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ALLA
RISCOPERTA DELL'ETICA TOMISTA
Introduzione del prof.
Umbearto Galeazzi al libro:
Tommaso D'Aquino,
"I vizi capitali" - testo latino a fronte -, ed. BUR, 1996.
1.
Il disorientamento contemporaneo e l'umanità da
salvaguardare
Che
senso ha, oggi, leggere Tommaso d'Aquino e, in particolare, la sua indagine
sull'etica? Che senso ha parlare di vizi e, quindi, di virtù; di male e,
quindi, di bene?
Riproporre
il dialogo con il genio speculativo dell'Aquinate significa verificare se il
suo pensiero aiuta a capire l'uomo di oggi, con le sue conquiste, ma anche
con il suo disorientamento, con le sue angosce e, non di rado, con la sua
disperazione. Si tratta di vedere se quel pensiero aiuta a rispondere alle
domande sempre più inquietanti che si impongono, quando si avverte che oggi
la «posta in gioco nelle scommesse sull'agire», nelle scelte etiche, è la
vita umana, con una implicita minaccia non solo alla qualità della vita e
alla stessa sopravvivenza di poche o tante persone, ma anche alla stessa «identità
umana» come «essenza dell'uomo globalmente inteso».(1)
In
un certo senso questo si può dire non solo per il nostro tempo, ma la
peculiarità della situazione attuale è caratterizzata dalla compresenza di
un «Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce
forze senza precedenti e l'economia imprime un impulso incessante»(2) e di
un «nichilismo nel quale al massimo potere si unisce il massimo di vuoto,
il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi».(3) Sicché
da questo rischio inedito scaturisce l'esigenza e la nozione di umanità da
salvaguardare non solo rispetto alla minaccia, mai debellata
definitivamente, alla sopravvivenza fisica, ma anche di fronte al pericolo
di una pretesa manipolativa che stravolga la stessa identità dell'essere
umano, la sua integrità e specificità.
Uno
dei sintomi non secondari, che fanno pensare a quel pericolo come non solo
ipoteticamente remoto, è costituito dalla tendenza a relegare l'umana
ragione a un ruolo strumentale e meramente calcolante. In tal modo, come ha
evidenziato l'acuta diagnosi critica dei Francofortesi (4), essa viene
ridotta a vuota razionalità formale, capace solo di verificare la coerenza
interna di un certo procedimento e la funzionalità dì certi mezzi rispetto
a scopi prefissati, ma viene neutralizzata di fronte ai fini, sui quali si
pretende che non possa dire nulla. Perciò diventa uno strumento
utilizzabile per qualsiasi fine, che evidentemente viene scelto e imposto in
base a fattori e motivazioni a-razionali e addirittura arbitrar! e
irrazionali. La critica della ragione strumentale evidenzia che, in tal
modo, la ragione tende a essere ridotta a mero strumento, a cosa fra le
cose, ma questa reificazione è reificazione dell'uomo stesso. Perché
l'asservimento dell'intelligenza non è altro che l'asservimento dell'uomo,
le cui possibilità di libertà e di esplicazione della propria personalità
sono legate all'autonoma capacità di giudizio e di superamento critico,
prima ancora che pratico, della situazione in cui si trova. Ma ciò è
possibile solo se la ragione non mortifica la sua costitutiva vocazione
veritativa, che la impegna come
testimonia la tradizione filosofica occidentale, per limitarci a questa
a conoscere la realtà e, in essa, il significato dell'esistenza
umana, indagando su questioni decisive «riguardanti l'idea del massimo
bene, il problema del destino umano, il modo di realizzare i fini ultimi».(5)
Il
rifiuto nichilistico di quella vocazione, con il conseguente vuoto etico,
oggi sempre più diffuso perfino a livello di senso comune, è l'esito
estremo di quella filosofia morale moderna, «la cui disfatta è stata
predeterminata sin dall'inizio dai modi in cui la ricerca è stata pensata»(6):
per esempio, ritenendo che potesse avere un senso riproporre il «dovere»,
prescindendo dal concreto bene umano e così caricando tutto l'onere
fondativo sulle spalle ben fragili dell'autolegislazione della soggettività,
per quanto trascendentale.
Da
ciò la situazione attuale, in cui ci troviamo di fronte alla «più grande
sfida che sia mai venuta all'essere umano dal suo stesso agire».(7)
In
questa distretta, non priva di rischi di involuzioni disumanizzanti, il
pensiero postmoderno non può essere di grande aiuto perché in gran parte
è condizionato da presupposti che lo portano a dibattersi in drammatiche e
significative contraddizioni, che si riflettono nel disorientamento degli
uomini, delle donne, in particolare dei giovani, bombardati dai molteplici e
contrastanti messaggi dei mezzi di comunicazione di massa e, per così dire,
indifesi, perché privi di validi criteri di discernimento critico.
Da
un lato dunque si insiste sulla finitezza dell'uomo, con ciò riconoscendo i
suoi molteplici limili, dall'altro e, insieme, si pretende che egli non
abbia nessun limite nelle sue scelte etiche, che in tal modo creerebbero i
valori, anziché riconoscerà. Ciò significa che qualsiasi comportamento,
per quanto aberrante secondo la tradizione etica plurisecolare e secondo il
senso comune, in quanto scelto da qualcuno diventerebbe positivo e
moralmente accettabile. In tal modo gli uomini e le donne, cosi limitati da
dover rispettare, per esempio, le leggi della propria costituzione
fisiologica per evitare involu-zioni patologiche e addirittura
l'autodistruzione, avrebbero invece la «responsabilità di essere padroni
del senso e della norma» (8).
Ma,
se uno è padrone del senso e della norma, vuoi dire che il suo arbitrio non
ha alcun valore da rispettare, nemmeno quello dei suoi simili; se c'è
rispetto è semplicemente casuale, momentaneo, ma non può escludere di
convenirsi nel suo opposto. Quell'esclusione, infatti, è negazione della
pretesa di esser padrone del senso e della norma, poiché significa che c'è
comunque una norma da rispettare, di cui non si è padroni.
C'è,
dunque, un contrasto irriducibile tra il rifiuto nichilistico di una
nonnatività superiore all'arbitrio del soggetto e l'intento, ugualmente
asserito, di salvaguardare e di promuovere la dignità dell'uomo in una
convivenza sempre più rispettosa della dignità di ogni persona- Ma ancora:
che senso può avere parlare dì dignità dell'uomo o di rispetto dell'uomo
se nel contempo se ne rifiuta la verità e l'identità, considerate
sostanzialmente repressive delle «invenzioni» dell'arbitrio senza regole?
Come si può conciliare l'apologia della trasgressione con l'esigenza del
rispetto delle persone?
Per
altro verso, la pretesa nicciana di porre l'uomo al di là del bene e del
male, cancellandone la differenza e cancellando ogni dover essere si rivela
impossibile da realizzarsi, in quanto legata alla dura condanna di
comportamenti, considerati negativi, perché giudicati contro la vita, o
meglio, in contrasto con un modo vitalistico di intendere la vita umana.
Anche
qui c'è un'aporia insanabile tra la pretesa distruzione radicale di ogni
etica normativa e il disegno, fatto valere più o meno implicitamente e
surrettiziamente, di affermare una certa interpretazione del bene umano.
Per
non dire delle contraddizioni pratiche del non cognitivismo scientistico,
riduttivo delle possibilità dell'umana ragione, dichiarata incapace di
pronunciarsi sui fini dell'agire. Ma, nella concreta realtà storico-sociale,
se i comuni menali non possono scoprire i fini, che, però, di fatto non
possono non essere scelti, con una implicita presa di posizione anche
teoretica, allora evidentemente c'è chi pensa a imporli, sia che si tratti
dei gruppi di potere dominanti, o dei burocrati di panito, o di chi riesce a
proporsi per mezzo dei mass-media e dell'industria culturale.
Dunque
questo riduttivismo scientistico che è un pensiero senza speranza, incapace
di trascendere la situazione di fatto perché rinuncia a metterne in
questione i fini prevalenti, non può non essere implicitamente apologetico
del disordine stabilito, con gli assetti disumanizzanti che esso implica.
È,
perciò, quello scientistico, un .pensiero che non riesce a mantenersi in
una incontaminata purezza scientifica, ne in una asettica neutralità
teoretica, perché diventa funzionale al potere, proprio in quanto esclude
la riflessione e valutazione critica sui fini; è così poco neutrale che si
rivela «amico di quello che di volta in volta è l'esistente»,9 che «non
conosce limiti ne nell'asservimento delle creature, ne nella sua docile
acquiescenza ai signori del mondo» (DI, p. 12).
