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ALLA RISCOPERTA DELL'ETICA TOMISTA

Introduzione del prof. Umbearto Galeazzi al libro:

Tommaso D'Aquino, "I vizi capitali" - testo latino a fronte -, ed. BUR, 1996.

 

1. Il disorientamento contemporaneo e l'umanità da salvaguardare

 

Che senso ha, oggi, leggere Tommaso d'Aquino e, in particolare, la sua indagine sull'etica? Che senso ha parlare di vizi e, quindi, di virtù; di male e, quindi, di bene?

Riproporre il dialogo con il genio speculativo dell'Aquinate significa verificare se il suo pensiero aiuta a capire l'uomo di oggi, con le sue conquiste, ma anche con il suo disorientamento, con le sue angosce e, non di rado, con la sua disperazione. Si tratta di vedere se quel pensiero aiuta a rispondere alle domande sempre più inquietanti che si impongono, quando si avverte che oggi la «posta in gioco nelle scommesse sull'agire», nelle scelte etiche, è la vita umana, con una implicita minaccia non solo alla qualità della vita e alla stessa sopravvivenza di poche o tante persone, ma anche alla stessa «identità umana» come «essenza dell'uomo globalmente inteso».(1)

In un certo senso questo si può dire non solo per il nostro tempo, ma la peculiarità della situazione attuale è caratterizzata dalla compresenza di un «Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l'economia imprime un impulso incessante»(2) e di un «nichilismo nel quale al massimo potere si unisce il massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi».(3) Sicché da questo rischio inedito scaturisce l'esigenza e la nozione di umanità da salvaguardare non solo rispetto alla minaccia, mai debellata definitivamente, alla sopravvivenza fisica, ma anche di fronte al pericolo di una pretesa manipolativa che stravolga la stessa identità dell'essere umano, la sua integrità e specificità.

Uno dei sintomi non secondari, che fanno pensare a quel pericolo come non solo ipoteticamente remoto, è costituito dalla tendenza a relegare l'umana ragione a un ruolo strumentale e meramente calcolante. In tal modo, come ha evidenziato l'acuta diagnosi critica dei Francofortesi (4), essa viene ridotta a vuota razionalità formale, capace solo di verificare la coerenza interna di un certo procedimento e la funzionalità dì certi mezzi rispetto a scopi prefissati, ma viene neutralizzata di fronte ai fini, sui quali si pretende che non possa dire nulla. Perciò diventa uno strumento utilizzabile per qualsiasi fine, che evidentemente viene scelto e imposto in base a fattori e motivazioni a-razionali e addirittura arbitrar! e irrazionali. La critica della ragione strumentale evidenzia che, in tal modo, la ragione tende a essere ridotta a mero strumento, a cosa fra le cose, ma questa reificazione è reificazione dell'uomo stesso. Perché l'asservimento dell'intelligenza non è altro che l'asservimento dell'uomo, le cui possibilità di libertà e di esplicazione della propria personalità sono legate all'autonoma capacità di giudizio e di superamento critico, prima ancora che pratico, della situazione in cui si trova. Ma ciò è possibile solo se la ragione non mortifica la sua costitutiva vocazione veritativa, che la impegna  come testimonia la tradizione filosofica occidentale, per limitarci a questa  a conoscere la realtà e, in essa, il significato dell'esistenza umana, indagando su questioni decisive «riguardanti l'idea del massimo bene, il problema del destino umano, il modo di realizzare i fini ultimi».(5)

Il rifiuto nichilistico di quella vocazione, con il conseguente vuoto etico, oggi sempre più diffuso perfino a livello di senso comune, è l'esito estremo di quella filosofia morale moderna, «la cui disfatta è stata predeterminata sin dall'inizio dai modi in cui la ricerca è stata pensata»(6): per esempio, ritenendo che potesse avere un senso riproporre il «dovere», prescindendo dal concreto bene umano e così caricando tutto l'onere fondativo sulle spalle ben fragili dell'autolegislazione della soggettività, per quanto trascendentale.

Da ciò la situazione attuale, in cui ci troviamo di fronte alla «più grande sfida che sia mai venuta all'essere umano dal suo stesso agire».(7)

In questa distretta, non priva di rischi di involuzioni disumanizzanti, il pensiero postmoderno non può essere di grande aiuto perché in gran parte è condizionato da presupposti che lo portano a dibattersi in drammatiche e significative contraddizioni, che si riflettono nel disorientamento degli uomini, delle donne, in particolare dei giovani, bombardati dai molteplici e contrastanti messaggi dei mezzi di comunicazione di massa e, per così dire, indifesi, perché privi di validi criteri di discernimento critico.

Da un lato dunque si insiste sulla finitezza dell'uomo, con ciò riconoscendo i suoi molteplici limili, dall'altro e, insieme, si pretende che egli non abbia nessun limite nelle sue scelte etiche, che in tal modo creerebbero i valori, anziché riconoscerà. Ciò significa che qualsiasi comportamento, per quanto aberrante secondo la tradizione etica plurisecolare e secondo il senso comune, in quanto scelto da qualcuno diventerebbe positivo e moralmente accettabile. In tal modo gli uomini e le donne, cosi limitati da dover rispettare, per esempio, le leggi della propria costituzione fisiologica per evitare involu-zioni patologiche e addirittura l'autodistruzione, avrebbero invece la «responsabilità di essere padroni del senso e della norma» (8).

Ma, se uno è padrone del senso e della norma, vuoi dire che il suo arbitrio non ha alcun valore da rispettare, nemmeno quello dei suoi simili; se c'è rispetto è semplicemente casuale, momentaneo, ma non può escludere di convenirsi nel suo opposto. Quell'esclusione, infatti, è negazione della pretesa di esser padrone del senso e della norma, poiché significa che c'è comunque una norma da rispettare, di cui non si è padroni.

C'è, dunque, un contrasto irriducibile tra il rifiuto nichilistico di una nonnatività superiore all'arbitrio del soggetto e l'intento, ugualmente asserito, di salvaguardare e di promuovere la dignità dell'uomo in una convivenza sempre più rispettosa della dignità di ogni persona- Ma ancora: che senso può avere parlare dì dignità dell'uomo o di rispetto dell'uomo se nel contempo se ne rifiuta la verità e l'identità, considerate sostanzialmente repressive delle «invenzioni» dell'arbitrio senza regole? Come si può conciliare l'apologia della trasgressione con l'esigenza del rispetto delle persone?

Per altro verso, la pretesa nicciana di porre l'uomo al di là del bene e del male, cancellandone la differenza e cancellando ogni dover essere si rivela impossibile da realizzarsi, in quanto legata alla dura condanna di comportamenti, considerati negativi, perché giudicati contro la vita, o meglio, in contrasto con un modo vitalistico di intendere la vita umana.

Anche qui c'è un'aporia insanabile tra la pretesa distruzione radicale di ogni etica normativa e il disegno, fatto valere più o meno implicitamente e surrettiziamente, di affermare una certa interpretazione del bene umano.

Per non dire delle contraddizioni pratiche del non cognitivismo scientistico, riduttivo delle possibilità dell'umana ragione, dichiarata incapace di pronunciarsi sui fini dell'agire. Ma, nella concreta realtà storico-sociale, se i comuni menali non possono scoprire i fini, che, però, di fatto non possono non essere scelti, con una implicita presa di posizione anche teoretica, allora evidentemente c'è chi pensa a imporli, sia che si tratti dei gruppi di potere dominanti, o dei burocrati di panito, o di chi riesce a proporsi per mezzo dei mass-media e dell'industria culturale.

Dunque questo riduttivismo scientistico che è un pensiero senza speranza, incapace di trascendere la situazione di fatto perché rinuncia a metterne in questione i fini prevalenti, non può non essere implicitamente apologetico del disordine stabilito, con gli assetti disumanizzanti che esso implica.

È, perciò, quello scientistico, un .pensiero che non riesce a mantenersi in una incontaminata purezza scientifica, ne in una asettica neutralità teoretica, perché diventa funzionale al potere, proprio in quanto esclude la riflessione e valutazione critica sui fini; è così poco neutrale che si rivela «amico di quello che di volta in volta è l'esistente»,9 che «non conosce limiti ne nell'asservimento delle creature, ne nella sua docile acquiescenza ai signori del mondo» (DI, p. 12).

È così poco a-filosofico e ametafisico da favorire il tentativo di riduzione dell'uomo a cosa fra le cose – facendo valere una implicita, ma inequivocabile posizione metafisica. quella appunto che sostiene la reificazione -, da sottomettersi al «falso assoluto: il principio del cieco dominio» (DI, p. 50).

2. Per mettere in discussione i presupposti dominanti

Se questi rapidi cenni, per quanto sommar; hanno dato realisticamente un'idea della condizione spirituale del nostro tempo, del clima culturale prevalente e della mentalità più diffusa, che corrodono i pochi valori ancora condivisi, allora si possono intendere gli ostacoli che incontra oggi chi voglia, prima che accogliere, almeno comprendere l'etica tommasiana. Ma, d'altra parte, proprio la sua inattualità, radicalmente alternativa rispetto alle mode correnti, la rende idonea a mettere in questione gli idoli dominanti, i presupposti meno problematizzati e accolti più o meno consapevolmente come indiscutibili, che sono alla radice degli esiti estremi e drammatici che ancora riusciamo ad avvertire come distruttivi e disumanizzanti. Infatti la diffusa e particolare condizione di smarrimento e di povertà interiore del nostro tempo rende, per lo più, quasi incapaci di intendere il bene in campo morale e di avvertirne il fascino, ma lascia l'orrore per il male, magari nelle sue manifestazioni sensibilmente più repellenti. Di qui l'interesse di un'indagine che pana dai vizi per risalire ad acquisizioni non secondarie per la condotta umana. Sicché può avere oggi particolare efficacia una ricerca etica che prenda avvio dalla ripugnanza per il male più evidente, perché colpisce direttamente la persona a partire dalla sensibilità, mettendo in moto una reattività spontanea. Una euristica della ripugnanza, più che della paura, come vuole Jonas. sembra da non trascurare, perché, specie nell'attuale disorientamento della riflessione teorica, «... la percezione del malum ci riesce infinitamente più facile della conoscenza del bonum; essa è più immediata, più plausibile, molto meno esposta a divergenze di opinioni e soprattutto non intenzionale».(10)

In tal modo si è ancora in grado di indignarsi e di rifiutare certe conseguenze più evidentemente negative e distruttive, senza, però, essere capaci di individuare e di rifiutare i presupposti che ne sono la radice e che, non messi in questione, continueranno a dare certi frutti guasti o addirittura avvelenati. In questo contesto l'incontro con la prospettiva tommasiana sull'etica può essere liberante - in primo luogo per la sua intelligenza - se riusciamo a farla dialogare criticamente con il pensiero del nostro tempo, che condiziona più o meno esplicitamente le nostre scelte e le nostre convinzioni, gli obiettivi per cui ci affanniamo, le nostre paure e le nostre angosce.

Un pensiero non privo di responsabilità rispetto alla chiusura egocentrica e all'antagonismo conflittuale, che tendono a renderci sempre più avidi, insensibili, spregiudicati e infelici.

 

3. L'indagine sui vizi come via d'accesso all'etica tommasiana e i due dogmi del pensiero contemporaneo

Perciò, nel rinnovato interesse che oggi si manifesta per la filosofia pratica, in cui sono presi come essenziali punti di riferimento il pensiero di Aristotele e quello di Kant, una grave lacuna è costituita dal fatto che in genere si trascura (perché la si ignora?) l'originalità dell'etica tommasiana, che, in quanto attenta alla concretezza esistenziale della condizione umana nella integralità delle sue dimensioni, è capace di valorizzare i contributi positivi dei citati filosofi, in una sintesi che ne superi le difficoltà e i limiti.

