fatto.
Erano gli ultimi giorni del mese di marzo 1920 e nelle campagne era cominciato il lavoro. In un vigneto della località fra il paese e il Fumola mio padre stava potando. Io allora avevo 9 anni, mio fratello minore 7. Stavamo giocando sul limite del campo quando il padre ci ordinò di andare a prendere una bottiglia d'acqua.

A pochi minuti di strada c'erano due case, in una, quella di sotto (casa Tomio), prendemmo l'acqua e ritornammo in strada. Nel frattempo erano giunti due carrelli e stavano lì frenati. I due uomini erano entrati nell'altra casa, nella quale la padrona, signorina Giuseppina Giacometti, aveva negozio con vendita anche di fiaschi di vino.
Visti incustoditi i carrelli, noi prontamente saltammo sul predellino e assieme impugnammo la traversina del freno. La strada era in pendenza; i carrelli partirono subito. Fatti diversi metri io saltai a terra e gridai a mio fratello: "Scendi, scendi!
Ma lui, imperterrito, allentò il freno al completo. Ora la pendenza si faceva più accentuata, la velocità aumentava. I carrelli entrarono fra le prime case del paese a pazza corsa. Io non li vedevo più e misi a correre.
All'altezza di casa Bocher (oggi casa Faoro) dove la pendenza finiva, il binario faceva una mezza curva a sinistra. I carrelli, a quel punto, come due bolidi deragliarono a destra con un fragore di ferraglia. Tutte e quattro le ruote di destra, abbattendosi sul grossolano selciato, si frantumarono.
Pezzi di ghisa e frammiste le lucide sfere dei mozzi erano cosparse a distanza sulla strada.
Mo fratello rimase aggrappato alla traversina del freno fino a quando tutto fu fermo.
Il ribaltamento fu evitato dal basso paraurti che i carrelli avevano tutt'intorno. In quel caso, l'occupante sarebbe stato scaraventato come un fuscello contro l'alto muro che allora separava la strada dall'orto della canonica.
Mio fratello mi venne vicino muto e pallido, ma sano. Non scappammo; assieme ad altra gente, accorsa, guardavamo il malanno da noi combinato. Ben presto giunsero di corsa gli addetti ai carrelli. Erano due giovani prigionieri ungheresi sui 24-25 anni, certi Falker e Kalapaci che io un po' conoscevo.
La preoccupazione scomparve subito dai loro Volti quando videro che non era successa nessuna disgrazia. Difatti, se qualche persona fosse stata travolta, per loro sarebbero stati guai certo peggiori che per noi ragazzi, per aver lasciato i carrelli incustoditi. Senza per nulla imprecare, si misero a sgomberare la strada Parlavano fra di loro e ogni tanto ridevano. Non si capiva, ma dal loro atteggiamento forse si saranno augurati che si polverizzasse tutto: carrelli, rotaie e carbone, perché la guerra era finita già da un anno e mezzo e loro erano ancora obbligati a un duro lavoro e senza profitto, lontani dalla famiglia e dalla Patria.

Da "Voci Amiche", Febbraio, Marzo e Giugno - Luglio 1969
CAMILLO ANDRIOLLO

       


CASTELNOVO
Dalle "memorie" di don Malfatti

Memorie riassuntive dal dì 11 febbraio 1919 al dì....

In merito alla foto che nell'ultimo numero presentava la nostra chiesa ridotta piuttosto male dopo lo scoppio di una granata all'interno durante la guerra 1914-18, crediamo di fare cosa utile e interessante pubblicare le memorie di don Giovanni Battista Malfatti parroco di Castelnuovo dal 1911 al 1934 ritiratosi poi dalla cura d'anime per malattia. Ecco come inizia:

Partito il giorno 8 febbraio 1919 alle Otto antimeridiane da NEUTILSCHEIN in Moravia assieme a quei profughi e a due sorelle, giunsi a Borgo il dì 11 alle 10 pomeridiane. Il viaggio fatto in treno merci fu alquanto molesto. Se si chiudeva la sbarra del vagone (carrozzone), diveniva buio pesto: se si apriva un po' per leggere il breviario o accudire alle faccende di cucinatura, entrava un'aria frizzante che gelava.
Eravamo disposti in 18-20 per vagone. Quando il treno si fermava o si rimetteva in moto, i vagoni subivano violente scosse che facevano cadere gli utensili di cucina e anche gl'incauti e i deboli. All'appressarsi dell'incomodo fenomeno ci si avvertiva l'un l'altro e si provvedeva alla sicurezza dei vecchi e dei bambini.
La notte si trascorreva sonnecchiando su sacchi o indumenti, o vegliando attorno al fornelletto. Fu difatti fornito di piccolo fornello-focolare di ferro ciascun vagone, e il carbone fu dai profughi raccolto per le stazioni di passaggio con permesso dell'Autorità. La maggior parte del carbone giunse a domicilio dei profughi. Lungo il percorso fummo serviti di cibo due volte al giorno: a Lundenburgo, Vienna, Linz, Salisburgo, lnnsbruck ecc.. A Lundenburgo furono pure distribuiti dal Comando militare italiano 2-3 pacchi di commestibili per ogni famiglia (pacchi diretti a prigionieri italiani rimpatriati) e 40 capi di biancheria, i quali ultimi però rimasero in stazione perché il treno, per un malinteso, ci portò via prima che il sacco di quegli oggetti ci venisse recapitato. Però, fattone rapporto a Innsbruck, vi fummo largamente compensati. Lungo il viaggio fummo allacciati ai profughi - di mia spettanza - di Usetin e Bansach, nonché ad altri di altre plaghe fino a formare un convoglio di 1100 passeggeri. Però prima di tentare il Brennero, ne furono staccati circa 500, che proseguirono il dì seguente.

A Innsbruck ebbe luogo un visita medica, in seguito alla quale 7-8 profughi furono fermati perché troppo deboli a proseguire il viaggio e trasportati ad tempus all'ospedale. Durante il viaggio fui chiamato una sola volta al letto (o alla seggiola) d'un ammalato che però poco appresso si riebbe.
Le autorità e le persone di servizio ferroviario sia czeche che tedesche furono corrette. Il popolo slavo appariva contento per la ottenuta libertà e indipendenza; i tedeschi sembravano adattarsi rassegnati e quasi trasognati alla sorte. Le autorità italiane, manco a dirlo, furono cordiali e premurose. Tutti i profughi portavano la coccarda tricolore, e dal finestrino cieco di un vagone sventolava una bandiera italiana. A Trento lasciai tutti i profughi affidati alla mia cura e proseguii con le mie sorelle il viaggio per Borgo. Notizie giunte da fuori facevano intravedere un arrivo gradito: paesi racconciati, quartieri ammobiliati dalla carità dei fratelli, biancheria e utensili a sufficienza, servizio viveri organizzato, lavoro pronto, prezzi onesti. Io rincuoravo i profughi e li animavo a bene sperare. Perché la stampa ci avrebbe ingannati? Così fu tanto più umiliante la delusione quando si dovette constatare che dopo tre mesi e mezzo dall'armistizio ogni cosa era ancora in disordine: case pericolanti, abitazioni deserte, scarsezza di manodopera, di attrezzi, di materiale; Le cause di ciò possono ridursi a due: a) l'inaspettata vittoria dell'intesa sulle potenze centrali, la quale vittoria si attendeva per la prossima primavera e trovò i vincitori impreparati ai pronti provvedimenti per le terre redente; b) il carattere degli italiani, comune alle altre razze latine, largo e generoso nell'aiutare gli oppressi, ma deficiente nel coordinare e disciplinare i mezzi di assistenza in un lavoro organicamente progressivo: una macchina a vapore che si spinge nello spazio senza il correttivo delle rotaie.

Dormii la notte Il - 12 febbraio in una baracca a mattina di Borgo: due coperte, un giaciglio di poca paglia trita, e freddo intenso che rubò il conforto del sonno dopo sì lungo e disagiato viaggio. Celebrai a Borgo dove m'incontrai lietamente col signor arciprete don Luigi Schmid e i due cooperatori don Cesare Refatti e don Giuseppe Marcabruni.

