LETTERA ALLE FAMIGLIE .
Carissime
Famiglie!
1.
La celebrazione dell'Anno della Famiglia mi offre la gradita occasione di
bussare alla porta della vostra casa, desideroso di salutarvi con grande affetto
e di intrattenermi con voi. Lo faccio con questa lettera, prendendo l'avvio
dalle parole dell'Enciclica Redemptor hominis, che ho pubblicato nei primi
giorni del mio ministero petrino. Scrivevo allora: l'uomo è la via della
Chiesa. Con questa espressione intendevo riferirmi anzitutto alle molteplici
strade lungo le quali cammina l'uomo, e in pari tempo volevo sottolineare quanto
vivo e profondo sia il desiderio della Chiesa di affiancarsi a lui nel
percorrere le vie della sua esistenza terrena. La Chiesa prende parte alle gioie
e alle speranze, alle tristezze ed alle angosce del cammino quotidiano degli
uomini, profondamente persuasa che è stato Cristo stesso ad introdurla in tutti
questi sentieri: è Lui che ha affidato l'uomo alla Chiesa; l'ha affidato come
«via» della sua missione e del suo ministero.
La famiglia - via della Chiesa
2.
Tra queste numerose strade, la famiglia è la prima e la più importante: una
via comune, pur rimanendo particolare, unica ed irripetibile, come irripetibile
è ogni uomo; una via dalla quale l'essere umano non può distaccarsi. In
effetti, egli viene al mondo normalmente all'interno di una famiglia, per cui si
può dire che deve ad essa il fatto stesso di esistere come uomo. Quando manca
la famiglia, viene a crearsi nella persona che entra nel mondo una preoccupante
e dolorosa carenza che peserà in seguito su tutta la vita. La Chiesa è vicina
con affettuosa sollecitudine a quanti vivono simili situazioni, perché conosce
bene il fondamentale ruolo che la famiglia è chiamata a svolgere. Essa sa
inoltre che normalmente l'uomo esce dalla famiglia per realizzare, a sua volta,
in un nuovo nucleo familiare la propria vocazione di vita. Persino quando
sceglie di restare solo, la famiglia rimane, per così dire, il suo orizzonte
esistenziale, come quella fondamentale comunità nella quale si radica l'intera
rete delle sue relazioni sociali, da quelle più immediate e vicine a quelle più
lontane. Non parliamo forse di «famiglia umana» riferendoci all'insieme degli
uomini che vivono nel mondo? La famiglia ha la sua origine da quello stesso
amore con cui il Creatore abbraccia il mondo creato, come è già espresso «al
principio», nel Libro della Genesi ( 1, 1 ). Gesù nel Vangelo ne offre una
suprema conferma: «Dio... ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito» (Gv 3,16). Il Figlio unigenito, consostanziale al Padre, «Dio da
Dio e Luce da Luce», è entrato nella storia degli uomini attraverso la
famiglia: «Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad
ogni uomo. Ha lavorato con mani d'uomo,... ha amato con cuore d'uomo. Nascendo
da Maria Vergine, Egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi
fuorché nel peccato». Dunque, se Cristo «svela pienamente l'uomo all'uomo»,
lo fa a cominciare dalla famiglia nella quale ha scelto di nascere e di
crescere. Si sa che il Redentore ha trascorso gran parte della sua vita nel
nascondimento di Nazaret, «sottomesso» (Lc 2,51) come «Figlio dell'uomo» a
Maria, sua Madre, e a Giuseppe, il falegname. Questa sua «obbedienza» filiale
non è già la prima espressione di quell'obbedienza al Padre «fino alla morte»
(Fil 2,8), mediante la quale ha redento il mondo? Il mistero divino
dell'incarnazione del Verbo è dunque in stretto rapporto con la famiglia umana.
Non soltanto con una, quella di Nazaret, ma in qualche modo con ogni famiglia,
analogamente a quanto il Concilio Vaticano II afferma del Figlio di Dio, che
nell'incarnazione «si è unito in certo modo ad ogni uomo». Seguendo il Cristo
«venuto» al mondo «per servire» (Mt 20,28), la Chiesa considera il servizio
alla famiglia uno dei suoi compiti essenziali. In tal senso, sia l'uomo che la
famiglia costituiscono «la via della Chiesa».
L'Anno della Famiglia
3.
Proprio per questi motivi la Chiesa saluta con gioia l'iniziativa promossa
dall'Organizzazione delle Nazioni Unite di fare del 1994 l'Anno Internazionale
della Famiglia. Tale iniziativa mette in luce quanto la questione familiare sia
fondamentale per gli Stati che sono membri dell'ONU. Se la Chiesa desidera
prendervi parte, lo fa perché essa stessa è stata inviata da Cristo a «tutte
le nazioni» (Mt 28,19). Del resto, non è la prima volta che la Chiesa fa
propria un'iniziativa internazionale dell'ONU. Basti ricordare, per esempio,
l'Anno Internazionale della Gioventù, nel 1985. Anche in questo modo, essa si
fa presente nel mondo, realizzando l'intenzione cara a Papa Giovanni XXIII ed
ispiratrice della Costituzione conciliare Gaudium et spes. Nella festa della
Santa Famiglia del 1993 ha avuto inizio nell'intera Comunità ecclesiale l'«Anno
della Famiglia» come una delle tappe significative nell'itinerario di
preparazione al Grande Giubileo dell'anno 2000, che segnerà la fine del secondo
e l'inizio del terzo Millennio dalla nascita di Gesù Cristo. Questo Anno deve
orientare i nostri pensieri e i nostri cuori verso Nazaret, dove il 26 dicembre
scorso esso è stato ufficialmente inaugurato con la solenne Celebrazione
eucaristica presieduta dal Legato Pontificio. Lungo tutto quest'Anno è
importante riscoprire le testimonianze dell'amore e della sollecitudine della
Chiesa per la famiglia: amore e sollecitudine espressi fin dagli inizi del
cristianesimo, quando la famiglia veniva significativamente considerata come «chiesa
domestica». Ai nostri tempi ritorniamo spesso all'espressione «chiesa
domestica», che il Concilio ha fatto sua e il cui contenuto desideriamo che
rimanga sempre vivo ed attuale. Questo desiderio non viene meno per la
consapevolezza delle mutate condizioni delle famiglie nel mondo di oggi. Proprio
per questo è più che mai significativo il titolo che il Concilio ha scelto,
nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, per indicare i compiti della
Chiesa nella situazione attuale: «Dignità del matrimonio e della famiglia e
sua valorizzazione». Altro punto importante di riferimento dopo il Concilio è
l'Esortazione apostolica Familiaris consortio del 1981. In questo testo si
affronta una vasta e complessa esperienza che riguarda la famiglia, la quale,
tra popoli e Paesi diversi, rimane sempre e dappertutto «la via della Chiesa».
In certo senso lo diventa ancora di più proprio là dove la famiglia soffre
crisi interne, o è sottoposta ad influenze culturali, sociali ed economiche
dannose, che ne minano l'interiore compattezza, quando non ne ostacolano lo
stesso formarsi.
La preghiera
4.
Con la presente Lettera vorrei rivolgermi, non alla famiglia «in astratto», ma
ad ogni famiglia concreta di qualunque regione della terra, a qualsiasi
longitudine e latitudine geografica si trovi e quale che sia la diversità e la
complessità della sua cultura e della sua storia. L'amore, con cui Dio «ha
tanto amato il mondo» (Gv 3,16), l'amore con cui Cristo «ha amato sino alla
fine» tutti e ciascuno (Gv 13,1), rende possibile rivolgere questo messaggio ad
ogni famiglia, «cellula» vitale della grande ed universale «famiglia» umana.
Il Padre, Creatore dell'universo, ed il Verbo incarnato, Redentore dell'umanità,
costituiscono la fonte di questa universale apertura agli uomini come a fratelli
e sorelle, e spingono ad abbracciarli tutti con la preghiera che comincia con le
dolcissime parole: «Padre nostro». La preghiera fa sì che il Figlio di Dio
dimori in mezzo a noi: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in
mezzo a loro» (Mt 18,20). Questa Lettera alle Famiglie vuole essere innanzi
tutto una supplica rivolta a Cristo perché resti in ogni famiglia umana; un
invito a Lui, attraverso la piccola famiglia dei genitori e dei figli, ad
abitare nella grande famiglia delle nazioni, affinché tutti, insieme con Lui,
possiamo dire in verità: «Padre nostro»! Bisogna che la preghiera diventi
l'elemento dominante dell'Anno della Famiglia nella Chiesa: preghiera della
famiglia, preghiera per la famiglia, preghiera con la famiglia. È significativo
che, proprio nella preghiera e mediante la preghiera, l'uomo scopra in modo
quanto mai semplice ed insieme profondo la propria tipica soggettività. L'«io»
umano nella preghiera percepisce più facilmente la profondità del suo essere
persona. Ciò vale anche per la famiglia la quale non è soltanto la «cellula»
fondamentale della società, ma possiede pure una propria peculiare soggettività.
Questa trova la sua prima e fondamentale conferma e si consolida quando i membri
della famiglia si incontrano nella comune invocazione: «Padre nostro». La
preghiera rafforza la saldezza e la compattezza spirituale della famiglia,
contribuendo a far sì che essa partecipi alla «fortezza» di Dio. Nella
solenne «benedizione nuziale» durante il rito del matrimonio il celebrante così
invoca il Signore: «Effondi su di loro (i novelli sposi) la grazia dello
Spirito Santo, affinché, in virtù del tuo amore riversato nei loro cuori,
perseverino fedeli nell'alleanza coniugale». È da questa «effusione dello
Spirito Santo» che scaturisce la forza interiore delle famiglie, come pure la
potenza capace di unificarle nell'amore e nella verità.
L'amore e la sollecitudine per tutte le famiglie
5.
Diventi l'Anno della Famiglia una corale ed incessante preghiera delle singole
«chiese domestiche» e dell'intero popolo di Dio! Da questa preghiera siano
raggiunte anche le famiglie in difficoltà o in pericolo, quelle sfiduciate o
divise e quelle che si trovano nelle situazioni che l'Esortazione apostolica
Familiaris consortio qualifica come «irregolari». Possano tutte sentirsi
abbracciate dall'amore e dalla sollecitudine dei fratelli e delle sorelle! La
preghiera, nell'Anno della Famiglia, costituisca anzitutto un'incoraggiante
testimonianza da parte delle famiglie che realizzano nella comunione domestica
la loro vocazione di vita umana e cristiana. Sono tante in ogni Nazione, diocesi
e parrocchia! Si può ragionevolmente pensare che esse costituiscano «la regola»,
pur tenendo conto delle non poche «situazioni irregolari». È l'esperienza
dimostra quanto sia rilevante il ruolo di una famiglia coerente con la norma
morale, perché l'uomo, che in essa nasce e si forma, intraprenda senza
incertezze la strada del bene. inscritta pur sempre nel suo cuore. Alla
disgregazione delle famiglie sembrano purtroppo puntare ai nostri giorni vari
programmi sostenuti da mezzi molto potenti. A volte sembra proprio che si cerchi
in ogni modo di presentare come «regolari» ed attraenti conferendo loro
esterne apparenze di fascino, situazioni che di fatto sono «irregolari». Esse
infatti contraddicono «la verità e l'amore» che devono ispirare e guidare il
reciproco rapporto tra uomini e donne e, pertanto, sono causa di tensioni e
divisioni nelle famiglie, con gravi conseguenze specialmente sui figli. Viene
ottenebrata la coscienza morale, viene deformato ciò che è vero, buono e
bello, e la libertà viene soppiantata da una vera e propria schiavitù. Di
fronte a tutto questo, quanto attuali e stimolanti risuonano le parole
dell'apostolo Paolo sulla libertà con cui Cristo ci ha liberati, e sulla
schiavitù causata dal peccato (cfr. Gal 15,1 )! Ci si rende conto pertanto di
quanto sia opportuno e persino necessario nella Chiesa un Anno della Famiglia;
di quanto sia indispensabile la testimonianza di tutte le famiglie che vivono
ogni giorno la loro vocazione; di quanto sia urgente una grande preghiera delle
famiglie che cresca e attraversi il mondo intero, e nella quale si esprima il
rendimento di grazie per l'amore nella verità, per l'«effusione della grazia
dello Spirito Santo», per la presenza di Cristo tra i genitori e i figli:
Cristo Redentore e Sposo, che «ci ha amati fino alla fine» (cfr. Gv 13,1 ).
Siamo intimamente persuasi che questo amore è più grande di tutto (cfr. I Cor
13,13) e crediamo che esso è capace di superare vittoriosamente tutto ciò che
non è amore. Si elevi incessante quest'anno la preghiera della Chiesa, la
preghiera delle famiglie, «chiese domestiche»! E si faccia sentire prima da
Dio e poi anche dagli uomini, e questi non cadano nel dubbio, e quanti vacillano
a causa della fragilità umana non cedano al fascino tentatore dei beni solo
apparenti, come sono quelli proposti in ogni tentazione. A Cana di Galilea, dove
Gesù fu invitato ad un banchetto di nozze, la Madre, anch'essa presente, si
rivolge ai servi dicendo: «Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5). Anche a noi,
entrati nell'Anno della Famiglia, Maria rivolge le stesse parole. E quanto
Cristo ci dice, in questo particolare momento storico, costituisce un forte
appello ad una grande preghiera con le famiglie e per le famiglie. La Vergine
Madre ci invita ad unirci con questa preghiera ai sentimenti del Figlio, che ama
ogni singola famiglia. Questo amore Egli ha espresso all'inizio della sua
missione di Redentore, proprio con la sua presenza santificatrice a Cana di
Galilea, presenza che tuttora continua. Preghiamo per le famiglie di tutto il
mondo. Preghiamo, per mezzo di Lui, con Lui e in Lui, il Padre «dal quale ogni
patemità nei cieli e sulla terra prende nome» (Ef 3, 1 5).
LA CIVILTÀ DELL'AMORE
«Maschio e femmina li creò»
6.
Il cosmo, immenso e così diversificato, il mondo di tutti gli esseri viventi,
è inscritto nella paternità di Dio come nella sua sorgente (cfr. Ef 3,14-16).
Vi è inscritto, naturalmente, secondo il criterio dell'analogia, grazie al
quale ci è possibile distinguere, già all'inizio del Libro della Genesi, la
realtà della paternità e maternità e perciò anche della famiglia umana. La
chiave interpretativa sta nel principio dell'«immagine» e della «somiglianza»
di Dio, che il testo biblico mette fortemente in rilievo (Gn 1,26). Dio crea in
virtù della sua parola: «Sia!» (p. es. Gn 1,3). È significativo che questa
parola di Dio, nel caso della creazione dell'uomo, sia completata con queste
altre parole: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (Gn
1,26). Prima di creare l'uomo, il Creatore quasi rientra in se stesso per
cercarne il modello e l'ispirazione nel mistero del suo Essere che già qui si
manifesta in qualche modo come il «Noi» divino. Da questo mistero scaturisce,
per via di creazione, l'essere umano: «Dio creò l'uomo a sua immagine; a
immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn 1 ,27) .
Ai
nuovi esseri Dio dice benedicendoli: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite
la terra; soggiogatela»(Gn I ,28). Il Libro della Genesi usa espressioni già
adoperate nel contesto della creazione degli altri esseri viventi: «moltiplicatevi»,
ma è chiaro il loro senso analogico. Non è questa l'analogia della generazione
e della paternità e maternità, da leggersi alla luce di tutto il contesto?
Nessuno dei viventi, tranne l'uomo, è stato creato «ad immagine e somiglianza
di Dio». La paternità e la maternità umane, pur essendo biologicamente simili
a quelle di altri esseri in natura, hanno in sé in modo essenziale ed esclusivo
una «somiglianza» con Dio, sulla quale si fonda la famiglia, intesa come
comunità di vita umana, come comunità di persone unite nell'amore (communio
personarum). Alla luce del Nuovo Testamento è possibile intravedere come il
modello originario della famiglia vada ricercato in Dio stesso, nel mistero
trinitario della sua vita. Il «Noi» divino costituisce il modello eterno del
«noi» umano; di quel «noi» innanzi tutto che è formato dall'uomo e dalla
donna, creati ad immagine e somiglianza divina. Le parole del Libro della Genesi
contengono quella verità sull'uomo a cui corrisponde l'esperienza stessa
dell'umanità. L uomo è creato sin «dal principio» come maschio e femmina: la
vita dell'umana collettività - delle piccole comunità come dell'intera società
- porta il segno di questa dualità originaria. Da essa derivano la «mascolinità»
e la «femminilità» dei singoli individui così come da essa ogni comunità
attinge la propria caratteristica ricchezza nel reciproco completamento delle
persone. A ciò sembra riferirsi il passo del Libro della Genesi: «Maschio e
femmina li creò» (Gn 1,27). Questa è anche la prima affermazione della pari
dignità dell'uomo e della donna: ambedue, ugualmente, sono persone. Tale loro
costituzione, con la specifica dignità che ne deriva, definisce sin «dal
principio» le caratteristiche del bene comune dell'umanità in ogni dimensione
ed ambito di vita. A questo bene comune ambedue, l'uomo e la donna, recano il
contributo loro proprio, grazie al quale si ritrova, alle radici stesse della
convivenza umana, il carattere di comunione e di complementarietà.
L'alleanza coniugale
7.
La famiglia è stata sempre considerata come la prima e fondamentale espressione
della natura sociale dell'uomo. Nel suo nucleo essenziale questa visione non è
mutata neppure oggi. Ai nostri giorni, però, si preferisce mettere in rilievo
quanto nella famiglia, che costituisce la più piccola e primordiale comunità
umana, viene dall'apporto personale dell'uomo e della donna. La famiglia è
infatti una comunità di persone, per le quali il modo proprio di esistere e di
vivere insieme è la comunione: communio personarum. Anche qui, fatta salva
l'assoluta trascendenza del Creatore rispetto alla creatura, emerge il
riferimento esemplare al «Noi» divino. Solo le persone sono capaci di esistere
«in comunione». La famiglia prende inizio dalla comunione coniugale, che il
Concilio Vaticano Il qualifica come «alleanza» nella quale l'uomo e la donna
«mutuamente si danno e si ricevono». Il Libro della Genesi ci apre a questa
verità quando afferma, riferendosi alla costituzione della famiglia mediante il
matrimonio: «L'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie
e i due saranno una sola carne» (Gn 2,24). Nel Vangelo Cristo, in polemica con
i farisei, riporta le stesse parole ed aggiunge: «Così che non sono più due,
ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi» (Mt
19,6). Egli rivela nuovamente il contenuto normativo di un fatto che esiste «dal
principio» (Mt 19,8) e che conserva sempre in sé tale contenuto. Se il Maestro
lo conferma «ora», lo fa per rendere chiaro ed inequivocabile, alla soglia
della Nuova Alleanza il carattere indissolubile del matrimonio, quale fondamento
del bene comune della famiglia. Quando insieme con l'Apostolo pieghiamo le
ginocchia davanti al Padre dal quale ogni paternità e maternità trae nome (cfr.
Ef 3,14-15), prendiamo coscienza che l'essere genitori è l'evento mediante il
quale la famiglia, già costituita col patto del matrimonio, si attua «in senso
più pieno e specifico». La maternità implica necessariamente la paternità e,
reciprocamente, la paternità implica necessariamente la maternità: è il
frutto della dualità, elargita dal Creatore all'essere umano «dal principio».
