Aspetti geoclimatologici, idrografici, vegetazionali e faunistici del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna

 

Salvatore Ficocelli


Introduzione

Nel 1991 l'Italia ha finalmente adottato una normativa nazionale riguardante le aree protette; con la legge quadro n.394 la parte di territorio tutelato è stato portato al 10%, allineandoci, almeno sulla carta, agli standards europei.

Molti dei nuovi Parchi Nazionali stentano a raggiungere la loro piena funzionalità a causa di impedimenti di vario genere; fra questi un'eccessiva e frammentata burocrazia.

La situazione per il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi è, almeno in parte, differente. La spiegazione nasce dal fatto che in questo caso la Legge Quadro del '91 non ha fatto altro che confermare ed istituzionalizzare una realtà già esistente. Nei fatti la nascita del Parco era già stata sancita l'anno precedente (dicembre 1990) da un decreto del Ministro dell'Ambiente che, in base al lavoro di una commissione, ha fissato la perimetrazione dell'aria protetta ed ha dettato le norme provvisorie di salvaguardia, oltre agli obiettivi prioritari da perseguire.

Il Parco è nato in una realtà ben predisposta in quanto si è avvalso dell'esperienza di un Parco già esistente: il Parco Regionale del Crinale Romagnolo, istituito con legge regionale n°11 del 1988, comprendente 17.000 ha del versante appenninico romagnolo. Inoltre, numerosi demani statali e regionali e vari enti locali hanno garantito negli ultimi decenni la sostanziale conservazione di questo suggestivo tratto appenninico.

 

Aspetti generali

Il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna si estende su un vasto territorio a cavallo tra Romagna e Toscana. Ne fanno parte le valli romagnole del fiume Montone, del Rabbi e del Bidente, mentre il settore toscano comprende, oltre ad una piccola porzione del Mugello, il Casentino. Quest'ultimo abbraccia l'alta valle dell'Arno, le cui sorgenti sono situate sulle pendici meridionali del Monte Falterona (1.654 m), secondo in altezza solo al Monte Falco (1.658 m).

Rispetto a quello romagnolo, il versante toscano è meno aspro: è solcato dalle valli dei torrenti Staggia, Fiumicello ed Archiano, affluenti di sinistra dell'Arno che, nel primo tratto, scorre quasi parallelo al crinale principale. Verso Est l'aria protetta si prolunga fino al rilievo calcareo del Monte Penna, sul quale è presente il santuario francescano della Verna.

Il cuore del Parco comprende le Foreste Demaniali Casentinesi, un antico complesso forestale caratterizzato da elevata integrità, grazie alla secolare gestione oculata delle risorse floristiche e faunistiche.

Globalmente l'aria protetta si estende per 36.426 ha, dei quali circa l'80 % sono coperti da boschi. Il territorio del Parco si estende in due regioni (Toscana e Romagna), tre province (Arezzo, Firenze, Forlì) e dodici comuni, di cui sette toscani e cinque romagnoli.

Fattore importante per la conservazione del patrimonio naturalistico è la scarsa densità di abitanti all'interno dei confini del Parco: meno di 2.000 residenti, caratteristica molto rara per i parchi italiani.

Fra le opere dell'uomo che hanno lasciato un segno notevole e duraturo ci sono gli insediamenti monastici sorti nel medioevo; luoghi consoni alla meditazione, che trovavano nell'isolamento la loro principale peculiarità. La storia è scorsa ai margini di questo pezzo di Appennino, solo lontano riflesso degli eventi che si svolgevano a Firenze, Arezzo, Ravenna, Roma.

In queste montagne solitarie si è consumata soprattutto l'umile storia di contadini, pastori e boscaioli.

 

Geologia

La situazione geologica, macroscopicamente intesa, è piuttosto omogenea: tutte le formazioni rocciose sono di tipo sedimentario.

I sedimenti hanno origine marina e sono disposti in fasce approssimativamente parallele alla linea di crinale; questa realtà determina una morfologia sostanzialmente uniforme, con l'importante eccezione della marcata dissimmetria fra il versante romagnolo e quello toscano.

In Romagna prevale la formazione marnoso-arenacea, composta cioè dall'alternanza di compatti banchi di arenaria e di strati più erodibili di marna. Nei pressi del crinale affiora, in una lunga striscia, la cosiddetta Scaglia toscana, formata da marne argillose policrome.