In questa prospettiva l'indagine sui vizi può essere una valida via d'accesso all'etica tommasiana, proprio per scoprire delle risposte significative e interessanti per gli uomini di oggi. Non è, infatti, una via che parte deduttivamente da princìpi generali, ma viceversa un itinerario che procede attraverso l'esperienza concreta degli uomini comuni e non solo degli addetti ai lavori, seguendo i percorsi insonni e inquieti del desiderio, gli erramenti dietro l'attrattiva di idoli tanto esigenti e tirannici, quanto, in definitiva, deludenti.

In questa indagine l'uomo di oggi individua una esperienza sorprendentemente analoga - pur nella diversità dei contesti - alla propria. Ritrova gli stessi fini che egli di volta in volta è portato a considerare come supremi, a essi tutto subordinando, e che lo affascinano e lo turbano, lo muovono freneticamente all'agire e lo angosciano, lo reificano nella grettezza di mete anguste, lo abbrutiscono fino a fargli rinnegare e calpestare la propria e l'altrui dignità, gettandolo nella disperazione del non senso. Ritrova la brama inesausta dei piaceri, l'avidità insaziabile di denaro e di beni materiali, ma anche di potere, con una pretesa di superiorità sugli altri e con una vanagloria, capace di gonfiarsi sulla base di qualità inesistenti. Ritrova il suo bisogno di amore e di riconoscimento da parte dei propri simili, che non di rado si rovescia in modo preoccupante nella tendenza a strumentalizzare, a servirsi degli altri.

Ma l'uomo contemporaneo è sconcertato, smarrito, perché, pur obbedendo, nell'inseguire questi obiettivi, alla tensione del proprio desiderio, è condotto a bere l'amaro calice della delusione. E non riesce a capire perché. Nell'angustia della propria prospettiva non riesce ad aprirsi un varco per la luce di una soluzione, che, non censurando o mortificando nessuno dei fattori in gioco, rintracci un senso scoprendo la via dell'adempimento.

Ma per far sì che la risposta, rinvenibile nello stile dialogico delle questioni tommasiane, non sia scartata pregiudizialmente prima ancora di essere ascoltata, bisogna mettere in discussione e valutare criticamente almeno due dei presupposti più comunemente dati per scontati da parte di diversi filoni di pensiero del nostro tempo. Si tratta, per così dire, di due dogmi su cui vige una sorta di divieto tacito di far domande: quello che vuole che la libertà dell'uomo, per essere tale, debba essere una libertà assoluta, senza vincoli o limiti da rispettare; e l'altro, per il quale la verità è vista con sospetto, perché considerata o come fonte dì intolleranza e di imposizione verso gli altri o come repressiva della spontaneità e dell'arbitrio della soggettività.

Come si vede i due dogmi si implicano reciprocamente tra di loro, contribuendo a costruire artificiosamente l'ambiguo piacere del dubbio come difesa dalla verità come se la fame non ci fosse per essere saziata e se addirittura saziarla fosse nocivo - e il fascino sinistro di itinerari trasgressivi, saputi come potenzialmente e rischiosamente esiziali, come se le rotte senza bussola verso il naufragio fossero preferibili ai cammini, ordinati e fati cosi, ma gratificanti, della crescita e dell'adempimento.

Su questi due presupposti è istruttivo, proprio ai fini di una introduzione al pensiero dell'Aquinate, tentare di ricostruire un ideale dialogo critico tra quest'ultimo e la filosofia di Sartre che nel pensiero contemporaneo costato tra i primi a sostenere quei due «dogmi», essendo poi seguito da molti, provenienti da diverse correnti di pensiero. Si può dunque considerare la sua posizione come paradigmatica per dialogare con alcune istanze del nostro tempo, chiarendone il senso alla luce della sintesi speculativa tommasiana.(11)

 

4. Un'etica significativa per l'uomo d'oggi

Abbiamo parlato deIl'analisi sui vizi come via d'accesso significativa, specie per l'uomo d'oggi, all'etica tommasiana, ma sì può dire di più.

Si possono leggere le Questioni disputate, che qui presentiamo, come una verifica, addirittura come una sorta di dimostrazione confutativa della validità della prospettiva generale di Tommaso sull'agire morale.

Infatti un'etica che procedesse deduttivamente insistendo sui principi senza riuscire a farne vedere il nesso con la vita quotidiana, senza riuscire a far luce sulle scelte concrete, piccole o grandi, senza riuscire a valutarle e a dirigerle con un chiaro discernimento critico, potrebbe essere una esercitazione accademica, magari ricca di citazioni erudite e preoccupata di dialogare con quelli che contano secondo la moda del momento, senza essere in grado, però, di rispondere agli interrogativi e ai problemi concreti degli uomini. Analogamente, un'etica che fosse disegnata per un uomo perfetto sarebbe incapace di comunicare veramente con gli uomini reali, con le loro contraddizioni e la loro fragilità, con le loro incoerenze e con i loro fallimenti, con i loro abissi di abbrutimento e di abiezione, ma anche con i loro slanci di rettitudine e di generosità, con il loro desiderio di giustizia e di felicità. Di qui l'esigenza di un'etica che prenda avvio dalla concreta esperienza dell'agire umano e quindi dalle conquiste e dalla crescita personale, conseguenti all'agire virtuoso, ma che però tenga conto anche del male morale, delle scelte aberranti e distruttive di cui gli uomini si rendono responsabili. Perché essi hanno bisogno prima di tutto di capire se stessi proprio in quelle debolezze e in quegli errori, fino a scorgervi dei tradimenti alle proprie intenzioni più profonde di bene, con ciò aprendosi l'orizzonte di possibilità alternative, di realistiche inversioni di tendenza.

Ora la moralis consideratio (lo studio sugli atti umani), che troviamo negli scritti della maturità di Tommaso, come la Seconda Parte della Summa theologiae e le Questioni disputate sul male - di cui fa parte l'analisi sui vizi che qui presentiamo -, manifesta una posizione sostanzialmente unitaria (12) e nuova (13) rispetto a opere precedenti, come il giovanile Scriptum super Libros Sententiarum, la prima opera di grande impegno, frutto del suo primo insegnamento all'Università di Parigi come baccalaureus sententiarius, incaricato, appunto, di commentare i quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo.  

Questa moralis consideratio, pur non misconoscendo le acquisizioni antropologiche e metafisiche della speculazione tommasiana, procede in maniera non deduttiva, partendo dall'analisi dell'agire umano e, proprio attraverso l'indagine sull'esperienza morale, riguadagna e corrobora, in un certo senso autonomamente, quelle convinzioni. Sicché si può dire che Tommaso in questa nuova prospettiva: «... non deduce la morale dalla metafisica... ma accosta la vita morale nella sua originalità e nella sua autonomia, in quanto cioè la vita morale è opera propria d'una ragion pratica naturalmente dotata per regolare la condotta umana».14

In altra sede ho cercato di presentare i fondamenti dell'etica tommasiana, nel duplice senso di itinerario di fondazione, cioè di giustificazione razionale, e di linee essenziali, di prospettazione sintetica di quel pensiero.15 Qui l'intento è di far vedere la validità di una chiave di lettura della discussione sui vizi, che, lungi dall'isolare astrattamente alcune tesi particolari dal contesto, in tal modo fraintendendole, può aprire alla comprensione della moralis consideratio tommasiana, nella sua globalità e nell'originalità dei suoi motivi essenziali.

Perché ciò che dice il Mac Intyre sulla Summa è valido per tutta la speculazione tommasiana e cioè che «può essere compresa soltanto come un tutto unico e soltanto come tale può essere adeguatamente valutata».(16)

In più le pagine dell'Aquinate, che qui presentiamo, hanno il vantaggio di essere accessibili e significative per l'uomo contemporaneo, che in esse trova delle risposte di cui non può facilmente sbarazzarsi con rifiuti pregiudiziali, perché scopre che affrontano problemi non molto diversi dai suoi, che tengono conto delle sue difficoltà, che non sono estranee alla tensione del suo desiderio, ne alle sue speranze e alle sue preoccupazioni.

Vediamo, dunque, di delineare, sia pur rapidamente, quella lettura per dare un'idea di come possa costituire una feconda prospettiva di ricerca.

 

5. Vizi e desiderio di felicità

L'esperienza ci fa constatare che tutti gli uomini tendono alla felicità, dice Tommaso, e se questo desiderio è così universale, evidentemente è naturale (cfr. QDM, q. 13, a. 3; q. 14, a. 4). Ciò si verifica anche negli uomini che seguono i vizi; infatti l'oggetto di un vizio, specie se capitale, è desiderabile «soprattutto in quanto ha una sorta di somiglianza con la felicità, che tutti naturalmente desideriamo» (QDM, q. 14, a. 4).

La felicità, dice Tommaso seguendo Aristotele, ha tre condizioni: (17) che sia un bene perfetto, per sé sufficiente (sia perché voluto per se stesso e non come mezzo per qualcosa d'altro, sia perché è ciò che da solo rende la vita umana non bisognosa di nulla) e che sia accompagnato dal godimento (cfr. QDM, q. 13, a. 3).

Ora, tanto è vero che la felicità ha una priorità tra i fini perseguiti dagli uomini, che questo primato si estende anche a qualsiasi realtà che partecipi «veramente o apparentemente» di una delle suddette sue condizioni (cfr. ibid.).

E ciò si verifica anche nei vizi capitali. Ad esempio: per chi segue la superbia o la vanagloria «l'eccellenza (o superiorità) sembra essere qualcosa di principalmente desiderabile», perché «in tanto un qualche bene sembra essere perfetto, in quanto possiede una certa eccellenza»; d'altra parte c'è chi segue il vizio della gola o quello della lussuria, perché «nelle cose sensibili il massimo godimento si trova nel senso del tatto, nei cibi e nei piaceri venerei»; inoltre c'è chi si affida all'avarizia, perché «soprattutto le ricchezze promettono la sufficienza dei beni temporali» (ibid.). Ma l'analisi tommasiana fa vedere che anche nei rimanenti vizi capitali ciò che muove a un certo comportamento è l'affezione e la tensione (non priva di una deliberazione della volontà) del soggetto a un proprio bene, considerato talmente appagante e supremo - per sé sufficiente - da condurre a misconoscere e avversare altri beni, contro l'ordine della giustizia e della ragione. Così nell'invidia ci si rattrista per il bene altrui, perché è ritenuto un ostacolo alla propria superiorità; nell'accidia ci si rattrista del bene spirituale divino, perché è visto come un impedimento al bene e alla quiete del proprio corpo; nell'ira, in quanto viziosa, uno si scaglia contro il prossimo per punirlo, anche al di là del giusto, a causa di qualche offesa subita, cioè per riparare un danno arrecato a un proprio bene.

In particolare la tensione verso quell'aspetto della felicità che è il godimento è tale che «nessun uomo può rimanere a lungo senza godimento e nella tristezza», per cui «coloro che non possono gioire dei godimenti spirituali si rivolgono per lo più ai piaceri del corpo» (QDM, q.ll.a.4). E, tuttavia, nel vizioso questa tensione non consegue Inadempimento, va incontro alla delusione e al fallimento, come nell'avaro, che non è saziato dal denaro (cfr. QDM, q. 13, a. 3).

Dunque non tutti i comportamenti conducono alla felicità; riguardo a essi c'è bisogno di un discernimento critico. Ecco la questione decisiva dell'etica, che prende in esame gli atti umani «per distinguere quelli che servono a raggiungere la felicità, da quelli che ostacolano il cammino verso di essa» (S.th., I-II, q. 6, prologo).