Nella mattinata giunsi colle due sorelle Antonia (cuoca) e Maria a Castelnovo, e pensavo a quella memorabile notte 16-17 giugno 1915 che mi aveva visto partire da Casteinovo colla sig.na Anna Maccani e colla maestra Delai sotto scorta militare (un guida pattuglie austriaco - trentino Umberto Zampiccoli e due soldati germanici) per accusa di alto tradimento.
Trovai la canonica occupata. Tutto il quartiere a sera era abitato dagli ufficiali italiani - n. 5 - che vi tenevano anche la mensa, (camera sud-ovest) e da due soldati (cuoco e cameriere), Il mio studio sud-est era convertito in un magazzino d'armi e in dispensa. Il locale attiguo allo studio albergava 4-5 operai forestieri; l'altro locale ospitava la famigliola di Angelo Lorenzin: sposi e due figliolini Silvio e Antonietta.
Dapprima il sig. tenente capo era disposto a cedermi due stanze; ma più tardi, animato anche dalla remissività del preposto comunale (sindaco Sig. Arturo Longo, ottima persona ma alquanto timido di fronte all'autorità militare) me le rifiutò, ond'io dovetti presentarmi in giornata al sig. regio commissario civile Barbieri del Borgo, il quale subito telefonò a non so qual colonnello e n'ebbe risposta che si sarebbe tosto ordinato al sig. tenente capo di sgomberare due locali per mio uso. Così, dopo aver passata la notte 12-13 colle sorelle in casa Longo (sorelle fu Ernestina e viv. Fany) potei insediarmi nei due locali attigui alla cucina (ex archivio e camera cuoca).
I primi giorni furono noiosi: così noiosi e deprimenti, ch'io pensavo già di far pratiche per un'altra cura. La canonica ridotta a due locali affumicati, malamente riparati in stagione ancora cruda; da finestre-maschere, parte a vetri, parte a lamine metalliche o cartone, inchiodate al solaio, i pavimenti tarlati, smossi e pregni di mille umori, il cesso pressoché inadoperabile per le porcherie e le esalazioni, il pensiero del prossimo arrivo d'una sorella vecchia e impotente (Caterina), la mancanza assoluta di arredi sacri colla conseguente necessità di portarsi ogni giorno al Borgo per celebrarvi, la desolazione dei fabbricati, lo squallore della chiesa, tutto permeava sul cuore e portava tristezza. Ma dopo due settimane, in seguito anche alle parole non amorose ma categoriche del Vescovo da me interpellato deposi ogni pensiero di partenza e ne fui contento, perché oggi 27 marzo mi sono già, dirò così, ritrovato e ho ripreso la mia calma. Ho celebrato al Borgo dal 12 febbraio all'8 Marzo e dal 10 marzo al 15 detto. La domenica del 9 e dalla domenica 16 marzo in poi potei celebrare regolarmente nella mia chiesa.

Siccome sopra l'altar maggiore s'apriva nell'avvolto un foro di circa 90 cm di diametro, e gli altari laterali spogli di tutto e lesionati, non si prestavano alla celebrazione della Messa, scelsi l'altare della cappella del S. Rosario, privo bensì come gli altri, della pietra sacra ma in buono stato e più protetto contro le infiltrazioni pluviali.

La canonica, al mio arrivo, presentava due lesioni prodotte da granate: abbattuto per un metro di ampiezza l'angolo sud-ovest all'altezza della finestra di soffitta, e sfondato il muro est in egual dimensione con lesione della travatura del tetto tra la prima e la seconda finestra di soffitta (partendo dalla chiesa). Furono pure demoliti il soffitto e il pavimento dello studio. Finestre e usci asportati e sostituiti da telai e talvolta posticci e sconnessi.

Potei più tardi occupare i due avvolti a nord. Gli altri - i migliori - furono adattati ad abitazione di profughi: Troian e ved. Maddalena Brendolise.
Anche la soffitta fu convertita in quartiere per profughi: tre famiglie si sono già alloggiate, e rimane spazio per altre tre. Questo agglomerato in canonica ha reso necessario un cesso esterno (dietro la canonica) e una scala pure esterna che porta direttamente in soffitta. i lavori relativi vanno a passo di lumaca e a sbalzi. Forse si attende, per il loro compimento un epidemia o un infortunio.
In che stato ho trovato la chiesa? È in piedi. Le bombe o granate l'hanno forata sopra l'alta maggiore, in sagrestia attraverso l'inferriata della finestra maggiore, nel muro della navata a est dove s'appoggia il trave maestro che sostiene la loggia dell'organo, nel muro a ovest sotto la prima finestra. Due bombe sono pur scoppiate sopra la sagrestia e altre due contro la parete est del presbiterio. Il campanile fu pure colpito a nord a mezza altezza, ma non mosse e non batté palpebra. Il tetto incombente all'abside conservò la sola travatura, da cui piove liberamente. I muri dell'abside sono assai deperiti e segnano larghe crepe. Il paese, tolta la canonica, che servì sempre qual sede del Comando militare, e le ultime case a ovest, tutto scoperchiato, non già dalle bombe ma dal lavoro quotidiano delle truppe austriache le quali dopo l'avanzata del maggio del 191 levarono dalle case tutto il legname (travature, soffitte, pavimenti, telai, imposte, usci ecc.) per far trincee e per cucina.
I mobili e la biancheria ecc. tutto fu asportato o per uso di trincea o per famiglie di soldati. Il paese fu vuotato. Anche i borghesi forestieri, a quanto si afferma, hanno asportato molti rivo oggetti: da Levico, da Pergine, perfino dai a in Mocheni val di Fersina).