Tutte le formazioni, ad eccezione della Scaglia hanno avuto origine in modo analogo a partire da un'era geologica collocabile attorno ai 27 milioni di anni fa. L'Appennino, che stava iniziando la sua emersione sotto potenti spinte orogenetiche, era bordato da piattaforme costiere e abissi stretti e profondi, in cui si accumulavano sia i fini sedimenti trascinati in mare dai fiumi, sia i più grossolani apporti delle frane sottomarine che si generavano quando la scarpata abissale non era più in grado di sostenersi, dando origine alle cosiddette correnti di torbida. Mediante questi processi si formarono le alternanze sedimentarie che attualmente emergono in tutta la loro grandezza: causa una lenta e continua subsidenza del fondale marino, in milioni di anni di sedimentazione si è generato uno spessore superiore a 5.000 m.

L'unica vera eccezione al quadro generale presentato è presente nella zona sud-orientale del Parco, ove si trova la formazione più vecchia di questo settore appenninico: sono terreni caotici, soprattutto argillosi, noti generalmente come Liguriti, perché sedimentati circa 90 milioni di anni fa in un bacino attualmente situato tra Liguria e Corsica. Potenti spinte compressive (ancora in atto) legate alla collisione fra la zolla africana e quella europea hanno causato ciclopiche traslazioni della coltre interessata fino alla attuale posizione. Tale spostamento ha coinvolto blocchi rocciosi trascinati dalla massa caotica, il più famoso dei quali è l'attuale Rupe della Verna, elemento geologico alloctono, come lo è anche il grande MonteTitano della Repubblica di S. Marino.

L'odierno assetto del territorio fisico presenta una marcata dissimmetria dei versanti, determinata da diversi stili tettonici: distensivo in Toscana e compressivo in Romagna, con conseguenti differenze nel paesaggio risultante.

Sul versante adriatico le pendenze medie sono maggiori; i torrenti toscani necessitano di 4-5 km di corso per arrivare dal crinale ai 600 m di quota; a quelli romagnoli, invece, bastano 3 km e così generano valli profonde ed incassate.

Una caratteristica morfologica interessante, seppur non molto diffusa, è la presenza di grandi fratture, ossia cavità di origine tettonica generate dalla rottura della rigida massa rocciosa.

Da tutti i substrati presenti, escluse le argille, derivano suoli profondi e di buona fertilità (del tipo bruno-acido) favorevoli allo sviluppo del bosco. Più poveri risultano i suoli che in passato sono stati sfruttati da intense coltivazioni o dall'eccessivo pascolamento, fino a giungere ai casi in cui il dilavamento delle acque su terreni troppo sfruttati ha asportato completamento il suolo mettendo a nudo la matrice rocciosa sottostante. Gli estesi rimboschimenti del dopoguerra hanno in gran parte sanato tali ferite del manto boschivo, contribuendo fra l'altro al miglioramento qualitativo del terreno.

Nonostante l'estesa copertura forestale, gli eventi franosi sono stati sempre una costante di questo tratto appenninico, a causa della più rapida erosione cui sono soggetti gli intercalanti strati marnosi.

 

Clima

Nella regione montuosa compresa nel Parco il clima è fresco ed umido, pur con le differenze derivate da quota ed esposizione, grazie alle precipitazioni elevate distribuite nell'arco dell'anno. I mesi con le maggiori precipitazioni sono quelli che vanno da ottobre a maggio, con punte autunnali. Anche in estate i periodi di siccità sono comunque di breve durata.

Le differenze tra i due versanti sono molto significative seppure non molto marcate: il versante romagnolo risente maggiormente delle correnti umide provenienti dal mare Adriatico, che provocano maggiore umidità relativa e precipitazioni più abbondanti. In inverno si assiste al ristagno di nebbie.

I venti sono frequenti solamente sul crinale, quelli più impetuosi ed assidui provengono da sud-ovest (libeccio).