Ho fatto riferimento a due concetti tra loro affini, ma non identici: il
concetto di «comunione» e quello di «comunità». La «comunione» riguarda
la relazione personale tra l'«io» e il «tu». La «comunità» invece supera
questo schema nella direzione di una «società». di un «noi». La famiglia,
comunità di persone, è pertanto la prima «società» umana. Essa sorge
allorquando si attua il patto del matrimonio, che apre i coniugi ad una perenne
comunione di amore e di vita e si completa pienamente e in modo specifico con la
generazione dei figli: la «comunione» dei coniugi dà inizio alla «comunità»
familiare. La «comunità» familiare è pervasa fino in fondo da ciò che
costituisce l'essenza propria della «comunione». Ci può essere, sul piano
umano, un'altra «comunione» paragonabile a quella che viene a stabilirsi tra
la madre e il figlio da lei prima portato in grembo e poi dato alla luce? Nella
famiglia così costituita si manifesta una nuova unità, nella quale trova pieno
compimento il rapporto «di comunione» dei genitori. L'esperienza insegna che
tale compimento rappresenta pure un compito e una sfida. Il compito coinvolge i
coniugi, in attuazione del loro patto originario. I figli da loro generati
dovrebbero - qui sta la sfida - consolidare tale patto, arricchendo ed
approfondendo la comunione coniugale del padre e della madre. Quando ciò non
avviene, occorre domandarsi se l'egoismo, che a causa dell'inclinazione umana al
male si nasconde anche nell'amore dell'uomo e della donna, non sia più forte di
quest'amore. Bisogna che i coniugi se ne rendano ben conto. Occorre che, sin
dall'inizio, essi abbiano i cuori e i pensieri rivolti verso quel Dio «dal
quale ogni paternità prende nome», affinché la loro paternità e maternità
attingano a quella fonte la forza di rinnovarsi continuamente nell'amore
Paternità e maternità rappresentano in se stesse una particolare conferma
dell'amore, del quale permettono di scoprire l'estensione e la profondità
originale. Questo però non avviene automaticamente. È piuttosto un compito
affidato ad ambedue: al marito e alla moglie. Nella loro vita la paternità e la
maternità costituiscono una «novità» e una ricchezza tanto sublimi da non
potervisi accostare che «in ginocchio». L'esperienza insegna che l'amore
umano, per sua natura orientato verso la paternità e la maternità, viene
toccato a volte da una profonda crisi ed è pertanto seriamente minacciato. Sarà
da prendere in considerazione, in tali casi, il ricorso ai servizi offerti dai
consultori matrimoniali e familiari mediante i quali è possibile avvalersi, tra
l'altro, dell'aiuto di psicologi e psicoterapeuti specificamente preparati. Non
si può, tuttavia, dimenticare che rimangono sempre valide le parole
dell'Apostolo: «Piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità
nei cieli e sulla terra prende nome». Il matrimonio, il matrimonio sacramento,
è un'alleanza di persone nell'amore. E l'amore può essere approfondito e
custodito soltanto dall'Amore, quell'Amore che viene «riversato nei nostri
cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). La
preghiera nell'Anno della Famiglia non dovrebbe concentrarsi sul punto cruciale
e decisivo del passaggio dall'amore coniugale alla generazione, e perciò alla
paternità e maternità? Non è proprio allora che diventa indispensabile l'«effusione
della grazia dello Spirito Santo», invocata nella celebrazione liturgica del
sacramento del matrimonio? L'Apostolo, piegando le ginocchia davanti al Padre,
lo implora affinché «conceda ... di essere potentemente rafforzati dal suo
Spirito nell'uomo interiore» (Ef 3,16). Questa «forza dell'uomo interiore» è
necessaria nella vita familiare, specialmente nei suoi momenti critici, quando
cioè l'amore, che nel rito liturgico del consenso coniugale è stato espresso
con le parole: «Prometto di esserti fedele sempre, ... tutti i giorni della mia
vita», è chiamato a superare un difficile esame.
L'unità dei due
8.
Soltanto le «persone» sono in grado di pronunciare queste parole; solo esse
sono capaci di vivere «in comunione» sulla base della reciproca scelta, che è,
o dovrebbe essere, pienamente consapevole e libera. Il Libro della Genesi, là
dove riferisce dell'uomo che abbandona il padre e la madre per unirsi a sua
moglie (cfr. Gn 2,24) mette in luce la scelta consapevole e libera che dà
origine al matrimonio, rendendo marito un figlio e moglie una figlia. Come
intendere adeguatamente questa reciproca scelta, se non si ha davanti agli occhi
la piena verità della persona, ossia dell'essere razionale e libero? Il
Concilio Vaticano II parla della somiglianza con Dio usando termini quanto mai
significativi. Esso fa riferimento non soltanto all'immagine e somiglianza
divina che ogni essere umano già possiede di per sé, ma anche e soprattutto ad
«una certa similitudine tra l'unione delle Persone divine e l'unione dei figli
di Dio nella verità e nella carità». Questa formulazione, particolarmente
ricca e pregnante, innanzitutto conferma ciò che decide dell'intima identità
di ogni uomo e di ogni donna. Tale identità consiste nella capacità di vivere
nella verità e nell'amore anzi, e ancor più, consiste nel bisogno di verità e
di amore quale dimensione costitutiva della vita della persona. Tale bisogno di
verità e di amore apre l'uomo sia a Dio che alle creature: lo apre alle altre
persone, alla vita «in comunione», in particolare al matrimonio e alla
famiglia. Nelle parole del Concilio la «comunione» delle persone è, in un
certo senso, dedotta dal mistero del «Noi» trinitario e quindi anche la «comunione
coniugale» viene riferita a tale mistero. La famiglia, che prende inizio
dall'amore dell'uomo e della donna, scaturisce radicalmente dal mistero di Dio.
Ciò corrisponde all'essenza più intima dell'uomo e della donna, alla loro
nativa ed autentica dignità di persone. L'uomo e la donna nel matrimonio si
uniscono tra loro così saldamente da divenire - secondo le parole del Libro
della Genesi - «una sola carne» (Gn 2,24). Maschio e femmina per costituzione
fisica, i due soggetti umani, pur somaticamente differenti, partecipano in modo
uguale alla capacità di vivere «nella verità e nell'amore». Questa capacità,
caratteristica dell'essere umano in quanto persona, ha una dimensione spirituale
e corporea insieme. È anche attraverso il corpo che l'uomo e la donna sono
predisposti a formare una «comunione di persone» nel matrimonio. Quando, in
virtù del patto coniugale, essi si uniscono così da diventare «una sola carne»,
la loro unione si deve attuare «nella verità e nell'amore» mettendo in luce
in tal modo la maturità propria delle persone create ad immagine e somiglianza
di Dio. La famiglia che ne scaturisce trae la sua solidità interiore dal patto
tra i coniugi, che Cristo ha elevato a Sacramento. Essa attinge la propria
natura comunitaria, anzi, le sue caratteristiche di «comunione», da quella
fondamentale comunione dei coniugi che si prolunga nei figli. «Siete disposti
ad accogliere responsabilmente e con amore i figli che Dio vorrà donarvi e a
educarli... ?», - domanda il Celebrante durante il rito del matrimonio. La
risposta degli sposi corrisponde all'intima verità dell'amore che li unisce. La
loro unità, tuttavia, anziché chiuderli in se stessi, li apre ad una nuova
vita, ad una nuova persona. Come genitori, essi saranno capaci di donare la vita
ad un essere simile a loro, non soltanto «carne della loro carne e ossa delle
loro ossa» (cfr. Gn 2,23), ma immagine e somiglianza di Dio, cioè persona.
Domandando: «Siete disposti?», la Chiesa ricorda ai novelli sposi che essi si
trovano di fronte alla potenza creatrice di Dio. Sono chiamati a diventare
genitori, ossia a cooperare con il Creatore nel dare la vita. Cooperare con Dio
nel chiamare alla vita nuovi esseri umani significa contribuire alla
trasmissione di quell'immagine e somiglianza divina di cui ogni «nato di donna»
è portatore.
La genealogia della persona
9
Mediante la comunione di persone, che si attua nel matrimonio, l'uomo e la donna
danno inizio alla famiglia. Con la famiglia si collega la genealogia di ogni
uomo: la genealogia della persona. La paternità e la maternità umane sono
radicate nella biologia e allo stesso tempo la superano. L'Apostolo, «piegando
le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità [e ogni maternità] nei
cieli e sulla terra prende nome», pone in un certo senso dinanzi al nostro
sguardo l'intero mondo degli esseri viventi, da quelli spirituali nei cieli a
quelli corporali sulla terra. Ogni generazione trova il suo modello originario
nella Paternità di Dio. Tuttavia, nel caso dell'uomo, questa dimensione «cosmica»
di somiglianza con Dio non basta a definire in modo adeguato il rapporto di
paternità e maternità. Quando dall'unione coniugale dei due nasce un nuovo
uomo, questi porta con sé al mondo una particolare immagine e somiglianza di
Dio stesso: nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della
persona. Affermando che i coniugi, come genitori, sono collaboratori di Dio
Creatore nel concepimento e nella generazione di un nuovo essere umano non ci
riferiamo solo alle leggi della biologia; intendiamo sottolineare piuttosto che
nella paternità e maternità umane Dio stesso è presente in un modo diverso da
come avviene in ogni altra generazione «sulla terra». Infatti soltanto da Dio
può provenire quell'«immagine e somiglianza» che è propria dell'essere
umano, così come è avvenuto nella creazione. La generazione è la
continuazione della creazione. Così, dunque, tanto nel concepimento quanto
nella nascita di un nuovo uomo, i genitori si trovano davanti ad un «grande
mistero» (Ef 5,32). Anche il nuovo essere umano, non diversamente dai genitori
è chiamato all'esistenza come persona, è chiamato alla vita «nella verità e
nell'amore». Tale chiamata non si apre soltanto a ciò che è nel tempo, ma in
Dio si apre all'eternità. Questa è la dimensione della genealogia della
persona che Cristo ci ha svelato definitivamente, gettando la luce del suo
Vangelo sul vivere e sul morire umano e, pertanto sul significato della famiglia
umana. Come afferma il Concilio, l'uomo «in terra è la sola creatura che Iddio
abbia voluto per se stessa». La genesi dell'uomo non risponde soltanto alle
leggi della biologia, bensì direttamente alla volontà creatrice di Dio: è la
volontà che riguarda la genealogia dei figli e delle figlie delle famiglie
umane. Dio «ha voluto» l'uomo sin dal principio - e Dio lo «vuole» in ogni
concepimento e nascita umana. Dio «vuole» l'uomo come un essere simile a sé,
come persona. Quest'uomo, ogni uomo, è creato da Dio «per se stesso». Ciò
riguarda tutti, anche coloro che nascono con malattie o minorazioni. Nella
costituzione personale di ognuno è inscritta la volontà di Dio, che vuole
l'uomo finalizzato in un certo senso a se stesso. Dio consegna l'uomo a se
stesso, affidandolo contemporaneamente alla famiglia e alla società, come loro
compito. I genitori, davanti ad un nuovo essere umano, hanno, o dovrebbero
avere, piena consapevolezza del fatto che Dio «vuole» quest'uomo «per se
stesso». Questa sintetica espressione è molto ricca e profonda. Sin dal
momento del concepimento, e poi da quello della nascita, il nuovo essere è
destinato ad esprimere in pienezza la sua umanità - a «ritrovarsi» come
persona. Ciò riguarda assolutamente tutti, anche i malati cronici ed i
disabili. «Essere uomo» è la sua fondamentale vocazione: «essere uomo» a
misura del dono ricevuto. A misura di quel «talento» che è l'umanità stessa
e, soltanto dopo, a misura degli altri talenti. In questo senso Dio vuole ogni
uomo «per se stesso». Nel disegno di Dio, tuttavia, la vocazione della persona
va oltre i confini del tempo. Va incontro alla volontà del Padre, rivelata nel
Verbo incarnato: Dio vuole elargire all'uomo la partecipazione alla sua stessa
vita divina. Cristo dice: «lo sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano
in abbondanza» (Gv 10,10). Il destino ultimo dell'uomo non è in contrasto con
l'affermazione che Dio vuole l'uomo «per se stesso»? Se è creato per la vita
divina, l'uomo esiste veramente «per se stesso»? È, questa, una
domanda-chiave, di grande rilievo sia allo sbocciare che all'estinguersi della
sua esistenza terrena: è importante per tutto l'arco della vita. Potrebbe
sembrare che, destinando l'uomo alla vita divina, Dio lo sottragga
definitivamente al suo esistere «per se stesso». Qual è il rapporto che
esiste tra la vita della persona e la partecipazione alla Vita trinitaria? Ci
risponde sant'Agostino con le celebri parole: «Inquieto è il nostro cuore,
finché non riposa in te». Questo «cuore inquieto» indica che non c'è
affatto contraddizione tra una finalità e l'altra, bensì un legame, una
coordinazione, un'unità profonda. Per la sua stessa genealogia, la persona,
creata ad immagine e somiglianza di Dio, proprio partecipando alla Vita di Lui,
esiste «per se stessa» e si realizza. Il contenuto di tale realizzazione è la
pienezza della Vita in Dio, quella di cui parla Cristo (cfr. Gv 6,37-40), che
proprio per introdurci in essa ci ha redenti (cfr. Mc 10,45). I coniugi
desiderano i figli per sé, ed in essi vedono il coronamento del loro reciproco
amore. Li desiderano per la famiglia, quale preziosissimo dono. È desiderio, in
certa misura, comprensibile. Tuttavia, nell'amore coniugale e in quello paterno
e materno deve inscriversi la verità sull'uomo, che è stata espressa in
maniera sintetica e precisa dal Concilio con l'affermazione che Dio «vuole
l'uomo per se stesso». Occorre, perciò, che al volere di Dio si armonizzi
quello dei genitori: in tal senso, essi devono volere la nuova creatura umana
come la vuole il Creatore: «per se stessa». Il volere umano e sempre e
inevitabilmente sottoposto alla legge del tempo e della caducità. Quello divino
invece è eterno. «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo - si
legge nel Libro del Profeta Geremia-; prima che tu uscissi alla luce, ti avevo
consacrato» (1,5). La genealogia della persona è pertanto unita innanzi tutto
con l'eternità di Dio e solo dopo con la paternità e maternità umana che si
attuano nel tempo. Nel momento stesso del concepimento l'uomo è già ordinato
all'eternità in Dio.
Il bene comune del matrimonio e della famiglia
10.
Il consenso matrimoniale definisce e rende stabile il bene che è comune al
matrimonio e alla famiglia. «Prendo te... come mia sposa - come mio sposo - e
prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore nella salute e nella
malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita». Il matrimonio
è una singolare comunione di persone. Sulla base di tale comunione, la famiglia
e chiamata a diventare comunità di persone. È un impegno che i novelli sposi
assumono «davanti a Dio e alla Chiesa», come ricorda loro il celebrante al
momento dello scambio dei consensi. Di tale impegno sono testimoni quanti
partecipano al rito; in essi sono rappresentate in un certo senso la Chiesa e la
società, ambiti vitali della nuova famiglia. Le parole del consenso
matrimoniale definiscono ciò che costituisce il bene comune della coppia e
della famiglia. Anzitutto, il bene comune dei coniugi: l'amore, la fedeltà,
l'onore, la durata della loro unione fino alla morte: «per tutti i giorni della
vita». Il bene di entrambi, che è al tempo stesso il bene di ciascuno, deve
diventare poi il bene dei figli. Il bene comune, per sua natura, mentre unisce
le singole persone, assicura il vero bene di ciascuna. Se la Chiesa, come del
resto lo Stato, riceve il consenso dei coniugi espresso attraverso le parole
sopra riferite, lo fa perché esso è «scritto nei loro cuori» (Rm 2,15). Sono
i coniugi a darsi reciprocamente il consenso matrimoniale, giurando, confermando
cioè davanti a Dio, la verità del loro consenso. In quanto battezzati, essi
sono, nella Chiesa, i ministri del sacramento del matrimonio. San Paolo insegna
che questo loro reciproco impegno è un «grande mistero» (Ef 5,32). Le parole
del consenso esprimono, dunque, ciò che costituisce il bene comune dei coniugi
e indicano ciò che deve essere il bene comune della futura famiglia. Per
metterlo in evidenza la Chiesa domanda loro se sono disposti ad accogliere e ad
educare cristianamente i figli che Dio vorrà loro donare. La domanda si
riferisce al bene comune del futuro nucleo familiare, tenendo presente la
genealogia delle persone inscritta nella costituzione stessa del matrimonio e
della famiglia. La domanda circa i figli e la loro educazione è strettamente
collegata col consenso coniugale, col giuramento d'amore, di rispetto coniugale,
di fedeltà fino alla morte. L'accoglienza e l'educazione dei figli due tra gli
scopi principali della famiglia - sono condizionate dall'adempimento di tale
impegno. La paternità e la maternità rappresentano un compito di natura non
semplicemente fisica, ma spirituale; attraverso di esse, infatti, passa la
genealogia della persona, che ha il suo eterno inizio in Dio e che a Lui deve
condurre. L'Anno della Famiglia, anno di particolare preghiera delle famiglie,
dovrebbe rendere consapevole ogni famiglia di tutto questo in modo nuovo e
profondo. Quale ricchezza di spunti biblici potrebbe costituire il substrato di
tale preghiera! Bisogna che alle parole della Sacra Scrittura si aggiunga sempre
il ricordo personale dei coniugi-genitori, e quello dei figli e dei nipoti.
Mediante la genealogia delle persone, la comunione coniugale diventa comunione
delle generazioni. L'unione sacramentale dei due, sigillata nel patto stipulato
davanti a Dio, perdura e si consolida nel succedersi delle generazioni. Essa
deve diventare unità di preghiera. Ma perché questo possa trasparire in modo
significativo nell'Anno della Famiglia, è necessario che il pregare diventi
abitudine radicata nella vita quotidiana di ogni famiglia. La preghiera è
rendimento di grazie, lode a Dio, domanda di perdono, supplica ed invocazione.
In ciascuna di queste forme, la preghiera della famiglia ha molto da dire a Dio.
Ha anche tanto da dire agli uomini, a cominciare dalla reciproca comunione delle
persone unite da legami familiari. «Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi?»
(Sal 8,5), si domanda il Salmista. La preghiera è il luogo in cui, nel più
semplice dei modi, si manifesta il ricordo creativo e paterno di Dio: non solo e
non tanto il ricordo di Dio da parte dell'uomo, quanto piuttosto il ricordo
dell'uomo da parte di Dio. Per questo la preghiera della comunità familiare può
diventare luogo del ricordo comune e reciproco: la famiglia infatti è comunità
di generazioni. Nella preghiera tutti debbono essere presenti: coloro che vivono
e coloro che già sono morti, come pure quanti ancora devono venire al mondo.
Occorre che nella famiglia si preghi per ciascuno, a misura del bene che la
famiglia costituisce per lui e del bene che egli costituisce per la famiglia. La
preghiera conferma più saldamente tale bene, proprio come bene comune
familiare. Anzi, essa dà anche inizio a questo bene, in modo sempre rinnovato.
Nella preghiera la famiglia si ritrova come il primo «noi» nel quale ciascuno
è «io» e «tu»; ciascuno è per l'altro rispettivamente marito o moglie,
padre o madre, figlio o figlia, fratello o sorella, nonno o nipote. Sono così
le famiglie alle quali mi rivolgo con questa Lettera? Certamente non poche sono
così, ma i tempi in cui viviamo manifestano la tendenza a restringere il nucleo
familiare entro l'ambito di due generazioni. Ciò avviene spesso per la
ristrettezza delle abitazioni disponibili, soprattutto nelle grandi città. Non
di rado, però, ciò è dovuto anche alla convinzione che più generazioni
insieme siano di ostacolo all'intimità e rendano troppo difficile la vita. Ma
non è proprio questo il punto più debole? C'è poca vita umana nelle famiglie
dei nostri giorni. Mancano le persone con le quali creare e condividere il bene
comune; eppure il bene, per sua natura, esige di essere creato e condiviso con
altri: «bonum est diffusivum sui»: «il bene tende a diffondersi». Il bene
quanto più è comune, tanto più è anche proprio: mio - tuo - nostro. Questa
è la logica intrinseca dell'esistere nel bene, nella verità e nella carità.
Se l'uomo sa accogliere questa logica e seguirla, la sua esistenza diventa
veramente un «dono sincero».
Il dono sincero di sé
11.
Nell'affermare che l'uomo è l'unica creatura sulla terra voluta da Dio per se
stessa, il Concilio aggiunge subito che egli non può «ritrovarsi pienamente se
non attraverso un dono sincero di sé». Potrebbe sembrare una contraddizione,
ma non lo è affatto. È, piuttosto, il grande e meraviglioso paradosso
dell'esistenza umana: un'esistenza chiamata a servire la verità nell'amore.