Da "Voci Amiche", Febbraio, Aprile, Maggio, Giugno 1988

       


Rievocazione quasi totale della sommossa del '28 a Castelnovo

Nel clima di " dialogo " o -- per prendere a prestito un termine meteorologico -- di " disgelo ", instaurato nel mondo dal Concilio Vaticano e dal buon senso degli uomini politici del nostro tempo, può forse stonare il ricordo di antiche contese e di lotto paesane all'ombra del campanile; nel qual caso il temino che sto svolgendo si dovrebbe seppellire nel profondo di una fossa fra le cose tristi da rievocare mai più.

Va però osservato come sia poco stimato - per i tempi che corrono -- il mestiere del becchino, onde rinuncio al dialogo, rinvio il disgelo alla prossima primavera e mi accingo a narrare, su queste pagine, la epica resistenza del popolo di Castelnovo alla provocazione del Borgo.

Correva l'anno di grazia 1928. Anno di grazia . . . si fa per dire. Da tempo ormai il territorio del Trentino era parte della nostra bella Italia e col nuovo calendario si viveva il sesto anno dalla marcia fascista, sotto la conduzione dei duce Mussolini.

Fu appunto il conducente e qualche membro di governo a disporre che, nel quadro della riforma amministrativa degli enti locali. i comuni più piccoli fossero associati a quelli maggiori. Per la bassa Valsugana, poi l'imbarazzo della scelta tra Borgo e Castelnovo come comune capo1uogo si addivenne a un compromesso proponendo il primo quale capoluogo della valle e come Podestà un cittadino di Castelnovo.

In considerazione di quanto esposto, urgeva accentrare nel comune di Borgo tutte le attività amministrative, che prima si espletavano presso i Municipi locali; ancora, i nati del paesi venivano registrati come abitanti del Borgo e i mobili e gli arredi degli uffici locali venivano traslocati nel capoluogo del mandamento.

A questo punto preme informare 1'ignaro lettore che la Parrocchia di Castelnovo possedeva da lungo tempo un apparato di pregevole fattura e di notevole valore. Si apprezzava soprattutto il massiccio piviale, lavorato a mano, con fili d'oro e di seta, vanto e orgoglio di tutto il paese.

La sua origine era sconosciuta, solo si credeva, per quanto era dato sapere che esso tosse stato preda bellica dei soldati francesi al seguito di Napoleone, durante la campagna d'Italia. Alcuni possidenti del paese, al passaggio dell'esercito napoleonico l'avrebbero acquistato, facendone poi dono alla chiesa parrocchiale e fin d'allora sarebbe stato usato nelle occasioni solenni, talché era consuetudine era consuetudine fra il popolo recarsi in chiesa per ammirare il celebrante, rivestito del piviale.

Per la rimanente parte dell' anno, il raro pezzo era custodito al riparo dall'umidità e dalle mire furtive di non pochi bricconi, in un armadio di legno, all'interno del Municipio.

Ora accadde che gli incaricati di Borgo provvedessero, nell'estate del 28, a svuotare il Municipio di quanto si trovava all'interno di esso. E noti parve vero ai dirigenti d'oltre Ceggio di profittare dell'occasione per trasferire colà il prezioso piviale, e in gran segreto studiarono il piano.

Ma era nella aria puzzo d'inganno, e la gente di Castelnovo girava vigile per le strade in attesa di eventi. Già dei volontari s'erano costituiti in pattuglie e andavano di ronda nelle ore della notte, per sventare per tempo ogni assalto imprevisto.