In alcune annate si sono avuti i fenomeni della "galaverna" e del "gelicidio": la prima è provocata dalla condensazione di aghi di ghiaccio su oggetti e piante a fronte di elevata umidità relativa e temperature molto basse; il secondo si verifica con la caduta di una leggera pioggia su corpi gelati con formazione di spessori di ghiaccio di alcuni centimetri. Entrambi i fenomeni, seppure spettacolosi, sono molto dannosi per la vegetazione, soprattutto se sopraggiunge un forte vento che facilmente spezza le piante.

In inverno le nevicate sono frequenti ed il manto nevoso permane piuttosto a lungo: fino a più di 90 giorni nelle zone più esposte (es. Sacro Eremo). Nei ripidi e nascosti canali esposti a nord la neve si mantiene anche fino alla fine della primavera.

 

Idrografia

L'Appennino tosco-romagnolo, ed in particolare l'area compresa nel Parco, è ricchissimo di acque grazie alle notevoli precipitazioni e all'effetto mitigatore sul deflusso che opera la vasta copertura vegetale presente.

I numerosi ruscelli che alimentano la rete idrografica principale presentano portate abbondanti pur se non sempre perenni.

I confini del Parco raramente si spingono al di sotto dei 500 m e tale caratteristica fa si che non ci siano veri e propri fiumi; in tutti i casi si tratta di torrenti incontaminati e ricchi di vita, proprio grazie al loro isolamento.

L'uso economico che viene fatto di tanta ricchezza, all'interno del Parco è limitato a modeste captazioni per alimentare acquedotti locali: l'unica grande eccezione è costituita dalla diga di Ridracoli.

Oltre i confini del Parco le stesse acque venivano usate come forza motrice per mulini, segherie, gualchiere e tuttora sostengono le attività agricole, industriali ed artigianali.

Date le elevate pendenze medie, quasi ovunque sono presenti rapide e cascate, tipiche del paesaggio tosco-romagnolo, che culminano con la cascata dell'Acquacheta (80 m), la più importante di questo settore appenninico anche se la soglia rocciosa non è verticale ma a gradoni.

Le abbondanti cascate traggono origine anche dalla particolare stratificazione in banchi di differente durezza e spessore.

Notevole importanza nella regimazione idrica occupa l'estensione del manto forestale che svolge benefica azione moderatrice trattenendo le acque in occasione delle forti piogge e mitigando gli effetti dei periodi di siccità (molto rari).

Nel Parco non è presente alcun lago naturale; modesti ristagni d'acqua si trovano disseminati nelle foreste in corrispondenza di zone sorgive e nei rari tratti pianeggianti. Sono presenti delle torbiere (Porcareccio).

Il centro ideale dell'idrografia del Parco è la sorgente di Capo d'Arno: il più importante fiume toscano nasce a 1.358 m sulle pendici meridionali del Monte Falterona.

Nel Casentino l'Arno raccoglie praticamente tutte le acque che scolano dallo spartiacque, mentre verso la Romagna si produce un'idrografia più articolata che, dopo l'iniziale spedita corsa giù dal crinale, si raccoglie in diversi fiumi che mantengono la loro individualità fino allo sbocco in pianura. Il più importante di questi fiumi è il Bidente al quale spetta il compito di drenare tutta l'area forestale più importante del Parco, nonché quella situata a quote più elevate.

 

Diga e lago di Ridracoli

Il lago di Ridracoli e trattenuto da una poderosa diga ad arco alta circa 100 m, che chiude una strettoia della vallata, un paio di chilometri a monte dell'abitato di Ridracoli; l'invaso artificiale serpeggia all'interno del Parco per più di 3 Km insinuandosi nella valle dell'omonimo Bidente.

Al lago convergono sia le acque del bacino naturale (circa 37 Kmq), sia quelle addotte da una galleria di presa lunga 11 Km che ha inizio da una captazione del rio Fiumicello: in tal modo il bacino effettivo risultante è quasi di 90 Kmq, garantendo un apporto idrico di circa 80 milioni di metri cubi l'anno.

La diga è funzionante dal 1987, serve ad alimentare 42 comuni romagnoli e la Repubblica di San Marino, per un totale di 900.000 utenti. Il progetto nacque nel 1966 per le crescenti esigenze romagnole; tale sito fu scelto per l'eccezionale e contemporanea presenza delle seguenti caratteristiche: posizione centrale e dominante sull'area da servire; morfologia e struttura geologica caratterizzata da grande impermeabilità; totale assenza di abitazioni, strade, manufatti, fonti inquinanti; la qualità dell'acqua; presenza di copertura vegetale pressoché totale dei bacini che, riducendo l'apporto solido, assicura un lungo periodo di efficienza dell'investimento.