È
così poco a-filosofico e ametafisico da favorire il tentativo di riduzione
dell'uomo a cosa fra le cose – facendo valere una implicita, ma
inequivocabile posizione metafisica. quella appunto che sostiene la
reificazione -, da sottomettersi al «falso assoluto: il principio del cieco
dominio» (DI, p. 50).
2.
Per mettere in discussione i presupposti dominanti
Se
questi rapidi cenni, per quanto sommar; hanno dato realisticamente un'idea
della condizione spirituale del nostro tempo, del clima culturale prevalente
e della mentalità più diffusa, che corrodono i pochi valori ancora
condivisi, allora si possono intendere gli ostacoli che incontra oggi chi
voglia, prima che accogliere, almeno comprendere l'etica tommasiana. Ma,
d'altra parte, proprio la sua inattualità, radicalmente alternativa
rispetto alle mode correnti, la rende idonea a mettere in questione gli
idoli dominanti, i presupposti meno problematizzati e accolti più o meno
consapevolmente come indiscutibili, che sono alla radice degli esiti estremi
e drammatici che ancora riusciamo ad avvertire come distruttivi e
disumanizzanti. Infatti la diffusa e particolare condizione di smarrimento e
di povertà interiore del nostro tempo rende, per lo più, quasi incapaci di
intendere il bene in campo morale e di avvertirne il fascino, ma lascia
l'orrore per il male, magari nelle sue manifestazioni sensibilmente più
repellenti. Di qui l'interesse di un'indagine che pana dai vizi per risalire
ad acquisizioni non secondarie per la condotta umana. Sicché può avere
oggi particolare efficacia una ricerca etica che prenda avvio dalla
ripugnanza per il male più evidente, perché colpisce direttamente la
persona a partire dalla sensibilità, mettendo in moto una reattività
spontanea. Una euristica della ripugnanza, più che della paura, come vuole
Jonas. sembra da non trascurare, perché, specie nell'attuale
disorientamento della riflessione teorica, «... la percezione del malum
ci riesce infinitamente più facile della conoscenza del bonum; essa
è più immediata, più plausibile, molto meno esposta a divergenze di
opinioni e soprattutto non intenzionale».(10)
In
tal modo si è ancora in grado di indignarsi e di rifiutare certe
conseguenze più evidentemente negative e distruttive, senza, però, essere
capaci di individuare e di rifiutare i presupposti che ne sono la radice e
che, non messi in questione, continueranno a dare certi frutti guasti o
addirittura avvelenati. In questo contesto l'incontro con la prospettiva
tommasiana sull'etica può essere liberante - in primo luogo per la sua
intelligenza - se riusciamo a farla dialogare criticamente con il pensiero
del nostro tempo, che condiziona più o meno esplicitamente le nostre scelte
e le nostre convinzioni, gli obiettivi per cui ci affanniamo, le nostre
paure e le nostre angosce.
Un
pensiero non privo di responsabilità rispetto alla chiusura egocentrica e
all'antagonismo conflittuale, che tendono a renderci sempre più avidi,
insensibili, spregiudicati e infelici.
3.
L'indagine sui vizi come via d'accesso all'etica tommasiana e i due dogmi
del pensiero contemporaneo
Perciò,
nel rinnovato interesse che oggi si manifesta per la filosofia pratica, in
cui sono presi come essenziali punti di riferimento il pensiero di
Aristotele e quello di Kant, una grave lacuna è costituita dal fatto che in
genere si trascura (perché la si ignora?) l'originalità dell'etica
tommasiana, che, in quanto attenta alla concretezza esistenziale della
condizione umana nella integralità delle sue dimensioni, è capace di
valorizzare i contributi positivi dei citati filosofi, in una sintesi che ne
superi le difficoltà e i limiti.
In
questa prospettiva l'indagine sui vizi può essere una valida via d'accesso
all'etica tommasiana, proprio per scoprire delle risposte significative e
interessanti per gli uomini di oggi. Non è, infatti, una via che parte
deduttivamente da princìpi generali, ma viceversa un itinerario che procede
attraverso l'esperienza concreta degli uomini comuni e non solo degli
addetti ai lavori, seguendo i percorsi insonni e inquieti del desiderio, gli
erramenti dietro l'attrattiva di idoli tanto esigenti e tirannici, quanto,
in definitiva, deludenti.
In
questa indagine l'uomo di oggi individua una esperienza sorprendentemente
analoga - pur nella diversità dei contesti - alla propria. Ritrova gli
stessi fini che egli di volta in volta è portato a considerare come
supremi, a essi tutto subordinando, e che lo affascinano e lo turbano, lo
muovono freneticamente all'agire e lo angosciano, lo reificano nella
grettezza di mete anguste, lo abbrutiscono fino a fargli rinnegare e
calpestare la propria e l'altrui dignità, gettandolo nella disperazione del
non senso. Ritrova la brama inesausta dei piaceri, l'avidità insaziabile di
denaro e di beni materiali, ma anche di potere, con una pretesa di
superiorità sugli altri e con una vanagloria, capace di gonfiarsi sulla
base di qualità inesistenti. Ritrova il suo bisogno di amore e di
riconoscimento da parte dei propri simili, che non di rado si rovescia in
modo preoccupante nella tendenza a strumentalizzare, a servirsi degli altri.
Ma
l'uomo contemporaneo è sconcertato, smarrito, perché, pur obbedendo,
nell'inseguire questi obiettivi, alla tensione del proprio desiderio, è
condotto a bere l'amaro calice della delusione. E non riesce a capire perché.
Nell'angustia della propria prospettiva non riesce ad aprirsi un varco per
la luce di una soluzione, che, non censurando o mortificando nessuno dei
fattori in gioco, rintracci un senso scoprendo la via dell'adempimento.
Ma
per far sì che la risposta, rinvenibile nello stile dialogico delle
questioni tommasiane, non sia scartata pregiudizialmente prima ancora di
essere ascoltata, bisogna mettere in discussione e valutare criticamente
almeno due dei presupposti più comunemente dati per scontati da parte di
diversi filoni di pensiero del nostro tempo. Si tratta, per così dire, di
due dogmi su cui vige una sorta di divieto tacito di far domande: quello che
vuole che la libertà dell'uomo, per essere tale, debba essere una libertà
assoluta, senza vincoli o limiti da rispettare; e l'altro, per il quale la
verità è vista con sospetto, perché considerata o come fonte dì
intolleranza e di imposizione verso gli altri o come repressiva della
spontaneità e dell'arbitrio della soggettività.
Come
si vede i due dogmi si implicano reciprocamente tra di loro, contribuendo a
costruire artificiosamente l'ambiguo piacere del dubbio come difesa dalla
verità come se la fame non ci fosse per essere saziata e se addirittura
saziarla fosse nocivo - e il fascino sinistro di itinerari trasgressivi,
saputi come potenzialmente e rischiosamente esiziali, come se le rotte senza
bussola verso il naufragio fossero preferibili ai cammini, ordinati e fati
cosi, ma gratificanti, della crescita e dell'adempimento.
Su
questi due presupposti è istruttivo, proprio ai fini di una introduzione al
pensiero dell'Aquinate, tentare di ricostruire un ideale dialogo critico tra
quest'ultimo e la filosofia di Sartre che nel pensiero contemporaneo costato
tra i primi a sostenere quei due «dogmi», essendo poi seguito da molti,
provenienti da diverse correnti di pensiero. Si può dunque considerare la
sua posizione come paradigmatica per dialogare con alcune istanze del nostro
tempo, chiarendone il senso alla luce della sintesi speculativa tommasiana.(11)
4.
Un'etica significativa per l'uomo d'oggi
Abbiamo
parlato deIl'analisi sui vizi come via d'accesso significativa, specie per
l'uomo d'oggi, all'etica tommasiana, ma sì può dire di più.
Si
possono leggere le Questioni disputate, che qui presentiamo, come una
verifica, addirittura come una sorta di dimostrazione confutativa della
validità della prospettiva generale di Tommaso sull'agire morale.