Ed ecco in quel di Borgo un certo D. P. sellare il suo destriero e avviarsi bel bello lungo la statale che porta a Primolano. Era suo proposito soddisfare alla consegna del comune di residenza: scendere a Castelnovo per ritirare col carro un carico in Municipio.
La strada -- si sa -- sale un po' erta fino al torrente e poi corre giù, facile e diritta, fra campi da una parte e prati dall'altra.
Quand'ecco d'improvviso, che mano ignota scioglieva le campane e i batacchi rimbalzavano di qua e di là entro i bronzi a briglie sciolte.
Campana - martello, pericolo imminente e la gente rientrava di gran fretta dalle campagne e dalle fratte con falci, forconi, rastrelli e corpi d'offesa d'ogni genere.
" Quale accoglienza -. pensava l'ingenuo D.P. - per un cittadino del capoluogo che si reca in provincia " e allacciatosi il giubbotto sopra la camicia, faceva ingresso nella piazza del paese.
Sceso dal carro, parcheggiava il veicolo sul lato della fontana e saliva sicuro le scale dl Municipio.
Ma la piazza si andava colmando di contadini urlanti. Il povero D. P. non tardava a capire che la faccenda era seria e lesto si ritirava a fianco della sua cavalcatura. Era nei paraggi un paesano robusto, invalido di guerra ormai da undici anni. " Torna indietro ", ordinava al conducente e afferrate le redini spingeva il cavallo sull'orlo di un fosso; qui con il braccio ancora sano ribaltava il veicolo giù per la rampa.
Nel frattempo le donne del paese sottraevano il piviale dal solito riparo e come prima sistemazione, correndo sù per i " broli ", lo appendevano in una cantina tra alcuni salami e le botti del vino.
L'annuncio della sommossa giungeva celermente al comando di Borgo, dal qua1e partivano un gruppo di militi e il commissario in testa.
Questi arrivato a Castelnovo, chiedeva che fosse sgomberata la gradinata del Municipio e rivolto ai paesani, cercava di rabbonirli come meglio gli riusciva.
Non è giunto allo storico il resoconto stenografico del celebre discorso, comunque si sa, per conferma di testimoni che il commissario si esprimeva all'incirca così: " Cittadini di Castelnovo. tornate alle vostre case! Vi posso garantire che e è nostra intenzione prelevare il piviale solo per allogarlo in luogo più sicuro. e anche più confacente al suo valore storico e artistico. Il piviale resta vostro e nessuno ve lo toglie. Tornate alle vostre occupazioni e abbiate fiducia in me ".
Sulla porta del Municipio s'era puntata una piccola donna dallo scioglilinguaggiolo facile, chiamava " Taresota ", la quale, brandendo un grosso roncone sopra la testa, minacciava seri guai chiunque avesse osato oltrepassare la soglia. E il fratello di lei tale Tita Pierin, ascoltato il discorso del commissario, replicava: " el parla ben lu sior, ma da noe ghe 'n proverbio che el dir: "quando el bò l'è fora de stala coreghe drio " . . . ". Aveva un bel daffare lo zelante milite per far capire ai paesani le sue ragioni; finché, visti inutili i tentativi di pacificazione, dava ordine al suo seguito di risalire sugli automezzi e di rientrare in caserma.
Verso sera compariva sul ponte del Ceggio anche il povero D. P. Montava avvilito sul bordo del carro; il malconcio ronzino tirava il tutto, guadagnando a poco a poco la porta della stalla.

HISTORICUS
Da "Voci Amiche", Genn. 1970

       


La festa di santa Margherita

Si tratta di S. Margherita, originaria di Antiochia, martirizzata verso la fine del secolo III, durante la persecuzione di Diocleziano. La sua festa cade il 20 luglio, ma la celebrazione solenne viene trasportata alla domenica seguente. Quest'anno ebbe una riuscita particolarmente festosa per l'accurata preparazione del coro e per la presenza del Decano del Borgo.
Ecco il giudizio, di uno fra i tanti presenti alla festa.
"I nostri antenati erano certo meno sofisticati, certuni direbbero più rozzi di noi. Avevano però uno spiccato, innato senso della bellezza della natura e del paesaggio e sapevano trovare e scegliere i posti migliori e più suggestivi per costruire chiese o cappelle, allo scopo di onorare Dio, esprimere la loro devozione alla Madonna o a qualche Santo e testimoniare in tal modo la loro fede semplice ma profonda.