 

Vegetazione

Nel Parco delle Foreste Casentinesi si distinguono due tipi di orizzonti vegetali e paesistici: quello montano e quello submontano-collinare; entrambi sono determinati da un suolo che per struttura e composizione risulta in gran parte omogeneo, e da condizioni climatiche che mutano a seconda di altitudine ed esposizione.

Nella fascia montana la foresta è il tipo di vegetazione predominante, anche sui versanti a più forte pendenza. La foresta montana naturale si manifesta con due tipologie differenti: il bosco di faggio ed acero di monte, e il bosco di faggio con abete e varie latifoglie montane.

Il primo tipo vegeta nella fascia altitudinale più elevata, sopra i 1.100-1.200 m; il secondo mostra più elevata ricchezza in specie, annoverando con l'abete anche l'acero di monte, l'acero riccio il tiglio, il frassino, l'olmo montano, il tasso e l'agrifoglio. Le pratiche selvicolturali sono intervenute soprattutto sul secondo tipo di foresta, tranne che per alcuni lembi, questa ha subito conversione in abete puro o in bosco con abete e faggio in quantità equivalente. I boschi trasformati, della fascia superiore, comprendono monotone fustaie monospecifiche di faggio.

Nel Parco non esistono praterie primarie, cioè di origine completamente naturale, in quanto, data le modeste altitudini la foresta arriva anche sulle cime più alte. Le praterie esistenti sono il risultato di tagli del bosco e del seguente utilizzo come pascoli. Nelle parti sommitali del M. Falco e del M. Gobrendo si incontrano lembi di una particolare brughiera di alta quota, dominata dal mirtillo, nota come vaccinieto: si tratta di relitti di una comunità vegetale "boreale", ben più estesa nel passato quando dominavano climi molto più freddi.

I paesaggi submontani e collinari non rappresentano i boschi mediterranei più tipici, in quanto hanno una composizione tale che li pone in una posizione di contatto con le foreste eurosiberiane e perciò viene chiamata vegetazione submediterranea. I boschi della Romagna, come quelli di gran parte dell'Appennino, hanno la particolarità di essere costituiti dalla mescolanza di un elevato numero di latifoglie decidue, soprattutto nei versanti freschi. Si trovano il cerro, il carpino nero e bianco, l'orniello, l'acero, il sorbo, ed anche il tiglio, il faggio e la rovere. Molto comuni sono gli arbusti: maggiociondolo, nocciolo, corniolo, sanguinella, biancospino, ecc.

Il castagno è molto presente in tutta l'area, più frequentemente nei versanti casentinesi e della Val di Sieve; i castagneti hanno origine artificiale e quando vengono abbandonate le pratiche colturali, vengono rapidamente riassorbiti dai boschi di latifoglie.

In questa fascia altitudinale sono molto frequenti i rimboschimenti, in prevalenza di pino nero; le praterie post-colturali sono ancora piuttosto frequenti, il che indica attività agricole ancora praticate o smesse da poco. Nei coltivi e nei pascoli definitivamente abbandonati si instaura una vegetazione che prelude all'affermazione del bosco misto di querce ed altre latifoglie. In queste comunità preforestali si trovano pure esemplari di roverella, orniello ed altre specie aboree.

Sui versanti erosi è diffusa una vegetazione erbacea, in genere molto rada, costituita da piante tenaci e resistenti alla siccità e allo sbriciolamento della friabile roccia marnoso-arenacea. Fra queste da segnalare la Sesleria italica, una graminacea calcicola, ad ampia ecologia, che è una specie endemica dell'Appennino tosco-romagnolo e di quello umbro-marchigiano settentrionale.