Infatti
un'etica che procedesse deduttivamente insistendo sui principi senza
riuscire a farne vedere il nesso con la vita quotidiana, senza riuscire a
far luce sulle scelte concrete, piccole o grandi, senza riuscire a valutarle
e a dirigerle con un chiaro discernimento critico, potrebbe essere una
esercitazione accademica, magari ricca di citazioni erudite e preoccupata di
dialogare con quelli che contano secondo la moda del momento, senza essere
in grado, però, di rispondere agli interrogativi e ai problemi concreti
degli uomini. Analogamente, un'etica che fosse disegnata per un uomo
perfetto sarebbe incapace di comunicare veramente con gli uomini reali, con
le loro contraddizioni e la loro fragilità, con le loro incoerenze e con i
loro fallimenti, con i loro abissi di abbrutimento e di abiezione, ma anche
con i loro slanci di rettitudine e di generosità, con il loro desiderio di
giustizia e di felicità. Di qui l'esigenza di un'etica che prenda avvio
dalla concreta esperienza dell'agire umano e quindi dalle conquiste e dalla
crescita personale, conseguenti all'agire virtuoso, ma che però tenga conto
anche del male morale, delle scelte aberranti e distruttive di cui gli
uomini si rendono responsabili. Perché essi hanno bisogno prima di tutto di
capire se stessi proprio in quelle debolezze e in quegli errori, fino a
scorgervi dei tradimenti alle proprie intenzioni più profonde di bene, con
ciò aprendosi l'orizzonte di possibilità alternative, di realistiche
inversioni di tendenza.
Ora
la moralis consideratio (lo studio sugli atti umani), che troviamo
negli scritti della maturità di Tommaso, come la Seconda Parte della Summa
theologiae e le Questioni disputate sul male - di cui fa parte l'analisi sui
vizi che qui presentiamo -, manifesta una posizione sostanzialmente unitaria
(12) e nuova (13) rispetto a opere precedenti, come il giovanile Scriptum
super Libros Sententiarum, la prima opera di grande impegno, frutto del
suo primo insegnamento all'Università di Parigi come baccalaureus
sententiarius, incaricato, appunto, di commentare i quattro libri delle
Sentenze di Pietro Lombardo.
Questa
moralis consideratio, pur non misconoscendo le acquisizioni
antropologiche e metafisiche della speculazione tommasiana, procede in
maniera non deduttiva, partendo dall'analisi dell'agire umano e, proprio
attraverso l'indagine sull'esperienza morale, riguadagna e corrobora, in un
certo senso autonomamente, quelle convinzioni. Sicché si può dire che
Tommaso in questa nuova prospettiva: «... non deduce la morale dalla
metafisica... ma accosta la vita morale nella sua originalità e nella sua
autonomia, in quanto cioè la vita morale è opera propria d'una ragion
pratica naturalmente dotata per regolare la condotta umana».14
In
altra sede ho cercato di presentare i fondamenti dell'etica tommasiana, nel
duplice senso di itinerario di fondazione, cioè di giustificazione
razionale, e di linee essenziali, di prospettazione sintetica di quel
pensiero.15 Qui l'intento è di far vedere la validità di una chiave di
lettura della discussione sui vizi, che, lungi dall'isolare astrattamente
alcune tesi particolari dal contesto, in tal modo fraintendendole, può
aprire alla comprensione della moralis consideratio tommasiana, nella
sua globalità e nell'originalità dei suoi motivi essenziali.
Perché
ciò che dice il Mac Intyre sulla Summa è valido per tutta la speculazione
tommasiana e cioè che «può essere compresa soltanto come un tutto unico e
soltanto come tale può essere adeguatamente valutata».(16)
In
più le pagine dell'Aquinate, che qui presentiamo, hanno il vantaggio di
essere accessibili e significative per l'uomo contemporaneo, che in esse
trova delle risposte di cui non può facilmente sbarazzarsi con rifiuti
pregiudiziali, perché scopre che affrontano problemi non molto diversi dai
suoi, che tengono conto delle sue difficoltà, che non sono estranee alla
tensione del suo desiderio, ne alle sue speranze e alle sue preoccupazioni.
Vediamo,
dunque, di delineare, sia pur rapidamente, quella lettura per dare un'idea
di come possa costituire una feconda prospettiva di ricerca.
5.
Vizi e desiderio di felicità
L'esperienza
ci fa constatare che tutti gli uomini tendono alla felicità, dice Tommaso,
e se questo desiderio è così universale, evidentemente è naturale (cfr.
QDM, q. 13, a. 3; q. 14, a. 4). Ciò si verifica anche negli uomini che
seguono i vizi; infatti l'oggetto di un vizio, specie se capitale, è
desiderabile «soprattutto in quanto ha una sorta di somiglianza con la
felicità, che tutti naturalmente desideriamo» (QDM, q. 14, a. 4).
La
felicità, dice Tommaso seguendo Aristotele, ha tre condizioni: (17) che sia
un bene perfetto, per sé sufficiente (sia perché voluto per se stesso e
non come mezzo per qualcosa d'altro, sia perché è ciò che da solo rende
la vita umana non bisognosa di nulla) e che sia accompagnato dal godimento (cfr.
QDM, q. 13, a. 3).
Ora,
tanto è vero che la felicità ha una priorità tra i fini perseguiti dagli
uomini, che questo primato si estende anche a qualsiasi realtà che
partecipi «veramente o apparentemente» di una delle suddette sue
condizioni (cfr. ibid.).
E
ciò si verifica anche nei vizi capitali. Ad esempio: per chi segue la
superbia o la vanagloria «l'eccellenza (o superiorità) sembra essere
qualcosa di principalmente desiderabile», perché «in tanto un qualche
bene sembra essere perfetto, in quanto possiede una certa eccellenza»;
d'altra parte c'è chi segue il vizio della gola o quello della lussuria,
perché «nelle cose sensibili il massimo godimento si trova nel senso del
tatto, nei cibi e nei piaceri venerei»; inoltre c'è chi si affida
all'avarizia, perché «soprattutto le ricchezze promettono la sufficienza
dei beni temporali» (ibid.). Ma l'analisi tommasiana fa vedere che anche
nei rimanenti vizi capitali ciò che muove a un certo comportamento è
l'affezione e la tensione (non priva di una deliberazione della volontà)
del soggetto a un proprio bene, considerato talmente appagante e supremo -
per sé sufficiente - da condurre a misconoscere e avversare altri beni,
contro l'ordine della giustizia e della ragione. Così nell'invidia ci si
rattrista per il bene altrui, perché è ritenuto un ostacolo alla propria
superiorità;
nell'accidia ci si rattrista del bene spirituale divino, perché è visto
come un impedimento al bene e alla quiete del proprio corpo; nell'ira, in
quanto viziosa, uno si scaglia contro il prossimo per punirlo, anche al di là
del giusto, a causa di qualche offesa subita, cioè per riparare un danno
arrecato a un proprio bene.
In
particolare la tensione verso quell'aspetto della felicità che è il
godimento è tale che «nessun uomo può rimanere a lungo senza godimento e
nella tristezza», per cui «coloro che non possono gioire dei godimenti
spirituali si rivolgono per lo più ai piaceri del corpo» (QDM, q.ll.a.4).
E, tuttavia, nel vizioso questa tensione non consegue Inadempimento, va
incontro alla delusione e al fallimento, come nell'avaro, che non è saziato
dal denaro (cfr. QDM, q. 13, a. 3).
Dunque
non tutti i comportamenti conducono alla felicità; riguardo a essi c'è
bisogno di un discernimento critico. Ecco la questione decisiva dell'etica,
che prende in esame gli atti umani «per distinguere quelli che servono a
raggiungere la felicità, da quelli che ostacolano il cammino verso di essa»
(S.th., I-II, q. 6, prologo).
Infatti,
se, da un lato, tutti vogliono la felicità in quanto desiderano
l'appagamento della volontà, d'altra parte, se parliamo della felicità
considerando la sua nozione specifica, ciò in cui consiste essenzialmente,
«allora non tutti la conoscono: perché non sanno a quale realtà si addica
la nozione universale di felicità» (S.th, I-II, q. 5, a. 8). Tutti tendono
alla felicità ma non tutti sanno in che consiste e, quindi, come si possa
conseguire.
Per
capire le ragioni di questo e quindi anche dei fallimenti bisogna andare al
di là della semplice constatazione empirica e psicologica del tendere della
persona alla felicità, per cogliervi il dinamismo dell'essere umano che
mira alla piena realizzazione di sé, alla propria perfezione ontologica. «Perfezione»
deriva dal verbo latino perficere, che significa, appunto, portare a
compimento, realizzare compiutamente.
6.