L'amore fa sì che l'uomo si realizzi attraverso il dono sincero di sé: amare
significa dare e ricevere quanto non si può né comperare né vendere, ma solo
liberamente e reciprocamente elargire. Il dono della persona esige per sua
natura di essere duraturo ed irrevocabile. L'indissolubilità del matrimonio
scaturisce primariamente dall'essenza di tale dono: dono della persona alla
persona. In questo vicendevole donarsi viene manifestato il carattere sponsale
dell'amore. Nel consenso matrimoniale i novelli sposi si chiamano con il proprio
nome: «lo... prendo te... come mia sposa (come mio sposo) e prometto di esserti
fedele... per tutti i giorni della mia vita». Un simile dono obbliga molto più
fortemente e profondamente di tutto ciò che può essere «acquistato» in
qualunque modo ed a qualsiasi prezzo. Piegando le ginocchia davanti al Padre,
dal quale proviene ogni paternità e maternità, i futuri genitori diventano
consapevoli di essere stati «redenti». Sono stati, infatti, acquistati a caro
prezzo, a prezzo del dono più sincero possibile, il sangue di Cristo, al quale
partecipano mediante il sacramento. Coronamento liturgico del rito matrimoniale
è l'Eucaristia - sacrificio del «corpo dato» e del «sangue sparso» - che
nel consenso dei coniugi trova, in qualche modo, una sua espressione. Quando
l'uomo e la donna nel matrimonio si donano e si ricevono reciprocamente
nell'unità di «una sola carne», la logica del dono sincero entra nella loro
vita. Senza di essa, il matrimonio sarebbe vuoto, mentre la comunione delle
persone, edificata su tale logica, diventa comunione dei genitori. Quando
trasmettono la vita al figlio, un nuovo «tu» umano si inserisce nell'orbita
del «noi» dei coniugi, una persona che essi chiameranno con un nome nuovo: «nostro
figlio...; nostra figlia...». «Ho acquistato un uomo dal Signore» (Gn 4,1),
dice Eva, la prima donna della storia: un essere umano, prima atteso per nove
mesi e poi «manifestato» ai genitori, ai fratelli e alle sorelle. Il processo
del concepimento e dello sviluppo nel grembo materno, del parto, della nascita
serve a creare quasi uno spazio adatto perché la nuova creatura possa
manifestarsi come «dono»: tale, infatti, essa è sin dal principio. Potrebbe
forse qualificarsi diversamente questo essere fragile ed indifeso, in tutto
dipendente dai suoi genitori e completamente affidato a loro? Il neonato si dona
ai genitori per il fatto stesso di venire all'esistenza. Il suo esistere è già
un dono, il primo dono del Creatore alla creatura. Nel neonato si realizza il
bene comune della famiglia. Come il bene comune dei coniugi trova compimento
nell'amore sponsale, pronto a dare e ad accogliere la nuova vita, così il bene
comune della famiglia si realizza mediante lo stesso amore sponsale
concretizzato nel neonato. Nella genealogia della persona è inscritta la
genealogia della famiglia, consegnata alla memoria mediante le annotazioni nei
registri dei Battesimi, anche se queste non sono che la conseguenza sociale del
fatto «che e venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21). Ma è poi vero che il nuovo
essere umano è un dono per i genitori? Un dono per la società? Apparentemente
nulla sembra indicarlo. La nascita di un uomo pare talora un semplice dato
statistico, registrato come tanti altri nei bilanci demografici. Certamente la
nascita di un figlio significa per i genitori ulteriori fatiche, nuovi pesi
economici, altri condizionamenti pratici: motivi, questi che possono indurli
nella tentazione di non desiderare un'altra nascita. In alcuni ambienti sociali
e culturali poi la tentazione si fa più forte. Il figlio non è dunque un dono?
Viene solo per prendere e non per dare? Ecco alcuni inquietanti interrogativi,
da cui l'uomo d'oggi fa fatica a liberarsi. Il figlio viene ad occupare dello
spazio, mentre di spazio nel mondo sembra essercene sempre meno. Ma è proprio
vero che egli non porta niente alla famiglia ed alla società? Non è forse una
«particella» di quel bene comune, senza del quale le comunità umane si
frantumano e rischiano di morire? Come negarlo? Il bambino fa di sé un dono ai
fratelli, alle sorelle, ai genitori, all'intera famiglia. La sua vita diventa
dono per gli stessi donatori della vita, i quali non potranno non sentire la
presenza del figlio, la sua partecipazione alla loro esistenza, il suo apporto
al bene comune loro e della comunità familiare. Verità, questa, che nella sua
semplicità e profondità rimane ovvia, nonostante la complessità, ed anche
l'eventuale patologia, della struttura psicologica di certe persone. Il bene
comune dell'intera società dimora nell'uomo, che, come è stato ricordato, è
«la via della Chiesa». Egli è anzitutto la «gloria di Dio»: «Gloria Dei
vivens homo», secondo la nota affermazione di sant'Ireneo, che potrebbe essere
tradotta anche così: «La gloria di Dio è che l'uomo viva». Siamo qui in
presenza, si direbbe, della definizione più alta dell'uomo: la gloria di Dio è
il bene comune di tutto ciò che esiste; il bene comune del genere umano. Sì!
L'uomo è un bene comune: bene comune della famiglia e dell'umanità, dei
singoli gruppi e delle molteplici strutture sociali. C'è però una
significativa distinzione di grado e di modalità da fare: l'uomo è bene
comune, ad esempio, della Nazione a cui appartiene o dello Stato di cui è
cittadino. ma lo è in un modo molto più concreto, unico ed irrepetibile per la
sua famiglia; lo è non solo come individuo che fa parte della moltitudine
umana, bensì come «questo uomo». Dio Creatore lo chiama all'esistenza «per
se stesso», e nel venire al mondo l'uomo comincia, nella famiglia, la sua «grande
avventura», l'avventura della vita. «Quest'uomo» ha, in ogni caso, diritto
alla propria affermazione a motivo della sua dignità umana. È precisamente
questa dignità a stabilire il posto della persona tra gli uomini, ed anzitutto
nella famiglia. La famiglia è infatti più di ogni altra realtà umana
l'ambiente nel quale l'uomo può esistere «per se stesso» mediante il dono
sincero di sé. Per questo essa rimane un'istituzione sociale che non si può e
non si deve sostituire: è «il santuario della vita». Il fatto poi che sta
nascendo un uomo, che «è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21), costituisce un
segno pasquale. Ne parla Gesù stesso ai discepoli, come riferisce l'evangelista
Giovanni, prima della passione e morte, paragonando la tristezza per la sua
dipartita alla sofferenza di una donna partoriente: «La donna, quando
partorisce, è afflitta (cioè, soffre), perché è giunta la sua ora, ma quando
ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'afflizione per la gioia
che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21). L'«ora» della morte di Cristo (cfr.
Gv 13,1) è qui paragonata all'«ora» della donna in travaglio; la nascita di
un nuovo uomo trova il suo pieno riscontro nella vittoria della vita sulla morte
operata dalla risurrezione del Signore. Questo raffronto si presta a diverse
riflessioni. Come la risurrezione di Cristo è la manifestazione della Vita
oltre la soglia della morte, cosi anche la nascita di un bambino è
manifestazione della vita, sempre destinata, per mezzo di Cristo alla «pienezza
della vita» che è in Dio stesso: «Io sono venuto perché abbiano la vita e
l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Ecco svelato nel suo valore più profondo
il vero significato dell'espressione di sant'lreneo: «Gloria Dei vivens homo».
È la verità evangelica del dono di sé, senza di cui l'uomo non può «ritrovarsi
pienamente», che permette di valutare quanto profondamente questo «dono
sincero» sia radicato nel dono di Dio Creatore e Redentore, nella «grazia
dello Spirito Santo», la cui «effusione» sugli sposi il celebrante invoca nel
rito del matrimonio. Senza tale «effusione» sarebbe veramente difficile
comprendere tutto questo e compierlo come vocazione dell'uomo. È tuttavia tanta
gente lo intuisce! Tanti uomini e donne fanno propria questa verità giungendo
ad intravedere che solo in essa incontrano «la Verità e la Vita» (Gv 14,6).
Senza questa verità la vita dei coniugi e della famiglia non riesce ad
attingere un senso pienamente umano. Ecco perché la Chiesa non si stanca mai di
insegnare e di testimoniare tale verità. Pur manifestando una comprensione
materna per le non poche e complesse situazioni di crisi nelle quali le famiglie
sono coinvolte, come pure per la fragilità morale di ogni essere umano, la
Chiesa è convinta di dover rimanere assolutamente fedele alla verità
sull'amore umano: diversamente, tradirebbe se stessa. Discostarsi da questa
verità salvifica sarebbe infatti come chiudere «gli occhi della mente» (Ef
I,18), che invece devono sempre rimanere aperti alla luce con cui il Vangelo
illumina le vicende umane (cfr. 2Tm 1,10). La consapevolezza di quel dono
sincero di sé, mediante il quale l'uomo «ritrova se stesso», va rinnovata
saldamente e costantemente garantita, di fronte alle molte opposizioni che la
Chiesa incontra da parte dei fautori di una falsa civiltà del progresso. La
famiglia esprime sempre una nuova dimensione del bene per gli uomini, e per
questo genera una nuova responsabilità. Si tratta della responsabilità per
quel singolare bene comune nel quale è racchiuso il bene dell'uomo: di ogni
membro della comunità familiare; un bene certamente «difficile» («bonum
arduum»), ma affascinante.
La paternità e maternità responsabili
12.
È giunto il momento di accennare, nella trama della presente Lettera alle
Famiglie, a due questioni tra loro collegate. L'una, più generica, riguarda la
civiltà dell'amore, l'altra, più specifica, riguarda la paternità e maternità
responsabili. Abbiamo già detto che il matrimonio fa appello ad una singolare
responsabilità per il bene comune: prima dei coniugi, poi della famiglia.
Questo bene comune è costituito dall'uomo, dal valore della persona e da quanto
rappresenta la misura della sua dignità. L'uomo porta con sé tale dimensione
in ogni sistema sociale, economico e politico. Nell'ambito del matrimonio e
della famiglia, però, questa responsabilità diventa, per molte ragioni, ancor
più «impegnativa». Non senza motivo la Costituzione pastorale Gaudium et spes
parla di «valorizzazione della dignità del matrimonio e della famiglia». Il
Concilio vede in tale «valorizzazione» un compito sia della Chiesa che dello
Stato; essa tuttavia rimane, in ogni cultura, dovere innanzitutto delle persone
che, unite in matrimonio, formano una determinata famiglia. La «paternità e
maternità responsabili» esprimono l'impegno concreto per attuare tale dovere,
che nel mondo contemporaneo riveste nuove caratteristiche. In particolare, esse
riguardano direttamente il momento in cui l'uomo e la donna, unendosi «in una
sola carne», possono diventare genitori. È momento ricco di un valore
peculiare sia per il loro rapporto interpersonale che per il loro servizio alla
vita: essi possono diventare genitori - padre e madre - comunicando la vita ad
un nuovo essere umano. Le due dimensioni dell'unione coniugale, quella unitiva e
quella procreativa, non possono essere separate artificialmente senza intaccare
la verità intima dell'atto coniugale stesso. Questo è l'insegnamento costante
della Chiesa ed i «segni dei tempi», di cui siamo oggi testimoni, offrono
nuovi motivi per ribadirlo con particolare forza. San Paolo così attento alle
esigenze pastorali del suo tempo, esigeva con chiarezza e fermezza di «insistere
in ogni occasione opportuna e non opportuna» (cfr. 2Tm 4,2), senza alcun timore
per il fatto che «non si sopporta più la sana dottrina» (cfr. 2Tm 4,3). Le
sue parole sono ben note a quanti, comprendendo a fondo le vicende del nostro
tempo, attendono che la Chiesa, non solo non abbandoni «la sana dottrina», ma
la annunzi con rinnovato vigore, ricercando negli attuali «segni dei tempi» le
ragioni per un suo ulteriore e provvidenziale approfondimento. Molte di queste
ragioni si ritrovano già nelle stesse scienze che dall'antico tronco della
antropologia si sono sviluppate in varie specializzazioni, quali la biologia, la
psicologia, la sociologia e le loro ulteriori ramificazioni. Tutte ruotano in
certo modo intorno alla medicina, al tempo stesso scienza ed arte (ars medica)
al servizio della vita e della salute dell'uomo. Ma le ragioni, alle quali qui
si accenna, emergono soprattutto dall'esperienza umana che è molteplice e che,
in certo senso, precede e segue la stessa scienza. I coniugi imparano per
propria esperienza che cosa significhino la paternità e maternità
responsabili; lo imparano anche grazie all'esperienza di altre coppie che vivono
in condizioni analoghe e sono resi in tal modo più aperti ai dati delle
scienze. Si potrebbe dire che gli «studiosi» quasi imparano dai «coniugi»,
per essere in grado poi, a loro volta, di istruirli in maniera più competente
sul significato della procreazione responsabile e sui modi di attuarla. Questo
argomento è stato ampiamente trattato nei Documenti conciliari, nell'Enciclica
Humanae vitae nelle «Proposizioni» del Sinodo dei Vescovi del 1980
nell'Esortazione apostolica Familiaris consortio, e in analoghi interventi, sino
all'istruzione Donum vitae della Congregazione per la Dottrina della Fede. La
Chiesa insegna la verità morale circa la paternità e maternità responsabili,
difendendola dalle visioni e tendenze erronee oggi diffuse. Perché la Chiesa fa
questo? Forse perché non avverte le problematiche evocate da quanti consigliano
in quest'ambito cedimenti e cercano di convincerla anche con indebite pressioni,
quando non addirittura con minacce? Non di rado, infatti, il Magistero della
Chiesa viene rimproverato di essere ormai superato e chiuso alle istanze dello
spirito dei tempi moderni; di svolgere un'azione nociva per l'umanità, anzi per
la Chiesa stessa. Mantenendosi ostinatamente sulle proprie posizioni - si dice -
la Chiesa finirà per perdere in popolarità e i credenti si allontaneranno
sempre più da essa. Ma come sostenere che la Chiesa, specialmente l'Episcopato
in comunione col Papa, sia insensibile a problemi così gravi ed attuali? Paolo
VI intravedeva proprio in essi questioni tanto vitali da spingerlo a pubblicare
l'Enciclica Humanae vitae. Il fondamento su cui si basa la dottrina della Chiesa
circa la patemità e maternità responsabili è quanto mai ampio e solido. Il
Concilio lo indica anzitutto nell'insegnamento sull'uomo, quando afferma che
egli «in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa» e che
non può «ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé».
Questo perché egli è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio e redento
dal Figlio unigenito del Padre, fattosi uomo per noi e per la nostra salvezza.
Il
Concilio Vaticano II, particolarmente attento al problema dell'uomo e della sua
vocazione, afferma che l'unione coniugale, la biblica «una caro», può essere
compresa e spiegata pienamente solo ricorrendo ai valori della persona» e del
«dono». Ogni uomo ed ogni donna si realizzano in pienezza mediante il dono
sincero di sé e, per i coniugi, il momento dell'unione coniugale costituisce di
ciò un'esperienza particolarissima. È allora che l'uomo e la donna, nella «verità»
della loro mascolinità e femminilità, diventano reciproco dono. Tutta la vita
nel matrimonio è dono; ma ciò si rende singolarmente evidente quando i
coniugi, offrendosi reciprocamente nell'amore, realizzano quell'incontro che fa
dei due «una sola carne» (Gn 2,24). Essi vivono allora un momento di speciale
responsabilità, anche a motivo della potenzialità procreativa connessa con
l'atto coniugale. I coniugi possono, in quel momento, diventare padre e madre,
dando inizio al processo di una nuova esistenza umana, che poi si svilupperà
nel grembo della donna. Se è la donna a rendersi conto per prima di essere
diventata madre, l'uomo con il quale si è unita in «una sola carne» prende a
sua volta «coscienza» attraverso la sua testimonianza, di essere diventato
padre. Della potenziale, e in seguito effettiva, paternità e maternità sono
entrambi responsabili. L'uomo non può non riconoscere, o non accettare, il
risultato di una decisione che è stata anche sua. Non può nascondersi dietro
espressioni quali: «non so», «non volevo», «sei stata tu a volere».
L'unione coniugale comporta in ogni caso la responsabilità dell'uomo e della
donna, responsabilità potenziale che diventa effettiva quando le circostanze lo
impongono. Ciò vale soprattutto per l'uomo che, pur essendo anch'egli artefice
dell'avvio del processo generativo, ne resta biologicamente distante: è infatti
nella donna che esso si sviluppa. Come potrebbe l'uomo non farsene carico?
Occorre che entrambi, l'uomo e la donna, si assumano insieme, di fronte a se
stessi e agli altri, la responsabilità della nuova vita da loro suscitata. È
conclusione, questa, che viene condivisa dalle stesse scienze umane. Occorre,
però, andare più a fondo, analizzando il significato dell'atto coniugale alla
luce degli accennati valori della «persona» e del «dono». È quanto fa la
Chiesa con il suo costante insegnamento, in particolare nel Concilio Vaticano II.
Al momento dell'atto coniugale, l'uomo e la donna sono chiamati a confermare in
modo responsabile il reciproco dono che hanno fatto di sé nel patto
matrimoniale. Ora, la logica del dono di sé all'altro in totalità comporta la
potenziale apertura alla procreazione: il matrimonio è chiamato così a
realizzarsi ancora più pienamente come famiglia. Certo, il dono reciproco
dell'uomo e della donna non ha come fine solo la nascita dei figli, ma è in se
stesso mutua comunione di amore e di vita. Sempre dev'essere garantita l'intima
verità di tale dono. «Intima» non è sinonimo di «soggettiva». Significa
piuttosto essenzialmente coerente con l'oggettiva verità di colui e di colei
che si donano. La persona non può mai essere considerata un mezzo per
raggiungere uno scopo; mai, soprattutto, un mezzo di «godimento». Essa è e
dev'essere solo il fine di ogni atto. Soltanto allora l'azione corrisponde alla
vera dignità della persona. Nel concludere la nostra riflessione su
quest'argomento cosi importante e delicato, desidero rivolgere un particolare
incoraggiamento anzitutto a voi, carissimi coniugi, e a tutti coloro che vi
aiutano a comprendere ed a mettere in pratica l'insegnamento della Chiesa sul
matrimonio, sulla maternità e paternità responsabili. Penso, in particolare,
ai Pastori, ai molti studiosi, teologi, filosofi, scrittori e pubblicisti; che
non si adeguano al conformismo culturale dominante, disposti coraggiosamente ad
«andare contro corrente». Tale incoraggiamento riguarda, inoltre, un gruppo
sempre più numeroso di esperti, medici ed educatori, veri apostoli laici, per i
quali la valorizzazione della dignità del matrimonio e della famiglia è
diventata un compito importante della loro vita. A nome della Chiesa dico a
tutti il mio grazie! Che cosa potrebbero fare senza di loro i Sacerdoti, i
Vescovi e persino lo stesso Successore di Pietro? Di ciò sono andato sempre più
convincendomi sin dai primi anni del mio sacerdozio, da quando cominciai a
sedermi nel confessionale, per condividere le preoccupazioni, i timori e le
speranze di tanti coniugi: ho incontrato casi difficili di ribellione e di
rifiuto, ma al tempo stesso tante persone stupendamente responsabili e generose!
Mentre scrivo questa Lettera ho presenti tutti questi coniugi e li abbraccio con
il mio affetto e la mia preghiera.
Le due civiltà
13. Carissime
famiglie, la questione della paternità e della maternità responsabili si
inscrive nell'intera tematica della «civiltà dell'amore», di cui ora desidero
parlarvi. Da quanto finora è stato detto risulta in modo chiaro che la famiglia
sta alla base di quella che Paolo VI ha qualificato come «civiltà dell'amore»,
espressione entrata poi nell'insegnamento della Chiesa e diventata ormai
familiare. Oggi è difficile pensare ad un intervento della Chiesa, oppure sulla
Chiesa, che prescinda dal riferimento alla civiltà dell'amore. L'espressione si
collega con la tradizione della «chiesa domestica» nel cristianesimo delle
origini, ma possiede un preciso riferimento anche all'epoca contemporanea.