Infatti, se, da un lato, tutti vogliono la felicità in quanto desiderano l'appagamento della volontà, d'altra parte, se parliamo della felicità considerando la sua nozione specifica, ciò in cui consiste essenzialmente, «allora non tutti la conoscono: perché non sanno a quale realtà si addica la nozione universale di felicità» (S.th, I-II, q. 5, a. 8). Tutti tendono alla felicità ma non tutti sanno in che consiste e, quindi, come si possa conseguire.

Per capire le ragioni di questo e quindi anche dei fallimenti bisogna andare al di là della semplice constatazione empirica e psicologica del tendere della persona alla felicità, per cogliervi il dinamismo dell'essere umano che mira alla piena realizzazione di sé, alla propria perfezione ontologica. «Perfezione» deriva dal verbo latino perficere, che significa, appunto, portare a compimento, realizzare compiutamente.

 

6. Bisogni, desideri e bene

Ora, il moto verso la perfezione è proprio di chi, come l'uomo, non la possiede pienamente e ha in sé molteplici potenzialità che tendono, per intrinseco dinamismo, ad attuarsi, dando luogo a tutto l'agire umano, con le sue ansie e le sue fatiche, con i suoi fallimenti, con le sue conquiste e realizzazioni lungo tutta la storia: «il fine di una potenza è il suo atto» (S.th., I-II, q. 55, a. 1), cioè il suo attuarsi, il suo compimento o la sua perfezione. Così, per esempio, la potenza intellettiva tende ad attuarsi conoscendo. Per comprendere ciò a livello ontologico bisognerebbe ricordare18 che l'uomo partecipa dell'essere, da intendere come atto di essere (actus essendi), come un'energia attiva, espansiva, che è nel cuore di ogni realtà. Nell'uomo che ne partecipa con la propria natura finita, implicante delle potenzialità, questa energia è la sorgente del dinamismo dell'agire. Ma queste potenzialità, proprio in quanto tendono ad attuarsi, implicano degli appetiti, perché non si potrebbero attuare se l'uomo se ne stesse autarchicamente rinchiuso in sé, senza tendere verso qualcosa di altro da sé. L'appetito, infatti, è «un certo moto verso qualcosa» (S.th., I, q. 5, a. 4, ad1) e deriva dal verbo latino appetere (ad-petere), che significa «tendere verso...».

Tutto ciò diventa molto chiaro se si pone mente alle umane potenzialità, a cominciare da quelle sensibili, da quelle legate ai nostri cinque sensi. La vista non potrebbe attuarsi come tale, cioè come capacità di vedere, se non cogliendo qualcosa di altro da sé, come la luce, i colori, le forme, ecc. Senza queste realtà la capacità visiva rimarrebbe inattuata, non vedrebbe, quindi sarebbe vi- sta non realmente, ma solo potenzialmente. Così l'udito, come potrebbe realmente udire senza i suoni? E l'odorato senza i profumi e gli odori? E il tatto senza delle realtà da toccare? E il gusto senza delle realtà da gustare? Ma questo vale anche per la potenza conoscitiva, che è realmente tale, cioè che conosce, quando intende qualche realtà; ed è mossa a conoscere sempre più - attuandosi così sempre più pienamente - da tutta la realtà da conoscere. Qualcosa di analogo si può dire della volontà, l'«appetito intellettivo», proporzionato alla conoscenza intellettiva perché tende al bene conosciuto dall'intelligenza (mentre gli appetiti sensibili tendono al bene colto dai sensi). Ora, solo il bene, in quanto raggiunto, da compimento all'appetito, appaga la volontà e da questo conseguimento, da questa perfezione raggiunta deriva il godimento. Il quale, dunque, non si deve confondere con la felicità, che «è il bene perfetto che appaga totalmente l'appetito» (S.th-, I-II, q. 2, a. 8), con ciò realizzando la perfezione ontologica del soggetto desiderante.

Il godimento, sia come piacere che come gioia, ne è solo una conseguenza, un elemento concomitante, come condizione psicologica del soggetto.

Ma questa condizione non può essere confusa ne con la raggiunta perfezione da cui nasce, ne tanto meno con quell'altro dal soggetto che la causa: «il godimento è causato dal quietarsi dell'appetito sul bene raggiunto» (S.th,I-II.q.4,a. 1).

Qui il bene, che è una nozione prima, di cui. perciò, non si può dare una definizione, è compreso a partire dal dinamismo della tendenza e del desiderio di cui è oggetto. Il bene è questo altro dal soggetto che soddisfa l'appetito o il desiderio, o, almeno, è ciò che è sentito, o intuito, o ritenuto come ciò che può soddisfarli.

Questo è il carattere di perfettività del bene, cioè la capacità di condurre a perfezionare il soggetto appetente e desiderante; da ciò poi se ne scopre il carattere di perfezione, perché può soddisfare l'appetito solo in quanto è perfetto (cfr. S.th., I, q. 5, a. 1).

Abbiamo detto appetito o desiderio, perché nel linguaggio tommasiano appetitus indica in generale il moto, il tendere verso qualcosa che include in sé sia l'inclinazione naturale di un essere inanimato, sia il tendere istintivo, sia il desiderio.(19)

Il secondo (cioè il tendere istintivo) è «determinato da natura in senso unico» (CG, II, 48) a bramare e perseguire quel preciso bene che soddisfa un bisogno o a fuggire quella realtà che si presenta come nociva. Come l'animale che tende, secondo il determinismo istintivo, verso ciò che soddisfa la sua fame o fugge ciò che si presenta come spiacevole.

Ma l'uomo non ha solo dei bisogni, ha anche dei desideri, perché non ha solo un appetito sensitivo, legato a un bene appreso e bramato o dalla sensibilità, ma ha anche un appetito razionale o intellettivo (volontà), per cui desidera il bene conosciuto e valutato dalla ragione e scelto liberamente: «... il bene colto dall'intelligenza muove la volontà» (QDM, q. 6).

Proprio perché l'uomo non ha solo dei bisogni, e quindi il suo agire non è semplicemente determinato in maniera unidirezionale dalle tendenze istintive, si pone il problema morale, quello cioè di valutare, deliberare e scegliere tra i diversi beni e tra i diversi desideri che ne conseguono.

Infatti i desideri degli uomini non si limitano a riprodurre il determinismo della natura corporea, ma vanno al di là, perché negli uomini c'è la capacità dell'universale, la ragione, che dischiude sul bene un orizzonte molto più vasto dei beni legati alla particolarità della soddisfazione istintiva. I desideri che nascono dall'appetito razionale «sono propri degli uomini, i quali hanno la facoltà di considerare buona e conveniente una cosa al di fuori delle necessità della natura» (S. th., I-II, q. 30, a, 3).

Qui è trascesa la mera reazione necessaria ai bisogni materiali: questi desideri presuppongono la conoscenza e la deliberazione. L'insaziabilità dei desideri degli uomini la sperimentiamo continuamente, si tratta di comprenderne i motivi, le ragioni, con un approfondimento realistico della condizione umana.

 

7. Perché nell'esperienza dell'uomo il desiderio si presenta come insaziabile?

Perché l'uomo non trova appagamento, quiete, termine alle sue aspirazioni e alla sua tensione? Anche quando consegue gli obiettivi dei suoi desideri infatti, la sua ricerca continua inquieta, insonne, affannosa, mai paga delle mete raggiunte.

Aristotele insinua un sospetto, che dischiude l'orizzonte di una ricerca fruttuosa: «... tutti perseguono il piacere. Ma forse anche perseguono non il piacere che credono, ne quello che direbbero di perseguire...».

Tommaso riprende e approfondisce l'acuta osservazione aristotelica: se nei beni e nei piaceri limitati secondo molteplici aspetti il desiderio non è appagato, evidentemente in essi l'uomo cerca qualcosa d'altro; il desiderio è desiderio di qualcosa d'altro.

L'insaziabilità deriva dalla disequazione tra l'apertura infinita del desiderio e ciò che si ricerca per soddisfarlo.

L'uomo desidera principalmente che sia appagato ogni suo desiderio con un bene tale che consenta di soddisfare questa aspirazione e con la certezza di non doverlo mai perdere (cfr. S.th, I-II. q. 5, a. 4). Quello umano è, dunque, desiderio del bene infinito, che subordina a sé, in un ordine gerarchico, ogni altro desiderio finito, e non è appagato da nessun bene limitato, fosse pure il proprio bene egocentrico e il proprio piacere.

A proposito, infatti, dei beni limitati e quindi anche momentanei, passeggeri, accade che quando si possiedono non si apprezzano e se ne desiderano altri, perché possedendoli se ne conosce meglio l'insufficienza, mentre del bene che sazia il desiderio bisogna dire che quanto più perfettamente si possiede tanto più lo si ama (cfr. S. th., I-II,q.2.a.l.ad3).

Insufficienza, abbiamo detto, ma rispetto a che cosa? Evidentemente rispetto a ciò verso cui tende realmente il desiderio, rispetto all'apertura infinita del desiderio. Infatti a differenza dei desideri che ha in comune con gli animali, legati ai bisogni del corpo, l'uomo ha un tipo di desiderio che è suo peculiare (cfr. S.th., I-II, a. 30, a. 3), perché «segue la ragione: ed è proprio della ragione procedere all'infinito» (S.th., I-II, q. 30, a. 4). Ciò vuoi dire che: «Il nostro intelletto nell'intendere si estende all'infinito: ne è segno il fatto che, data una qualsiasi estensione finita, il nostro intelletto è in grado di pensarne una più grande» (CG, 1.43).

La nostra facoltà intellettiva21 non è bloccata alla conoscenza di questa o quella realtà particolare, ma trascende sempre ogni prospettiva limitata, essendo aperta e protesa a conoscere ogni cosa (omnium capax, QDV, q. 24, a. 10) e dischiudendo, quindi, l'orizzonte dell'intero: «... la conoscenza intellettiva non è (de)limitata a certi oggetti, ma abbraccia ogni cosa» (CG, II, 47).

Questo è decisivo per comprendere il desiderio che scaturisce dall'appetito razionale dell'uomo, che è la volontà, e che «tende al proprio oggetto secondo l'ordine della ragione, per il fatto che la facoltà conoscitiva presenta a quella appetitiva il proprio oggetto» (S./A., I-II, q. 13, a. 1). Da ciò consegue che «l'oggetto dell'appetito umano è il bene universale, come quello dell'intelletto è il vero nella sua universalità. È evidente, quindi, che niente può appagare la volontà umana, aIl'infuori del bene preso in tutta la sua universalità» (S. th., I-II, q. 2, a. 8).

La volontà tende al bene nella sua universalità, al bene sotto ogni aspetto, perciò è libera quando si trova di fronte a beni e a scelte particolari (cfr. QDM, q. 6). Dunque si deve dire che la volontà segue la conoscenza del soggetto che desidera, secondo un libero giudizio (cfr. S.th., I-II, q. 26, a. 1). Ecco perché l'uomo, nel ricercare e nel tendere a un qualche bene, in realtà, anche se non se ne rende conto,  cerca Dio, il bene sommo, che non manca di nessuna positività che sia in qualche modo desiderabile.

L'uomo ha sete del Dio vivente, perché «ogni bene naturalmente desiderato è una certa somiglianza della bontà di Dio» (QDM, q. 8, a. 2). Quindi, desiderando quel bene, l'essere umano, in realtà, desidera il bene non manchevole, che è Dio. Ogni bene limitato è desiderato non per il suo limite, ma per quella «certa somiglianza» che ha con il bene non manchevole.