Bisogni, desideri e bene
Ora,
il moto verso la perfezione è proprio di chi, come l'uomo, non la possiede
pienamente e ha in sé molteplici potenzialità che tendono, per intrinseco
dinamismo, ad attuarsi, dando luogo a tutto l'agire umano, con le sue ansie
e le sue fatiche, con i suoi fallimenti, con le sue conquiste e
realizzazioni lungo tutta la storia: «il fine di una potenza è il suo atto»
(S.th., I-II, q. 55, a. 1), cioè il suo attuarsi, il suo compimento o la
sua perfezione. Così, per esempio, la potenza intellettiva tende ad
attuarsi conoscendo. Per comprendere ciò a livello ontologico bisognerebbe
ricordare18 che l'uomo partecipa dell'essere, da intendere come atto di
essere (actus essendi), come un'energia attiva, espansiva, che è nel cuore
di ogni realtà. Nell'uomo che ne partecipa con la propria natura finita,
implicante delle potenzialità, questa energia è la sorgente del dinamismo
dell'agire. Ma queste potenzialità, proprio in quanto tendono ad attuarsi,
implicano degli appetiti, perché non si potrebbero attuare se l'uomo se ne
stesse autarchicamente rinchiuso in sé, senza tendere verso qualcosa di
altro da sé. L'appetito, infatti, è «un certo moto verso qualcosa» (S.th.,
I, q. 5, a. 4, ad1) e deriva dal verbo latino appetere (ad-petere),
che significa «tendere verso...».
Tutto
ciò diventa molto chiaro se si pone mente alle umane potenzialità, a
cominciare da quelle sensibili, da quelle legate ai nostri cinque sensi. La
vista non potrebbe attuarsi come tale, cioè come capacità di vedere, se
non cogliendo qualcosa di altro da sé, come la luce, i colori, le forme,
ecc. Senza queste realtà la capacità visiva rimarrebbe inattuata, non
vedrebbe, quindi sarebbe vi- sta non realmente, ma solo potenzialmente. Così
l'udito, come potrebbe realmente udire senza i suoni? E l'odorato senza i
profumi e gli odori? E il tatto senza delle realtà da toccare? E il gusto
senza delle realtà da gustare? Ma questo vale anche per la potenza
conoscitiva, che è realmente tale, cioè che conosce, quando intende
qualche realtà; ed è mossa a conoscere sempre più - attuandosi
così sempre più pienamente - da tutta la realtà da conoscere. Qualcosa di
analogo si può dire della volontà, l'«appetito intellettivo»,
proporzionato alla conoscenza intellettiva perché tende al bene conosciuto
dall'intelligenza (mentre gli appetiti sensibili tendono al bene colto dai
sensi). Ora, solo il bene, in quanto raggiunto, da compimento all'appetito,
appaga la volontà e da questo conseguimento, da questa perfezione raggiunta
deriva il godimento. Il quale, dunque, non si deve confondere con la felicità,
che «è il bene perfetto che appaga totalmente l'appetito» (S.th-, I-II,
q. 2, a. 8), con ciò realizzando la perfezione ontologica del soggetto
desiderante.
Il
godimento, sia come piacere che come gioia, ne è solo una conseguenza, un
elemento concomitante, come condizione psicologica del soggetto.
Ma
questa condizione non può essere confusa ne con la raggiunta perfezione da
cui nasce, ne tanto meno con quell'altro dal soggetto che la causa: «il
godimento è causato dal quietarsi dell'appetito sul bene raggiunto» (S.th,I-II.q.4,a.
1).
Qui
il bene, che è una nozione prima, di cui. perciò, non si può dare una
definizione, è compreso a partire dal dinamismo della tendenza e del
desiderio di cui è oggetto. Il bene è questo altro dal soggetto che
soddisfa l'appetito o il desiderio, o, almeno, è ciò che è sentito, o
intuito, o ritenuto come ciò che può soddisfarli.
Questo
è il carattere di perfettività del bene, cioè la capacità di condurre a
perfezionare il soggetto appetente e desiderante; da ciò poi se ne scopre
il carattere di perfezione, perché può soddisfare l'appetito solo in
quanto è perfetto (cfr. S.th., I, q. 5, a. 1).
Abbiamo
detto appetito o desiderio, perché nel linguaggio tommasiano appetitus
indica in generale il moto, il tendere verso qualcosa che include in sé sia
l'inclinazione naturale di un essere inanimato, sia il tendere istintivo,
sia il desiderio.(19)
Il
secondo (cioè il tendere istintivo) è «determinato da natura in senso
unico» (CG, II, 48) a bramare e perseguire quel preciso bene che soddisfa
un bisogno o a fuggire quella realtà che si presenta come nociva. Come
l'animale che tende, secondo il determinismo istintivo, verso ciò che
soddisfa la sua fame o fugge ciò che si presenta come spiacevole.
Ma
l'uomo non ha solo dei bisogni, ha anche dei desideri, perché non ha solo
un appetito sensitivo, legato a un bene appreso e bramato o dalla sensibilità,
ma ha anche un appetito razionale o intellettivo (volontà), per cui
desidera il bene conosciuto e valutato dalla ragione e scelto liberamente:
«... il bene colto dall'intelligenza muove la volontà» (QDM, q. 6).
Proprio
perché l'uomo non ha solo dei bisogni, e quindi il suo agire non è
semplicemente determinato in maniera unidirezionale dalle tendenze
istintive, si pone il problema morale, quello cioè di valutare, deliberare
e scegliere tra i diversi beni e tra i diversi desideri che ne conseguono.
Infatti
i desideri degli uomini non si limitano a riprodurre il determinismo della
natura corporea, ma vanno al di là, perché negli uomini c'è la capacità
dell'universale, la ragione, che dischiude sul bene un orizzonte molto più
vasto dei beni legati alla particolarità della soddisfazione istintiva. I
desideri che nascono dall'appetito razionale «sono propri degli uomini, i
quali hanno la facoltà di considerare buona e conveniente una cosa al di
fuori delle necessità della natura» (S. th., I-II, q. 30, a, 3).
Qui
è trascesa la mera reazione necessaria ai bisogni materiali: questi
desideri presuppongono la conoscenza e la deliberazione. L'insaziabilità
dei desideri degli uomini la sperimentiamo continuamente, si tratta di
comprenderne i motivi, le ragioni, con un approfondimento realistico della
condizione umana.
7.
Perché nell'esperienza dell'uomo il desiderio si presenta come
insaziabile?
Perché
l'uomo non trova appagamento, quiete, termine alle sue aspirazioni e alla
sua tensione? Anche quando consegue gli obiettivi dei suoi desideri infatti,
la sua ricerca continua inquieta, insonne, affannosa, mai paga delle mete
raggiunte.
Aristotele
insinua un sospetto, che dischiude l'orizzonte di una ricerca fruttuosa: «...
tutti perseguono il piacere. Ma forse anche perseguono non il piacere che
credono, ne quello che direbbero di perseguire...».
Tommaso
riprende e approfondisce l'acuta osservazione aristotelica: se nei beni e
nei piaceri limitati secondo molteplici aspetti il desiderio non è
appagato, evidentemente in essi l'uomo cerca qualcosa d'altro; il desiderio
è desiderio di qualcosa d'altro.
L'insaziabilità
deriva dalla disequazione tra l'apertura infinita del desiderio e ciò che
si ricerca per soddisfarlo.
L'uomo
desidera principalmente che sia appagato ogni suo desiderio con un bene tale
che consenta di soddisfare questa aspirazione e con la certezza di non
doverlo mai perdere (cfr. S.th, I-II. q. 5, a. 4). Quello umano è, dunque,
desiderio del bene infinito, che subordina a sé, in un ordine gerarchico,
ogni altro desiderio finito, e non è appagato da nessun bene limitato,
fosse pure il proprio bene egocentrico e il proprio piacere.
A
proposito, infatti, dei beni limitati e quindi anche momentanei, passeggeri,
accade che quando si possiedono non si apprezzano e se ne desiderano altri,
perché possedendoli se ne conosce meglio l'insufficienza, mentre del bene
che sazia il desiderio bisogna dire che quanto più perfettamente si
possiede tanto più lo si ama (cfr. S. th., I-II,q.2.a.l.ad3).
Insufficienza,
abbiamo detto, ma rispetto a che cosa? Evidentemente rispetto a ciò verso
cui tende realmente il desiderio, rispetto all'apertura infinita del
desiderio. Infatti a differenza dei desideri che ha in comune con gli
animali, legati ai bisogni del corpo, l'uomo ha un tipo di desiderio che è
suo peculiare (cfr. S.th., I-II, a. 30, a. 3), perché «segue la ragione:
ed è proprio della ragione procedere all'infinito» (S.th., I-II, q. 30, a.
4). Ciò vuoi dire che: «Il nostro intelletto nell'intendere si estende
all'infinito: ne è segno il fatto che, data una qualsiasi estensione
finita, il nostro intelletto è in grado di pensarne una più grande» (CG,
1.43).
La
nostra facoltà intellettiva21 non è bloccata alla conoscenza di questa o
quella realtà particolare, ma trascende sempre ogni prospettiva limitata,
essendo aperta e protesa a conoscere ogni cosa (omnium capax, QDV, q. 24, a.