Etimologicamente il termine «civiltà» deriva da civis, «cittadino», e
sottolinea la dimensione politica dell'esistenza di ogni individuo. Il senso più
profondo dell'espressione «civiltà» non è però soltanto politico, quanto
piuttosto «umanistico». La civiltà appartiene alla storia dell'uomo, perché
corrisponde alle sue esigenze spirituali e morali: creato ad immagine e
somiglianza di Dio. egli ha ricevuto il mondo dalle mani del Creatore con
l'impegno di plasmarlo a propria immagine e somiglianza. Proprio
dall'adempimento di questo compito scaturisce la civiltà, che altro non è, in
definitiva, se non l'«umanizzazione del mondo». Civiltà dunque ha lo stesso
significato, in certo modo, di «cultura». Si potrebbe perciò anche dire: «cultura
dell'amore», pur essendo preferibile attenersi all'espressione diventata ormai
familiare. La civiltà dell'amore, nel senso attuale del termine, si ispira alle
parole della Costituzione conciliare Gaudium et spes: «Cristo... svela...
pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione». Si può
perciò affermare che la civiltà dell'amore prende avvio dalla rivelazione di
Dio che «è amore» come dice Giovanni (IGv 4,8.16), ed è descritta
efficacemente da Paolo nell'inno alla carità della Prima Lettera ai Corinti
(13,1-13). Tale civiltà è intimamente connessa con l'amore «riversato nei
nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5) e
cresce grazie alla costante coltivazione di cui parla, in modo così incisivo,
l'allegoria evangelica della vite e dei tralci: «lo sono la vera vite e il
Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e
ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto» (Gv 15,1-2).
Alla luce di questi e di altri testi del Nuovo Testamento è possibile
comprendere che cosa s'intende per «civiltà dell'amore», e perché la
famiglia è organicamente unita con tale civiltà. Se prima «via della Chiesa»
è la famiglia, occorre aggiungere che anche la civiltà dell'amore è «via
della Chiesa», la quale cammina nel mondo e chiama su tale via le famiglie e le
altre istituzioni sociali, nazionali e internazionali, a motivo proprio delle
famiglie ed attraverso le famiglie. La famiglia infatti dipende per molteplici
motivi dalla civiltà dell'amore, nella quale trova le ragioni del suo essere
famiglia. E in pari tempo la famiglia è il centro e il cuore della civiltà
dell'amore. Vero amore, tuttavia, non c'è senza la consapevolezza che Dio «è
Amore» e che l'uomo è l'unica creatura in terra chiamata da Dio all'esistenza
«per se stessa». L'uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio non può «ritrovarsi
pienamente» se non attraverso il dono sincero di sé. Senza un tale concetto
dell'uomo, della persona e della «comunione di persone» nella famiglia, non ci
può essere la civiltà dell'amore; reciprocamente, senza la civiltà dell'amore
è impossibile un tale concetto di persona e di comunione di persone. La
famiglia costituisce la «cellula» fondamentale della società. Ma c'è bisogno
di Cristo - «vite» dalla quale traggono linfa i «tralci» -, perché questa
cellula non sia esposta alla minaccia di una specie di sradicamento culturale,
che può venire sia dall'interno che dall'esterno. Infatti, se esiste da un lato
la «civiltà dell'amore», permane dall'altro lato la possibilità di un'«anti-civiltà»
distruttiva, com'è confermato oggi da tante tendenze e situazioni di fatto. Chi
può negare che la nostra sia un'epoca di grande crisi, che si esprime anzitutto
come profonda .«crisi della verità»? Crisi di verità significa, in primo
luogo, crisi di concetti. l termini «amore», «libertà», «dono sincero», e
perfino quelli di «persona», «diritti della persona», significano in realtà
ciò che per loro natura contengono? Ecco perché si rivela tanto significativa
ed importante per la Chiesa e per il mondo - prima di tutto nell'Occidente -
l'Enciclica sullo «splendore della verità» (Veritatis splendor). Solo se la
verità circa la libertà e la comunione delle persone nel matrimonio e nella
famiglia riacquisterà il suo splendore, si avvierà veramente l'edificazione
della civiltà dell'amore e sarà allora possibile parlare con efficacia - come
fa il Concilio - di «valorizzazione della dignità del matrimonio e della
famiglia». Perché è così importante lo «splendore della verità»? Lo è,
anzitutto, per contrasto: lo sviluppo della civiltà contemporanea è legato ad
un progresso scientifico-tecnologico che si attua in modo spesso unilaterale,
presentando di conseguenza caratteristiche puramente positivistiche. Il
positivismo, come si sa, ha come suoi frutti l'agnosticismo in campo teorico e
l'utilitarismo in campo pratico ed etico. Ai nostri tempi la storia in un certo
senso si ripete. L'utilitarismo è una civiltà del prodotto e del godimento,
una civiltà delle «cose» e non delle «persone»; una civiltà in cui le
persone si usano come si usano le cose. Nel contesto della civiltà del
godimento, la donna può diventare per l'uomo un oggetto, i figli un ostacolo
per i genitori, la famiglia un'istituzione ingombrante per la libertà dei
membri che la compongono. Per convincersene, basta esaminare certi programmi di
educazione sessuale, introdotti nelle scuole, spesso nonostante il parere
contrario e le stesse proteste di molti genitori; oppure le tendenze abortiste,
che cercano invano di nascondersi dietro il cosiddetto «diritto di scelta» («pro
choice») da parte di ambedue i coniugi, e particolarmente da parte della donna.
Sono soltanto due esempi tra i molti che si potrebbero ricordare. È evidente
che in una simile situazione culturale la famiglia non può non sentirsi
minacciata, perché insidiata nelle sue stesse fondamenta. Quanto è contrario
alla civiltà dell'amore è contrario all'intera verità sull'uomo e diventa per
lui una minaccia: non gli permette di ritrovare se stesso e di sentirsi al
sicuro come coniuge, come genitore, come figlio. Il cosiddetto «sesso sicuro»,
propagandato dalla «civiltà tecnica», è in realtà, sotto il profilo delle
esigenze globali della persona, radicalmente non-sicuro, ed anzi gravemente
pericoloso. La persona, infatti, vi si trova in pericolo, cosi come, a sua
volta, in pericolo versa la famiglia. Qual è il pericolo? È la perdita della
verità su se stessa, a cui si unisce il rischio di perdita della libertà e,
conseguentemente, di perdita dello stesso amore. «Conoscerete la verità dice
Gesù e la verità vi farà liberi» (Gv 8,): la verità, soltanto la verità,
vi preparerà ad un amore di cui si possa dire che è «bello». La famiglia
contemporanea, come quella di sempre, va in cerca del «bell'amore». Un amore
non «bello», ossia ridotto a solo soddisfacimento della concupiscenza (cfr.
IGv 2,16), o ad un reciproco «uso» dell'uomo e della donna, rende le persone
schiave delle loro debolezze. Non portano a questa schiavitù certi moderni «programmi
culturali»? Sono programmi che «giocano» sulle debolezze dell'uomo,
rendendolo così sempre più debole ed indifeso. La civiltà dell'amore richiama
la gioia: gioia, tra l'altro, perché un uomo viene al mondo (cfr. Gv 16,21 ) e,
conseguentemente, perché i coniugi diventano genitori. Civiltà dell'amore
significa «compiacersi della verità» (cfr. I Cor 13,6). Ma una civiltà,
ispirata ad una mentalità consumistica ed anti-natalista, non è e non può
essere mai una civiltà dell'amore. Se la famiglia è così importante per la
civiltà dell'amore, lo è per la particolare vicinanza ed intensità dei legami
che in essa si instaurano tra le persone e le generazioni. Essa tuttavia resta
vulnerabile e può facilmente subire i pericoli che indeboliscono o addirittura
distruggono la sua unità e stabilità. Per effetto di tali pericoli le famiglie
cessano di testimoniare a favore della civiltà dell'amore e possono perfino
diventame la negazione, una specie di contro-testimonianza. Una famiglia
sfasciata può, a sua volta, rafforzare una specifica forma di «anti-civiltà»,
distruggendo l'amore nei vari ambiti del suo esprimersi, con inevitabili
ripercussioni sull'insieme della vita sociale.
L'amore è esigente
14. Quell'amore
a cui l'apostolo Paolo ha dedicato un inno nella Prima Lettera ai Corinzi
quell'amore che è «paziente», è «benigno» e «tutto sopporta» ( I Cor
13,4.7) è certamente un amore esigente. Ma proprio in questo sta la sua
bellezza: nel fatto di essere esigente, perché in questo modo costituisce il
vero bene dell'uomo e lo irradia anche sugli altri. Il bene infatti, dice san
Tommaso, è per sua natura «diffusivo». L'amore è vero quando crea il bene
delle persone e delle comunità, lo crea e lo dona agli altri. Soltanto chi, nel
nome dell'amore, sa essere esigente con se stesso, può anche esigere l'amore
dagli altri. Perché l'amore è esigente. Lo è in ogni situazione umana; lo è
ancor più per chi si apre al Vangelo. Non è questo che Cristo proclama nel «suo»
comandamento? Bisogna che gli uomini di oggi scoprano questo amore esigente,
perché in esso sta il fondamento veramente saldo della famiglia, un fondamento
che è capace di «tutto sopportare». Secondo l'Apostolo, l'amore non è in
grado di «sopportare tutto», se cede alle «invidie», se «si vanta», se «si
gonfia», se «manca di rispetto» (cfr. I Cor 13,5-6). Il vero amore, insegna
san Paolo, è diverso: «tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (I Cor
13,7). Proprio questo amore «tutto sopporterà». Agisce in esso la potente
forza di Dio stesso, che «è amore» (IGv 4,8.16). Vi agisce la potente forza
di Cristo, Redentore dell'uomo e Salvatore del mondo.
Meditando
il capitolo 13 della Prima Lettera di Paolo ai Corinzi, ci incamminiamo sulla
via che in modo più immediato ed incisivo ci fa comprendere la verità piena
circa la civiltà dell'amore. Nessun altro testo biblico esprime tale verità in
modo più semplice e profondo dell'inno alla carità. I pericoli che incombono
sull'amore costituiscono una minaccia anche alla civiltà dell'amore, perché
favoriscono quanto è in grado di contrastarla efficacemente. Si pensi anzitutto
all'egoismo, non solo all'egoismo del singolo, ma anche a quello della coppia o,
in un ambito ancora più vasto, all'egoismo sociale, p. es. di classe o di
nazione (nazionalismo). L'egoismo, in ogni sua forma, si oppone direttamente e
radicalmente alla civiltà dell'amore. Si vuol dire, forse, che l'amore è da
definirsi semplicemente come «anti-egoismo»? Sarebbe una definizione troppo
povera e in definitiva solo negativa, anche se è vero che per realizzare
l'amore e la civiltà dell'amore debbono essere superate varie forme di egoismo.
Più giusto è parlare di «altruismo», che è l'antitesi dell'egoismo. Ma
ancor più ricco e completo è il concetto di amore illustrato da san Paolo.
L'inno alla carità della Prima Lettera ai Corinzi rimane come la magna charta
della civiltà dell'amore. In esso non è questione tanto di singole
manifestazioni (sia dell'egoismo che dell'altruismo), quanto dell'accettazione
radicale del concetto di uomo come persona che «si ritrova» attraverso il dono
sincero di se stesso. Un dono è, ovviamente, «per gli altri»; è questa la
dimensione più importante della civiltà dell'amore. Entriamo così nel nucleo
stesso della verità evangelica sulla libertà. La persona si realizza mediante
l'esercizio della libertà nella verità. La libertà non può essere intesa
come facoltà di fare qualsiasi cosa: essa significa dono di sé. Di più:
significa interiore disciplina del dono. Nel concetto di dono non è inscritta
soltanto la libera iniziativa del soggetto, ma anche la dimensione del dovere.
Tutto ciò si realizza nella «comunione delle persone». Siamo così nel cuore
stesso di ogni famiglia. Siamo anche sulle orme dell'antitesi tra
l'individualismo e il personalismo. L'amore, la civiltà dell'amore si collega
con il personalismo. Perché proprio col personalismo? Perché l'individualismo
minaccia la civiltà dell'amore? Troviamo la chiave della risposta
nell'espressione conciliare: un «dono sincero». L'individualismo suppone un
uso della libertà nel quale il soggetto fa ciò che vuole, «stabilendo» egli
stesso «la verità» di ciò che gli piace o gli torna utile. Non ammette che
altri «voglia» o esiga qualcosa da lui nel nome di una verità oggettiva. Non
vuole «dare» ad un altro sulla base della verità, non vuole diventare un «dono
sincero». L'individualismo rimane pertanto egocentrico ed egoistico. L'antitesi
col personalismo nasce non soltanto sul terreno della teoria, ma ancor più su
quello dell'«ethos». L,«ethos» del personalismo è altruistico: muove la
persona a farsi dono per gli altri e a trovare gioia nel donarsi. È la gioia di
cui parla Cristo (cfr. Gv, 15,11; 1 6,20.22) . Occorre pertanto che le società
umane, ed in esse le famiglie, che vivono spesso in un contesto di lotta tra la
civiltà dell'amore e le sue antitesi, cerchino il loro fondamento stabile in
una giusta visione dell'uomo e di quanto decide della piena «realizzazione»
della sua umanità. Certamente contrario alla civiltà dell'amore è il
cosiddetto «libero amore», tanto più pericoloso perché proposto di solito
come frutto di un sentimento «vero», mentre di fatto distrugge l'amore. Quante
famiglie sono andate in rovina proprio per il «libero amore»! Seguire in ogni
caso il «vero» impulso affettivo in nome di un amore «libero» da
condizionamenti, significa, in realtà, rendere l'uomo schiavo di quegli istinti
umani che san Tommaso chiama «passioni dell'anima». Il «libero amore»
sfrutta le debolezze umane fornendo loro una certa «cornice» di nobiltà con
l'aiuto della seduzione e col favore dell'opinione pubblica. Si cerca così di
«tranquillizzare» la coscienza, creando un «alibi morale». Non si prendono
però in considerazione tutte le conseguenze che ne derivano, specialmente
quando a pagarle sono, oltre al coniuge, i figli, privati del padre o della
madre e condannati ad essere di fatto orfani di genitori vivi. Alla base
dell'utilitarismo etico, come si sa, c'è la continua ricerca del «massimo» di
felicità, ma di una «felicità utilitaristica», intesa solo come piacere,
come immediato soddisfacimento a vantaggio esclusivo del singolo individuo, al
di fuori o contro le oggettive esigenze del vero bene. Il programma
dell'utilitarismo, fondato su di una libertà orientata in senso
individualistico, ossia una libertà senza responsabilità, costituisce
l'antitesi dell'amore, anche come espressione della civiltà umana considerata
nel suo insieme. Quando tale concetto di libertà trova accoglienza nella società,
alleandosi facilmente con le più diverse forme di umana debolezza, si rivela
ben presto come una sistematica e permanente minaccia per la famiglia. Si
potrebbero citare, al riguardo, molte conseguenze nefaste, documentabili a
livello statistico, anche se non poche di esse rimangono nascoste nei cuori
degli uomini e delle donne, come ferite dolorose e sanguinanti. L 'amore dei
coniugi e dei genitori possiede la capacità di curare simili ferite, se le
insidie ricordate non lo privano della sua forza di rigenerazione, tanto
benefica e salutare per le comunità umane. Tale capacità dipende dalla grazia
divina del perdono e della riconciliazione, che assicura l'energia spirituale di
iniziare sempre di nuovo. Proprio per questo i membri della famiglia hanno
bisogno di incontrare Cristo nella Chiesa mediante il mirabile sacramento della
Penitenza e della Riconciliazione. In questo contesto ci si rende conto di
quanto sia importante la preghiera con le famiglie e per le famiglie, in
particolare per quelle minacciate dalla divisione. Bisogna pregare perché i
coniugi amino la loro vocazione, anche quando la strada diventa difficile o
conosce tratti angusti ed in salita, apparentemente insuperabili; pregare
affinché anche allora siano fedeli alla loro alleanza con Dio. «La famiglia è
la via della Chiesa». In questa Lettera desideriamo professare ed annunziare
insieme questa via, che attraverso la vita coniugale e familiare conduce al
Regno dei cieli (cfr. Mt 7,14). È importante che la «comunione delle persone»
nella famiglia diventi preparazione alla «comunione dei Santi». Ecco perché
la Chiesa confessa ed annunzia l'amore che «tutto sopporta» (ICor 13,7),
vedendo in esso, con san Paolo, la virtù «più grande» (ICor 13,13).
L'Apostolo non pone limiti a nessuno. Amare è vocazione di tutti, anche dei
coniugi e delle famiglie. Nella Chiesa, infatti, tutti sono ugualmente chiamati
alla perfezione della santità (cfr. Mt 5 ,48).
Il quarto comandamento: «Onora tuo padre e tua madre»
15.
Il quarto comandamento del Decalogo riguarda la famiglia, la sua compattezza
interiore; potremmo dire, la sua solidarietà. Nella sua formulazione non si
parla esplicitamente della famiglia. Di fatto, però, è proprio di essa che si
tratta. Per esprimere la comunione tra le generazioni il divino Legislatore non
ha trovato parola più adatta di questa: «Onora...» (Is 20,12). Siamo di
fronte ad un altro modo per esprimere ciò che la famiglia è. Tale formulazione
non eleva la famiglia in modo «artificiale» ma pone in luce la sua soggettività
ed i diritti che ne scaturiscono. La famiglia è una comunità di relazioni
interpersonali particolarmente intense: tra coniugi, tra genitori e figli, tra
generazioni. È una comunità che va garantita in modo particolare. E Dio non
trova garanzia migliore di questa: «Onora». «Onora tuo padre e tua madre,
perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio»
(Is 20,12). Questo comandamento segue i tre precetti fondamentali che riguardano
il rapporto dell'uomo e del popolo d'Israele con Dio: «Shema, Izrael...», «Ascolta,
Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Dt 6,4). «Non
avrai altri dèi di fronte a me» (Is 20,3). Ecco il primo e il più grande
comandamento, il comandamento dell'amore per Dio «sopra ogni cosa»: Egli va
amato «con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (Dt 6,5;
cfr. Mt 22,37). È significativo che il quarto comandamento si inserisca proprio
in tale contesto: «Onora tuo padre e tua madre», perché essi sono per te, in
un certo senso, i rappresentanti del Signore, coloro che ti hanno dato la vita,
che ti hanno introdotto nell'esistenza umana: in una stirpe, in una nazione, in
una cultura. Dopo Dio, sono essi i tuoi primi benefattori. Se Dio solo è buono,
anzi è il Bene stesso, i genitori partecipano in modo singolare di questa sua
bontà suprema. È dunque: onora i tuoi genitori! Vi è qui una certa analogia
con il culto dovuto a Dio. Il quarto comandamento è in stretta connessione col
comandamento dell'amore. Tra «onora» ed «ama» il vincolo è profondo.
L'onore, nel suo nucleo essenziale, è collegato con la virtù della giustizia,
ma questa, a sua volta, non può esplicarsi pienamente senza far appello
all'amore: per Dio e per il prossimo. E chi è più prossimo dei propri
familiari, dei genitori e dei figli? È unilaterale il sistema interpersonale
indicato dal quarto comandamento? Esso impegna ad onorare solo i genitori? In
senso letterale, sì. Indirettamente, però, possiamo parlare anche dell'«onore»
dovuto ai figli da parte dei genitori. «Onora» vuol dire: riconosci! Lasciati
cioè guidare dal convinto riconoscimento della persona, di quella del padre e
della madre prima di tutto, e poi di quella degli altri membri della famiglia.