Anche Nietzsche aveva capito che «... ogni piacere vuole eternità, vuole profonda, profonda eternità».22 Dunque l'umano desiderio, inappagato dalla momentaneità e precarietà della soddisfazione istintiva, è tensione verso qualcosa che non sia segnato ne dal limite temporale, ne da nessun altro limite; è desiderio dell'infinito, che non lascia fuori di sé nulla, vale a dire dell'essere totale senza limitazioni di sorta. E ciò perché «tra gli enti in cui c'è il desiderio di essere accompagnato dalla conoscenza si riscontra questa diversità: che quelli che non percepiscono l'essere se non come momentaneo, desiderano l'essere come momentaneo, non già come perenne... Gli esseri invece che sono capaci di conoscere e di apprendere l'essere nella sua perpetuità, hanno di esso un desiderio naturale» (CG, II, 55).

Ma se l'uomo tende all'essere infinito vuoi dire anche, nella prospettiva speculativa dell'Aquinate, che è capax summi boni (S.th., q. 93. a. 2, ad 3; QDM, q. 5, a. 1), cioè capace di conoscere, volere e godere il sommo bene, l'oceano infinito di tutte le perfezioni, verso cui è proteso il suo desiderio.

Infatti abbiamo visto che un carattere del bene è la desiderabilità (cfr. CO, I, 37), ma qualsiasi realtà è desiderabile nella misura in cui è perfetta (cfr. S.th., I, q. 5, a. 1), perciò è buona per il fatto che è perfetta (cfr. CO, I, 37), quindi la natura del bene è la perfezione, la pienezza ontologica: «la pienezza dell'essere costituisce l'assenza del bene» (S.th. I-II, q. 18, a. 1). Ciò vuoi dire che l'essere e il bene coincidono in realtà, anche se concettualmente differiscono, perché il bene esprime la desiderabilità non espressa dall'essere; infatti in tanto una cosa è perfetta in quanto è in atto, ma l'essere è l'attualità di ogni cosa, è essenzialmente atto (cfr. S.th., 1, q. 5, a. 1). Ecco perché l'essere e il bene coincidono e l'essere infinito, l'essere nella sua pienezza, coincide con il sommo bene, con il bene totale ed esaustivo che non lascia fuori di sé nessuna positività.

Il desiderio dell'uomo è desiderio di questo bene; lo scacco, la delusione a cui egli va incontro nei vizi, ne è una conferma. In effetti il desiderio, quello specificamente umano che abbiamo individuato, è possibile in quanto l'uomo è un essere finito che tende all'infinito; non si appaga nel finito, ma non è l'infinito, è infinito solo nelle sue aspirazioni.23

Pretendere di identificare il finito con l'infinito o. viceversa, risolvere e dissolvere l'infinito nel finito «significa togliere le condizioni di possibilità delFesserci stesso del desiderio, perché significa togliere la disequazione di cui il desiderio si mitre».(24) Così, pure, se la meta del desiderio fosse illusoria (quella meta di cui abbiamo detto), la certezza del non appagamento annullerebbe il desiderio stesso. E tuttavia il desiderio c'è... quindi anche le sue condizioni di possibilità ci devono essere.

 

8. Tensione alla felicità, bene totale e fine

Quindi dall'analisi dell'agire umano e del desiderio che 10 muove si arriva a una convergenza e a una conferma rispetto alle acquisizioni della tommasiana metafisica della creazione: la causa essendi, il Creatore di ogni realtà è Dio, che non ha ricevuto l'essere, ma la cui essenza è 11 suo stesso essere; Egli è «l'Essere stesso per sé sussistente (ipsum esse per se subsistens) per cui è necessario che abbia in sé tutta la perfezione dell'essere» (S.th., I, q. 4, a. 2) e che quindi sia «infinito» (S.th., I, q. 7, a. 1) nel senso che «non c'è limite o fine alla sua grandezza (suae perfectionis)» (CG, I, 43) e non gli manca «alcuna nobiltà che si trova in qualsiasi genere» (S.th., I, q. 4, a. 2).

Certo, quando parliamo di Dio dobbiamo stare molto attenti: è un discorso che nasce da un'apertura dell'intelligenza al limite delle possibilità umane, eppure peculiare dell'uomo, che si realizza proprio trascendendosi, superando i suoi limiti.[L'itinerario della mente e del cuore verso Dio è un cammino decisivo, ma su un crinale rischiosissimo, perché possiamo ascendere a Lui a partire dalle meraviglie della creazione, oppure ricadere nella prigionia dell'immanenza soggettiva, scambiando il Dio vivente con un idolo foggiato dalle nostre escogitazioni, un idolo che possiamo comprendere, afferrare, dominare, possedere, racchiudere nei nostri schemi e nelle nostre pretese e, magari, anche valutare, giudicare e quindi sottomettere. Quell'idolo non è Dio, che è il Bene increato. infinito, trascendente, non riducibile alla nostra misura. In questo senso Dio non può essere compreso dall'uomo «perché, essendo infinito, da nessun finito può essere racchiuso» (S.th., I, q- 12, a. 7, ad 1), ciò non vuoi dire che non possa essere conosciuto a partire dal creato (cfr. S.th. I, q. 12, a. 1, ad 3). Ma sempre tenendo presente che «allora soltanto conosciamo Dio veramente, quando lo riteniamo superiore a quanto l'uomo è capace di pensarne» (CG, I, 5). Dio, dunque, possiede l'atto dì essere in tutta la sua virtualità, per cui non gli può mancare alcuna perfezione, mentre gli enti finiti e creati 10 ricevono per partecipazione in misura parziale e imperfetta (cfr. CG, I, 28). Perciò Egli è l'intera perfezione dell'essere (cfr. S.th., I, q. 4, a. 2), il sommo bene, cioè 11 bene totale ed esaustivo, che non lascia fuori di sé alcuna positività.

Ecco perché «in Dio soltanto consiste la felicità dell'uomo»; infatti quel bene universale, totale, che, solo, può appagare la volontà umana e il suo desiderio, «non si trova in alcun bene creato, ma solo in Dio: poiché ogni creatura ha una bontà partecipata. Perciò Dio soltanto può appagare la volontà dell'uomo, secondo quanto si dice nel Salmo (CG, 5): "Egli, che sazia di beni il tuo desiderio"» (S. th., I-II, q. 2, a. 8). Ma se, come abbiamo visto, l'uomo tende al bene (e il bene è compreso in primo luogo come meta di questo tendere, di questo desiderio), è chiaro che lo sceglie come fine del suo agire, «... è evidente che il bene implica il carattere di fine» (S.th., I, q. 5, a. 4). D'altra pane il fine è voluto in quanto bene, poiché «il fine di una realtà è il termine cui essa tende quando è lontano e in cui si acquieta quando lo possiede» (CG, III. 16).

Dunque il fine cui l'uomo tende e il bene coincidono nella realtà, anche se concettualmente si distinguono. Perciò si può indagare sul dinamismo dell'agire umano, considerando sia il bene che il fine. Per quanto riguarda quest'ultimo, bisogna dire che ogni agente agisce per un fine (cfr. S.th., I-II, q. 1, a. 2); se, infatti, chi agisce non tendesse a un effetto determinato (fine), tutti gli effetti gli sarebbero indifferenti, ma allora non agirebbe (cfr. ibid. e CG, III, 2). Ora, gli esseri dotati di intelligenza, come gli uomini, i quali agiscono in virtù di essa e della volontà, che segue la conoscenza secondo un libero giudizio (cfr. S.th., I-II, q. 26, a. 1), tendono al fine in maniera peculiare. Perché agiscono prefigurandosi e prefiggendosi nel pensiero, con una valutazone e una scelta tra diverse possibilità, ciò che mirano a raggiungere nell'azione (cfr. CG, III, 2), essendo, in tal modo, padroni dei propri atti in virtù del libero arbitrio, che è «una facoltà della volontà e della ragione» (S.th., I-II, q. l,a.2).

L'uomo, nella vita concreta, si trova continuamente di fronte a delle scelte e per lo più non può non scegliere, almeno di fatto, anche se volesse non scegliere. Per esempio, di fronte al bisogno dell'altra persona la pretesa non scelta o indifferenza è in realtà la scelta di non aiutarla.

Scegliere significa preferire un bene invece di un altro, un fine invece di un altro. Alla radice dell'agire c'è il fine che uno si propone di raggiungere; il fine è il primo nell'intenzione dell'agente e, come tale, causa gli atti umani, perciò ne specifica la natura ed è il criterio in base a cui si possono valutare. Il fine, dunque, ha la dimensione di causa (cfr, S.th., I-II, q. 1, a, 1, ad 1). la causa finale, appunto, che «è la prima dì tutte le cause» (S.th., I-II,q. l,a.2).

Perciò il fine ha un'importanza decisiva nel campo morale, essendo il principio degli atti umani in quanto umani (cfr. S.lh., I-II, q. 1, a- 3), cioè di quegli atti di cui l'uomo è padrone, come essere intelligente e libero, e dì cui ha la responsabilità. Sì tratta proprio di quegli atti di cui si occupa la riflessione etica.

 

9. Il fine supremo: problema decisivo e ineludibile

Ma noi non viviamo le nostre azioni come separate, irrelate l'una dall'altra, e quindi nemmeno i fini delle azioni sono senza relazioni tra di loro, anzi in genere perseguiamo dei fini intermedi che sono considerati dei mezzi per altri fini e così via, fino ad arrivare a un fine ultimo a cui tutto si subordina. Infatti non solo scegliamo i fini delle singole azioni, ma anche un certo ordine di priorità tra i diversi fini, per cui alcuni sono visti come più importanti, altri meno, uno è perseguito in funzione di un altro e quest'ultimo in funzione di un altro ancora e così via, fino ad arrivare a un fine che è considerato come supremo, che è voluto per sé e non per un altro e in funzione del quale sono perseguiti tutti gli altri fini. È come la meta. che muove a intraprendere il cammino, ne segna la direzione fissandone le tappe, gli obiettivi intermedi, e che, una volta raggiunta, ne costituisce il termine in cui si quieta la tensione operativa. Perciò questo fine in un certo senso è ultimo, in un certo senso è primo. È ultimo perché si raggiunge dopo tutti gli altri fini, voluti come mezzi per conseguirlo, in quanto è (o è ritenuto) il termine in cui si appaga il desiderio e si placa la tensione operativa; è ultimo, quindi, anche perché una volta raggiunto non c'è nessun altro fine da perseguire e perciò è voluto per se stesso e non in vista di un qualsiasi altro. Tommaso dice, però, che è ultimo nell'ordine di esecuzione, ma è il primo secondo l'ordine di intenzione, perché è voluto prioritariamente e costituisce il principio che muove tutto il comportamento di un uomo; è per tendere a esso che si mette in moto tutto il dinamismo dell'agire (cfr. S. th., I-II, q. l,a-4).

Qui non si tratta di un problema che interessa solo pochi addetti ai lavori, o di un'astrazione intellettualistica o di un'evasione erudita, si tratta della questione decisiva dell'esistenza (che è la stessa questione del sommo bene vista da un'altra prospettiva): per quale fine impegno tutta la mia vita, in quanto lo ritengo il sommo bene? Infatti «un uomo desidera e persegue come fine ultimo ciò a cui tende come a un bene perfetto e capace di realizzare se stesso pienamente (completivum sui ipsius), poiché ogni cosa tende alla sua perfezione... Bisogna, dunque, che il fine ultimo soddisfi talmente ogni desiderio ed esigenza dell'uomo, da non lasciare niente da desiderare e da ricercare all'infuori di esso» (S.th., I-II, q. 1, a. 5).