10) e dischiudendo, quindi, l'orizzonte dell'intero: «... la conoscenza
intellettiva non è (de)limitata a certi oggetti, ma abbraccia ogni cosa» (CG,
II, 47).
Questo
è decisivo per comprendere il desiderio che scaturisce dall'appetito
razionale dell'uomo, che è la volontà, e che «tende al proprio oggetto
secondo l'ordine della ragione, per il fatto che la facoltà conoscitiva
presenta a quella appetitiva il proprio oggetto» (S./A., I-II, q. 13, a.
1). Da ciò consegue che «l'oggetto dell'appetito umano è il bene
universale, come quello dell'intelletto è il vero nella sua universalità.
È evidente, quindi, che niente può appagare la volontà umana, aIl'infuori
del bene preso in tutta la sua universalità» (S. th., I-II, q. 2, a. 8).
La
volontà tende al bene nella sua universalità, al bene sotto ogni aspetto,
perciò è libera quando si trova di fronte a beni e a scelte particolari (cfr.
QDM, q. 6). Dunque si deve dire che la volontà segue la conoscenza del
soggetto che desidera, secondo un libero giudizio (cfr. S.th., I-II, q. 26,
a. 1). Ecco perché l'uomo, nel ricercare e nel tendere a un qualche bene,
in realtà, anche se non se ne rende conto,
cerca Dio, il bene sommo, che non manca di nessuna positività che
sia in qualche modo desiderabile.
L'uomo
ha sete del Dio vivente, perché «ogni bene naturalmente desiderato è una
certa somiglianza della bontà di Dio» (QDM, q. 8, a. 2). Quindi,
desiderando quel bene, l'essere umano, in realtà, desidera il bene non
manchevole, che è Dio. Ogni bene limitato è desiderato non per il suo
limite, ma per quella «certa somiglianza» che ha con il bene non
manchevole.
Anche
Nietzsche aveva capito che «... ogni piacere vuole eternità, vuole
profonda, profonda eternità».22 Dunque l'umano desiderio, inappagato dalla
momentaneità e precarietà della soddisfazione istintiva, è tensione verso
qualcosa che non sia segnato ne dal limite temporale, ne da nessun altro
limite; è desiderio dell'infinito, che non lascia fuori di sé nulla, vale
a dire dell'essere totale senza limitazioni di sorta. E ciò perché «tra
gli enti in cui c'è il desiderio di essere accompagnato dalla conoscenza si
riscontra questa diversità: che quelli che non percepiscono l'essere se non
come momentaneo, desiderano l'essere come momentaneo, non già come
perenne... Gli esseri invece che sono capaci di conoscere e di apprendere
l'essere nella sua perpetuità, hanno di esso un desiderio naturale» (CG,
II, 55).
Ma
se l'uomo tende all'essere infinito vuoi dire anche, nella prospettiva
speculativa dell'Aquinate, che è capax summi boni (S.th., q.
93. a. 2, ad 3; QDM, q. 5, a. 1), cioè capace di conoscere, volere e godere
il sommo bene, l'oceano infinito di tutte le perfezioni, verso cui è
proteso il suo desiderio.
Infatti
abbiamo visto che un carattere del bene è la desiderabilità (cfr. CO, I,
37), ma qualsiasi realtà è desiderabile nella misura in cui è perfetta (cfr.
S.th., I, q. 5, a. 1), perciò è buona per il fatto che è perfetta (cfr.
CO, I, 37), quindi la natura del bene è la perfezione, la pienezza
ontologica: «la pienezza dell'essere costituisce l'assenza del bene» (S.th.
I-II, q. 18, a. 1). Ciò vuoi dire che l'essere e il bene coincidono in
realtà, anche se concettualmente differiscono, perché il bene esprime la
desiderabilità non espressa dall'essere; infatti in tanto una cosa è
perfetta in quanto è in atto, ma l'essere è l'attualità di ogni cosa, è
essenzialmente atto (cfr. S.th., 1, q. 5, a. 1). Ecco perché l'essere e il
bene coincidono e l'essere infinito, l'essere nella sua pienezza, coincide
con il sommo bene, con il bene totale ed esaustivo che non lascia fuori di sé
nessuna positività.
Il
desiderio dell'uomo è desiderio di questo bene; lo scacco, la delusione a
cui egli va incontro nei vizi, ne è una conferma. In effetti il desiderio,
quello specificamente umano che abbiamo individuato, è possibile in quanto
l'uomo è un essere finito che tende all'infinito; non si appaga nel finito,
ma non è l'infinito, è infinito solo nelle sue aspirazioni.23
Pretendere
di identificare il finito con l'infinito o. viceversa, risolvere e
dissolvere l'infinito nel finito «significa togliere le condizioni di
possibilità delFesserci stesso del desiderio, perché significa togliere la
disequazione di cui il desiderio si mitre».(24) Così, pure, se la meta del
desiderio fosse illusoria (quella meta di cui abbiamo detto), la certezza
del non appagamento annullerebbe il desiderio stesso. E tuttavia il
desiderio c'è... quindi anche le sue condizioni di possibilità ci devono
essere.
8.
Tensione alla felicità, bene totale e fine
Quindi
dall'analisi dell'agire umano e del desiderio che 10 muove si arriva a una
convergenza e a una conferma rispetto alle acquisizioni della tommasiana
metafisica della creazione: la causa essendi, il Creatore di ogni
realtà è Dio, che non ha ricevuto l'essere, ma la cui essenza è 11 suo
stesso essere; Egli è «l'Essere stesso per sé sussistente (ipsum esse
per se subsistens) per cui è necessario che abbia in sé tutta la
perfezione dell'essere» (S.th., I, q. 4, a. 2) e che quindi sia «infinito»
(S.th., I, q. 7, a. 1) nel senso che «non c'è limite o fine alla sua
grandezza (suae perfectionis)» (CG, I, 43) e non gli manca «alcuna
nobiltà che si trova in qualsiasi genere» (S.th., I, q. 4, a. 2).
Certo,
quando parliamo di Dio dobbiamo stare molto attenti: è un discorso che
nasce da un'apertura dell'intelligenza al limite delle possibilità umane,
eppure peculiare dell'uomo, che si realizza proprio trascendendosi,
superando i suoi limiti.[L'itinerario della mente e del cuore verso Dio è
un cammino decisivo, ma su un crinale rischiosissimo, perché possiamo
ascendere a Lui a partire dalle meraviglie della creazione, oppure ricadere
nella prigionia dell'immanenza soggettiva, scambiando il Dio vivente con un
idolo foggiato dalle nostre escogitazioni, un idolo che possiamo
comprendere, afferrare, dominare, possedere, racchiudere nei nostri schemi e
nelle nostre pretese e, magari, anche valutare, giudicare e quindi
sottomettere. Quell'idolo non è Dio, che è il Bene increato. infinito,
trascendente, non riducibile alla nostra misura. In questo senso Dio non può
essere compreso dall'uomo «perché, essendo infinito, da nessun finito può
essere racchiuso» (S.th., I, q- 12, a. 7, ad 1), ciò non vuoi dire che non
possa essere conosciuto a partire dal creato (cfr. S.th. I, q. 12, a. 1, ad
3). Ma sempre tenendo presente che «allora soltanto conosciamo Dio
veramente, quando lo riteniamo superiore a quanto l'uomo è capace di
pensarne» (CG, I, 5). Dio, dunque, possiede l'atto dì essere in tutta la
sua virtualità, per cui non gli può mancare alcuna perfezione, mentre gli
enti finiti e creati 10 ricevono per partecipazione in misura parziale e
imperfetta (cfr. CG, I, 28). Perciò Egli è l'intera perfezione dell'essere
(cfr. S.th., I, q. 4, a. 2), il sommo bene, cioè 11 bene totale ed
esaustivo, che non lascia fuori di sé alcuna positività.
Ecco
perché «in Dio soltanto consiste la felicità dell'uomo»; infatti quel
bene universale, totale, che, solo, può appagare la volontà umana e il suo
desiderio, «non si trova in alcun bene creato, ma solo in Dio: poiché ogni
creatura ha una bontà partecipata. Perciò Dio soltanto può appagare la
volontà dell'uomo, secondo quanto si dice nel Salmo (CG, 5): "Egli,
che sazia di beni il tuo desiderio"» (S. th., I-II, q. 2, a. 8). Ma
se, come abbiamo visto, l'uomo tende al bene (e il bene è compreso in primo
luogo come meta di questo tendere, di questo desiderio), è chiaro che lo
sceglie come fine del suo agire, «... è evidente che il bene implica il
carattere di fine» (S.th., I, q. 5, a. 4). D'altra pane il fine è voluto
in quanto bene, poiché «il fine di una realtà è il termine cui essa
tende quando è lontano e in cui si acquieta quando lo possiede» (CG, III.