L'onore è un atteggiamento essenzialmente disinteressato. Si potrebbe dire che
è «un dono sincero della persona alla persona», ed in tal senso l'onore
s'incontra con l'amore. Se il quarto comandamento esige di onorare il padre e la
madre, lo esige anche in considerazione del bene della famiglia. Proprio per
questo, però, esso pone delle esigenze agli stessi genitori. Genitori - sembra
ricordare loro il precetto divino -, agite in modo che il vostro comportamento
meriti l'onore (e l'amore) da parte dei vostri figli! Non lasciate cadere in un
«vuoto morale» l'esigenza divina di onore per voi! In definitiva, si tratta
dunque di un onore reciproco. Il comandamento «onora tuo padre e tua madre»
dice indirettamente ai genitori: Onorate i vostri figli e le vostre figlie. Essi
lo meritano perché esistono, perché sono quello che sono: ciò vale sin dal
primo momento del concepimento. Così questo comandamento, esprimendo l'intimo
legame della famiglia, mette in luce il fondamento della sua compattezza
interiore. Il comandamento continua: «perché si prolunghino i tuoi giorni nel
paese che ti dà il Signore, tuo Dio». Questo «perché» potrebbe dare
l'impressione di un calcolo «utilitaristico»: onorare in considerazione della
futura longevità. Diciamo, intanto, che ciò non sminuisce l'essenziale
significato dell'imperativo «onora», per sua natura connesso con un
atteggiamento disinteressato. Onorare non significa mai: «prevedi i vantaggi».
È difficile, tuttavia, non riconoscere che dall'atteggiamento di reciproco
onore, esistente tra i membri della comunità familiare, deriva anche un
vantaggio di varia natura. L'«onore» è certamente utile, come «utile» è
ogni vero bene. La famiglia realizza, innanzi tutto, il bene dell'«essere
insieme», bene per eccellenza del matrimonio (di qui la sua indissolubilità) e
della comunità familiare. Lo si potrebbe definire, inoltre, come bene della
soggettività. La persona e infatti un soggetto e tale è pure la famiglia,
perché formata da persone le quali, strette da un profondo vincolo di
comunione, formano un unico soggetto comunitario. Anzi, la famiglia è soggetto
più di ogni altra istituzione sociale: lo è più della Nazione, dello Stato,
più della società e delle Organizzazioni internazionali. Queste società,
specialmente le Nazioni, in tanto godono di soggettività propria in quanto la
ricevono dalle persone e dalle loro famiglie. Sono, queste, osservazioni
soltanto «teoriche», formulate allo scopo di «elevare» la famiglia
nell'opinione pubblica? No, si tratta piuttosto di un altro modo di esprimere ciò
che è la famiglia. Ed anche questo si deduce dal quarto comandamento. È una
verità che merita di essere rilevata e approfondita: essa sottolinea infatti
l'importanza di tale comandamento anche per il sistema moderno dei diritti
dell'uomo. Gli ordinamenti istituzionali usano il linguaggio giuridico. Dio
invece dice: «onora». Tutti i «diritti dell'uomo» sono, in definitiva,
fragili ed inefficaci, se alla loro base manca l'imperativo: «onora»; se
manca? in altri termini, il riconoscimento dell'uomo per il semplice fatto che
egli è uomo, «questo» uomo. Da soli, i diritti non bastano. Non è pertanto
esagerato ribadire che la vita delle Nazioni, degli Stati, delle Organizzazioni
internazionali «passa» attraverso la famiglia e «si fonda» sul quarto
comandamento del Decalogo. L'epoca in cui viviamo, nonostante le molteplici
Dichiarazioni di tipo giuridico che sono state elaborate, resta minacciata in
notevole misura dalla «alienazione», quale frutto delle premesse «illuministiche»
secondo le quali l'uomo è «più» uomo se è «soltanto» uomo. Non è
difficile avvertire come l'alienazione da tutto ciò che in vario modo
appartiene alla piena ricchezza dell'uomo insidi la nostra epoca. E questo
chiama in causa la famiglia. Infatti, l'affermazione della persona è in grande
misura rapportata alla famiglia e, conseguentemente, al quarto comandamento. Nel
disegno di Dio la famiglia è la prima scuola dell'essere uomo sotto i vari
aspetti. Sii uomo! È questo l'imperativo che in essa si trasmette: uomo come
figlio della patria, come cittadino dello Stato, e, si direbbe oggi, come
cittadino del mondo. Colui che ha consegnato all'umanità il quarto comandamento
è un Dio «benevolo» verso l'uomo (filanthropos, dicevano i greci). Il
Creatore dell'universo è il Dio dell'amore e della vita. Egli vuole che l'uomo
abbia la vita e l'abbia in abbondanza, come proclama Cristo (cfr. Gv 10,10): che
abbia la vita prima di tutto grazie alla famiglia. Appare chiaro a questo punto
che la «civiltà dell'amore» è strettamente collegata con la famiglia. Per
molti la civiltà dell'amore costituisce ancora una pura utopia. Si pensa
infatti che l'amore non possa essere preteso da nessuno e che a nessuno possa
essere imposto: sarebbe una libera scelta che gli uomini possono accettare o
respingere. C'è del vero in tutto questo. E tuttavia resta il fatto che Gesù
Cristo ci ha lasciato il comandamento dell'amore, così come Dio sul monte Sinai
aveva ordinato: «Onora tuo padre e tua madre». L'amore dunque non è
un'utopia: è dato all'uomo come compito da attuare con l'aiuto della grazia
divina. È affidato all'uomo e alla donna, nel sacramento del matrimonio, come
principio fontale del loro «dovere» e diventa per essi il fondamento del
reciproco impegno: di quello coniugale prima, di quello paterno e materno poi.
Nella celebrazione del sacramento, i coniugi si donano e si ricevono
reciprocamente, dichiarando la loro disponibilità ad accogliere e ad educare i
figli. Qui stanno i cardini della civiltà umana, la quale non può essere
definita diversamente che come «civiltà dell'amore». Di tale amore la
famiglia è espressione e sorgente. Per essa passa la principale corrente della
civiltà dell'amore, che in essa trova le sue «basi sociali». I Padri della
Chiesa, nel corso della tradizione cristiana, hanno parlato della famiglia come
di «chiesa domestica», di «piccola chiesa». Si riferivano così alla civiltà
dell'amore come ad un possibile sistema di vita e di convivenza umana. «Essere
insieme» come famiglia, essere gli uni per gli altri, creare uno spazio
comunitario per l'affermazione di ogni uomo come tale, per l'affermazione di «questo»
uomo in concreto. A volte si tratta di persone con handicap fisici o psichici,
delle quali la società cosiddetta «progressista» preferisce liberarsi. Anche
la famiglia può diventare simile ad una tale società. Lo diviene di fatto
quando sbrigativamente si sbarazza di chi è anziano o affetto da malformazioni
o colpito da malattie. Si agisce così perché vien meno la fede in quel Dio per
il quale «tutti vivono» (Lc 20,38) e tutti sono chiamati alla pienezza della
Vita. Sì, la civiltà dell'amore è possibile, non è un'utopia. È possibile,
però, soltanto grazie ad un costante e vivo riferimento a «Dio e Padre del
Signore nostro Gesù Cristo, dal quale proviene ogni paternità [e maternità]
nel mondo» (cfr. Ef 3,14-15), dal quale proviene ogni famiglia umana.
L'educazione
16.
In che cosa consiste l'educazione? Per rispondere a tale domanda vanno ricordate
due verità fondamentali: la prima e che l'uomo è chiamato a vivere nella verità
e nell'amore; la seconda è che ogni uomo si realizza attraverso il dono sincero
di sé. Questo vale sia per chi educa, sia per chi viene educato. L'educazione
costituisce, pertanto, un processo singolare nel quale la reciproca comunione
delle persone è carica di grandi significati. L'educatore è una persona che «genera»
in senso spirituale. In questa prospettiva, l'educazione può essere considerata
un vero e proprio apostolato. È una comunicazione vitale, che non solo
costruisce un rapporto profondo tra educatore ed educando, ma li fa partecipare
entrambi alla verità e all'amore, traguardo finale a cui è chiamato ogni uomo
da parte di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. La paternità e la maternità
suppongono la coesistenza e la interazione di soggetti autonomi. Ciò è quanto
mai evidente nella madre quando concepisce un nuovo essere umano. I primi mesi
della sua presenza nel grembo materno creano un particolare legame, che già
riveste un suo valore educativo. La madre, già nel periodo prenatale, struttura
non soltanto l'organismo del figlio, ma indirettamente tutta la sua umanità.
Anche se si tratta di un processo che si dirige dalla madre verso il figlio, non
va dimenticata l'influenza specifica che il nascituro esercita sulla madre. A
questo influsso reciproco, che si manifesterà all'esterno dopo la nascita del
bambino, il padre non prende parte direttamente. Egli deve però impegnarsi
responsabilmente ad offrire la sua attenzione ed il suo sostegno durante la
gravidanza e, se possibile, anche al momento del parto. Per la «civiltà
dell'amore» è essenziale che l'uomo senta la maternità della donna, sua
sposa, come un dono: questo infatti incide enormemente sull'intero processo
educativo. Molto dipende dalla sua disponibilità a prendere parte nel modo
giusto a questa prima fase del dono dell'umanità, e a lasciarsi coinvolgere in
quanto marito e padre nella maternità della moglie. L'educazione è allora
prima di tutto un'«elargizione» di umanità da parte di ambedue i genitori:
essi comunicano insieme la loro umanità matura al neonato, il quale a sua volta
dona loro la novità e la freschezza dell'umanità che porta con sé nel mondo.
Questo si verifica anche nel caso di bambini segnati da handicap psichici e
fisici: in tal caso, anzi, la loro situazione può sviluppare una forza
educativa del tutto particolare. A ragione, dunque, la Chiesa domanda durante il
rito del matrimonio: «Siete disposti ad accogliere responsabilmente e con amore
i figli che Dio vorrà donarvi e a educarli secondo la legge di Cristo e della
sua Chiesa?». L'amore coniugale si manifesta nell'educazione come vero amore di
genitori. La «comunione di persone», che all'inizio della famiglia si esprime
come amore coniugale, si completa e si perfeziona estendendosi ai figli con
l'educazione. La potenziale ricchezza, costituita da ogni uomo che nasce e
cresce nella famiglia, va responsabilmente assunta in modo che non degeneri né
si disperda, ma, al contrario, si realizzi in una umanità sempre più matura.
È pure questo un dinamismo di reciprocità, nel quale i genitori-educatori
vengono, a loro volta, in certa misura educati. Maestri di umanità dei propri
figli, essi la apprendono da loro. Qui emerge con evidenza l'organica struttura
della famiglia e si rivela il senso fondamentale del quarto comandamento. Il «noi»
dei genitori, del marito e della moglie, si sviluppa, per mezzo della
generazione e dell'educazione, nel «noi» della famiglia, che s'innesta sulle
generazioni precedenti e si apre ad un graduale allargamento. Al riguardo,
svolgono un ruolo singolare, da un lato, i genitori dei genitori e, dall'altro,
i figli dei figli. Se, nel donare la vita, i genitori prendono parte all'opera
creatrice di Dio, mediante l'educazione essi diventano partecipi della sua
paterna ed insieme materna pedagogia. La paternità divina, secondo san Paolo,
costituisce il modello originario di ogni paternità e maternità nel cosmo (cfr.
Ef 3,14-15), specialmente della maternità e paternità umana. Circa la
pedagogia divina ci ha pienamente istruiti il Verbo eterno del Padre, che
incarnandosi ha rivelato all'uomo la vera ed integrale dimensione della sua
vocazione: la figliolanza divina. E così ha pure rivelato qual è il vero
significato dell'educazione dell'uomo. Per mezzo di Cristo ogni educazione, in
famiglia e fuori, viene inserita nella dimensione salvifica della pedagogia
divina, che è rivolta agli uomini e alle famiglie e che culmina nel mistero
pasquale della morte e risurrezione del Signore. Da questo «cuore» della
nostra redenzione prende il via ogni processo di educazione cristiana, che al
tempo stesso è sempre educazione alla piena umanità. I genitori sono i primi e
principali educatori dei propri figli ed hanno anche in questo campo una
fondamentale competenza: sono educatori perché genitori. Essi condividono la
loro missione educativa con altre persone e istituzioni, come la Chiesa e lo
Stato; ciò tuttavia deve sempre avvenire nella corretta applicazione del
principio di sussidiarietà. Questo implica la legittimità ed anzi la doverosità
di un aiuto offerto ai genitori, ma trova nel loro diritto prevalente e nelle
loro effettive possibilità il suo intrinseco e invalicabile limite. Il
principio di sussidiarietà si pone, pertanto, al servizio dell'amore dei
genitori, venendo incontro al bene del nucleo familiare. I genitori, infatti,
non sono in grado di soddisfare da soli ad ogni esigenza dell'intero processo
educativo, specialmente per quanto concerne l'istruzione e l'ampio settore della
socializzazione. La sussidiarietà completa così l'amore paterno e materno,
confermandone il carattere fondamentale, perché ogni altro partecipante al
processo educativo non può che operare a nome dei genitori, con il loro
consenso e, in una certa misura, persino su loro incarico. L'itinerario
educativo conduce verso la fase dell'autoeducazione, che si raggiunge quando,
grazie ad un adeguato livello di maturità psico-fisica, l'uomo comincia ad «educarsi
da solo». L'autoeducazione supera, col passare del tempo, i traguardi
precedentemente raggiunti nel processo educativo, nel quale tuttavia continua ad
affondare le sue radici. L'adolescente incontra nuove persone e nuovi ambienti,
in particolare gli insegnanti e i compagni di scuola, i quali esercitano sulla
sua vita un influsso che può risultare educativo o diseducativo. In questa
tappa, egli si distacca in qualche misura dall'educazione ricevuta in famiglia
assumendo talora un atteggiamento critico nei confronti dei genitori. Nonostante
tutto, però, il processo di autoeducazione non può non essere segnato
dall'influsso educativo esercitato dalla famiglia e dalla scuola sul bambino e
sul ragazzo. Perfino trasformandosi e incamminandosi nella propria direzione, il
giovane continua a rimanere intimamente collegato con le sue radici
esistenziali. Si delinea su questo sfondo, in modo nuovo, il significato del
quarto comandamento: «Onora tuo padre e tua madre» (Is 20,12); esso rimane
legato organicamente a tutto il processo dell'educazione. La paternità e
maternità, questo primo e fondamentale dato nel dono dell'umanità, aprono
davanti ai genitori e ai figli nuove e più approfondite prospettive. Generare
secondo la carne significa avviare un'ulteriore «generazione», graduale e
complessa, attraverso l'intero processo educativo. Il comandamento del Decalogo
esige dal figlio ch'egli onori il padre e la madre. Ma, come sopra si è detto,
il medesimo comandamento impone ai genitori un dovere in un certo senso «simmetrico».
Anch'essi devono «onorare» i propri figli, sia piccoli che grandi, e tale
atteggiamento è indispensabile lungo l'intero percorso educativo, compreso
quello scolastico, principio di rendere onore», il riconoscimento cioè ed il
rispetto dell'uomo come uomo è la condizione fondamentale di ogni autentico
processo educativo. Nell'ambito dell'educazione la Chiesa ha un ruolo specifico
da svolgere. Alla luce della Tradizione e del Magistero conciliare, si può ben
dire che non è soltanto questione di affidare alla Chiesa l'educazione
religioso morale della persona, ma di promuovere tutto il processo educativo
della persona «insieme con» la Chiesa. La famiglia è chiamata a svolgere il
suo compito educativo nella Chiesa, partecipando così alla vita e alla missione
ecclesiale. La Chiesa desidera educare soprattutto attraverso la famiglia a ciò
abilitata dal sacramento del matrimonio, con la «grazia di stato» che ne
consegue e lo specifico «carisma» che è proprio dell'intera comunità
familiare. Uno dei campi in cui la famiglia è insostituibile è certamente
quello dell'educazione religiosa, grazie alla quale la famiglia cresce come «chiesa
domestica». L'educazione religiosa e la catechesi dei figli collocano la
famiglia nell'ambito della Chiesa come un vero soggetto di evangelizzazione e di
apostolato. Si tratta di un diritto intimamente connesso col principio della
libertà religiosa. Le famiglie, e più concretamente i genitori, hanno libera
facoltà di scegliere per i loro figli un determinato modo di educazione
religiosa e morale corrispondente alle proprie convinzioni. Ma anche quando essi
affidano tali compiti ad istituzioni ecclesiastiche o a scuole gestite da
personale religioso, è necessario che la loro presenza educativa continui ad
essere costante ed attiva. Né va tralasciata, nel contesto dell'educazione, la
questione essenziale della scelta vocazionale e, in essa, in particolare della
preparazione alla vita matrimoniale. Notevoli sono gli sforzi e le iniziative
messi in atto dalla Chiesa a favore della preparazione al matrimonio, ad esempio
sotto forma di corsi organizzati per i fidanzati. Tutto ciò è valido e
necessario. Ma non va dimenticato che la preparazione alla futura vita di coppia
è compito soprattutto della famiglia. Certo, solo le famiglie spiritualmente
mature possono affrontare in modo adeguato tale impegno. E per questo va
sottolineata l'esigenza di una particolare solidarietà tra le famiglie, che può
esprimersi attraverso diverse forme organizzative, come le associazioni di
famiglie per le famiglie. L'istituzione familiare trae vigore da tale solidarietà,
che avvicina tra loro non solo le singole persone, bensì anche le comunità,
impegnandole a pregare insieme ed a cercare con il contributo di tutti le
risposte alle domande essenziali che emergono dalla vita. Non è questa una
forma preziosa di apostolato delle famiglie tra di loro? È importante che le
famiglie cerchino di costruire tra loro vincoli di solidarietà. Ciò,
oltretutto, consente loro di prestarsi vicendevolmente un servizio educativo: i
genitori vengono educati attraverso altri genitori, i figli attraverso i figli.
Si crea così una peculiare tradizione educativa, che trae forza dal carattere
di «chiesa domestica» che è proprio della famiglia. È il vangelo dell'amore
l'inesauribile sorgente di tutto ciò di cui si nutre la famiglia umana come «comunione
di persone». Nell'amore trova sostegno e senso definitivo l'intero processo
educativo, come frutto maturo della reciproca donazione dei genitori. Mediante
le fatiche, le sofferenze e le delusioni, che accompagnano l'educazione della
persona, l'amore non cessa di essere sottoposto ad una continua verifica. Per
superare quest'esame occorre una sorgente di forza spirituale che si trova solo
in Colui che «amò sino alla fine» (Gv 13,1). Così l'educazione si colloca
pienamente nell'orizzonte della «civiltà dell'amore»; da essa dipende e, in
grande misura, contribuisce a costruirla. L'incessante e fiduciosa preghiera
della Chiesa durante l'Anno della Famiglia è per l'educazione dell'uomo, perché
le famiglie perseverino nell'impegno educativo con coraggio, fiducia e speranza,
nonostante le difficoltà a volte così gravi da apparire insuperabili. La
Chiesa prega perché vincano le forze della «civiltà dell'amore» che sgorgano
dalla sorgente dell'amore di Dio; forze che la Chiesa investe senza sosta per il
bene dell'intera famiglia umana.
La famiglia e la società
17.
La famiglia è una comunità di persone, la più piccola cellula sociale, e come
tale è un'istituzione fondamentale per la vita di ogni società. Che cosa
attende la famiglia come istituzione dalla società? Prima di tutto di essere
riconosciuta nella sua identità e accettata nella sua soggettività sociale.