Con il fine ultimo siamo di fronte a un problema talmente concreto ed esistenzialmente ineludibile che coinvolge il senso e la direzione di tutta la vita; si tratta di vedere se è il fine che merita veramente di essere considerato come supremo, se soddisfa l'apertura infinita del desiderio che ci costituisce o la delude, se permette di conseguire il pieno adempimento dell'esistenza dell'uomo, oppure se la conduce al fallimento e al naufragio. Il fine ultimo è una realtà così concreta nella vita umana da impegnarla in tutte le sue dimensioni: in quella razionale, in quella corporeo-sensibile, in quella volitivo-affettiva, in quella etico-pratica («Ciò in cui uno stabilisce il suo ultimo fine domina totalmente l'affetto di un uomo: poiché da esso questi prende la norma di tutta la sua vita», S.th., I-II, q. 1, a. 5, Se.). Esso comanda le singole azioni, i desideri e gli amori particolari: «... tutto ciò che l'uomo desidera e persegue, lo vuole per il fine ultimo» (S. th., I-I, q. 1, a. 5, Sc).

Abbiamo detto che il fine ultimo è un problema e una realtà. È il problema fondamentale della vita, la cui realizzazione dipende dal riconoscere, amare e raggiungere quel bene che è tale da meritare di essere considerato come il fine ultimo, e invece il fallimento dipende dal misconoscerlo, dal voltargli le spalle, per rincorrere beni parziali, illusori e, in definitiva, deludenti.

Ma il fine ultimo è una realtà ineludibile, nel senso che inevitabilmente ogni uomo ha un fine, che, almeno di fatto, con le sue scelte, considera e vive come supremo e, per conseguirlo, gli subordina tutto il resto, con una tensione, con un impegno non privi di lotte, di rinunzie e di sacrifici. In questo senso, quel bene che un uomo vive come U suo fine ultimo è l'assoluto per quell'uomo.

Ma, si dirà, come si può attribuire un fine ultimo – e quindi un bene supremo, un assoluto - anche a chi è fermo a posizioni scettiche, agnostiche, o comunque ben lontane da ogni approdo veritativo, magari secondo gli orientamenti del più aggiornato pensiero debole?

Lasciando qui da parte la discussione e valutazione sul piano teoretico,25 bisogna dire che queste posizioni possono essere sostenute teoricamente, nei discorsi, nei libri, ma non possono essere vissute nella vita concreta. Siamo imbarcati, come diceva Pascal, e nel mare della vita ci troviamo di fronte a scelte inevitabili, per cui non possiamo non prendere posizione. E quindi nella pratica, nella vita vissuta, l'agnosticismo, in tutte le sue possibili forme, svanisce come una bolla di sapone.

Infatti uno può dire di non conoscere il vero, o di non sapere qual è il bene e qual è il male, o può negarne la differenza o può pretendere di essere al di là del bene e del male, ma poi, scegliendo, pone il valore e il disvalore, almeno implicitamente valuta una realtà come da preferire rispetto ad altre. Anzi, con l'ordine e la finalizzazione delle sue scelte, ognuno valuta una realtà come più importante di tutte le altre; anche se non lo dice in teoria, le sue scelte manifestano inequivocabilmente che quella realtà è per lui il bene supremo, Ciò che, magari, non dice con le parole, che possono non essere fedeli alla realtà vissuta, lo dice in modo molto più realistico e sincero con la vita, con la tensione effettiva del proprio desiderio e del proprio operare, con le opzioni concrete che costruiscono gradualmente e progressivamente la personalità, definendone l'identità. Ciò non vuoi dire che una volta posto un certo fine ultimo non si possa cambiare o non si cambi effettivamente, non vuoi dire che non ci possano essere delle incoerenze o dei comportamenti contraddittori rispetto alla direzione verso quel certo fine.

Ma anche in questi casi si ha un fine ultimo: quando un uomo agisce incoerentemente o in un senso contrario rispetto al fine ultimo già posto, vuoi dire che in quel momento, in quell'atto o in quei determinati atti, agisce per un altro fine, considerato, almeno implicitamente, come ultimo e supremo. A chi poi sostenesse di attenersi alle proprie scelte casuali, momentanee, mutevoli, chiuse nell'immediatezza, senza prospettive più ampie, si può far rilevare che, in tal modo, considererebbe, di fatto, come fine ultimo il soddisfare il proprio capriccio immediato e mutevole. I/uomo può certamente tentare di sopraffare e mortificare la ragione rinunziando al suo esercizio, ma non può mai sbarazzarsene del tutto; essa inevitabilmente riaffiora e fa sentire le sue istanze.

E la ragione va sempre oltre l'immediatezza del momento e del sentire.

Dunque, per quanto ciò possa suonare sorprendente o sgradito a certe orecchie, ogni uomo ha un fine ultimo, per conseguire il quale si impegna, si affatica, fa delle rinunzie e dei sacrifici; ogni uomo, sia il devoto che il libertino, sia chi si sforza di crescere nell'ordine etico, sia chi teorizza o pratica la trasgressione. Per esempio: che pone al primo posto nella sua vita il piacere, fino a strumentalizzare per questo fine l'altra persona, trattandola, perciò, come una cosa, cioè reificandola, si priva dell'esperienza dell'amore donativo, dell'incontro autenticamente interpersonale come comunicazione con il mondo interiore dell'altro. Qui, cioè. la trasgressione dell'ordine morale per inseguire il piacere non è liberazione da ogni vincolo, ma è asservimento alla legge necessaria della pura istintività, con la conseguente mortificazione della dimensione intellettivo-volitiva, che tende a un bene più grande della particolarità, precarietà e breve durata della soddisfazione sensibile. Il piacere, in quanto considerato come fine supremo, si rivela come un padrone così tirannico da rinchiudere l'uomo nell'egoismo e cosi bugiardo da non mantenere ciò che promette, fino a condurre anche all'autodistruzione, per esempio attraverso la droga.

Analogamente chi pone il proprio fine supremo nel denaro, o comunque nel possesso dei beni materiali, rinunzia a tante possibilità di crescita della propria persona per poter accumulare, e arriva a calpestare i diritti e perfino la dignità e la vita dell'altro uomo.

C'è poi chi ritiene di poter conseguire la felicità ponendo il proprio fine ultimo nel potere, nella gloria, oppure negli onori. Sarebbe interessante seguire Tommaso nell'analisi di questi beni parziali, posti di fatto dagli uomini come fini ultimi e destinati a condurre non alla felicità, ma all'infelicità (cfr. S.th., I-II, q. 2). perché non sono il bene sotto ogni aspetto (cfr. QDM, q. 6, ad 7), il bene totale, verso cui tende il desiderio peculiare della volontà della persona. Ma quell'analisi si può ritrovare, vista da una diversa prospettiva, nell'indagine sui vizi.

10. Il male morale come inganno e fallimento. La sfida di Nietzsche

In tal modo comincia a delinearsi la natura del male morale nella sua radice: «Coloro che peccano si allontanano da quel bene in cui realmente si trova l'essenza (ratio) del fine ultimo: ma non mancano della tensione al fine ultimo, che ricercano, ingannandosi, in altre realtà» (S.th., I-II, q.l, a, 7, adi).

In questo senso nel peccato c'è una contraddizione falsificante perché si tratta - e si desidera, si persegue - come assoluto ciò che non lo è; in conseguenza in esso si verifica anche l'inganno, perché la promessa di appagare il desiderio umano viene delusa. Infatti niente di finito può quietare il desiderio che scaturisce dall'intelligenza che è peculiare nell'uomo (cfr. CG, III, 50), ovvero: «... l'illimitato appetito di felicità della volontà.,, non può essere saziato da nessun oggetto parzialmente buono»,26 come argomenta Tommaso anche nella sesta delle Questioni disputate sul male.

Pertanto «peccare è mancare (deficere) alla perfezione dell'atto» (S.th., I, q. 25, ad 2); l'atto peccaminoso è un atto gravemente carente, perché incapace strutturalmente di conseguire il fine dell'uomo. Nonostante l'apparenza di positività, il peccato è essenzialmente carenza, difetto, mancanza, incapacità come tradimento del desiderio che lo muove.

Il male morale nella sua reale gravita, che per Tommaso è il peccato «mortale», come peccato nel senso preciso del termine,27 assolutizza dei beni particolari corruttibili e transitori trattandoli come supremi, come fini ultimi (cfr. QDM, q. 13, a. 1, ad 7; a. 2. ad 1), mentre in realtà essi possono soddisfare momentaneamente solo qualche appetito, ma non il desiderio dell'appetito intellettivo che è la volontà.

In questo senso il vizio, in opposizione alla virtù, consiste nel misconoscere la ragione con l'appetito che da essa scaturisce: «la virtù si compie in conformità con la ragione, il vizio invece, si realizza secondo l'inclinazione dell'appetito sensitivo» (QDM, q. 13, a. 3, ad 1).

Ma considerare un bene parziale come bene supremo e come fine ultimo implica mancare il conseguimento del vero bene supremo, che è anche il vero fine ultimo, nella privazione dell'ordine che conduce a esso (cfr. CG, III, 9). Qui è la vera natura del male morale, in questo fallimento, in questo mancare il fine. Infatti il peccato ha due aspetti: l'avversione (aversio), cioè il voltar le spalle, l'allontanarsi, l'abbandonare il bene immutabile, in quanto increato, perfetto, totale (cfr. S.th., 11-11, q. 162, a. 6; QDM, q. 8, a. 12, ad 1), cioè Dio; e il rivolgersi, l'aderire, il perseguire (conversio) un bene mutevole, parziale, creato. Dei due aspetti il primo (l'aversio) è quello formale o  essenziale, costitutivo (S.fh., 11-11, q. 162, a. 6) e principale (S.th., II-II, q. 162, a. 7), mentre il secondo è quello materiale (S.th., 11-11, q. 162, a. 6). Questo significa che nel male morale ciò che lo fa tale è proprio il voltar le spalle e, quindi, il non raggiungere, il mancare il fine ultimo che è il sommo bene.

Il rivolgersi al bene creato e parziale è negativo in quanto implica (e se implica) l'abbandono del bene sommo e increato, che è il fine ultimo da cui dipende la rettitudine dell'agire, cioè la sua giusta direzione e il suo giusto senso: se si cammina, con il proprio operare, verso di esso, si va verso l'adempimento, se, invece, ci si allontana da esso, si va verso il fallimento. Perciò, il vero fine ultimo, che «si deve porre in Dio solo» (QDM, q. 14, a. 2, ad 12), «ci rende felici» (QDM, q. 14, a. 2. ad 10). Dunque l'ordine che dirige gli atti umani, cioè l'ordine morale, ha la sua ragion d'essere nel tendere consapevole di un essere razionale, come l'uomo, verso il fine ultimo. Si tratta di dirigere, con un governo politico, non dispotico, tutte le potenze dell'uomo verso il fine ultimo: «... la ragione comanda all'irascibile e al concupiscibile, come dice il Filosofo nella Politica (I, 1254 b 5-6), con un governo regale o politico, che si rivolge a esseri liberi. E perciò l'irascibile e il concupiscibile possono anche opporsi all'ordine della ragione, come i liberi cittadini tal- volta si oppongono al comando del principe» (QDM, q. 3, a. 9, ad 14).

Un governo non dispotico quello della ragione, perché solo quell'ordine, lungi dal reprimerle, consente l'adempimento di tutte le potenzialità dell'uomo, secondo la loro più profonda intenzionalità.

La direzione verso il fine ultimo permette di valutare ogni atto umano e di capire se è positivo o negativo: in questo senso «principio di tutto l'ordine morale è il fine ultimo» (S.th., 1-11, q. 72, a. 5) e quindi «la rettitudine della volontà consiste nel debito ordine verso l'ultimo fine»(S.th.,I-II,q.4,a.4).