 

SCHEMATIZZAZIONE DELLA VEGETAZIONE DI CAMPIGNA-LAMA SECONDO FASCE ALTITUDINALI

Principali fitocenosi riferibili a fattori climatici, topografici, edafici, storici e antropici

CLIMAX

CLIMATICI

m 555

m 850-1.000

m 1.350-1.400

foreste miste, mesofile, caducifoglie

foreste di abete e faggio

foreste di faggio

Cedui misti di Cerro, Carpino nero, Acero campestre, Tigli, Rovere, Nocciolo, Castagno, Maggiociondolo, Ciarvardello, con buona partecipazione di Orniello e Roverella

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Fustaie miste caducifoglie di Acero opalo, Tigli, Cerro, Rovere, Acero campestre, Castagno, Nocciolo, Carpino bianco, Carpino nero, Maggiociondolo, Pioppo Tremolo, Roverella, con presenza di Abete, Faggio, Acero montano, Olmo montano, Acero riccio, Fras

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Fustaie a prevalenza di Abete e Faggio con Tigli, Olmo montano, Acero opalo, Acero montano , Acero riccio, Frassino, Carpino bianco, Ciliegio, Maggiociondolo, Tasso, Agrifoglio, Nocciolo

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Fustaie a prevalenza di Abete e Faggio con Acero montano, Olmo montano, Frassino, Acero riccio, Maggiociondolo alpino, Sorbo, Ciliegio, Tasso

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Fustaie di Faggio con Acero montano, Frassino, Sorbo, Salicone, Maggiociondolo alpino, scarsa presenza di Abete bianco --->
Cedui invecchiati di Faggio con Acero montano, Frassino, Sorbo, Maggiociondolo alpino, Salicone

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Boschi igrofili a Ontano nero e Salici

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Formazioni igrofile erbacee e Equiseto e Petasites

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Prati e alte erbe, ricchi di humus delle radure di bosco (Epilobieti)

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Praterie steppiche di ripide pendici (Xerogramineti su roccia)

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Formazioni rupestri

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Formazioni elofitiche erbacee d'altitudine (Calteti)

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Brughiere e praterie d'altitudine (Mirtilleti e Nardeti)

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Vegetazione arborea antropica

a) Abetine di Abete bianco

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b) Castagneti

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c) Pinete di Pino nero

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d) Abetine di Pseudotsuga

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Fauna

Il complesso forestale casentinese possiede una fauna ricca e diversificato; tra i mammiferi predatori originari il solo rimasto è il lupo (lince ed orso sono scomparsi). Il nucleo di lupi insediato nel Casentino è il più importante dell'Italia settentrionale: qui la specie trova condizioni ideali per una presenza stabile e continua, grazie alla notevole integrità ambientale, alla elevata boscosità, e soprattutto all'alta densità di prede naturali.

Tratto caratteristico del Parco è, infatti, la presenza di 5 specie di ungulati, di cui 3 autoctone (cinghiale, cervo, capriolo) e 2 alloctone (daino e muflone). Di questi, solo il capriolo non si è mai estinto, gli altri sono stati reintrodotti una o più volte nell'area forestale. Tutti hanno trovato condizioni adatte tranne il muflone, specie di origine sardo-corsa con maschi dalle inconfondibili corna aspirale, più adatto alle alture sassose e aride e poco a suo agio nelle foreste continentali appenniniche.

- Il daino (Cervus dama dama) ha rappresentato per molto tempo una delle specie più abbondanti soprattutto nel versante romagnolo. Negli anni '80 ha subito un notevole ridimensionamento a seguito della predazione operata dal lupo e della competizione del cervo. Attualmente il daino occupa una vasta area del Parco alle quote inferiori (600-1.000 m) e questo comporta problemi di convivenza con le attività antropiche (agricole e zootecniche) nelle aree in cui raggiunge i maggiori livelli di consistenza. Inoltre l'elevata densità di questi animali può creare competizione con il capriolo, specie autoctona e quindi di maggiore valore biologico.

- Per il cervo (Cervus elaphus) le Foreste Casentinesi hanno rappresentato il centro di diffusione in tutto l'Appennino centrale, anche oltre i confini del Parco. L'attuale areale del cervo comprende una superficie di quasi 28.000 ha toscani e 16.500 ha romagnoli, con notevoli variazioni di concentrazione tra il periodo di svernamento, alle quote inferiori, e quello di estivazione.