Questa soggettività è legata all'identità propria del matrimonio e della
famiglia. Il matrimonio, che sta alla base dell'istituzione familiare, è
costituito dal patto con cui «l'uomo e la donna stabiliscono tra loro la
comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla
procreazione ed educazione della prole». Solo una tale unione può essere
riconosciuta e confermata come «matrimonio» nella società. Non lo possono
invece le altre unioni interpersonali che non rispondono alle condizioni sopra
ricordate, anche se oggi si diffondono, proprio su tale punto, tendenze assai
pericolose per il futuro della famiglia e della stessa società. Nessuna società
umana può correre il rischio del permissivismo in questioni di fondo
concernenti l'essenza del matrimonio e della famiglia! Un simile permissivismo
morale non può che recar danno alle autentiche esigenze della pace e della
comunione fra gli uomini. Si comprende così perché la Chiesa difende con forza
l'identità della famiglia e stimola le istituzioni competenti, specialmente i
responsabili della politica, come pure le Organizzazioni internazionali, a non
cedere alla tentazione di un'apparente e falsa modernità. Come comunità di
amore e di vita, la famiglia è una realtà sociale saldamente radicata e, in
modo tutto proprio, una società sovrana, anche se condizionata sotto vari
aspetti. L'affermazione della sovranità dell'istituzione-famiglia e la
constatazione dei suoi molteplici condizionamenti inducono a parlare dei diritti
della famiglia. Al riguardo la Santa Sede ha pubblicato nel 1983 la Carta dei
Diritti della Famiglia, che conserva anche ora tutta la sua attualità. I
diritti della famiglia sono strettamente connessi con i diritti dell'uomo:
infatti, se la famiglia è comunione di persone, la sua autorealizzazione
dipende in misura significativa dalla giusta applicazione dei diritti delle
persone che la compongono. Alcuni di questi diritti riguardano immediatamente la
famiglia, come il diritto dei genitori alla procreazione responsabile e
all'educazione della prole; altri diritti invece riguardano il nucleo familiare
solo in modo indiretto: tra questi, di singolare importanza sono il diritto alla
proprietà, specialmente alla cosiddetta proprietà familiare, ed il diritto al
lavoro. I diritti della famiglia non sono, però, semplicemente la somma
matematica di quelli della persona, essendo la famiglia qualcosa di più della
somma dei suoi membri presi singolarmente. Essa è comunità di genitori e di
figli; a volte comunità di diverse generazioni. Per questo la sua soggettività,
che si costruisce sulla base del disegno di Dio, fonda ed esige diritti propri e
specifici. La Carta dei Diritti della Famiglia, partendo dai citati principi
morali, consolida l'esistenza dell'istituto familiare nell'ordine sociale e
giuridico della «grande» società: della Nazione, dello Stato e delle Comunità
internazionali. Ognuna di queste «grandi» società è condizionata almeno
indirettamente dall'esistenza della famiglia; per questo la definizione dei
compiti e doveri della «grande» società nei confronti della famiglia è
questione estremamente importante ed essenziale. Al primo posto sta il legame
quasi organico che si instaura tra la famiglia e la Nazione. Naturalmente, non
in ogni caso si può parlare di Nazione in senso proprio. Esistono comunque
gruppi etnici che, pur non potendosi considerare vere Nazioni, adempiono però
in una certa misura alla funzione di «grande» società. Tanto nell'una quanto
nell'altra ipotesi, il legame della famiglia col gruppo etnico o con la Nazione
si basa innanzi tutto sulla partecipazione alla cultura. I genitori generano i
figli, in un certo senso, anche per la Nazione, perché ne siano membri e
partecipino del suo patrimonio storico e culturale. Sin dall'inizio l'identità
della famiglia si delinea in certa misura sulla base di quella della Nazione a
cui appartiene.
La
famiglia, partecipando al patrimonio culturale della nazione, contribuisce a
quella specifica sovranità, che scaturisce dalla propria cultura e lingua. Ho
parlato di questo argomento all'Assemblea dell'UNESCO a Parigi nel 1980 e su di
esso sono poi ritornato più volte, per la sua innegabile importanza. Per mezzo
della cultura e della lingua, non soltanto la Nazione, ma ogni famiglia ritrova
la sua sovranità spirituale. Diversamente sarebbe difficile spiegare molti
eventi della storia dei popoli, specialmente europei; eventi antichi e moderni,
esaltanti e dolorosi, di vittorie e di sconfitte, dai quali emerge quanto la
famiglia sia organicamente unita alla Nazione, e la Nazione alla famiglia. Nei
confronti dello Stato, il legame della famiglia è in parte simile e in parte
diverso. Lo Stato, infatti, si distingue dalla Nazione per la sua struttura meno
«familiare», organizzato com'è secondo un sistema politico ed in forma più
«burocratica». Nondimeno anche il sistema statale possiede, in certo senso,
una sua «anima», nella misura in cui risponde alla sua natura di «comunità
politica» giuridicamente ordinata in funzione del bene comune. Con quest'«anima»
è strettamente connessa la famiglia, legata allo Stato proprio in forza del
principio di sussidiarietà. La famiglia, infatti, è realtà sociale che non
dispone di ogni mezzo necessario per realizzare i propri fini, anche nel campo
dell'istruzione e dell'educazione. Lo Stato è chiamato allora ad intervenire
secondo il menzionato principio: là dove è autosufficiente, la famiglia va
lasciata operare autonomamente; una eccessiva invadenza dello Stato risulterebbe
dannosa, oltre che irrispettosa, costituendo una palese violazione dei diritti
della famiglia; soltanto là dove essa non basta realmente a se stessa, lo Stato
ha facoltà e dovere di intervenire. Oltre l'ambito dell'educazione e
dell'istruzione ad ogni livello, l'aiuto statale, che comunque non deve
escludere le iniziative dei privati, si esprime, ad esempio, nelle istituzioni
che mirano a salvaguardare la vita e la salute dei cittadini, e, in modo
particolare, nelle misure previdenziali che riguardano il mondo del lavoro. La
disoccupazione costituisce, ai nostri giorni, una delle più serie minacce alla
vita familiare e preoccupa giustamente tutte le società. Essa rappresenta una
sfida per la politica dei singoli Stati ed un oggetto di attenta riflessione per
la dottrina sociale della Chiesa. Quanto mai indispensabile ed urgente è,
pertanto, porvi rimedio con coraggiose soluzioni, che sappiano guardare, anche
oltre i confini nazionali, alle tante famiglie per le quali la mancanza di
lavoro si traduce in una situazione di drammatica miseria. Parlando del lavoro
in riferimento alla famiglia, è giusto sottolineare l'importanza ed il peso
dell'attività lavorativa delle donne all'interno del nucleo familiare: essa
deve essere riconosciuta e valorizzata fino in fondo. La «fatica» della donna,
che, dopo aver dato alla luce un figlio, lo nutre, lo cura e si occupa della sua
educazione, specialmente nei primi anni, è così grande da non temere il
confronto con nessun lavoro professionale. Ciò va chiaramente affermato, non
meno di come va rivendicato ogni altro diritto connesso col lavoro. La maternità,
con tutto quello che essa comporta di fatica, deve ottenere un riconoscimento
anche economico almeno pari a quello degli altri lavori, affrontati per
mantenere la famiglia in una fase così delicata della sua esistenza. Occorre
davvero fare ogni sforzo, perché la famiglia sia riconosciuta come società
primordiale e, in un certo senso, «sovrana»! La sua «sovranità» è
indispensabile per il bene della società. Una Nazione veramente sovrana e
spiritualmente forte è sempre composta di famiglie forti, consapevoli della
loro vocazione e della loro missione nella storia. La famiglia sta al centro di
tutti questi problemi e compiti: relegarla ad un ruolo subalterno e secondario,
escludendola dalla posizione che le spetta nella società, significa recare un
grave danno all'autentica crescita dell'intero corpo sociale.
LO
SPOSO È CON VOI
A Cana di Galilea
18.
Parlando un giorno con i discepoli di Giovanni, Gesù accennò ad un invito a
nozze e alla presenza dello sposo tra gli invitati: «Lo sposo è con loro» (Mt
9,15). Additava così il compimento nella sua persona dell'immagine di Dio-sposo,
utilizzata già nell'Antico Testamento, per rivelare pienamente il mistero di
Dio come mistero di Amore. Qualificandosi come «sposo», Gesù svela dunque
l'essenza di Dio e conferma il suo amore immenso per l'uomo. Ma la scelta di
questa immagine getta indirettamente luce anche sulla verità profonda
dell'amore sponsale. Usandola infatti per parlare di Dio, Gesù mostra quanta
paternità e quanto amore di Dio si riflettano nell'amore di un uomo e di una
donna che si uniscono in matrimonio. Per questo, all'inizio della sua missione,
Gesù è a Cana di Galilea, per partecipare ad un banchetto di nozze, insieme
con Maria e con i primi discepoli (cfr. Gv 2,1-11). Egli intende così
dimostrare quanto la verità della famiglia sia inscritta nella Rivelazione di
Dio e nella storia della salvezza. Nell'Antico Testamento, e specialmente nei
Profeti, si incontrano parole molto belle sull'amore di Dio: un amore premuroso
come quello di una madre verso il suo bambino, tenero come quello dello sposo
per la sposa, ma al tempo stesso altrettanto vivacemente geloso; non è
anzitutto un amore che punisce, ma che perdona; un amore che si china verso
l'uomo come fa il padre verso il figlio prodigo, lo solleva e lo rende partecipe
della vita divina. Un amore che stupisce: una novità sconosciuta sino ad allora
in tutto il mondo pagano. A Cana di Galilea Gesù è come l'araldo della verità
divina sul matrimonio; della verità su cui poggiare la famiglia umana,
facendosene forte contro tutte le prove della vita. Gesù annunzia questa verità
con la sua presenza alle nozze di Cana e con il compimento del suo primo «segno»:
l'acqua cambiata in vino. Egli annunzia ancora la verità sul matrimonio
parlando con i farisei e spiegando come l'amore che è da Dio, amore tenero e
sponsale, sia fonte di esigenze profonde e radicali. Meno esigente era stato Mosè,
che aveva permesso di dare l'atto di ripudio. Quando nella loro vivace
controversia i farisei si richiamano a Mosè, Cristo risponde categorico: «Da
principio non fu così» (Mt 19,8). E ricorda: Colui che ha creato l'uomo, l'ha
creato maschio e femmina ed ha stabilito: «L'uomo lascerà suo padre e sua
madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola» (Gn 2,24). Con
logica coerenza Cristo conclude: «Così che non sono più due, ma una carne
sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi» (Mt 19,6). Alla
obiezione dei farisei, che si fanno forti della legge mosaica, Egli risponde: «Per
la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli,
ma da principio non fu così» (Mt 1 9,8). Gesù si richiama «al principio»,
ritrovando alle origini stesse della creazione il disegno di Dio, sul quale si
basa la famiglia e. per suo tramite, l'intera storia dell'umanità. La realtà
naturale del matrimonio diventa, per volontà di Cristo, vero e proprio
sacramento della Nuova Alleanza, segnato dal sigillo del sangue redentore di
Cristo. Sposi e famiglie, ricordatevi a quale prezzo siete stati «comprati»! (cfr.
l Cor 6.20). Questa stupenda verità è però umanamente difficile ad essere
accolta e vissuta. Come meravigliarsi del cedimento di Mosè di fronte alle
richieste dei suoi connazionali, se anche gli stessi Apostoli, ascoltando le
parole del Maestro, replicano: «Se questa è la condizione dell'uomo rispetto
alla donna, non conviene sposarsi» (Mt 19,10)! Gesù, tuttavia, per il bene
dell'uomo e della donna, della famiglia e dell'intera società. conferma
l'esigenza posta da Dio sin dal principio. Al tempo stesso, però, Egli coglie
l'occasione per affermare il valore della scelta di non sposarsi in vista del
Regno di Dio: anche questa scelta consente di «generare», sia pure in modo
diverso. Prendono inizio da questa scelta la vita consacrata, gli Ordini e le
Congregazioni religiose in Oriente e in Occidente, come pure la disciplina del
celibato sacerdotale, secondo la tradizione della Chiesa latina. Non è vero,
dunque, che «non conviene sposarsi», ma l'amore per il Regno dei cieli può
spingere anche a non sposarsi (cfr. Mt 19,12). Sposarsi rimane, tuttavia, la
vocazione ordinaria dell'uomo, che è abbracciata dalla più ampia porzione del
popolo di Dio. È nella famiglia che si formano le pietre vive dell'edificio
spirituale, di cui parla l'apostolo Pietro (cfr. IPt 2,5). I corpi dei coniugi
sono dimora dello Spirito Santo (cfr. I Cor 6,19). Poiché la trasmissione della
vita divina suppone quella della vita umana, dal matrimonio nascono non solo i
figli degli uomini, ma anche, in forza del Battesimo, i figli adottivi di Dio,
che vivono della vita nuova ricevuta da Cristo mediante il suo Spirito. In tal
modo, cari fratelli e sorelle, sposi e genitori, lo Sposo è con voi. Sapete che
Egli è il buon Pastore e ne conoscete la voce. Sapete dove vi conduce, come
lotta per procurarvi i pascoli nei quali trovare la vita e trovarla in
abbondanza; sapete come affronta i lupi rapaci, pronto sempre a strappare dalle
loro fauci le sue pecore: ogni marito e ogni moglie, ogni figlio e ogni figlia,
ogni membro delle vostre famiglie. Sapete che Egli, come buon Pastore, è
disposto ad offrire la propria vita per il suo gregge (cfr. Gv 10,11). Egli vi
conduce per strade che non sono quelle scoscese e insidiose di molte ideologie
contemporanee; ripete al mondo di oggi la verità intera, come quando si
rivolgeva ai farisei, o l'annunziava agli Apostoli, i quali l'hanno poi
predicata nel mondo, proclamandola agli uomini del tempo, ebrei e greci. I
discepoli erano ben consapevoli che Cristo aveva tutto rinnovato; che l'uomo era
divenuto «nuova creatura»: non più giudeo né greco, non più schiavo né
libero, non più uomo né donna. ma «uno» in lui (cfr. Gal 13,28), insignito
della dignità di figlio adottivo di Dio. Il giorno della Pentecoste, quest'uomo
ha ricevuto lo Spirito Consolatore, lo Spirito di verità. ha avuto così inizio
il nuovo Popolo di Dio, la Chiesa, anticipazione di un nuovo cielo e di un nuova
terra (cfr. Ap 21,1). Gli Apostoli, prima timorosi anche in rapporto al
matrimonio e alla famiglia, sono diventati coraggiosi. Hanno compreso che il
matrimonio e la famiglia costituiscono una vera vocazione proveniente da Dio
stesso, un apostolato: l'apostolato dei laici. Servono alla trasformazione della
terra e al rinnovamento del mondo, del creato e dell'intera umanità. Carissime
famiglie, anche voi dovete essere coraggiose, pronte sempre a rendere
testimonianza di quella speranza che è in voi (cfr. I Pt 3,15), perché
radicata nel vostro cuore dal buon Pastore mediante il Vangelo. Dovete essere
pronte a seguire Cristo verso quei pascoli che danno la vita e che Lui stesso ha
preparato col mistero pasquale della sua morte e risurrezione. Non abbiate paura
dei rischi! Le forze divine sono di gran lunga più potenti delle vostre
difficoltà! Smisuratamente più grande del male che opera nel mondo è
l'efficacia del sacramento della Riconciliazione, non a caso chiamato dai Padri
della Chiesa «secondo Battesimo». Molto più incisiva della corruzione
presente nel mondo è l'energia divina del sacramento della Confermazione, che
porta a maturazione il Battesimo. Incomparabilmente più grande è, soprattutto.
La potenza dell'Eucaristia. L'Eucaristia è sacramento veramente mirabile. In
esso Cristo ci ha lasciato se stesso come cibo e bevanda, come fonte di potenza
salvifica. Ci ha lasciato se stesso affinché avessimo la vita e l'avessimo in
abbondanza (cfr. Gv 10,10): la vita che è in Lui e che Egli ci ha comunicato
col dono dello Spirito risorgendo il terzo giorno dopo la morte. È infatti per
noi la vita che viene da Lui. Essa è per voi, cari sposi, genitori e famiglie!
Non ha Egli istituito l'Eucaristia in un contesto familiare, durante l'ultima
Cena? Quando per i pasti vi incontrate e siete fra voi uniti, Cristo lui è
vicino. Ed ancor più Egli è l'Emmanuele, il Dio con noi, quando vi accostate
alla Mensa eucaristica. Può capitare che, come a Emmaus, lo si riconosca
soltanto nello «spezzare il pane» (cfr. Lc 24,). Avviene anche che Egli stia a
lungo alla porta e bussi, attendendo che la porta venga aperta per poter entrare
e cenare con noi (cfr. Ap 3,20). La sua ultima Cena, le parole allora
pronunciate conservano tutta la potenza e la sapienza del sacrificio della
Croce. Non esiste altra potenza e altra sapienza attraverso le quali possiamo
essere salvati e mediante le quali possiamo contribuire a salvare gli altri. Non
vi è altra potenza e altra sapienza mediante le quali, voi, genitori, possiate
educare i vostri figli ed anche voi stessi. La potenza educativa dell'Eucaristia
si è confermata attraverso le generazioni e i secoli. Il buon Pastore è con
noi dappertutto. Com'era a Cana di Galilea, Sposo tra quegli sposi che si
affidavano vicendevolmente per tutta la vita, il buon Pastore è oggi con voi
come ragione di speranza, forza dei cuori, fonte di entusiasmo sempre nuovo e
segno della vittoria della «civiltà dell'amore». Gesù, il buon Pastore, ci
ripete: Non abbiate paura. lo sono con voi. «Sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo» (Mt 28,20). Da dove tanta forza? Da dove la certezza che
Tu sei con noi. anche se Ti hanno ucciso, o Figlio di Dio, e sei morto come ogni
altro essere umano? Da dove questa certezza? Dice l'evangelista: «Li amò sino
alla fine» (Gv 13,1). Tu dunque ci ami, Tu che sei il Primo e l'Ultimo, il
Vivente. Tu che eri morto ed ora vivi per sempre (cfr. Ap 1,17-18).
Il grande mistero
19.
San Paolo sintetizza il tema della vita familiare con la parola: «grande
mistero» (cfr. Ef 5,).
Quanto
egli scrive nella Lettera agli Efesini su tale «grande mistero» anche se
radicato nel Libro della Genesi e in tutta la tradizione dell'Antico Testamento,
presenta tuttavia un'impostazione nuova, che troverà poi espressione nel
Magistero della Chiesa. La Chiesa
professa che il matrimonio, come sacramento dell'alleanza degli sposi, è un «grande
mistero», poiché in esso si esprime l'amore sponsale di Cristo per la sua
Chiesa. Scrive san Paolo: «E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha
amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola
per mezzo del lavacro dell'acqua accompagnato dalla parola» (Ef 5,25-26).
L'Apostolo parla qui del Battesimo, di cui tratta ampiamente nella Lettera ai
Romani, presentandolo come partecipazione alla morte di Cristo per condividere
la sua vita (cfr. Rm 6,3-4). In questo sacramento il credente nasce come un uomo
nuovo, poiché il Battesimo ha il potere di comunicare una vita nuova, la vita
stessa di Dio. Il mistero del Dio-uomo si compendia, in certo senso, nell'evento
battesimale: «Cristo Gesù Signore nostro, Figlio di Dio Altissimo - dirà più
tardi sant'lreneo e con lui tanti altri Padri della Chiesa d'Oriente e
d'Occidente - divenne figlio dell'uomo, affinché l'uomo potesse divenire figlio
di Dio». Lo Sposo è, dunque, lo stesso Dio che si è fatto uomo. Nell'Antica
Alleanza, Jahvè si presenta come lo Sposo di Israele, popolo eletto: uno Sposo
tenero ed esigente, geloso e fedele. Tutti i tradimenti, le diserzioni e le
idolatrie di Israele, descritte dai Profeti in modo drammatico e suggestivo, non
riescono a spegnere l'amore con cui il Dio-Sposo
«ama sino alla fine» (cfr. Gv 13,1). La conferma e il compimento della
comunione sponsale tra Dio e il suo popolo si hanno in Cristo, nella Nuova
Alleanza. Cristo ci assicura che lo Sposo è con noi (cfr. Mt 9,15). È con noi
tutti, è con la Chiesa. La Chiesa diventa sposa: sposa di Cristo. Questa sposa,
di cui parla la Lettera agli Efesini, si fa presente in ogni battezzato ed è
come una persona che si offre allo sguardo del suo Sposo: «Ha amato la Chiesa e
ha dato se stesso per lei, (...) al fine di farsi comparire davanti la sua
Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile ma santa e
immacolata» (Ef 5,25-27). L'amore, con cui lo Sposo «ha amato sino alla fine»
la Chiesa, fa sì che essa sia sempre nuovamente santa nei suoi santi, anche se
non cessa di essere una Chiesa di peccatori. Anche i peccatori, «i pubblicani e
le prostitute», sono chiamati alla santità, come attesta Cristo stesso nel
Vangelo (cfr Mt 21,31). Tutti sono chiamati a diventare Chiesa gloriosa, santa
ed immacolata. «Siate santi», dice il Signore «perché io sono santo» (Lv
11,44; cfr. IPt 1,16). Ecco la più alta dimensione del «grande mistero»,
l'interiore significato del dono sacramentale nella Chiesa, il senso più
profondo del Battesimo e dell'Eucaristia. Sono i frutti dell'amore con cui lo
Sposo ha amato sino alla fine; amore che costantemente si espande, elargendo
agli uomini una crescente partecipazione alla vita divina San Paolo, dopo aver
detto: «E voi, mariti, amate le vostre mogli» (Ef 5,25), con forza ancora
maggiore subito aggiunge: «Così anche i mariti hanno il dovere di amare le
mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso.
Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e
la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo» (Ef
5,28-). Ed esorta i coniugi con le parole: «Siate sottomessi gli uni agli altri
nel timore di Cristo» (Ef 5,21). È certamente, questa, una presentazione nuova
della verità eterna sul matrimonio e sulla famiglia nella luce della Nuova
Alleanza. Cristo l'ha rivelata nel Vangelo con la sua presenza a Cana di
Galilea, con il sacrificio della Croce ed i Sacramenti della sua Chiesa. I
coniugi trovano così in Cristo il punto di riferimento del loro amore sponsale.
Parlando di Cristo Sposo della Chiesa san Paolo si riferisce in modo analogico
all'amore sponsale; egli rinvia al Libro della Genesi: «L'uomo abbandonerà suo
padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn
2,24). Ecco il «grande mistero» dell'eterno amore già presente prima nella
creazione, rivelato in Cristo e affidato alla Chiesa. «Questo mistero è
grande; - ripete l'Apostolo - lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa» (Ef
5,). Non si può, pertanto, comprendere la Chiesa come Corpo mistico di Cristo,
come segno dell'Alleanza dell'uomo con Dio in Cristo, come sacramento universale
di salvezza, senza riferirsi al «grande mistero», congiunto alla creazione
dell'uomo maschio e femmina ed alla vocazione di entrambi all'amore coniugale,
alla paternità e alla maternità. Non esiste il «grande mistero», che è la
Chiesa e l'umanità in Cristo, senza il «grande mistero» espresso nell'essere
«una sola carne» (cfr. Gn 2,24; Ef 5,31-), cioè nella realtà del matrimonio
e della famiglia. La famiglia stessa è il grande mistero di Dio. Come «chiesa
domestica», essa è la sposa di Cristo. La Chiesa universale, e in essa ogni
Chiesa particolare, si rivela più immediatamente come sposa di Cristo nella «chiesa
domestica» e nell'amore in essa vissuto: amore coniugale, amore paterno e
materno, amore fraterno, amore di una comunità di persone e di generazioni.
L'amore umano è forse pensabile senza lo Sposo e senza l'amore con cui Egli amò
per primo sino alla fine? Solo se prendono parte a tale amore e a tale «grande
mistero», gli sposi possono amare «fino alla fine»: o di esso diventano
partecipi, oppure non conoscono fino in fondo che cosa sia l'amore e quanto
radicali ne siano le esigenze. Questo indubbiamente costituisce per essi un
grave pericolo. L'insegnamento della Lettera agli Efesini stupisce per la sua
profondità e per la sua forza etica. Indicando il matrimonio, ed indirettamente
la famiglia, come il «grande mistero» in riferimento a Cristo e alla Chiesa,
l'apostolo Paolo può ribadire ancora una volta quanto aveva detto in precedenza
ai mariti: «Ciascuno, da parte sua, ami la propria moglie come se stesso».
Aggiunge poi: «E la donna sia rispettosa verso il marito» (Ef 5,). Rispettosa,
perché ama e sa di essere riamata. È in forza di tale amore che gli sposi
diventano reciproco dono. Nell'amore è contenuto il riconoscimento della dignità
personale dell'altro e della sua irripetibile unicità: ciascuno di loro,
infatti, in quanto essere umano, tra tutte le creature della terra è stato
scelto da Dio per se stesso; ciascuno però, con atto consapevole e
responsabile, fa di sé libero dono all'altro e ai figli ricevuti dal Signore.
San Paolo prosegue la sua esortazione ricollegandosi significativamente al
quarto comandamento: «Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché
questo è giusto. "Onora tuo padre e tua madre": è questo il primo
comandamento associato ad una promessa. "perché tu sia felice e goda di
una vita lunga sopra la terra". E voi, padri, non inasprite i vostri figli,
ma allevateli nell'educazione e nella disciplina del Signore» (Ef 6,1-4).
L'Apostolo vede, dunque, nel quarto comandamento l'implicito impegno del
reciproco rispetto tra marito e moglie, tra genitori e figli, riconoscendo così
in esso il principio della compattezza familiare. La stupenda sintesi paolina a
proposito del «grande mistero» si presenta come il compendio, la summa, in un
certo senso, dell'insegnamento su Dio e sull'uomo che Cristo ha portato a
compimento. Purtroppo il pensiero occidentale, con lo sviluppo del razionalismo
moderno, è andato via via allontanandosi da tale insegnamento. Il filosofo che
ha formulato il principio del «Cogito, ergo sum»:
«Penso,
dunque esisto», ha pure impresso alla moderna concezione dell'uomo il carattere
dualista che la distingue. È proprio del razionalismo contrapporre in modo
radicale nell'uomo lo spirito al corpo e il corpo allo spirito. L'uomo invece è
persona nell'unità del corpo e dello spirito. Il corpo non può mai essere
ridotto a pura materia: è un corpo «spiritualizzato», così come lo spirito
è tanto profondamente unito al corpo da potersi qualificare uno spirito «corporeizzato».
La fonte più ricca per la conoscenza del corpo è il Verbo fatto carne. Cristo
rivela l'uomo all'uomo. Questa affermazione del Concilio Vaticano II è in un
certo senso la risposta, da lungo tempo attesa, che la Chiesa ha dato al
razionalismo moderno. Tale risposta riveste un'importanza fondamentale per la
comprensione della famiglia, specialmente sullo sfondo dell'odierna civiltà, la
quale, come è stato detto, sembra aver rinunciato in tanti casi ad essere una
«civiltà dell'amore». Grande è stato, nell'era moderna, il progresso nella
conoscenza del mondo materiale ed anche della psicologia umana, ma quanto alla
dimensione sua più intima, la dimensione metafisica, l'uomo di oggi rimane in
gran parte un essere sconosciuto a se stesso; conseguentemente una realtà
sconosciuta rimane anche la famiglia. Ciò si verifica a motivo del distacco da
quel «grande mistero» di cui parla l'Apostolo. La separazione nell'uomo tra
spirito e corpo ha avuto come conseguenza l'affermassi della tendenza a trattare
il corpo umano non secondo le categorie della sua specifica somiglianza con Dio,
ma secondo quelle della sua somiglianza con tutti gli altri corpi presenti in
natura, corpi che l'uomo utilizza quale materiale per la sua attività
finalizzata alla produzione di beni di consumo. Ma tutti possono immediatamente
comprendere come l'applicazione all'uomo di simili criteri nasconda in realtà
enormi pericoli. Quando il corpo umano, considerato indipendentemente dallo
spirito e dal pensiero, viene utilizzato come materiale alla stregua del corpo
degli animali - è ciò che avviene, ad esempio, nelle manipolazioni sugli
embrioni e sui feti - si va incontro inevitabilmente ad una terribile sconfitta
etica. In una simile prospettiva antropologica, la famiglia umana si trova a
vivere l'esperienza di un nuovo manicheismo, nel quale il corpo e lo spirito
vengono fra loro radicalmente contrapposti: né il corpo vive dello spirito, né
lo spirito vivifica il corpo. Così l'uomo cessa di vivere come persona e
soggetto. Nonostante le intenzioni e le dichiarazioni contrarie, egli diventa
esclusivamente un oggetto. In tal modo, ad esempio, questa civiltà neomanichea
porta a guardare alla sessualità umana più come ad un terreno di manipolazione
e di sfruttamento, che come alla realtà di quello stupore originario che nel
mattino della creazione spinge Adamo ad esclamare davanti ad Eva: «È carne
dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gn 2,23). È lo stupore che riecheggia
nelle parole del Cantico dei Cantici: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia,
sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo» (Ct 4,9). Quanto sono
lontane certe moderne concezioni dalla profonda comprensione della mascolinità
e della femminilità offerta dalla Rivelazione divina! Essa ci porta a scoprire
nella sessualità umana una ricchezza della persona, che trova la sua vera
valorizzazione nella famiglia ed esprime la sua vocazione profonda anche nella
verginità e nel celibato per il Regno di Dio. Il razionalismo moderno non
sopporta il mistero. Non accetta il mistero dell'uomo, maschio e femmina, né
vuol riconoscere che la piena verità sull'uomo è stata rivelata in Gesù
Cristo. Non tollera, in particolare il «grande mistero», annunziato dalla
Lettera agli Efesini, e lo combatte in modo radicale. Se riconosce, in un
contesto di vago deismo, la possibilità e perfino il bisogno di un Essere
supremo o divino, rifiuta decisamente la nozione di un Dio che si fa uomo per
salvare l'uomo. Per il razionalismo è impensabile che Dio sia il Redentore
tanto meno che sia «lo Sposo», la fonte originaria ed unica dell'amore
sponsale umano. Esso interpreta la creazione e il senso dell'esistenza umana in
maniera radicalmente diversa. Ma se all'uomo vien meno la prospettiva di un Dio
che lo ama e, mediante Cristo, lo chiama a vivere in Lui e con Lui, se alla
famiglia non è aperta la possibilità di partecipare al «grande mistero», che
cosa rimane se non la sola dimensione temporale della vita? Resta la vita
temporale come terreno di lotta per l'esistenza, di ricerca affannosa del
profitto, di quello economico prima di tutto. Il «grande mistero», il
sacramento dell'amore e della vita, che ha il suo inizio nella creazione e nella
redenzione e di cui è garante Cristo-Sposo, ha smarrito nella mentalità
moderna le sue più profonde radici. Esso è minacciato in noi ed intorno a noi.
Possa l'Anno della Famiglia, celebrato nella Chiesa, diventare per gli sposi
un'occasione propizia per riscoprirlo e per riaffermarlo con forza, coraggio ed
entusiasmo.
La Madre del bell'amore
20.
La storia del «bell'amore» prende inizio dall'Annunciazione, in quelle
mirabili parole che l'angelo ha rivolto a Maria, chiamata a diventare la Madre
del Figlio di Dio. Con il «sì» di Maria, Colui che è «Dio da Dio e Luce da
Luce» diventa figlio dell'uomo; Maria è sua Madre, senza cessare di essere la
Vergine che «non conosce uomo» (cfr. Lc 1,). Come Madre-Vergine, Maria diventa
Madre del bell'amore. Questa verità è rivelata già nelle parole
dell'Arcangelo Gabriele, ma il suo pieno significato sarà confermato e
approfondito man mano che Maria seguirà il Figlio nel pellegrinaggio della
fede. La «Madre del bell'amore» fu accolta da colui che, secondo la tradizione
d'Israele, era già suo sposo terreno, Giuseppe, della stirpe di Davide. Egli
avrebbe avuto diritto di pensare alla promessa sposa come alla moglie sua e alla
madre dei suoi figli. Dio interviene, però, in questo patto sponsale con la
propria iniziativa: «Giuseppe, figlio di Davide. non temere di prendere con te
Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo»
(Mt 1,20). Giuseppe è consapevole, vede con i propri occhi che in Maria è
concepita una nuova vita che da lui non proviene e pertanto, da uomo giusto,
osservante della legge antica, che nel suo caso imponeva l'obbligo del divorzio,
vuole sciogliere in forma caritatevole il suo matrimonio (cfr. Mt I,19).
L'angelo del Signore gli fa sapere che ciò non sarebbe secondo la sua
vocazione, anzi sarebbe contrario all'amore sponsale che lo unisce a Maria.
Questo reciproco amore sponsale, per essere pienamente il «bell'amore», esige
che egli accolga Maria e il Figlio di lei sotto il tetto della sua casa, a
Nazaret. Giuseppe ubbidisce al messaggio divino e agisce secondo quanto gli è
stato comandato (cfr. Mt 1,24). È grazie anche a Giuseppe che il mistero
dell'incarnazione e, insieme ad esso, il mistero della Santa Famiglia, viene
inscritto profondamente nell'amore sponsale dell'uomo e della donna e
indirettamente nella genealogia di ogni famiglia umana. Ciò che Paolo chiamerà
il «grande mistero» trova nella Santa Famiglia la sua espressione più alta.
La famiglia si colloca così veramente al centro della Nuova Alleanza. Si può
dire anche che la storia del «bell'amore» è iniziata, in un certo senso, con
la prima coppia umana, con Adamo ed Eva. La tentazione a cui essi cedettero ed
il conseguente peccato originale non li privò completamente della capacità del
«bell'amore». Lo si comprende leggendo, ad esempio nel Libro di Tobia, che gli
sposi Tobia e Sara, nel definire il senso della loro unione, si richiamano ai
progenitori Adamo ed Eva (cfr. Tb 8,6). Nella Nuova Alleanza, lo testimonia
anche san Paolo parlando di Cristo come nuovo Adamo (cfr. ICor 15,45): Cristo
non viene a condannare il primo Adamo e la prima Eva, ma a redimerli; viene a
rinnovare ciò che nell'uomo è dono di Dio, quanto in lui è eternamente buono
e bello e che costituisce il substrato del bell'amore. La storia del «bell'amore»
è, in certo senso, la storia della salvezza dell'uomo. Il «bell'amore» prende
sempre inizio dalla autorivelazione della persona. Nella creazione Eva si rivela
ad Adamo, come Adamo si rivela ad Eva. Nel corso della storia le nuove coppie
umane si dicono reciprocamente: «Cammineremo insieme nella vita». Così ha
inizio la famiglia come unione dei due e, in forza del Sacramento, come nuova
comunità in Cristo. L'amore, perché sia realmente bello, deve essere dono di
Dio, innestato dallo Spirito Santo nei cuori umani ed in essi continuamente
alimentato (cfr. Rm 5,5). Ben consapevole di ciò, la Chiesa nel sacramento del
matrimonio domanda allo Spirito Santo di visitare i cuori umani. Perché sia
veramente il «bell'amore», dono cioè della persona alla persona, deve
provenire da Colui che è Dono Egli stesso e fonte di ogni dono. Così avviene
nel Vangelo per quanto concerne Maria e Giuseppe, che, alle soglie della Nuova
Alleanza, rivivono l'esperienza del «bell'amore» descritto nel Cantico dei
Cantici. Giuseppe pensa e dice di Maria: «Sorella mia, Sposa» (cfr. Ct 4,9).
Maria, Madre di Dio, concepisce per opera dello Spirito Santo, dal quale
proviene il «bell'amore», che il Vangelo delicatamente colloca nel contesto
del «grande mistero». Quando parliamo del «bell'amore», parliamo per ciò
stesso della bellezza: bellezza dell'amore e bellezza dell'essere umano che, in
virtù dello Spirito Santo, è capace di tale amore. Parliamo della bellezza
dell'uomo e della donna: della loro bellezza come fratelli o sorelle come
fidanzati, come coniugi. Il Vangelo chiarisce non soltanto il mistero del «bell'amore»,
ma anche quello non meno profondo della bellezza, che è da Dio come l'amore.
Sono da Dio l'uomo e la donna, persone chiamate a diventare un dono reciproco.
Dal dono originario dello Spirito «che dà la vita» scaturisce il dono
vicendevole di essere marito o moglie, non meno del dono di essere fratello o
sorella. Tutto questo trova conferma nel mistero della Incarnazione, divenuto,
nella storia degli uomini fonte di una bellezza nuova che ha ispirato
innumerevoli capolavori artistici. Dopo il severo divieto di raffigurare il Dio
invisibile con delle immagini (cfr. Dt 4,15-20),L'epoca cristiana ha, al
contrario, offerto la rappresentazione artistica del Dio fatto uomo, di Maria
sua Madre e di Giuseppe, dei Santi dell'Antica e Nuova Alleanza, e in genere
dell'intera creazione redenta da Cristo, inaugurando in tal modo un nuovo
rapporto col mondo della cultura e dell'arte. Si può dire che il nuovo canone
dell'arte, attento alla dimensione profonda dell'uomo e al suo futuro, prende
inizio dal mistero dell'incarnazione di Cristo ispirandosi ai misteri della sua
vita: la nascita a Betlemme, il nascondimento a Nazaret, il ministero pubblico,
il Golgota, la risurrezione, il ritorno finale nella gloria. La Chiesa è
consapevole che la sua presenza nel mondo contemporaneo e, in particolare che il
suo contributo e sostegno alla valorizzazione della dignità del matrimonio e
della famiglia, sono strettamente legati allo sviluppo della cultura; di ciò
giustamente si preoccupa. Proprio per questo la Chiesa segue con sollecita
attenzione gli orientamenti dei mezzi di comunicazione sociale, il cui compito
è quello di formare oltre che di informare il grande pubblico. Ben conoscendo
l'ampia e profonda incidenza di tali mezzi, essa non si stanca di mettere in
guardia gli operatori della comunicazione dai pericoli della manipolazione della
verità. Quale verità può esserci, infatti, nei films, negli spettacoli, nei
programmi radio-televisivi nei quali dominano la pornografia e la violenza? È
un buon servizio, questo, alla verità sull'uomo? Sono interrogativi ai quali
non possono sottrarsi gli operatori di questi strumenti ed i vari responsabili
della elaborazione e commercializzazione dei loro prodotti. Grazie ad una simile
riflessione critica la nostra civiltà, che pur registra tanti aspetti positivi
sul piano sia materiale che culturale, dovrebbe rendersi conto di essere, da
diversi punti di vista, una civiltà malata, che genera profonde alterazioni
nell'uomo. Perché si verifica questo? La ragione sta nel fatto che la nostra
società s'è distaccata dalla piena verità sull'uomo, dalla verità su ciò
che l'uomo e la donna sono come persone. Di conseguenza, essa non sa comprendere
in maniera adeguata che cosa veramente siano il dono delle persone nel
matrimonio, l'amore responsabile al servizio della paternità e della maternità,
l'autentica grandezza della generazione e dell'educazione. È allora esagerato
affermare che i mass media, se non sono orientati secondo i sani principi etici,
non servono la verità nella sua dimensione essenziale? Ecco, dunque, il dramma:
i moderni strumenti della comunicazione sociale sono soggetti alla tentazione di
manipolare il messaggio, rendendo falsa la verità sull'uomo. L'essere umano non
è quello reclamizzato dalla pubblicità e presentato nei moderni mass media. È
molto di più, come unità psico-fisica, come tutt'uno di anima e di corpo, come
persona. È molto di più per la sua vocazione all'amore, che lo introduce come
maschio e femmina nella dimensione del «grande mistero». Maria è entrata per
prima in questa dimensione, e vi ha introdotto pure il suo sposo Giuseppe. Essi
sono così diventati i primi esemplari di quel bell'amore che la Chiesa non
cessa di invocare per la gioventù, per i coniugi e per le famiglie. E quanti
fra questi si uniscono con fervore a tale preghiera! Come non pensare alle
moltitudini di pellegrini, anziani e giovani, che accorrono nei santuari mariani
e fissano lo sguardo sul volto della Madre di Dio, sul volto dei membri della
Santa Famiglia, sui quali si riflette tutta la bellezza dell'amore donato da Dio
all'uomo? Nel Discorso della Montagna, ricollegandosi al sesto comandamento,
Cristo proclama: «Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi
dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con
lei nel suo cuore» (Mt 5,27-28). In rapporto al Decalogo, teso a difendere la
tradizionale compattezza del matrimonio e della famiglia, queste parole segnano
un grande balzo in avanti. Gesù va alla fonte del peccato di adulterio: essa
risiede nell'intimo dell'uomo e si manifesta in un modo di guardare e di pensare
che è dominato dalla concupiscenza. Mediante la concupiscenza l'uomo tende ad
appropriarsi di un altro essere umano, che non è suo, ma che appartiene a Dio.