La pittoresca chiesetta di S Margherita è un esempio quanto mai pertinente e illuminante di questa equilibrata compenetrazione di religiosità e apprezzamento del bello. Costruita prima del 1270 su un verde declivo del Civerone, secondo i dettami della tradizionale edilizia chiesastica valsuganese - tetto a ripidi spioventi - conserva intatto - grazie ai lavori di restauro eseguiti alcuni anni fa - l'armonioso e snello protiro rinascimentale e meno intatti, purtroppo, ma ancora meravigliosamente vivi gli affreschi cinquecenteschi di Lorenzo Naurizio. Una stupenda visione della valle e dei monti che la circondano si offre a chi si affaccia al muretto che delimita la spianata su cui sorge la chiesa. Ai suoi piedi pare sorgesse Castelnovo prima che i Vicentini lo distrussero, costringendo i superstiti a ricostruire il loro paese sulla riva sinistra della Brenta. Alla chiesetta, che era una volta affidata alla custodia di un eremita, gli abitanti di Castelnovo sono rimasti sempre molto affezionati.
Anche quest'anno essi sono saliti in gran numero nel giorno di domenica 23 luglio, a celebrare la festa della Santa. A chi ha partecipato alla Messa è sembrato che uno spirito nuovo li animava. Spirito nuovo tradotto in un atteggiamento di seria partecipazione al rito e riflesso in un'atmosfera di ansia di rinnovamento ancorato alle tradizioni dei loro padri. Un atteggiamento che corrisponde perfettamente a ciò che il Decano del Borgo esponeva nella sua omelia a proposito del momento che attraversa la Chiesa tra le tendenze di chi la vuole progressista a oltranza e di chi la vuole ferma e immobile, dimenticando che il vecchio e il nuovo non sono che fasi temporanee e transeunti della faticosa e procellosa navigazione della navicella di Pietro. Essa infatti punta verso rive che non sono di questo mondo. Chi non è pronto a seguire tale rotta corre il tremendo rischio di smarrire la retta via e trovarsi solo, se non addirittura di fare naufragio ".

T. G.
Da "Voci Amiche", Marzo 1972

       


La sagra di S. Margherita del 1923

Da un ritaglio di giornale dell'epoca, riportiamo la descrizione della sagra di S. Margherita del 1923.

La chiesetta di S. Margherita, la vetusta curaziale situata su d'un poggio alla destra del Brenta, fu sempre tenuta in grande venerazione dal popolo divoto che vi accorreva fiducioso in occasione di pubbliche calamità e ogni anno nella domenica seguente alla festa dell'antica titolare saliva in massa per prostrarsi riverente davanti al simulacro della santa e chiederne protezione e conforto. Ma la guerra vi aveva lasciate tracce terribili del suo passaggio. Distrutti o asportati i mobili, abbattuto in gran parte l'altare, demolito il tetto, non restavano che le nude pareti. La statua della santa però veniva preservata dalla rovina: ignoti soldati - Dio li benedica! - l'avevano trasportata nel presbiterio dell'arcipretale del Borgo, donde fu poi riportata in paese dai profughi rimpatriati. Malgrado lo stato compassionevole della chiesetta, questa buona gente non voleva per nessun patto rinunziare alla tradizionale festa, e ogni anno, acconciato alla meno peggio lo stroncato altare e coperto il soffitto con rame del vicino bosco, si trasportava il caro simulacro a spalle di quattro robusti giovani alternatisi con altri quattro, e tutto il popolo si portava in processione lassù. La statua si adagiava alla meglio sulle macerie dell'altare e le funzioni si svolgevano in santa letizia al coperto scoperto che rammemorava la veste di Bertoldo. La sera poi il devoto corteo riportava la statua in paese.
I susseguiti lavori di restauro avevano portato alla copertura della chiesa e alla rimessa del soffitto in greggio, ma da tre anni circa ogni lavoro vi era sospeso per le solite burocratiche stiracchiature dell'Ente liquidatore.
Allora si trovò in paese la forza di tagliar corto a tante lungaggini e di assumersi in testa propria gli ulteriori lavori limitati al decoro interno della chiesa, con riserva naturalmente di rifusione delle spese da chi di dovere.
Fede di popolo, tenacia di volontà, concordia di animi fruttò quello che tre mesi addietro non si sarebbe sognato: l'altare rimesso a nuovo e ornato di artistica nicchia, rifatto il pavimento, approntati i banchi, soffitto e pavimenti tirati all'ultima mano.
Ieri questo popolo credente trasportava in divota e ordinata processione la statua della santa patrona per collocarla definitivamente, previa rituale riconciliazione della chiesa profanata durante la guerra. A rendere più solenne e memoranda la cara funzione contribuì degnamente la brava Banda sociale di Scurelle che diè prova di non comune valentia. Vi fu pure trasportato e rimesso nella sua nicchietta il veneratissimo simulacro della vecchia Madonnina, che si era pure sottratta provvidenzialmente al vandalismo del furore bellico, e che nel primo anno di guerra le madri e le spose angosciate avevano coperto di preziosi vezzi votivi per impetrare incolumità ai loro cari chiamati sotto le armi.
Era una commozione generale, resa più sensibile dalle toccanti armonie degli strumenti musicali. I vecchi, non potendo seguire il corteo per l'erta del colle.
l'accompagnarono coll'occhio molle di pianto e davano un ultimo accorato saluto alla cara Madonnina, alla dolce patrona. Fu una giornata indimenticabile, impreziosita da numerosa accorrenza ai santi Sacramenti e per nulla turbata da quegl'incresciosi incidenti che non di rado funestano le sagre di paese. Lode sincera a quanti concorsero alla buona riuscita della festa, in particolare al sig. Luigi Denicolò, zelante fabbriciere, che fu l'anima di tutto quanto si riferiva agli accennati lavori di restauro e all'organizzazione della festa; nonché alla signora Teresina Longo ved. Dal Castagnè che seppe con magistrali tocchi di pennello e intelligenti dorature dare pregevole risalto all'artistico altare, opera del modesto e bravo intagliatore sig. Marches di Strigno.

