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Cartellini d’identificazione per il personale infermieristico Avv. Giannantonio Barbieri Mi si chiede un parere "sulla possibilità di identificare il personale infermieristico con funzioni di Triage.. anziché con l’attuale tessera recante nome e cognome, con un identificativo alfanumerico o altrimenti codificato che affianchi la fototessera". Il problema sorge a quanto mi viene riferito, riguardo all’esigenza di tutelare la privacy degli Infermieri, giacché pare si siano verificati episodi di molestie a loro carico dovuti al fatto che, alcune persone, "hanno approfittato dei dati ricavati dall’attuale identificativo dell’Infermiere di Triade provocando… molestie di vario genere". In effetti, va aggiunto, un problema analogo è stato recentemente sollevato anche davanti al Garante per la protezione dei dati personali, al quale sono pervenute numerose richieste di chiarimenti non solo da parte di pubbliche amministrazioni e società private, ma anche da parte dello stesso personale dipendente che lamentava l’eccessiva presenza di dati bel badge. Ed, infatti, i dipendenti in questione lamentavano proprio come "un’eccessiva ed ingiustificata diffusione d’alcuni dati identificativi o anagrafici, li esponesse ad essere contattati anche per motivi estranei al lavoro". E’ opportuno, al fine di inquadrare il problema, certamente esistente e degno di rilevanza, individuare correttamente la particolare situazione nell’attuale contesto normativo. Il Patto Infermiere Cittadino (12 maggio 1996) dispone che l’Infermiere si "impegna" nei confronti del cittadino a farsi riconoscere "attraverso la divisa e il "cartellino di riconoscimento". Il D.P.C.M. 19 maggio 1995 (Schema generale di riferimento della Carta dei Servizi pubblici sanitari) richiama e fa propria la Circolare del Ministero della Sanità del 31 ottobre 1991 che, a sua volta, richiama l’attenzione delle Unità sanitarie locali sulla necessità di attuare provvedimenti tesi ad assicurare trasparenza ed efficacia all’azione amministrativa, suggerendo misure concrete quali l’adozione del cartellino d’identificazione del personale del Servizio sanitario. Il Contratto Collettivo di lavoro del Comparto Sanità del 1995 (Disposizioni non disapplicate) prevede all’art. 28 (Doveri del Dipendente), che "Il dipendente deve in particolare… nei rapporti col cittadino, fornire tutte le informazioni cui abbia titolo, nel rispetto delle disposizioni in materia di trasparenza e d’accesso all’attività amministrativa previste dalla L. 7 agosto 1990 n. 241, dai regolamenti della stessa azienda o ente…" Il Codice di Comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (D.M. 31 marzo 1994) dispone, tra gli altri che "nei rapporti col cittadino, il dipendente dimostra la massima disponibilità e non ne ostacola l’esercizio dei diritti" (art 2.7) e, ancora, che "Il dipendente in diretto rapporto con il pubblico presta adeguata attenzione alle richieste di ciascuno e fornisce le spiegazioni che gli diano richieste in ordine al comportamento proprio e di altri dipendenti dell’ufficio" (art. 11.1) Infine la Legge 7 agosto 1990, n 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti amministrativi) racchiude in sé una serie di norme la cui funzione primaria è la trasparenza dell’azione amministrativa. La legge in argomento, peraltro, nulla prescrive in ordine al "cartellino di identificazione" pur tuttavia prevedendo una serie di "obblighi di trasparenza". Di contro, va certamente richiamato l’art. 2087 del Codice Civile. E’ noto, infatti, che, per effetto di quanto dispone l’art. 2, 2° comma del D. lgs. 3 febbraio 1993 n 29, al rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche si applicano, fatte salve alcune eccezioni, le "disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del Codice Civile" nonché le "leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa". Orbene, l’art. citato, sotto il titolo "Tutela delle condizioni di lavoro", sancisce che "L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare, l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro". L’articolo in esame, in buona sostanza, introduce un dovere che trova la sua fonte immediata nel rapporto di lavoro, e la cui inosservanza, se sia stata causa di danno può essere fatta valere dal dipendente con azione risarcitoria contrattuale (Corte di Cassazione n 3115/1991). La Suprema Corte di Cassazione ha altresì affermato che gli obblighi derivanti dall’articolo in commento, si riferiscono non soltanto alle attrezzature macchinari e servizi che il datore di lavoro fornisce o deve fornire, ma anche all’ambiente di lavoro; di conseguenza le misure del datore di lavoro devono riguardare i rischi derivanti dall’azione di fattori esterni all’ambiente di lavoro. Ma vi è di più. Occorre ricordare che il D. lgs. 19 settembre 1994, n 626 si occupa della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori durante il lavoro, in tutti i settori di attività, privati o pubblici. Il datore di lavoro, sulla base del citato D. lgs. Deve attuare la sicurezza sui luoghi di lavoro mediante, ad esempio; "eliminazione dei rischi in relazione alle conoscenze acquisite…"; "riduzione dei rischi alla fonte"; "sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso"; "misure di protezione collettiva o individuale", (art. 3 D. lgs. N. 626/94). Ma certamente il dato maggiormente significativo è offerto, come richiamato dal Garante per la protezione dei dati personali che, come già visto sopra, è stato chiamato a dare risposte sul problema, dal fato che le legge sulla protezione di dati stabilisce che il trattamento dei dati personali si svolga "nel rispetto dei diritti delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche". I dati trattati, pertanto, dovranno essere pertinenti e non eccedenti alla finalità perseguita e la loro diffusione, sia per il settore pubblico sia per quello privato, deve rispettare precise condizioni (così, Documenti privacy, in Rivista Diritto delle Professioni sanitarie, n. 4/2000, Lauri Edizioni). Il Garante, in sintesi, sottolinea come, in relazione ai rapporti con gli utenti o con i clienti, non sussista alcuna utilità che appaiano sul cartellino dati personali identificativi diversi dall’immagine fotografica, dal ruolo professionale svolto ed eventualmente da un nome, un numero o una sigla. In particolare, afferma il Garante, " per le amministrazioni pubbliche non è giustificabile che in assenza di ragioni obiettive, le amministrazioni pubbliche stesse impongano la diffusione di elementi identificativi personali non pertinenti ed inutilmente eccedenti rispetto alle finalità di responsabilizzare maggiormente il personale e di fornire agli utenti una conoscenza sufficiente degli operatori con cui entrano in rapporto". Le amministrazioni pubbliche, pertanto, alla luce di quanto sopra, qualora verifichino ed accertino che il riportare il nome e il cognome del dipendente sul cartellino d’identificazione possa costituire pericolo di pregiudizio per lo stesso a causa di comportamenti dannosi di terzi, saranno tenute ad adottare un sistema diverso, che contemperi il diritto del cittadino ad instaurare un rapporto di fiducia e di collaborazione con l’amministrazione e al contempo tuteli il dipendente. Si consideri, infatti, che la funzione del cartellino identificativo non è la conoscibilità fine a se stessa, dei dati anagrafici del dipendente da parte dell’utenza. Invero, la funzione del cartellino identificativo è far sì che, nei rapporti con l’amministrazione, il cittadino, perle più varie ragioni (ad esempio un reclamo) sia in grado di segnalare e permetter all’amministrazione di individuare quel determinato impiegato pubblico con cui ha avuto a che fare. Ebbene, tale finalità è sicuramente raggiungibile anche apponendo sul cartellino di riconoscimento il numero di matricola o altro codice, ad esempio alfanumerico che consenta all’amministrazione di risalire con certezza al nominativo dell’impiegato di cui trattasi.
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