Dunque siamo agli antipodi di quella scissione e, addirittura, di quella opposizione tra felicità e dovere morale che si sono andate affermando nella modernità e che hanno condotto alla crisi attuale dell'etica. Nella prospettiva tommasiana, le norme dell'ordine etico si giustificano in vista del telos, come fine e compimento dell'uomo: «Capire che l'applicazione delle norme fa parte dell'esercizio delle virtù significa capire lo scopo per cui si deve obbedire alle norme, proprio per il fatto che l'esercizio delle virtù costituisce il genere di vita nella quale soltanto il telos dell'uomo può essere perseguito».(28) Invece, qualora quelle norme «venissero private del loro compito di definire e di costituire un'intera condotta di vita, rimarrebbero una serie di proibizioni arbitrarie, come troppo spesso purtroppo sono state ridotte in tempi recenti».(29)

L'obbligazione che riguarda l'agire dell'uomo, in tanto non è immotivata, arbitraria, repressiva, in quanto è legata al suo fine ultimo. In vista del pieno compimento di sé l'uomo può capire che i suoi atti debbano essere ordinati, debbano seguire certe norme, appunto per raggiungere quel fine. Scegliere secondo le norme etiche significa anche rinunciare (30) a qualcosa che si può presentare come desiderabile. Ma la rinuncia può essere comprensibile e accettabile solo come momentanea e per il conseguimento della pienezza della vita.

Come si vede, seguendo il pensiero tommasiano si può raccogliere la sfida lanciata da Nietzsche ai «giudizi di valore: buono e cattivo» e, quindi, a tutto l'ordine etico, quando si è chiesto: «... quale valore hanno in se stessi? Fino a oggi hanno essi intralciato o promosso il felice sviluppo umano? Sono un segno di angustia estrema, d'impoverimento, di degenerazione vitale? Oppure, vice- versa, si rivela in essi la pienezza, la forza, la volontà della vita, il suo coraggio, la sua sicurezza, il suo avvenire?».(31)

Nella prospettiva tommasiana la questione è decisiva e muove tutta la ricerca morale, che conduce a una risposta non equivoca, perché in essa l'ordine etico porta (cfr. CG, III, 48) alla «vera felicità», che non c'è senza che «l'uomo abbia la convinzione certa di non dover mai perdere il bene che possiede» (S.th., I-II. q. 5, a. 4).

Perché per Tommaso non è «onnipotente» (32) la morte, ma è onnipotente la vita nella sua Fonte inesauribile. La morte non è l'ultima parola sulla vita umana, quasi fosse «assoluta», come vorrebbero alcune posizioni filosofiche, giudicate da Adorno assurde e contraddittorie. (33)

Dunque l'ordine morale è a servizio della felicità, è finalizzato alla piena realizzazione della vita della persona. Ora, il male morale, come trasgressione di quell'ordine, ostacola più o meno gravemente il conseguimento di quel fine; è, quindi, una condizione patologica del volere e dell'agire, è debolezza, defectum, nel senso di mancanza, deficienza, rispetto alla perfezione dell'atto (cfr. S. th.,I-II,q.55.a.3).

Il male morale si denomina peccato, se ci si riferisce alla singola azione, e vizio, invece, se ci si riferisce all'abito, alla disposizione ad agire disordinatamente e contro la virtù, che è la disposizione ad agire bene, cioè secondo l'ordine che conduce al fine ultimo. Questo peccato, come «male dell'anima», cioè dell'uomo in quanto essere intelligente e libero, è un prescindere dalla ragione (cfr. QDM, q. 14, a. 1), è trasgredire la sua regola (perché «la ragione dirige tutto in base al fine», QDM, q. 12, a. 3, ad 8) rifiutando, così, e distruggendo l'ordinazione al fine ultimo. Ma tutto ciò è contro la natura dell'uomo (cfr. QDM, q. 14, a. 2, ad 8), perché ciò che caratterizza peculiarmente l'uomo è la ragione (cfr. QDM, q- 2, a. 4). Molteplici sono le aberrazioni e le abiezioni a cui il disordine del vizio conduce - e Tommaso ne da un'immagine realistica analizzando «le figlie», le conseguenze, gli ulteriori vizi che scaturiscono dai vizi capitali - ma si può dire, con la nuova «arte critica» vichiana, che tutte hanno le loro radici nella «superbia di spirito» o nella «viltà di Corporali piaceri».34 La «superbia di spirito» è il contrario dell'adesione alla verità e al bene, essendola pretesa, da parte del soggetto, di disporne secondo la propria presunta superiorità. È quindi una forma di accecamento che sostituisce alla realtà della propria condizione il frutto delle proprie escogitazioni.

La «viltà di corporali piaceri», in quanto sottomissione dell'intelligenza agli appetiti della sensibilità, è rinuncia, perciò vile, al desiderio infinito della mente e del cuore dell'uomo e, quindi, alla felicità, che la persona può conseguire solo nell'adesione all'infinito.

 

11. L'ordine dell'amore. Originalità dell'etica razionale di Tommaso rispetto a quella di Aristotele

Dunque l'ordine etico è anche ed essenzialmente «ordine dell'amore (ordo amoris)» (QDM, q. 11,a. 1,adi),perché scaturisce dall'amore al bene ed è finalizzato a preservarlo da ogni possibile corruzione e capovolgimento nel suo opposto.

Ora l'amore è fondamentale nella considerazione degli atti umani e tutto quello che abbiamo detto sulla volontà e sul desiderio si può riferire in un certo senso anche all'amore.

Perché «vi sono degli atti della volontà e dell'appetito, che riguardano il bene sotto una speciale condizione: così la gioia e il piacere riguardano il bene presente e posseduto; il desiderio e la speranza un bene non ancora posseduto. L'amore, invece, riguarda il bene in generale, posseduto o non posseduto. Perciò l'amore naturalmente è il primo atto della volontà e dell'appetito. Ed è per questo che tutti gli altri moti dell'appetito suppongono l'amore come prima radice» (S.th., I, q. 20, a. 1). E tutte le affezioni dell'anima scaturiscono dall'amore (cfr. QDM, q. 10. a. 1, ad 10).

Perciò è di importanza decisiva che l'amore sia ordinato, perché può essere rivolto a dei beni apparenti, cioè a dei beni che sono tali solo per un certo aspetto, oppure al bene totale e sotto tutti gli aspetti (cfr. QDM, q. 11, a. 1). Come abbiamo visto per il fine ultimo, l'ordine non può che derivare dalla regola della ragione che orienta al vero fine ultimo che è il sommo bene. È da questo amore di dilezione (frutto, cioè, non semplicemente dell'istinto o del sentimento, ma frutto di una elezione, cioè di una scelta consapevole della volontà, cfr. S.th., I-II, q. 26, a. 3) che dipende tutta la morale, perché «ogni affezione della virtù deriva da qualche amore ordinato e similmente ogni affezione del peccato deriva da qualche amore dirazionale a superarsi nell'amore di amicizia. Infatti, per l'uomo, amare Dio in funzione di sé significa, in realtà. non amarlo, significa considerare e amare sé come fine

ultimo e sommo bene e, quindi, non riconoscere-e amare Dio come Dio, ma considerarlo come un bene strumen- tale e quindi parziale, non come il bene infinito e per essenza. Ma solo Dio, che è il sommo bene e la fonte di ogni bene, è massimamente degno di essere amato per se stesso, cioè con un amore di amicizia, secondo il quale «chi ama è nell'amato in quanto considera il bene... dell'amico come suo proprio...» (S.th., I-II, q. 28, a. 2).

E considerare il bene che è Dio come bene proprio, significa per l'uomo liberarsi della prigionia della propria finitezza, aderendo all'Essere infinito e compiacendosi di Lui.

Come si vede qui si intende il significato più profondo del fatto che l'impegno etico è proprio dell'uomo in quanto è tensione al bene, scoperto dalla riflessione razionale. conosciuto dall'intelligenza.

L'indagine dell'Aquinate riconosce che l'etica, proprio in quanto razionale, filosofica, è teocentrica.

Proprio nelle pagine che qui presentiamo l'Aquinate rileva con tutta chiarezza che, nonostante i suoi molteplici limiti e la fragilità morale della sua natura ferita, «l'uomo con la sua ragione naturale giudica il bene della virtù e lo ama e ne gode, anche se non ha la virtù» (QDM, q. 15, a. 2, ad 5). Conviene sottolineare l'importanza di queste parole, perché se ne ricavano dei corollari notevoli proprio ai fini di una corretta interpretazione del pensiero tommasiano.

Innanzitutto, anche nell'ambito dell'analisi sui vizi e, quindi, sul male morale, sul disordine disumanizzante in cui l'uomo concreto, storico cade, Tommaso ribadisce che non è spenta in lui la capacità di riconoscere, amare e godere del bene dell'agire virtuoso, dell'agire secondo l'ordine etico.

Dunque, nonostante la ferita del male, è possibile per l'uomo una riflessione razionale, filosofica sul proprio agire, a cui non è precluso un approdo veritativo. Non si tratta certo di una conoscenza totale ed esaustiva, ma che, tuttavia, contiene degli orientamenti fondamentali, quali quelli che stiamo richiamando in queste pagine, al- la luce dei testi dell'Aquinate. Nei quali, dunque, c'è, pur in un contesto teologico, un'etica filosofica, razionale, basata cioè su ciò che la ragione riesce a scoprire con le sue forze naturali.

Ma riconoscere e amare il bene della virtù, significa aprirsi all'amore di amicizia per il bene sommo e perciò, se non altro per questo motivo, certo non secondario, l'etica filosofica tommasiana non coincide affatto con quella dì Aristotele (anche se ha molto da imparare da lui), perché la prospettiva sostanzialmente antropocentrica di quest'ultimo (per il quale la tensione dell'agire è mossa solo da un amore di concupiscenza) è rovesciata dall'Aquinate, che vede l'essere e l'agire dell'uomo radicati teocentricamente. E in questa luce tutta la prospettiva etica cambia.

Il Mac Intyre rileva che «S. Tommaso capovolge contro Aristotele i criteri per la scoperta del bene ultimo a cui Aristotele stesso si era appellato, e li usa per mostrare che, in primo luogo il bene ultimo deve trovarsi nel rapporto dell'anima con qualcosa che si trova fuori di essa e, a seguire, che il genere di bene in questione non è riscontrabile in alcuna realtà di questo mondo». (36)

Se dunque l'etica è per l'Aquinate ordo amoris (ordine dell'amore) ciò significa anche che essa nasce, ha fondamento e senso nella chiamata personale, rivolta a ciascun essere umano, a vivere nell'amore donativo, da parte dell'amore gratuito e generoso di Dio.

 

12. Vizi, disumanizzazione e virtù

Ora, l'analisi tommasiana dei vizi capitali è una conferma e una verifica (specie per chi fosse vittima di un ottundimento nella capacità di cogliere e di amare il bene),  per via negativa, della prospettiva morale che abbiamo cercato di delineare.

Infatti proprio nei vizi si toccano con mano, si sperimentano direttamente le conseguenze disumanizzanti, con abissi spesso inenarrabili di sofferenza e di disperazione, del rifiuto dell'ordo amoris. Di queste conseguenze abbiamo una rappresentazione realistica e non edulcorata in quelle che Tommaso chiama le figlie dei vizi capitali, cioè gli altri comportamenti aberranti e viziosi che da essi scaturiscono. Per esempio, le figlie dell'avarizia sono: il tradimento, la frode, la menzogna, lo spergiuro, l'inquietudine, le violenze e l'indurimento del cuore contro la misericordia, cioè nei confronti del bisogno altrui (cfr. QDM. q. 13, a. 3); e quelle dell'ira sono: la tracotanza, gli insulti, il clamore, l'indignazione, la bestemmia, le risse, «nelle quali è incluso tutto ciò che ne consegue, come lesioni, omicidi e cose di tal genere» (QDM, q. 12, a. 5).