Negli ultimi 10 anni la popolazione di cervi ha subito un sensibile e costante aumento distributivo e numerico. La consistenza dell'intera popolazione, dentro e fuori i confini del Parco, è stimata in circa 1.000 unità.


1= maschi adulti; 2= maschi giovani; 3= maschi fusoni 4= femmine; 5= piccoli

- Il capriolo (Capreolus capreolus) occupa tutta la superficie del Parco; è distribuito uniformemente nell'intera area data l'assenza di barriere ecologiche. Le caratteristiche ambientali, la competizione con gli altri ungulati, la predazione da parte del lupo, e il clima selettivo, provocano fluttuazioni annuali della densità e della struttura della popolazione. Attualmente la popolazione vive una fase di stabilità, con un numero di individui pari a circa 5.000 unità. Negli ultimi 10 anni, ad un aumento del cervo è corrisposto un calo, seppur limitato, del capriolo. Il cervo sembra essere favorito nella competizione spazio-alimentare per lo sfruttamento delle risorse ambientali dell'aria protetta, caratterizzata da crescente presenza di boschi ad alto fusto. Il capriolo, infatti, è un brucatore, invece il cervo è un pascolatore capace di cibarsi di corteccia negli inverni rigidi grazie ad un rumine più grande. Anche la maggiore mobilità del cervo, costituisce un ulteriore ostacolo per i caprioli, oltre al fatto che il cervo essendo più grande ha una migliore capacità di difesa dai predatori.

- Il cinghiale (Sus scropha) è ricomparso in quest'ultimo ventennio dopo secoli di assenza dalle foreste del Parco. Attualmente si trovano più di un migliaio di esemplari, ma il loro numero è assai variabile a causa degli spostamenti e dell'altissimo tasso riproduttivo di questa specie.

Il cinghiale è divenuto progressivamente un problema per l'agricoltura nelle aree limitrofe al Parco; inoltre, questi può essere un problema per il suolo ed il rinnovamento spontaneo del bosco a causa delle "arature" prodotte quando è alla ricerca di tuberi e radici.

Il prelievo venatorio nelle aree limitrofe al Parco e la predazione da parte del lupo, è risultata fortemente selettiva nei confronti del cinghiale.

- Nell'area delle Foreste Casentinesi il lupo (Canis lupus) non si è mai estinto. Le tracce della sua presenza sono costanti. Attualmente quest'area è uno dei più importanti sub-areali italiani, un'ideale zona di transito fra l'Appennino centrale e quello settentrionale. La sua presenza attuale è stimata in 3-4 gruppi familiari, per un totale di circa una trentina di individui. Questa densità è una delle più alte in Europa, con più di un animale per mille ettari di territorio. Inoltre, il 90% della sua dieta è costituita da ungulati: situazione del tutto scomparsa in Europa, tipica dei parchi più isolati del grande nord.

- La volpe è il carnivoro più comune nel Parco. Sfuggita alle persecuzioni, è tornata rapidamente ad occupare tutto lo spazio disponibile. Tuttavia, la mancanza di discariche nel territorio del Parco e la sua grande naturalità, portano la densità di questo canide ad attenuarsi su livelli bassi.

Sono anche presenti la donnola, la faina, la puzzola, mentre sembra scomparsa la lontra.

L'avifauna del Parco comprende più di 80 specie di uccelli nidificanti, contando solo quelli presenti durante tutto l'anno e quelli estivi, che giungono ad inizio stagione. A questo numero vanno aggiunte le specie di passo, che transitano durante gli spostamenti migratori e le specie svernanti. Molti di questi uccelli sono poco selettivi nella scelta dell'ambiente e perciò generalmente presenti nell'Appennino; altri, invece, sono più specializzati e trovano nicchie ambientali molto rare, in particolare boschi di alto fusto maturi che costituiscono il cuore del Parco. Si trova l'allocco, varie cince (mora bigia e cinciarella), il picchio muratore e il rampichino. È frequente vedere i cieli solcati da rapaci di ogni dimensione: dall'aquila al gheppio, passando per lo sparviero, l'astore, il falco e il lodolaio. L'aquila reale è tornata a nidificare nelle impervie balze rocciose del versante romagnolo dopo qualche decennio di assenza. Per ciò che riguarda i rapaci notturni, se ne trovano di tutte le dimensioni: dal grande gufo reale alle civette, al barbagianni e all'allocco.