16).
Dunque
il fine cui l'uomo tende e il bene coincidono nella realtà, anche se
concettualmente si distinguono. Perciò si può indagare sul dinamismo
dell'agire umano, considerando sia il bene che il fine. Per quanto riguarda
quest'ultimo, bisogna dire che ogni agente agisce per un fine (cfr. S.th.,
I-II, q. 1, a. 2); se, infatti, chi agisce non tendesse a un effetto
determinato (fine), tutti gli effetti gli sarebbero indifferenti, ma allora
non agirebbe (cfr. ibid. e CG, III, 2). Ora, gli esseri dotati di
intelligenza, come gli uomini, i quali agiscono in virtù di essa e della
volontà, che segue la conoscenza secondo un libero giudizio (cfr. S.th.,
I-II, q. 26, a. 1), tendono al fine in maniera peculiare. Perché agiscono
prefigurandosi e prefiggendosi nel pensiero, con una valutazone e una scelta
tra diverse possibilità, ciò che mirano a raggiungere nell'azione (cfr. CG,
III, 2), essendo, in tal modo, padroni dei propri atti in virtù del libero
arbitrio, che è «una facoltà della volontà e della ragione» (S.th.,
I-II, q. l,a.2).
L'uomo,
nella vita concreta, si trova continuamente di fronte a delle scelte e per
lo più non può non scegliere, almeno di fatto, anche se volesse non
scegliere. Per esempio, di fronte al bisogno dell'altra persona la pretesa
non scelta o indifferenza è in realtà la scelta di non aiutarla.
Scegliere
significa preferire un bene invece di un altro, un fine invece di un altro.
Alla radice dell'agire c'è il fine che uno si propone di raggiungere; il
fine è il primo nell'intenzione dell'agente e, come tale, causa gli atti
umani, perciò ne specifica la natura ed è il criterio in base a cui si
possono valutare. Il fine, dunque, ha la dimensione di causa (cfr, S.th.,
I-II, q. 1, a, 1, ad 1). la causa finale, appunto, che «è la prima dì
tutte le cause» (S.th., I-II,q. l,a.2).
Perciò
il fine ha un'importanza decisiva nel campo morale, essendo il principio
degli atti umani in quanto umani (cfr. S.lh., I-II, q. 1, a- 3), cioè di
quegli atti di cui l'uomo è padrone, come essere intelligente e libero, e dì
cui ha la responsabilità. Sì tratta proprio di quegli atti di cui si
occupa la riflessione etica.
9.
Il fine supremo: problema decisivo e ineludibile
Ma
noi non viviamo le nostre azioni come separate, irrelate l'una dall'altra, e
quindi nemmeno i fini delle azioni sono senza relazioni tra di loro, anzi in
genere perseguiamo dei fini intermedi che sono considerati dei mezzi per
altri fini e così via, fino ad arrivare a un fine ultimo a cui tutto si
subordina. Infatti non solo scegliamo i fini delle singole azioni, ma anche
un certo ordine di priorità tra i diversi fini, per cui alcuni sono visti
come più importanti, altri meno, uno è perseguito in funzione di un altro
e quest'ultimo in funzione di un altro ancora e così via, fino ad arrivare
a un fine che è considerato come supremo, che è voluto per sé e non per
un altro e in funzione del quale sono perseguiti tutti gli altri fini. È
come la meta. che muove a intraprendere il cammino, ne segna la direzione
fissandone le tappe, gli obiettivi intermedi, e che, una volta raggiunta, ne
costituisce il termine in cui si quieta la tensione operativa. Perciò
questo fine in un certo senso è ultimo, in un certo senso è primo. È
ultimo perché si raggiunge dopo tutti gli altri fini, voluti come mezzi per
conseguirlo, in quanto è (o è ritenuto) il termine in cui si appaga il
desiderio e si placa la tensione operativa; è ultimo, quindi, anche perché
una volta raggiunto non c'è nessun altro fine da perseguire e perciò è
voluto per se stesso e non in vista di un qualsiasi altro. Tommaso dice, però,
che è ultimo nell'ordine di esecuzione, ma è il primo secondo l'ordine di
intenzione, perché è voluto prioritariamente e costituisce il principio
che muove tutto il comportamento di un uomo; è per tendere a esso che si
mette in moto tutto il dinamismo dell'agire (cfr. S. th., I-II, q. l,a-4).
Qui
non si tratta di un problema che interessa solo pochi addetti ai lavori, o
di un'astrazione intellettualistica o di un'evasione erudita, si tratta
della questione decisiva dell'esistenza (che è la stessa questione del
sommo bene vista da un'altra prospettiva): per quale fine impegno tutta la
mia vita, in quanto lo ritengo il sommo bene? Infatti «un uomo desidera e
persegue come fine ultimo ciò a cui tende come a un bene perfetto e capace
di realizzare se stesso pienamente (completivum sui ipsius), poiché
ogni cosa tende alla sua perfezione... Bisogna, dunque, che il fine ultimo
soddisfi talmente ogni desiderio ed esigenza dell'uomo, da non lasciare
niente da desiderare e da ricercare all'infuori di esso» (S.th., I-II, q.
1, a. 5).
Con
il fine ultimo siamo di fronte a un problema talmente concreto ed
esistenzialmente ineludibile che coinvolge il senso e la direzione di tutta
la vita; si tratta di vedere se è il fine che merita veramente di essere
considerato come supremo, se soddisfa l'apertura infinita del desiderio che
ci costituisce o la delude, se permette di conseguire il pieno adempimento
dell'esistenza dell'uomo, oppure se la conduce al fallimento e al naufragio.
Il fine ultimo è una realtà così concreta nella vita umana da impegnarla
in tutte le sue dimensioni: in quella razionale, in quella
corporeo-sensibile, in quella volitivo-affettiva, in quella etico-pratica («Ciò
in cui uno stabilisce il suo ultimo fine domina totalmente l'affetto di un
uomo: poiché da esso questi prende la norma di tutta la sua vita», S.th.,
I-II, q. 1, a. 5, Se.). Esso comanda le singole azioni, i desideri e gli
amori particolari: «... tutto ciò che l'uomo desidera e persegue, lo vuole
per il fine ultimo» (S. th., I-I, q. 1, a. 5, Sc).
Abbiamo
detto che il fine ultimo è un problema e una realtà. È il problema
fondamentale della vita, la cui realizzazione dipende dal riconoscere, amare
e raggiungere quel bene che è tale da meritare di essere considerato come
il fine ultimo, e invece il fallimento dipende dal misconoscerlo, dal
voltargli le spalle, per rincorrere beni parziali, illusori e, in
definitiva, deludenti.
Ma
il fine ultimo è una realtà ineludibile, nel senso che inevitabilmente
ogni uomo ha un fine, che, almeno di fatto, con le sue scelte, considera e
vive come supremo e, per conseguirlo, gli subordina tutto il resto, con una
tensione, con un impegno non privi di lotte, di rinunzie e di sacrifici. In
questo senso, quel bene che un uomo vive come U suo fine ultimo è
l'assoluto per quell'uomo.
Ma,
si dirà, come si può attribuire un fine ultimo – e quindi un bene
supremo, un assoluto - anche a chi è fermo a posizioni scettiche,
agnostiche, o comunque ben lontane da ogni approdo veritativo, magari
secondo gli orientamenti del più aggiornato pensiero debole?
Lasciando
qui da parte la discussione e valutazione sul piano teoretico,25 bisogna
dire che queste posizioni possono essere sostenute teoricamente, nei
discorsi, nei libri, ma non possono essere vissute nella vita concreta.
Siamo imbarcati, come diceva Pascal, e nel mare della vita ci troviamo di
fronte a scelte inevitabili, per cui non possiamo non prendere posizione. E
quindi nella pratica, nella vita vissuta, l'agnosticismo, in tutte le sue
possibili forme, svanisce come una bolla di sapone.
Infatti
uno può dire di non conoscere il vero, o di non sapere qual è il bene e
qual è il male, o può negarne la differenza o può pretendere di essere al
di là del bene e del male, ma poi, scegliendo, pone il valore e il
disvalore, almeno implicitamente valuta una realtà come da preferire
rispetto ad altre. Anzi, con l'ordine e la finalizzazione delle sue scelte,
ognuno valuta una realtà come più importante di tutte le altre; anche se
non lo dice in teoria, le sue scelte manifestano inequivocabilmente che
quella realtà è per lui il bene supremo, Ciò che, magari, non dice con le
parole, che possono non essere fedeli alla realtà vissuta, lo dice in modo
molto più realistico e sincero con la vita, con la tensione effettiva del
proprio desiderio e del proprio operare, con le opzioni concrete che
costruiscono gradualmente e progressivamente la personalità, definendone
l'identità. Ciò non vuoi dire che una volta posto un certo fine ultimo non
si possa cambiare o non si cambi effettivamente, non vuoi dire che non ci
possano essere delle incoerenze o dei comportamenti contraddittori rispetto
alla direzione verso quel certo fine.