Come si vede, la disumanizzazione, conseguente ai vizi capitali, riguarda, secondo aspetti e modi diversi, sia il soggetto che li segue che le persone con cui entra in relazione.

Il soggetto che segue uno dei vizi capitali volta le spalle al fine ultimo e così tradisce e delude la tensione della mente e del cuore alla felicità.

Ma con ciò, proprio rifiutando l'ordo amoris, che è, poi. la regola della ragione, introduce un disordine sia nelle proprie potenze e facoltà, per cui, per esempio, la ragione si subordina all'appetito sensibile, sia nel considerare la dignità degli esseri con cui entra in relazione, per cui, per esempio, antepone le cose alle persone e tratta queste ultime come strumenti, con un atteggiamento comunque reificante. Questa pretesa di trattare gli altri come cose ha un costo umano molto elevato, con lacrime e sangue; e sarebbe troppo facile esemplificare a partire dall'esperienza quotidiana di ciascuno, dalla cronaca e dalla storia.

Ma chi ama disordinatamente le cose (o le persone considerate e trattate come cose) come fini supremi, con ciò inaridisce e reifica il proprio cuore e la propria intelligenza, con un atteggiamento autolesionistico calpesta la propria dignità, perché «... l'amore trasforma l'amante nell'amato, in quanto a causa dell'amore l'amante è mosso verso la realtà amata» (QDM, q. 6, ad 13; cfr. S.//t.,I-II,q.26,a.2).

Il disastro che il vizio provoca nella vita dell'uomo emerge anche se si considera che esso è una disposizione opposta alla virtù. La quale è di importanza non secondaria per attuare, nella concretezza dell'agire, l'ordo amoris, la volontà del fine.

Questo ruolo decisivo della virtù per la rettitudine della deliberazione e della scelta nei casi particolari, e addirittura singolari, su cui vertono le azioni, si riscontra nella matura riflessione etica tommasiana. (37) Infatti per la rettitudine dell'agire non sono sufficienti (anche se sono necessari) ne i principi universalissimi, noti per natura (come: «nessun male è da fare») e nemmeno la scienza pratica (cfr. S.th., I-II, q. 58, a. 5), cioè la conoscenza dei principi e delle norme (inevitabilmente generali) dell'ordine morale.

Giacché «la scienza dell'universale non è principio di un qualche atto, se non in quanto si applica al caso particolare: perché gli atti riguardano i casi particolari» (QDM, q. 3. a. 9).

Facilmente può capitare che i princìpi universali, conosciuti attraverso l'intelligenza o attraverso la scienza, cioè la ricerca razionale, siano corrotti e compromessi a causa di qualche passione, quando si tratta di valutare e di orientarsi nei concreti casi particolari: «così a chi è dominato dalla concupiscenza sembra buono quello che desidera, sebbene sia contrario al giudizio universale della ragione» (S.th., MI. q. 58, a. 5).

Ciò vuoi dire che uno può sapere cosa è bene in generale e conoscere anche le norme (inevitabilmente universali, perché riguardanti non semplicemente dei singoli casi particolari) dell'agire, ma poi a causa di qualche passione, può agire male identificando il bene per sé e nella concretezza della sua situazione, con qualcosa che non lo è, perché è contrario all'ordo amoris, alla regola della ragione. Il goloso, magari, sa che è male mangiare un cibo che gli danneggia la salute, ma poi, nella circostanza concreta in cui se lo trova davanti come squisito, appetibile per il gusto, a causa della brama del piacere, misconosce quella valutazione razionale e anzi la rovescia nell'agire concreto, mangiandolo e giudicandolo così, almeno implicitamente, come un qualcosa di buono e con veniente.

Cioè, un qualcosa che non è buono e conveniente può apparire tale perché si presenta come ciò che soddisfa il desiderio, condizionato e dipendente dalla passione sregolata. Che quel bene poi non sia veramente tale (perché lo è solo per un certo aspetto) il goloso se ne accorge quando, per esempio, vede che danneggia la sua salute.

La ragione valuta il bene della salute da preferire al bene del piacere passeggero (cfr. QDM, q. 6), ma, nel in cui uno agisce sotto l'impulso della passione, l'uso della ragione è impedito e quindi il suo giudizio è messo da parte: «la passione oscura o anche lega il giudizio della ragione» (QDM, q. 3, a. 11).

Di qui l'importanza delle virtù morali, nelle quali l'uomo, governando le passioni, è in grado di cogliere e perseguire rottamente i fini dell'agire: «così per essere ben disposto rispetto ai principi particolari dell'agire, e cioè ai fini, è necessario l'acquisto di alcuni abiti, in forza dei quali diviene connaturale per lui giudicare rettamente del  fine. E questo è il compito delle virtù morali... Dunque per avere la retta ragione nelle azioni da compiere, cioè la prudenza, si richiede che uno possieda le virtù morali» (S.th.,I-II,q.58,a.5).

In proposito Tommaso cita spesso l'affermazione di Aristotele: «quale è ciascuno, tale anche gli appare il fine»,38 per sostenere che il nostro cogliere e perseguire il fine. nella concretezza dell'agire, dipende anche dal nostro essere con certe disposizioni acquisite, virtuose o viziose: «la volontà dell'uomo adirato e quella dell'uomo calmo si muovono diversamente verso un qualche obiettivo, perché non è lo stesso l'oggetto conveniente (cioè che soddisfa il desiderio) per l'uno e per l'altro» (QDM, q-6).

Il giudizio di chi, in un singolo atto o abitualmente, si lascia accecare dalla passione è falso, pretende di conoscere ciò che in realtà non conosce: il proprio bene. Questo lo si conosce con la retta ragione, favorita, nel suo esercizio, dalle disposizioni virtuose.

Di qui l'importanza della virtù come abito (habitus), come buona disposizione, purché non la si confonda con l'abitudine come determinazione a un solo oggetto o a un solo modo di operare (cfr.  Sent, d. 23, q. 1. a. 1). Al contrario «rispetto all'infinita varietà delle azioni singole la buona disposizione dovrà rimanere aperta a concretizzazioni diverse, duttile, pronta alle sorprese, ai cambiamenti... {'habitus è... il potenziamento delle facoltà spirituali o educabili dallo spirito che abilita l'individuo a rimanere perfettamente uomo. per quanto a lui possibile, nel turbinio delle circostanze della vita».(39)

A questo punto, in base a una prima superficiale considerazione, potrebbe sembrare che nel discorso tommasiano ci sia un circolo vizioso, perché, da un lato, per agire bene l'uomo deve essere virtuoso e, d'altra parte, la virtù si acquisisce agendo bene. Sembrerebbe impossibile divenire virtuoso per chi già non lo è.

In realtà il circolo vizioso non sussiste perché l'uomo, anche se non possiede ancora la virtù, con la sua intelligenza, con la sua ragione e con la sua volontà può conoscere i primi principi morali universali, può scoprire l'ordine etico e amare il bene a cui esso è finalizzato. Può, quindi, cominciare ad agire bene avviandosi ad acquisire le virtù morali.

13. I vizi e il problema del male

Qui non possiamo affrontare l'ardua e complessa tematica del male nella sua dimensione metafisica. Speriamo di poterlo fare in altra occasione, magari presentando le questioni disputate sul male che precedono quelle qui tradotte.

Bisogna comunque sottolineare che l'analisi dei vizi conferma e corrobora, in sede morale, la visione tommasiana del male.

E in questa prospettiva è interessante leggere le pagine che seguono. Anche nei peccati e nei vizi non è mai il male come pura negatività (che, in quanto tale, non esiste e non può certo indurre a operare) a muovere all'agire o a spingere a certi comportamenti, anche emissivi, ma è sempre un aspetto di bene, presente in qualsiasi realtà, è sempre un bene, male inteso, apparente, perché

parziale e considerato falsamente come totale, perché perseguito disordinatamente, cioè contro o fuori dall'or- dine che conduce al fine ultimo e, quindi, tale da impedire di volere altri beni e addirittura il bene sommo. Ma ecco la chiara spiegazione tommasiana che si avvale dell'anaiisi di situazioni e di scelte concrete: «se capita che un uomo voglia tanto fruire di un piacere, per esempio del- l'adulterio o di qualunque cosa appetibile di tal genere, da non evitare di incorrere nella deformità [come contrarietà alla debita forma, alla propria natura] del peccato che avverte essere congiunta al bene che vuole, si dice non solo che vuole quel bene che vuole prioritariamente, ma anche la stessa deformità, a cui sceglie di consentire per non essere privato del bene bramato. Onde l'adultero vuole il piacere principalmente e vuole in secondo luogo la deformità...» (QDM, q. 3, a. 12).

Ciò evidenzia che «nessun uomo che agisce mira al male, volendolo principalmente, ma tuttavia, come conseguenza, il male risulta voluto da uno quando non evita di incorrere nel male, per godere del bene bramato» (QDM, q. 3, a. 12. ad).

In tal modo Tommaso spiega la possibilità del male morale pur tenendo fermo che, anche nell'uomo non virtuoso, la ragione è capace di riconoscere il bene, che la volontà è amore al bene (cfr. S.th., I-II, q, 26, a. 1), e dall'amore, il cui oggetto proprio è il bene (cfr. S.th., I-II, a. 27, a.l), scaturiscono tutte le affezioni della persona (cfr. QDM, q. 10, a. 1, ad 1).

Ma conviene citare le chiare parole tommasiane che aiutano a capire più di qualsiasi intervento interpretativo: «Il male non viene amato che sotto l'aspetto di bene, cioè in quanto è un bene parziale, per un certo aspetto, ed è invece considerato come un bene totale, sotto ogni aspetto. E in tal modo un amore può essere cattivo, perché tende verso un oggetto che non è un vero bene sotto

ogni aspetto. E per questo si ama l'iniquità, perché mediante l'iniquità si ottiene un qualche bene, per esempio il piacere, o il denaro, o altre simili cose» (S.th., I-II, q. 27, a. 1, ad 1). Ma, ancora, ci si può chiedere: se la ragione ha la capacità di cogliere veritativamente il bene e uno può arrivare a conoscere le norme dell'ordine etico e la volontà è volontà del bene, come avviene che. nell'azione concreta, uno non di rado compie il male?

Qui non possiamo seguire l'attenta e complessa analisi  che Tommaso dedica alle cause del male morale, del peccato (cfr. QDM, q. 3). Rinviando a essa, sottolineiamo alcuni aspetti che ci sembrano importanti per il nostro discorso.

L'atto, peccaminoso o virtuoso, dipende da una scelta, la quale, a sua volta, presuppone un consiglio, cioè una deliberazione, che è una forma di ricerca tra le possibili vie da seguire. Perciò la scelta morale è frutto di un ragionamento, almeno implicito, che conclude sull'azione da fare.

Si tratta di una sorta di sillogismo pratico (cfr. QDM, q. 3, a. 9, ad 7), nel quale la premessa maggiore è un principio generale e la premessa minore è una valutazione dell'atto concreto e singolare. Per esempio, chi ha la virtù della temperanza (per cui gli appetiti inferiori tendono al bene umano sotto il governo della ragione) è mosso solo dal giudizio della ragione, onde il sillogismo che lo guida è: «non si deve commettere nessuna fornicazione, questo atto è un atto di fornicazione, quindi non lo si deve fare» (ibid.).

Al contrario, il vizioso intemperante segue totalmente la concupiscenza e si lascia guidare da questo sillogismo: «bisogna godere di tutto ciò che è piacevole, questo atto è piacevole, quindi è da compiere» (ibid.).