Da "Voci Amiche", Nov. 1987

       



COSE DI CINQUANTA ANNI FA
La sagra di S. Margherita a Castelnuovo

Trascrivo da " Il Nuovo Trentino " di mercoledì 29 luglio 1925 la seguente corrispondenza da Castelnovo.

27 luglio - La chiesetta di santa Margherita, la vetusta curaziale situata su di un poggio alla destra della Brenta, fu sempre tenuta in grande venerazione dal popolo divoto che vi accorreva fiducioso in occasione di pubbliche calamità e ogni anno nella domenica seguente alla festa dell'antica titolare saliva in massa per prostrarsi riverente davanti al simulacro della santa, e chiederne protezione e conforto. Ma la guerra vi aveva lasciato tracce terribili del suo passaggio. Distrutti o asportati i mobili, abbattuto in gran parte l'altare, demolito il tetto, non restavano che le nude pareti. La statua della santa, però, veniva preservata dalla rovina: ignoti soldati - Dio li benedica - l'avevano trasportata nel presbiterio della Arcipretale di Borgo, donde fu poi riportata in paese dai profughi rimpatriati Malgrado lo stato compassionevole della chiesetta, questa buona gente non voleva per nessun patto rinunziare alla tradizionale festa, e ogni anno, acconciato alla meno peggio lo stroncato altare e coperto il soffitto con rame del vicin bosco, si trasportava il caro simulacro a spalle di quattro robusti giovani alternantisi con altri quattro, e tutto il popolo si portava processionalmente lassù. La statua Si adagiava alla meglio sulle macerie dell'altare e le funzioni si svolgevano in santa letizia al coperto scoperto che rammentava la veste di Bertoldo. La sera poi il devoto corteo riportava la statua in paese. I susseguiti lavori di restauro avevano portato alla copertura della chiesa e alla rimessa del soffitto in greggio, ma da tre anni circa ogni lavoro vi era sospeso per le solite burocratiche stiracchiature dell'Ente liquidatore.

Si trovò in paese la forza di tagliar corto a tante lungaggini, e di assumersi in testa propria gli ulteriori lavori limitati al decoro interno della chiesa, con riserva naturalmente di rifusione delle spese da chi di dovere.

Fede di popolo, tenacia di volontà, concordia di animi fruttò quello che tre mesi addietro non si sarebbe neanche sognato: l'altare rimesso a nuovo e ornato di artistica nicchia, rifatto il pavimento, approntati i banchi, soffitto e pavimenti tirati all'ultima mano.

E ieri questo popolo credente trasportava in divota e ordinata processione la statua della santa Patrona per collocarla definitivamente, previa rituale riconciliazione della chiesa profanata durante la guerra. A rendere più solenne e memoranda la cara funzione contribuì degnamente la brava Banda Sociale di Scurelle, che die' prova di non comune valentia.

Da "Voci Amiche", Maggio 1975

       




GRAZIE AD UNA TELENOVELA
I BRASILIANI SI INNAMORANO DELL'ITALIA

Ha l'emblematico titolo "Terra nostra" la telenovela che alle otto di sera raccoglie intorno al video circa 50 milioni di brasiliani, con uno share del 60 per cento per sei giorni su sette. Nella patria delle telenovelas questo non farebbe notizia, se non fosse che la telenovela in questione racconta l'epopea dell'emigrazione italiana nei ultimi anni del secolo scorso.