Mentre si rivolge ai suoi contemporanei, Cristo parla agli uomini di tutti i
tempi e di tutte le generazioni; parla, in particolare, alla nostra generazione,
che vive nel segno di una civiltà consumistica ed edonistica. Perché Cristo
nel Discorso della Montagna si pronuncia in modo così forte ed esigente? La
risposta è quanto mai chiara: Cristo vuole garantire la santità del matrimonio
e della famiglia, vuole difendere la piena verità sulla persona umana e sulla
sua dignità. È solo alla luce di questa verità che la famiglia può essere
fino in fondo la grande «rivelazione», la prima scoperta dell'altro: la
vicendevole scoperta degli sposi e poi, di ogni figlio o figlia che nasce da
loro. Quanto i coniugi si giurano reciprocamente, di essere cioè «fedeli
sempre nella gioia e nel dolore e di amarsi e onorarsi tutti i giorni della vita»,
è possibile solo nella dimensione del «bell'amore». L'uomo d'oggi non può
imparare questo dai contenuti della moderna cultura di massa. Il «bell'amore»
s'impara soprattutto pregando. La preghiera, Infatti, comporta sempre, per usare
un'espressione di san Paolo, una sorta di interiore nascondimento con Cristo in
Dio: «la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). Soltanto
in un simile nascondimento opera lo Spirito Santo, sorgente del bell'amore. Egli
riversa quest'amore non solo nel cuore di Maria e di Giuseppe, ma anche nei
cuori degli sposi, disposti ad ascoltare la parola di Dio e a custodirla (cfr.
Lc 8,15). Il futuro di ogni nucleo familiare dipende da questo «bell'amore»:
amore reciproco dei coniugi, dei genitori e dei figli, amore di tutte le
generazioni. L'amore è la vera fonte dell'unità e della forza della famiglia.
La nascita e il pericolo
21. Il
breve racconto della infanzia di Gesù ci riferisce in maniera molto
significativa, quasi contemporaneamente, la sua nascita e il pericolo che Egli
deve subito affrontare. Luca riporta le parole profetiche pronunciate dal
vecchio Simeone quando il Bambino viene presentato al Signore nel Tempio,
quaranta giorni dopo la nascita. Egli parla di «luce» e di «segno di
contraddizione»; a Maria, poi, predice: «Anche a te una spada trafiggerà
l'anima» (cfr. Lc 2,-). Matteo, invece, si sofferma sulle insidie tramate nei
confronti di Gesù da parte di Erode: informato dai Magi, giunti dall'Oriente
per vedere il nuovo re che doveva nascere (cfr.Mt 2,2), egli si sente minacciato
nel suo potere e, dopo la loro partenza, ordina di uccidere tutti i bambini di
Betlemme e dei dintorni dai due anni in giù. Gesù sfugge alle mani di Erode
grazie ad un particolare intervento divino e grazie alla sollecitudine paterna
di Giuseppe, che lo porta insieme a sua Madre in Egitto, dove soggiornano fino
alla morte di Erode. Tornano poi a Nazaret, loro città natale, dove la Santa
Famiglia inizia il lungo periodo di un'esistenza nascosta, scandita
dall'adempimento fedele e generoso dei doveri quotidiani (cfr. Mt 2,1-23; Lc
2,39-52). Appare di un'eloquenza profetica il fatto che Gesù, sin dalla
nascita, sia stato posto di fronte a minacce e pericoli. Già come Bambino Egli
è «segno di contraddizione». Un'eloquenza profetica riveste inoltre il dramma
dei bambini innocenti di Betlemme, uccisi per ordine di Erode e diventati,
secondo l'antica liturgia della Chiesa, partecipi della nascita e della passione
redentrice di Cristo. Attraverso la loro «passione», essi completano«quello
che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col
1,24). Nei Vangeli dell'infanzia, dunque, l'annuncio della vita, che si compie
in modo mirabile nell'evento della nascita del Redentore, viene fortemente
contrapposto alla minaccia alla vita, una vita che abbraccia nella sua interezza
il mistero dell'lncarnazione e della realtà divinoumana di Cristo. Il Verbo si
è fatto carne (cfr. Gv 1,14) Dio si è fatto uomo. A questo sublime mistero si
richiamavano spesso i Padri della Chiesa: «Dio si è fatto uomo, affinché noi
diventassimo dèi». Questa verità della fede e contemporaneamente la verità
sull'essere umano. Essa mette in luce la gravità di ogni attentato alla vita
del bambino nel grembo della madre. Qui, proprio qui, ci troviamo agli antipodi
del «bell'amore». Puntando esclusivamente sul godimento, si può giungere fino
ad uccidere l'amore, uccidendone il frutto. Per la cultura del godimento il «frutto
benedetto del tuo grembo» (Lc 1,42) diventa in certo senso un «frutto
maledetto». Come non ricordare, a questo proposito, le deviazioni che il
cosiddetto stato di diritto ha subito in numerosi paesi? Univoca e categorica è
la legge di Dio nei riguardi della vita umana. Dio comanda: «Non uccidere» (Es
20,13). Nessun legislatore umano può pertanto affermare: ti è lecito uccidere,
hai diritto di uccidere, dovresti uccidere. Purtroppo, nella storia del nostro
secolo, questo Si e verificato, quando sono andate al potere, in modo anche
democratico, forze politiche che hanno emanato leggi contrarie al diritto di
ogni uomo alla vita, in nome di Fresunte quanto aberranti ragioni eugeniche,
etniche e simili. Un fenomeno non meno grave, anche perché accompagnato da
larga acquiescenza o consenso di opinione Pubblica, è quello delle legislazioni
non rispettose del diritto alla vita fin dal concepimento. Come si potrebbero
moralmente accettare delle leggi che permettono di uccidere l'essere umano non
ancora nato, ma che già vive nel grembo materno? Il diritto alla vita diventa
in tal modo appannaggio esclusivo degli adulti, che si servono degli stessi
parlamenti per attuare i propri progetti e per perseguire i propri interessi. Ci
troviamo di fronte ad un'enorme minaccia contro la vita: non solo di singoli
individui, ma anche dell'intera civiltà. L'affermazione che questa civiltà è
diventata, sotto alcuni aspetti, «civiltà della morte» riceve una
preoccupante conferma. E non è forse evento profetico il fatto che la nascita
di Cristo sia stata accompagnata dal pericolo per la sua esistenza? Sì, anche
la vita di Colui che è al tempo stesso figlio dell'uomo e figlio di Dio è
stata minacciata, è stata in pericolo sin dall'inizio, e solo per miracolo ha
evitato la morte. Negli ultimi decenni, tuttavia, si notano alcuni sintomi
confortanti di un risveglio delle coscienze: esso riguarda sia il mondo del
pensiero che la stessa opinione pubblica. Cresce, specialmente tra i giovani,
una nuova coscienza di rispetto della vita fino dal concepimento; si diffondono
i movimenti per la vita («pro life»). È un lievito di speranza per il futuro
della famiglia e dell'intera umanità.
«Mi avete accolto»
22
Coniugi e famiglie di tutto il mondo: con voi è lo Sposo! Questo prima di tutto
desidera dirvi il Papa, nell'anno che le Nazioni Unite e la Chiesa dedicano alla
famiglia. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché
chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il
Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo
di lui» (Gv 3,16-17); «Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è
nato dallo Spirito è Spirito. (...) Dovete rinascere dall'alto» (Gv 3,6-7).
Dovete nascere «da acqua e da Spirito» (Gv 3,5). Proprio voi, cari padri e
madri, siete i primi testimoni e ministri di questa nuova nascita dallo Spirito
Santo. Voi, che generate i vostri figli per la patria terrena, non dimenticate
che al tempo stesso li generate per Dio. Dio desidera la loro nascita dallo
Spirito Santo; Egli li vuole come figli adottivi nell'unigenito Figlio, che ci dà
«potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). L'opera della salvezza perdura
nel mondo e si realizza mediante la Chiesa. Tutto ciò è opera del Figlio di
Dio, dello Sposo divino, che ci ha trasmesso il Regno del Padre e ricorda a noi
suoi discepoli: «il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc i 7,21). La nostra
fede ci dice che Gesù Cristo, il quale «siede alla destra del Padre», verrà
a giudicare i vivi e i morti. D'altra parte, l'evangelista Giovanni ci assicura
che Egli è stato mandato nel mondo non «per giudicare il mondo, ma perché il
mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,17). In che cosa, dunque, consiste il
giudizio? Cristo stesso offre la risposta: «il giudizio è questo: la luce è
venuta nel mondo (.. ). Chi opera la verità viene alla luce, perché appaia
chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,19.21). È quanto
ha ricordato di recente anche l'Enciclica Veritatis splendor. Cristo è dunque
giudice? I tuoi propri atti ti giudicheranno alla luce della verità che tu
conosci. A giudicare i padri e le madri, i figli e le figlie saranno le loro
opere. Ognuno di noi verrà giudicato sui comandamenti; anche su quelli che
abbiamo ricordato in questa Lettera: il quarto, il quinto, il sesto, il nono.
Ciascuno sarà giudicato, però, soprattutto sull'amore, che è il senso e la
sintesi dei comandamenti. «Alla sera della vita saremo giudicati sull'amore»,
ha scritto san Giovanni della Croce. Cristo, Redentore e Sposo dell'umanità, «per
questo è nato e per questo è venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla
verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la sua voce» (cfr. Gv 18,37). Sarà
lui il giudice, ma in quel modo che lui stesso ha indicato parlando del giudizio
finale (cfr. Mt 25,31-46). E suo sarà un giudizio sull'amore, un giudizio che
confermerà definitivamente la verità che lo Sposo era con noi, senza che noi,
forse, lo sapessimo. Il giudice è lo Sposo della Chiesa e dell'umanità. Per
questo giudica dicendo: «Venite, benedetti del Padre mio «Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho
avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e
mi avete vestito...» (Mt 25,-). Naturalmente quest'elenco potrebbe allungassi e
in esso potrebbe comparire un'infinità di problemi, che interessano anche la
vita coniugale e familiare. Potremmo trovarci anche espressioni come queste: «Ero
bambino non ancora nato e mi avete accolto permettendomi di nascere; ero bambino
abbandonato e siete stati per me una famiglia; ero bambino orfano e mi avete
adottato ed educato come un vostro figlio». E ancora: «Avete aiutato le madri
dubbiose, o soggette a fuorvianti pressioni, ad accettare il loro bambino non
nato e a farlo nascere; avete aiutato famiglie numerose, famiglie in difficoltà
a mantenere ed educare i figli che Dio aveva loro donato». E potremmo
continuare con un elenco lungo e diversificato, comprendente ogni specie di vero
bene morale ed umano, nel quale si esprime l'amore. Ecco la grande messe che il
Redentore del mondo, al quale il Padre ha affidato il giudizio, verrà a
raccogliere: è la messe di grazie e di opere buone, maturata al soffio dello
Sposo nello Spirito Santo, che non cessa mai di operare nel mondo e nella
Chiesa. Rendiamo grazie per questo al Datore di ogni bene. Sappiamo però che
nella sentenza finale riportata dall'evangelista Matteo c'è un altro elenco,
grave e terrificante: «Via, lontano da me «Perché ho avuto fame e non mi
avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero
forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito...» (Mt
25,41-43). E anche in questo elenco si possono trovare altri comportamenti, nei
quali Gesù si presenta ancora come l'uomo respinto. Così Egli si identifica
con la moglie o il marito abbandonati, con il bambino concepito e rifiutato: «Non
mi avete accolto»! Anche questo giudizio cammina attraverso la storia delle
nostre famiglie, cammina attraverso la storia delle Nazioni e dell'umanità. Il
«non mi avete accolto» di Cristo coinvolge anche istituzioni sociali, Governi
e Organizzazioni internazionali. Pascal ha scritto che «Gesù sarà in agonia
fino alla fine del mondo». L'agonia del Getsemani e l'agonia del Golgota sono
il culmine della manifestazione dell'amore.
Nell'una
e nell'altra si manifesta lo Sposo che è con noi, che ama sempre nuovamente,
che «ama sino alla fine» (cfr. Gv 13,1). L'amore che è in lui, e che da lui
va oltre i confini delle storie personali o familiari, oltrepassa i confini
della storia dell'umanità. Al termine di queste riflessioni, cari Fratelli e
Sorelle, pensando a quanto nell'Anno della Famiglia verrà proclamato da varie
tribune, vorrei rinnovare con voi la confessione rivolta da Pietro a Cristo: «Tu
hai parole di vita eterna» (Gv 6.68). Insieme diciamo: Le tue parole, o
Signore, non passeranno! (cfr. Mc 13,31). Che cosa può augurarvi il Papa al
termine di questa lunga meditazione sull'Anno della Famiglia? Vi augura di
ritrovarvi tutti in queste parole, che sono «spirito e vita» (Gv 6,63).
«Corroborati nell'uomo interiore»
23. Piego le
mie ginocchia davanti al Padre dal quale ogni paternità e maternità prende
nome, «perché vi conceda (...) di essere potentemente rafforzati dal suo
Spirito nell'uomo interiore» (Ef 3,16). Ritorno volentieri a queste parole
dell'Apostolo, alle quali ho fatto riferimento nella prima parte della presente
Lettera. Sono, in un certo senso, parole chiave. La famiglia, la paternità e la
maternità vanno insieme, di pari passo. Allo stesso tempo, la famiglia è il
primo ambiente umano nel quale si forma l'«uomo interiore» di cui parla
l'Apostolo. Il consolidamento della sua forza è dono del Padre e del Figlio
nello Spirito Santo. L'Anno della Famiglia pone davanti a noi ed alla Chiesa un
compito enorme, non diverso da quello che interessa la famiglia ogni anno e ogni
giorno, ma che nel contesto di quest'Anno acquista particolare significato ed
importanza. Abbiamo iniziato l'Anno della Famiglia a Nazaret, nella solennità
della Santa Famiglia; desideriamo, lungo questo Anno, pellegrinare verso questo
luogo di grazia, diventato il Santuario della Santa Famiglia nella storia
dell'umanità. Desideriamo fare questo pellegrinaggio ricuperando la
consapevolezza del patrimonio di verità sulla famiglia che sin dall'inizio
costituisce un tesoro della Chiesa. È il tesoro che s'accumula a partire dalla
ricca tradizione dell'Antica Alleanza, si completa nella Nuova e trova la sua
espressione piena ed emblematica nel mistero della Santa Famiglia, nella quale
lo Sposo divino opera la redenzione di tutte le famiglie. Da lì Gesù proclama
il «vangelo della famiglia». A questo tesoro di verità attingono tutte le
generazioni dei discepoli di Cristo, cominciando dagli Apostoli, del cui
insegnamento abbiamo usufruito abbondantemente in questa Lettera. Nella nostra
epoca questo tesoro viene esplorato a fondo nei documenti del Concilio Vaticano
II; interessanti analisi si trovano sviluppate anche nei numerosi Discorsi che
Pio XII dedica agli sposi, nell'Enciclica Humanae vitae di Paolo VI, negli
interventi al Sinodo dei Vescovi dedicato alla famiglia (1980) e
nell'Esortazione apostolica Familiaris consortio. A tali pronunciamenti del
Magistero ho fatto riferimento all'inizio. Se ora vi ritorno è per sottolineare
quanto ampio e ricco sia il tesoro della verità cristiana sulla famiglia. Le
sole testimonianze scritte, tuttavia, non bastano. Ben più importanti sono
quelle vive. Paolo VI ha osservato che «l'uomo contemporaneo ascolta più
volentieri i testimoni che i maestri, o, se ascolta i maestri, è perché sono
dei testimoni». È soprattutto ai testimoni che, nella Chiesa è affidato il
tesoro della famiglia: a quei padri e a quelle madri, figli e figlie, che
attraverso la famiglia hanno trovato la strada della loro vocazione umana e
cristiana, la dimensione dell'«uomo interiore» (Ef 3,16), di cui parla
l'Apostolo, ed hanno così raggiunto la santità. La Santa Famiglia è l'inizio
di tante altre famiglie sante. Il concilio ha ricordato che la santità è
vocazione universale dei battezzati. Nella nostra epoca, come in passato, non
mancano testimoni del «vangelo della famiglia», anche se non sono conosciuti o
non sono stati proclamati santi dalla Chiesa. L'Anno della Famiglia costituisce
l'occasione opportuna per far crescere la consapevolezza della loro esistenza e
del loro grande numero. Attraverso la famiglia fluisce la storia dell'uomo, la
storia della salvezza dell'umanità. Ho cercato di mostrare in queste pagine
come la famiglia si trovi al centro del grande combattimento tra il bene e il
male, tra la vita e la morte, tra l'amore e quanto all'amore si oppone. Alla
famiglia è affidato il compito di lottare prima di tutto per liberare le forze
del bene, la cui fonte si trova in Cristo Redentore dell'uomo. Occorre far sì
che tali forze siano fatte proprie da ogni nucleo familiare, affinché, come è
stato detto in occasione del millennio polacco del cristianesimo, la famiglia
sia «forte di Dio». Ecco la ragione per la quale la presente Lettera ha voluto
ispirarsi alle parenesi apostoliche che troviamo negli scritti di Paolo (cfr.
ICor 7,1-40; Ef 5,21 - 6,9; Col 3,18-25) e nelle Lettere di Pietro e di Giovanni
(cfr. I Pt 3,1 -7; I Gv 2,1217). Quanto simili, pur nella diversità del
contesto storico e culturale. sono le situazioni dei cristiani e delle famiglie
di allora e di oggi! Il mio è, dunque, un invito: un invito rivolto
specialmente a voi, carissimi sposi e spose, padri e madri, figli e figlie. È
un invito a tutte le Chiese particolari, perché permangano unite
nell'insegnamento della verità apostolica; ai Fratelli nell'episcopato, ai
presbiteri, alle famiglie religiose e alle persone consacrate, ai movimenti e
alle associazioni dei fedeli laici; ai fratelli e sorelle, ai quali ci unisce la
comune fede in Gesù Cristo, anche se non sperimentiamo ancora la piena
comunione voluta dal Salvatore; a tutti coloro che, partecipando alla fede di
Abramo, appartengono come noi alla grande comunità dei credenti in un unico
Dio: a coloro che sono eredi di altre tradizioni spirituali e religiose; ad ogni
uomo e donna di buona volontà. Cristo, che è lo stesso «ieri, oggi e sempre»
(Eb 13,8), sia con noi mentre pieghiamo le ginocchia davanti al Padre, da cui
provengono ogni paternità e maternità e ogni famiglia umana (cfr. Ef 3,14-15)
e, con le medesime parole della preghiera al Padre che Egli stesso ci ha
insegnato, offra ancora una volta la testimonianza dell'amore con cui Egli ci «amò
sino alla fine» (Gv 13,1).Parlo con la potenza della sua verità all'uomo del
nostro tempo, perché comprenda quali grandi beni siano il matrimonio, la
famiglia e la vita; quale grande pericolo costituiscano il non rispetto di tali
realtà e la minor considerazione per i supremi valori che fondano la famiglia e
la dignità dell'essere umano. Sia il Signore Gesù a ridirci queste cose con la
potenza e la sapienza della Croce (cfr. lCor 1,17-24), affinché l'umanità non
ceda alla tentazione del «padre della menzogna» (Gv 8,44), che la spinge
costantemente su strade larghe e spaziose, all'apparenza facili e piacevoli ma
piene in realtà di insidie e pericoli. Ci sia dato di seguire sempre Colui che
è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Questi, carissimi Fratelli e
Sorelle, siano l'impegno delle famiglie cristiane e l'ansia missionaria della
Chiesa lungo quest'Anno ricco di singolari grazie divine. La Santa Famiglia,
icona e modello di ogni umana famiglia, aiuti ciascuno a camminare nello spirito
di Nazaret; aiuti ogni nucleo familiare ad approfondire la propria missione
civile ed ecclesiale mediante l'ascolto della Parola di Dio, la preghiera e la
fraterna condivisione di vita. Maria, Madre del bell'amore, e Giuseppe, Custode
del Redentore, ci accompagnino tutti con la loro incessante protezione! Con
questi sentimenti benedico ogni famiglia nel nome della Santissima Trinità:
Padre, Figlio e Spirito Santo.
Dato a Roma,
presso San Pietro, il 2 febbraio, Festa della Presentazione del Signore,
dell'anno 1994,
decimosesto di Pontificato.