  Invece in chi non ha raggiunto la piena maturità della virtù (in base alla quale l'atto buono gli è connaturale), ma resiste alle passioni sregolate o in chi non è consegnato totalmente al vizio (in base a cui l'atto peccaminoso diventa connaturale) (cfr. S.th., II-II, q. 56, a. 3), ma cede momentaneamente alla passione, si avverte il richiamo di tutti e due i ragionamenti, appena citati, cioè di sollecitazioni opposte.

«Tanto chi è continente che l'incontinente sono spinti in due sensi opposti: secondo la ragione a evitare il peccato, secondo la concupiscenza, invece, a commetterlo; ma in chi è continente prevale il giudizio della ragione, mentre nell'incontinente prevale il moto della concupiscenza» (QDM, q. 3, a. 9, ad 7).

Come abbiamo visto, nel sillogismo pratico, la scienza pratica, che dirige gli atti umani, è duplice; è universale vertendo su principi e norme generali, ma è anche del particolare, in quanto conoscenza e valutazione delle circostanze detratto singolare e concreto.

Questa duplice conoscenza pratica ci induce a fare il bene e ci dissuade dal male (cfr. QDM, q. 3, a. 6). Ora la mancanza di questa conoscenza, anche in uno solo dei suoi due aspetti, provoca l'atto contrario all'ordine morale. Questo atto è colpevole se l'ignoranza che lo provoca, in quanto rimuove, elimina o rifiuta la conoscenza che lo impedisce (cfr. ibid.}, è colpevole. Ci sono varie forme di ignoranza, non tutte tolgono volontarietà all'atto, proprio perché alcune sono frutto di una scelta volontaria. Per esempio quella forma di ignoranza che Tommaso chiama errore (error) è manifestamente colpevole, perché, consistendo nell'« approvare come vero ciò  che è falso», non si verifica «senza la presunzione per cui uno pronunzia un giudizio su ciò che ignora, e massimamente negli ambiti in cui c'è il pericolo di sbagliare» (QDM. q. 3, a. 7).

Così, analogamente, nel peccato si ha una sorta di accecamento volontario, per cui si presume di sapere ciò che in realtà non si sa e, cioè, qual è il proprio bene in quell'atto concreto. Ora voler ignorare, o accettare di ignorare, o non curarsi di imparare, per non essere trattenuti dal peccato, è ignoranza colpevole (cfr. QDM, Q.3, a. 8).

Quando si cede a una forte passione, anche se si sa che cosa si deve fare m generale, la considerazione di questa conoscenza è impedita nel caso particolare su cui verte la passione, la quale respinge il sapere circa quel particolare. E ciò sia distraendo dalla considerazione di quella scienza pratica, sia distruggendola, vanificandola a forza di contraddirla (cfr. QDM, q. 3, a. 9). Qui l'uso della ragione (usus rationis) è legato, è impedito da una certa alterazione corporea, provocata dalla passione (ibid.). Ma ciò non elimina o attenua la responsabilità e la colpa, perché questo legare o impedire l'uso della ragione deriva dal fatto che l'intenzione (e l'attenzione) della mente e del cuore (intentio animae) si applica in modo veemente all'atto dell'appetito sensibile, onde è distolta dal considerare e dal? applicare al caso particolare ciò che il soggetto conosce abitualmente in generale (cfr.QDM, q. 3, a. 10). Ma «è in potere della volontà respingere questo legame Io impedimento nell'uso] della ragione». Infatti «applicare l'intenzione a qualcosa o non applicarla è in potere della volontà, onde è in potere della volontà escludere questo impedimento nell'uso della ragione» (QDM, q. 3, a. 10).

Dunque la ferita del male morale non corrompe intrinsecamente la capacità veritativa della ragione, non spenta anche in chi non possiede la virtù, ma ne può ostacolare più o meno gravemente l'uso, per responsabilità del volontà che si lascia dominare da qualche passione o abitudine viziosa.

«L'esercizio della ragione dipende dalla volontà: conosco perché lo voglio (intelligo quia volo) e uso di tutte le mie potenze e abiti perché lo voglio.» (QDM, q. 6). Ecco perché «il peccato consiste soprattutto nella volontà» (S.th., 1I-II, q. 156, a. 3) e implica un non voler vedere. (40)

Questo è molto importante per capire la realistica ed equilibrata antropologia tommasiana e, quindi, per una corretta visione della condizione umana. Nonostante il disastro del male morale, non è spenta nell'uomo la capacità di cogliere e di vedere il bene. Anche nel vizio si  ricerca un qualche bene, sia pur parziale o apparente, e in maniera fuorviante e distorta.

Ma, soprattutto, la ragione non è corrotta intrinsecamente dal male, quindi conserva la sua capacità di conoscere e apprezzare il bene, anche se l'uomo può essere ostacolato o impedito nell'uso della ragione.

Se fosse corrotta intrinsecamente la ragione, l'uomo sarebbe consegnato irreversibilmente al male, non sarebbe più capace di atti buoni, ma questa disumanizzazione totale (41) non esiste, proprio perché quella capacità, nell'uomo, non è mai totalmente spenta, sicché sussiste sempre in lui una possibilità di cambiamento, di inversione di tendenza, di conversione rispetto agli abissi di colpa più o meno gravi in cui è caduto.

Dunque la lettura profonda che Tommaso ci offre dei vizi, certamente mette in luce le miserie dell'uomo nelle sue varie radici e forme, ma è proprio nella miseria che  la sua grandezza. La degenerazione patologica non potrebbe essere nemmeno avvertita, senza il riferimento, almeno intuito, alla normale condizione di bene, che è l'umana vocazione alla felicità, al vero e al bene, a compiacersi dell'infinito. Sicché l'uomo non è definito dal male, che pure può commettere e commette,  ma da quella vocazione che lo costituisce intrinsecamente e che è affidata alla sua libertà.

Dunque la vita umana ha un senso, racchiuso nel disegno dell'amore creatore di Dio, che ne è l'origine e la meta.

Quindi, per vari motivi, l'indagine veritativa sul male può essere salutare. Specialmente perché apre alla ricerca e all'accoglienza della luce e della salute al di là delle umane capacità naturali: «Per S. Tommaso... è proprio la scoperta del male deliberato che rende possibile la realizzazione del fine proprio dell'uomo: l'umile riconoscimento della propria imperfezione è infatti la condizione necessaria per disporsi a ricevere le virtù infuse della fede, della speranza e della carità».(42) In questo senso: felix culpa; il male può essere riscattato e messo a servizio del bene.

 

14. Le questioni disputate: un metodo dialagico di ricerca e di insegnamento

L'analisi, che qui presentiamo, sui vizi capitali è parte integrante delle Questioni disputate sul male.

E bisogna dire che con le Questioni disputate Tommaso d'Aquino ci ha lasciato l'espressione più ampia, approfondita e rigorosa del suo pensiero. Esse sono il frutto del suo insegnamento, specie all'Università di Parigi, che si accompagna, attraverso un lavoro molto intenso e fecondo, a una straordinaria produzione scientifica, lungo l'arco di circa sedici anni, dal 1256 al 1272.

In particolare le Questioni disputate sono, secondo il Grabmann, «dal punto di vista scientifico, l'opera più profonda e fondamentale che S. Tommaso abbia scritto».(43)

Questo giudizio concorda con quello di un altro insigne studioso del pensiero medievale, lo Chenu, il quale scrive: «Con le Quaestiones disputatae, opera di Tommaso giunto al vertice del suo curriculum di insegnamento, noi ci troviamo di fronte al frutto maturo del pensiero scolastico (filosofico e teologico) e insieme all'opera più ricca del suo genio personale».(44)

Converrà, dunque, fare qualche cenno su quest'opera che aiuti a comprenderne la genesi e la struttura. La questione disputata al tempo di S. Tommaso «era considerata come l'atto più significativo della vita universitaria»,(45) nei suoi due aspetti peculiari e inscindidibili: la ricerca e l'insegnamento. Essa constava di tre momenti: la discussione, libera e ordinata, intorno a un determinato problema, a cui contribuivano gli studenti, i baccellieri o assistenti e gli altri partecipanti, con il maestro reggente che presiedeva e moderava il dialogo critico; la soluzione o risposta del maestro, che in genere la presentava in una sessione successiva a quella della controversia o discussione, dopo aver riflettuto, tenendo conto dei diversi punti di vista emersi (infatti, dopo la risposta generale al problema, c'è la risposta puntuale a ogni posizione e obiezione); e, infine, la redazione definitiva e Dedizione che spettavano pure al maestro. Tommaso da la preferenza alla disputa nell'indagine speculativa e nell'insegnamento non solo perché fa tesoro della lezione del suo maestro Alberto Magno, il quale proponeva, per la scoperta della verità, proprio il metodo del dialogo e del lavoro in équipe,46 ma anche a causa dell'influsso, certamente non secondario, della dialettica platonica e aristotelica.

Tommaso è convinto che l'umana ragione può scoprire la verità, che si manifesta nella discussione, nel dialogo critico, nel quale, proprio in quanto emergono diversi punti di vista, si ha la possibilità di un approccio non unilaterale al problema.

Questo, però, non deve far pensare che quello tommasiano sia un tentativo eclettico, al contrario l'Aquinate ritiene che l'autentica prospettiva veritativa sia capace (e deve mostrare questa capacità) di discernere e di valorizzare tutti gli sforzi di ricerca della verità da qualsiasi parte provengano; essa «deve vedere in pieno quel che l'errore vede solo in maniera parziale e ingiusta e deve pure giudicare e salvare, grazie ai suoi princìpi e alla sua propria luce, quel che l'errore, senza saperlo comprendere nemmeno esso, comporta di verità».(47)

D'altra parte, in base alla lezione aristotelica, un sapere rigoroso emerge nella sua incontrovertibilità, non in quanto ignora le obiezioni, le posizioni contrarie, ma proprio in quanto è in grado di tenersi saldo, essendo in grado di confutare e di negare le proprie negazioni.

Ma, se quello della disputa è un valido metodo di ricerca, è evidente che reca con sé anche un grande valore pedagogico-didattico. Il giovane, formato a questa scuola, non era un eterodiretto che non comprendeva le ragioni, il fondamento del sapere che apprendeva, ne un disorientato in balìa di opinioni diverse e contrastanti, senza la capacità di valutarle criticamente e veritativa- mente. Egli era guidato alla scoperta personale della verità, con un ruolo attivo della sua intelligenza, mirante a un discernimento critico nell'ambito delle diverse posizioni di pensiero. In tal modo si evitava di cadere in una trasmissione ripetitiva del sapere e in un apprendimento

meramente mnemonico. Al contrario, nel dialogo critico con il sapere trasmesso, veniva stimolata nello studente la creatività, per un incremento delle conoscenze. Non a caso l'Università medievale, così impostata, è alla radice della nostra civiltà europea e non solo europea.

Perciò ii metodo della disputa, che possiamo imparare dalle tommasiane Questioni disputate, non è solo quello di una «pedagogia attiva», come scrive il Torrell,(48) ma è anche e, direi, in primo luogo un valido strumento di ricerca rigorosa, come riconosce il Bazan, autore di uno degli studi più recenti e approfonditi sull'argomento: «(la questione disputata) è una forma regolare di insegnamento, di apprendimento e di ricerca, presieduta dal maestro, caratterizzata da un metodo dialettico, che consiste nel presentare ed esaminare degli argomenti di ragione e d'autorità, che si oppongono intorno a un problema teorico o pratico e che sono forniti dai partecipanti, e dove il maestro deve pervenire a una soluzione dottrinale con un atto di determinazione che lo conferma nella sua funzione magistrale».(49)

 

UMBERTO GALEAZZI