Trasmessa dalla rete Globo, la saga è stata realizzata dall'autore di fiction più famoso del Paese, Benedito Ruy Barbosa che ha addirittura intrapreso un vero e proprio studio sulle inflessioni dialettali regionali facendo interpretare i suoi ruoli da attori brasiliani che vantano origini italiane al fine di rendere il più possibile veritiera tutta la storia. Tanto è vero che una delle protagoniste, l'attrice Ana Paula Arioso, vanta nonni di origine brianzola. L'intenzione iniziale dell'autore era di trasmettere le prime tre puntate in lingua italiana, integrandole con dei sottotitoli, ma vista la rilevante percentuale di analfabeti, circa il 35%, si è scartata questa ipotesi optando per un portoghese "particolare", arricchito con i vari accenti delle regioni italiane le cui comunità sono presenti più numerose in questo immenso Paese.
La telenovela ha determinato l'esplosione di un fenomeno di vaste proporzioni e lanciato una vera e propria mania per tutto ciò che è in stretta correlazione con essere italiano. Una mania che ha scaturito notevole interesse per la lingua, la cultura, lo shopping, l'arte culinaria, la moda e tutto quanto è made in Italy. Il successo della telenovela non ha lasciato indifferente il Corriere della Sera che ha dedicato alla vicenda la prima pagina: e non importa se il motivo è una telenovela, l'importante è che diventi realtà quell'informazione di ritorno tanto sbandierata nei grandi convegni dell'informazione di Milano, Berlino, San Paolo o New York...
Questo fenomeno di costume che vede protagonisti gli italiani in Brasile, non ha risparmiato il marketing, tanto che sull'onda del successo, i ristoranti che aprono sono italiani nella proporzione di uno a due; la pizzeria sta diventando un luogo "cult" e la multinazionale della catena di fast food, McDonald's, ha lanciato due nuovi panini con il nome di McBello e McBuono.
La telenovela "Terra nostra" propone il vivere quotidiano dei nostri connazionali, per fortuna senza i luoghi comuni "dell'italiano mafioso, mangia spaghetti e suonatore di mandolino", ma in una nuova chiave di lettura che descrive i nostri protagonisti esaltandone la bellezza, la bontà, l'onestà e l'essere instancabili lavoratori.
Una saga che ha rivalutato ha rivalutato l'essere italico facendo rinascere l'orgoglio delle radici a 23 milioni di brasiliani di origine italiana. E come conseguenza, la nascita di nuovo business determinato dalla ricerca, effettuata in Italia, di documenti che attestino l'origine italiana dei brasiliani che in massa stanno avanzando richiesta per il doppio passaporto. E non sono solo motivi affettivi a determinare questa corsa alla cittadinanza visto che il passaporto italiano permetterà loro, se, ce ne fosse bisogno, di poter lavorare nell'Unione Europea. Ma la difficoltà nel reperire i documenti necessari per la certificazione dell'origine italiana, significa per molti rinunciare in partenza ad una eventuale ricerca. A conferma di quanto sia radicata la presenza italiana in Brasile, il Ministro degli Affari Esteri, On. Lamberto Dini, nella prefazione del libro "Presenza italiana in Brasile," ha sottolineato che "in poco più di un secolo i nostri lavoratori in questa terra ospitale hanno prosperato e si sono moltiplicati sino a divenire la più numerosa tra tutte le nostre collettività all'estero, anzi uno dei maggiori gruppi etnici del mondo. Ma la preminenza della componente di origine italiana è dovuta anche ad un altro segno distintivo: l'efficace inserimento nel tessuto economico e sociale del Paese ospite, che ha conferito ad essa posizioni di grande prestigio. Ciò non significa che il cammino sia stato agevole. Anche in Brasile - afferma Dini - gli emigrati italiani delle origini lo hanno trovato irto di ostacoli. Il loro faticoso trapianto in terra straniera ha anche qui toccato punte di quell'eroismo della povera gente fatto anch'esso di incredibili sacrifici e conquiste. ma tanto più ricco di contenuti umani". Ma Dini ricorda anche che "nel complesso l'integrazione è stata più rapida e più completa che in tanti altri Paesi. A questo ha concorso una serie di fattori alla cui base vi è comunque una affinità intessuta di grandi e piccole cose, un certo stile di vita, l'amore per l'arte,, musica e danza, una tradizione non di egemonia ma di disponibilità, apertura, multiculturalismo". E forse questi concetti sono alla base del grande successo di "Terra nostra", perché essere oggi italiani in Brasile, "è segno di distinzione. Tutto ciò che è italiano è oggetto di ammirazione", anche, appunto, una telenovela a loro dedicata.

Valerio Di Giammatteo (GRTV)

La Finestra, Febbraio 2000, pag. 39