Ma
anche in questi casi si ha un fine ultimo: quando un uomo agisce
incoerentemente o in un senso contrario rispetto al fine ultimo già posto,
vuoi dire che in quel momento, in quell'atto o in quei determinati atti,
agisce per un altro fine, considerato, almeno implicitamente, come ultimo e
supremo. A chi poi sostenesse di attenersi alle proprie scelte casuali,
momentanee, mutevoli, chiuse nell'immediatezza, senza prospettive più
ampie, si può far rilevare che, in tal modo, considererebbe, di fatto, come
fine ultimo il soddisfare il proprio capriccio immediato e mutevole. I/uomo
può certamente tentare di sopraffare e mortificare la ragione rinunziando
al suo esercizio, ma non può mai sbarazzarsene del tutto; essa
inevitabilmente riaffiora e fa sentire le sue istanze.
E
la ragione va sempre oltre l'immediatezza del momento e del sentire.
Dunque,
per quanto ciò possa suonare sorprendente o sgradito a certe orecchie, ogni
uomo ha un fine ultimo, per conseguire il quale si impegna, si affatica, fa
delle rinunzie e dei sacrifici; ogni uomo, sia il devoto che il libertino,
sia chi si sforza di crescere nell'ordine etico, sia chi teorizza o pratica
la trasgressione. Per esempio: che pone al primo posto nella sua vita il
piacere, fino a strumentalizzare per questo fine l'altra persona,
trattandola, perciò, come una cosa, cioè reificandola, si priva
dell'esperienza dell'amore donativo, dell'incontro autenticamente
interpersonale come comunicazione con il mondo interiore dell'altro. Qui,
cioè. la trasgressione dell'ordine morale per inseguire il piacere non è
liberazione da ogni vincolo, ma è asservimento alla legge necessaria della
pura istintività, con la conseguente mortificazione della dimensione
intellettivo-volitiva, che tende a un bene più grande della particolarità,
precarietà e breve durata della soddisfazione sensibile. Il piacere, in
quanto considerato come fine supremo, si rivela come un padrone così
tirannico da rinchiudere l'uomo nell'egoismo e cosi bugiardo da non
mantenere ciò che promette, fino a condurre anche all'autodistruzione, per
esempio attraverso la droga.
Analogamente
chi pone il proprio fine supremo nel denaro, o comunque nel possesso dei
beni materiali, rinunzia a tante possibilità di crescita della propria
persona per poter accumulare, e arriva a calpestare i diritti e perfino la
dignità e la vita dell'altro uomo.
C'è
poi chi ritiene di poter conseguire la felicità ponendo il proprio fine
ultimo nel potere, nella gloria, oppure negli onori. Sarebbe interessante
seguire Tommaso nell'analisi di questi beni parziali, posti di fatto dagli
uomini come fini ultimi e destinati a condurre non alla felicità, ma
all'infelicità (cfr. S.th., I-II, q. 2). perché non sono il bene sotto
ogni aspetto (cfr. QDM, q. 6, ad 7), il bene totale, verso cui tende il
desiderio peculiare della volontà della persona. Ma quell'analisi si può
ritrovare, vista da una diversa prospettiva, nell'indagine sui vizi.
10.
Il male morale come inganno e fallimento. La sfida
di Nietzsche
In
tal modo comincia a delinearsi la natura del male morale nella sua radice:
«Coloro che peccano si allontanano da quel bene in cui realmente si trova
l'essenza (ratio) del fine ultimo: ma non mancano della tensione al fine
ultimo, che ricercano, ingannandosi, in altre realtà» (S.th., I-II, q.l,
a, 7, adi).
In
questo senso nel peccato c'è una contraddizione falsificante perché si
tratta - e si desidera, si persegue - come assoluto ciò che non lo è; in
conseguenza in esso si verifica anche l'inganno, perché la promessa di
appagare il desiderio umano viene delusa. Infatti niente di finito può
quietare il desiderio che scaturisce dall'intelligenza che è peculiare
nell'uomo (cfr. CG, III, 50), ovvero: «... l'illimitato appetito di felicità
della volontà.,, non può essere saziato da nessun oggetto parzialmente
buono»,26 come argomenta Tommaso anche nella sesta delle Questioni
disputate sul male.
Pertanto
«peccare è mancare (deficere) alla perfezione dell'atto» (S.th.,
I, q. 25, ad 2); l'atto peccaminoso è un atto gravemente carente, perché
incapace strutturalmente di conseguire il fine dell'uomo. Nonostante
l'apparenza di positività, il peccato è essenzialmente carenza, difetto,
mancanza, incapacità come tradimento del desiderio che lo muove.
Il
male morale nella sua reale gravita, che per Tommaso è il peccato «mortale»,
come peccato nel senso preciso del termine,27 assolutizza dei beni
particolari corruttibili e transitori trattandoli come supremi, come fini
ultimi (cfr. QDM, q. 13, a. 1, ad 7; a. 2. ad 1), mentre in realtà essi
possono soddisfare momentaneamente solo qualche appetito, ma non il
desiderio dell'appetito intellettivo che è la volontà.
In
questo senso il vizio, in opposizione alla virtù, consiste nel misconoscere
la ragione con l'appetito che da essa scaturisce: «la virtù si compie in
conformità con la ragione, il vizio invece, si realizza secondo
l'inclinazione dell'appetito sensitivo» (QDM, q. 13, a. 3, ad 1).
Ma
considerare un bene parziale come bene supremo e come fine ultimo implica
mancare il conseguimento del vero bene supremo, che è anche il vero fine
ultimo, nella privazione dell'ordine che conduce a esso (cfr. CG, III, 9).
Qui è la vera natura del male morale, in questo fallimento, in questo
mancare il fine. Infatti il peccato ha due aspetti: l'avversione (aversio),
cioè il voltar le spalle, l'allontanarsi, l'abbandonare il bene immutabile,
in quanto increato, perfetto, totale (cfr. S.th., 11-11, q. 162, a. 6; QDM,
q. 8, a. 12, ad 1), cioè Dio; e il rivolgersi, l'aderire, il perseguire (conversio)
un bene mutevole, parziale, creato. Dei due aspetti il primo (l'aversio) è
quello formale o essenziale,
costitutivo (S.fh., 11-11, q. 162, a. 6) e principale (S.th., II-II, q. 162,
a. 7), mentre il secondo è quello materiale (S.th., 11-11, q. 162, a. 6).
Questo significa che nel male morale ciò che lo fa tale è proprio il
voltar le spalle e, quindi, il non raggiungere, il mancare il fine ultimo
che è il sommo bene.
Il
rivolgersi al bene creato e parziale è negativo in quanto implica (e se
implica) l'abbandono del bene sommo e increato, che è il fine ultimo da cui
dipende la rettitudine dell'agire, cioè la sua giusta direzione e il suo
giusto senso: se si cammina, con il proprio operare, verso di esso, si va
verso l'adempimento, se, invece, ci si allontana da esso, si va verso il
fallimento. Perciò, il vero fine ultimo, che «si deve porre in Dio solo»
(QDM, q. 14, a. 2, ad 12), «ci rende felici» (QDM, q. 14, a. 2. ad 10).
Dunque l'ordine che dirige gli atti umani, cioè l'ordine morale, ha la sua
ragion d'essere nel tendere consapevole di un essere razionale, come l'uomo,
verso il fine ultimo. Si tratta di dirigere, con un governo politico, non
dispotico, tutte le potenze dell'uomo verso il fine ultimo: «... la ragione
comanda all'irascibile e al concupiscibile, come dice il Filosofo nella
Politica (I, 1254 b 5-6), con un governo regale o politico, che si rivolge a
esseri liberi. E perciò l'irascibile e il concupiscibile possono anche
opporsi all'ordine della ragione, come i liberi cittadini tal- volta si
oppongono al comando del principe» (QDM, q. 3, a. 9, ad 14).
Un
governo non dispotico quello della ragione, perché solo quell'ordine, lungi
dal reprimerle, consente l'adempimento di tutte le potenzialità dell'uomo,
secondo la loro più profonda intenzionalità.
La
direzione verso il fine ultimo permette di valutare ogni atto umano e di
capire se è positivo o negativo: in questo senso «principio di tutto
l'ordine morale è il fine ultimo» (S.th., 1-11, q. 72, a. 5) e quindi «la
rettitudine della volontà consiste nel debito ordine verso l'ultimo fine»(S.th.,I-II,q.4,a.4).