Nel Parco delle Foreste Casentinesi sono presenti 13 specie di anfibi e 11 di rettili, secondo gli ultimi studi.Gli anfibi anuri sono presenti con rospi, rane e l'ululone dal ventre giallo. Gli urodeli annoverano il tritone punteggiato e quello crestato, il tritone alpestre nelle zone più meridionali. Dopo le piogge estive e primaverili si possono avvistare la salamandra pezzata e la rara salamandrina dagli occhiali.

Il rettile più noto è la vipera, importante anello della catena alimentare in quando predatore di piccoli roditori. Il più grande serpente del Parco è la natrice dal collare, la cui femmina può arrivare a 2 m. Fra i sauri sono presenti il ramarro, la lucertola muraiola e campestre, l'orbettino.

 

STUDIO DI SUCCESSIONE VEGETAZIONALE NEI TERRENI AGRICOLI ABBANDONATI

Nel territorio del Parco delle Foreste Casentinesi, come in tutto l'Appennino, a partire dagli anni sessanta si è avuto un progressivo abbandono delle aree destinate a coltivazioni. Per l'importanza e l'estensione del fenomeno alcuni ex coltivi sono stati tenuti in osservazione per trarne utili indicazioni per la loro gestione.

A tale scopo, nel Parco, sono stati presi in osservazione ex coltivi della valle del Bidente, area largamente interessata dal fenomeno dell'abbandono delle colture.

Uno studio a livello territoriale ha consentito di definire le tendenze dinamiche generali della vegetazione insediata sui terreni abbandonati, e di definire le specie che hanno un ruolo "guida" nell'indicazione delle tappe significative del fenomeno successionale in atto.

Sono stati eseguiti diversi rilievi fitosociologici in diverse aree, caratterizzate da condizioni pedologiche e climatiche piuttosto omogenee, ma che differivano per età di abbandono.

L'analisi ed il confronto quantitativo delle composizioni floristiche, unitamente alle informazioni cronologiche sull'età dell'abbandono, hanno permesso di riconoscere i principali stadi secondo cui si svolge la successione stessa.

Sono quattro gli stadi di particolare interesse:

1) Colonizzazione dell'area da parte di specie erbacee a carattere ruderale, con insediamento di Rubus ulmifolius e di Clematis vitalba; tipico nei primi 4-6 anni dall'abbandono.

2) Diminuisce l'importanza delle specie erbacee ruderali e compaiono alcune specie legnose; penetrazione di Brachypodium piumatum e di Bromus erectus. Tale situazione si ha dopo 7-8 anni in alcune aree, ma anche più in altre meno favorevoli.

3) Scomparsa quasi totale delle specie ruderali, con aumento del contingente di specie legnose ed erbacee tipiche delle comunità forestali del territorio. Situazione riscontrata dopo 10-15 anni (anche fino a 25 anni).

4) Formazione di comunità vegetali di tipo forestale, situazione tipica dopo 30-35 anni in condizioni particolarmente favorevoli per bilancio idrico.

Gli stadi 3 e 4 possono rispondere positivamente ad eventuali interventi integrativi di modesto impegno, aventi lo scopo di accelerare i processi dinamici naturali.

Oltre al fattore tempo, anche altitudine, esposizione ed inclinazione assumono un ruolo di notevole importanza. A tale proposito si notano differenze notevoli tra aree di pari età di abbandono, ma con differente esposizione.

In esposizioni meridionali dopo circa 30 anni di abbandono, le comunità vegetali sono costituite da praterie arbustate con notevole presenza di specie sia erbacee che legnose tipiche di boschi xerofili a querce.

In esposizioni settentrionali si trovano invece comunità a struttura forestale vera e propria, con dominanza di Ostrya carpinifolia.

Uno studio a livello locale è stato condotto in località "Il Poggiolo" (790 m), mediante l'esecuzione di rilievi lungo transetti. Tale studio ha consentito di mettere in luce fenomeni legati ad eventi successionali, ma con maggiore dettaglio rispetto al rilevo fitosociologico. Un primo risultato ha messo in evidenza l'esistenza di una zona di contatto tra bosco e prateria arbustata, caratterizzata da notevole indeterminazione ed eterogeneità per ciò che riguarda numero di specie e diversità specifica. È una zona in cui la tessitura vegetazionale è fortemente variabile; in questa zona di transizione, a ridosso del margine del bosco, potrebbe essere utile intervenire con introduzione di specie legnose eliofile.

Un secondo risultato riguarda la distribuzione di giovani individui di specie legnose: l'introduzione di nuovi individui assume diverse intensità in funzione della distanza dalle piante madri, che fungono da centri di diffusione. Anche le condizioni microclimatiche dei siti di arrivo influenzano la suddetta distribuzione.

Lo studio effettuato sul dinamismo della vegetazione in terreni ex-agricoli della valle del Bidente ha consentito di acquisire interessanti conoscenze di base sui fenomeni successionali relativi alle specifica realtà territoriale locale.

Grazie a tali conoscenze di base si potranno fornire indicazioni di tipo operativo per la gestione delle aree non più coltivate, evitando precipitose e costose opere di rimboschimento in aree che non ne hanno bisogno.

Inoltre tali aree, seppur di origine antropica, costituiscono un importante patrimonio per la biodiversità dell'ambiente e la loro scomparsa comporterebbe la perdita di numerose specie vegetali ed animali (50 delle circa 100 specie di uccelli sono legate ai luoghi non boscati).

 

CONCLUSIONI

Il Parco delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna ha iniziato la sua attività nel modo migliore. Sono stati superati abbastanza rapidamente i campanilismi e le rivalità che si vengono a generare tra regioni, province e comuni ogni qual volta deve essere posta a tutela una determinata area. Si sono dovute "affrontare" le 200 aziende agricole presenti, nonché una tradizione venatoria molto radicata.

L'Ente Parco, istituito per decreto presidenziale del 12 luglio 1993 e operativo dal febbraio 1994, ha già all'attivo numerose realizzazioni: ha tabellato l'intera area, riorganizzato i sentieri, inaugurato centri visita, percorsi didattici e aree di sosta.

Un aspetto importante è costituito dal fatto che l'area in questione aveva già conosciuto la "salvaguardia", grazie al Parco regionale del Crinale Romagnolo, la Comunità montana del Casentino, i Demani statali e regionali, il Corpo Forestale dello Stato. Istituzioni che hanno avuto il merito di aver salvato una grossa porzione di dorsale appenninica, quella tra il Passo della Calla e il Passo dei Mandrioli.

Non a caso il Parco delle Foreste Casentinesi è il più forestato di Italia (oltre 80% della sua superficie); la sua biodiversità è ben tutelata, anche grazie all'assenza di grandi arterie di comunicazione e alla bassa densità abitativa entro i confini del Parco (meno di 2.000 abitanti).

I risultati ottenuti sono anche conseguenza dei 40 miliardi investiti in 5 anni. Per il ritorno economico il Parco può contare su 600.000 visitatori l'anno, in gran parte escursionisti, che si sommano ai quasi 2 milioni di pellegrini che affollano il monastero di Camaldoli e il santuario della Verna.

È ormai avviato un circolo virtuoso in nome dello "sviluppo compatibile"; arrivano finanziamenti pubblici e proposte di investimento "verde".

Sempre grazie al Parco, anche i 6 comuni casentinesi, dopo quelli romagnoli, si sono dotati di depuratori; le aziende che vivono in montagna vengono risarcite dai danni arrecati dagli animali selvatici e finanziate per il recupero dei pascoli abbandonati.

In conclusione, si può dire che il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi rappresenta un modello, ma anche un'eccezione, nel panorama delle aree protette italiane.

Sicuramente le favorevoli condizioni di partenza, ma certamente una gestione intelligente, hanno portato ad una simbiosi tra attività umane e patrimonio naturale che per le altre realtà è rimasta solo sulla carta.


Riferimenti bibliografici

Guida al Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna

"CRINALI", periodico trimestrale del Parco

Atti del convegno del 10 novembre 1995 , Santa Sofia (FO)

AA.VV., "Il Parco del Crinale Romagnolo", Maggioli editore, Rimini, 1992

Padula M., Crudele G., "Le Foreste di Campigna - Lama nell'Appennino tosco-romagnolo, Regione Emilia Romagna, Bologna, 1988