Dunque
siamo agli antipodi di quella scissione e, addirittura, di quella
opposizione tra felicità e dovere morale che si sono andate affermando
nella modernità e che hanno condotto alla crisi attuale dell'etica. Nella
prospettiva tommasiana, le norme dell'ordine etico si giustificano in vista
del telos, come fine e compimento dell'uomo: «Capire che
l'applicazione delle norme fa parte dell'esercizio delle virtù significa
capire lo scopo per cui si deve obbedire alle norme, proprio per il fatto
che l'esercizio delle virtù costituisce il genere di vita nella quale
soltanto il telos dell'uomo può essere perseguito».(28) Invece,
qualora quelle norme «venissero private del loro compito di definire e di
costituire un'intera condotta di vita, rimarrebbero una serie di proibizioni
arbitrarie, come troppo spesso purtroppo sono state ridotte in tempi recenti».(29)
L'obbligazione
che riguarda l'agire dell'uomo, in tanto non è immotivata, arbitraria,
repressiva, in quanto è legata al suo fine ultimo. In vista del pieno
compimento di sé l'uomo può capire che i suoi atti debbano essere
ordinati, debbano seguire certe norme, appunto per raggiungere quel fine.
Scegliere secondo le norme etiche significa anche rinunciare (30) a qualcosa
che si può presentare come desiderabile. Ma la rinuncia può essere
comprensibile e accettabile solo come momentanea e per il conseguimento
della pienezza della vita.
Come
si vede, seguendo il pensiero tommasiano si può raccogliere la sfida
lanciata da Nietzsche ai «giudizi di valore: buono e cattivo» e, quindi, a
tutto l'ordine etico, quando si è chiesto: «... quale valore hanno in se
stessi? Fino a oggi hanno essi intralciato o promosso il felice sviluppo
umano? Sono un segno di angustia estrema, d'impoverimento, di degenerazione
vitale? Oppure, vice- versa, si rivela in essi la pienezza, la forza, la
volontà della vita, il suo coraggio, la sua sicurezza, il suo avvenire?».(31)
Nella
prospettiva tommasiana la questione è decisiva e muove tutta la ricerca
morale, che conduce a una risposta non equivoca, perché in essa l'ordine
etico porta (cfr. CG, III, 48) alla «vera felicità», che non c'è senza
che «l'uomo abbia la convinzione certa di non dover mai perdere il bene che
possiede» (S.th., I-II. q. 5, a. 4).
Perché
per Tommaso non è «onnipotente» (32) la morte, ma è onnipotente la vita
nella sua Fonte inesauribile. La morte non è l'ultima parola sulla vita
umana, quasi fosse «assoluta», come vorrebbero alcune posizioni
filosofiche, giudicate da Adorno assurde e contraddittorie. (33)
Dunque
l'ordine morale è a servizio della felicità, è finalizzato alla piena
realizzazione della vita della persona. Ora, il male morale, come
trasgressione di quell'ordine, ostacola più o meno gravemente il
conseguimento di quel fine; è, quindi, una condizione patologica del volere
e dell'agire, è debolezza, defectum, nel senso di mancanza, deficienza,
rispetto alla perfezione dell'atto (cfr. S. th.,I-II,q.55.a.3).
Il
male morale si denomina peccato, se ci si riferisce alla singola azione, e
vizio, invece, se ci si riferisce all'abito, alla disposizione ad agire
disordinatamente e contro la virtù, che è la disposizione ad agire bene,
cioè secondo l'ordine che conduce al fine ultimo. Questo peccato, come «male
dell'anima», cioè dell'uomo in quanto essere intelligente e libero, è un
prescindere dalla ragione (cfr. QDM, q. 14, a. 1), è trasgredire la sua
regola (perché «la ragione dirige tutto in base al fine», QDM, q. 12, a.
3, ad 8) rifiutando, così, e distruggendo l'ordinazione al fine ultimo. Ma
tutto ciò è contro la natura dell'uomo (cfr. QDM, q. 14, a. 2, ad 8),
perché ciò che caratterizza peculiarmente l'uomo è la ragione (cfr. QDM,
q- 2, a. 4). Molteplici sono le aberrazioni e le abiezioni a cui il
disordine del vizio conduce - e Tommaso ne da un'immagine realistica
analizzando «le figlie», le conseguenze, gli ulteriori vizi che
scaturiscono dai vizi capitali - ma si può dire, con la nuova «arte
critica» vichiana, che tutte hanno le loro radici nella «superbia di
spirito» o nella «viltà di Corporali piaceri».34 La «superbia di
spirito» è il contrario dell'adesione alla verità e al bene, essendola
pretesa, da parte del soggetto, di disporne secondo la propria presunta
superiorità. È quindi una forma di accecamento che sostituisce alla realtà
della propria condizione il frutto delle proprie escogitazioni.
La
«viltà di corporali piaceri», in quanto sottomissione dell'intelligenza
agli appetiti della sensibilità, è rinuncia, perciò vile, al desiderio
infinito della mente e del cuore dell'uomo e, quindi, alla felicità, che la
persona può conseguire solo nell'adesione all'infinito.
11.
L'ordine dell'amore. Originalità dell'etica razionale di Tommaso
rispetto a quella di Aristotele
Dunque
l'ordine etico è anche ed essenzialmente «ordine dell'amore (ordo
amoris)» (QDM, q. 11,a. 1,adi),perché scaturisce dall'amore al bene ed
è finalizzato a preservarlo da ogni possibile corruzione e capovolgimento
nel suo opposto.
Ora
l'amore è fondamentale nella considerazione degli atti umani e tutto quello
che abbiamo detto sulla volontà e sul desiderio si può riferire in un
certo senso anche all'amore.
Perché
«vi sono degli atti della volontà e dell'appetito, che riguardano il bene
sotto una speciale condizione: così la gioia e il piacere riguardano il
bene presente e posseduto; il desiderio e la speranza un bene non ancora
posseduto. L'amore, invece, riguarda il bene in generale, posseduto o non
posseduto. Perciò l'amore naturalmente è il primo atto della volontà e
dell'appetito. Ed è per questo che tutti gli altri moti dell'appetito
suppongono l'amore come prima radice» (S.th., I, q. 20, a. 1). E tutte le
affezioni dell'anima scaturiscono dall'amore (cfr. QDM, q. 10. a. 1, ad 10).
Perciò
è di importanza decisiva che l'amore sia ordinato, perché può essere
rivolto a dei beni apparenti, cioè a dei beni che sono tali solo per un
certo aspetto, oppure al bene totale e sotto tutti gli aspetti (cfr. QDM, q.
11, a. 1). Come abbiamo visto per il fine ultimo, l'ordine non può che
derivare dalla regola della ragione che orienta al vero fine ultimo che è
il sommo bene. È da questo amore di dilezione (frutto, cioè, non
semplicemente dell'istinto o del sentimento, ma frutto di una elezione, cioè
di una scelta consapevole della volontà, cfr. S.th., I-II, q. 26, a. 3) che
dipende tutta la morale, perché «ogni affezione della virtù deriva da
qualche amore ordinato e similmente ogni affezione del peccato deriva da
qualche amore dirazionale a superarsi nell'amore di amicizia. Infatti, per
l'uomo, amare Dio in funzione di sé significa, in realtà. non amarlo,
significa considerare e amare sé come fine
ultimo
e sommo bene e, quindi, non riconoscere-e amare Dio come Dio, ma
considerarlo come un bene strumen- tale e quindi parziale, non come il bene
infinito e per essenza. Ma solo Dio, che è il sommo bene e la fonte di ogni
bene, è massimamente degno di essere amato per se stesso, cioè con un
amore di amicizia, secondo il quale «chi ama è nell'amato in quanto
considera il bene... dell'amico come suo proprio...» (S.th., I-II, q. 28,
a. 2).
E
considerare il bene che è Dio come bene proprio, significa per l'uomo
liberarsi della prigionia della propria finitezza, aderendo all'Essere
infinito e compiacendosi di Lui.
Come
si vede qui si intende il significato più profondo del fatto che l'impegno
etico è proprio dell'uomo in quanto è tensione al bene, scoperto dalla
riflessione razionale. conosciuto dall'intelligenza.
L'indagine
dell'Aquinate riconosce che l'etica, proprio in quanto razionale,
filosofica, è teocentrica.
Proprio
nelle pagine che qui presentiamo l'Aquinate rileva con tutta chiarezza che,
nonostante i suoi molteplici limiti e la fragilità morale della sua natura
ferita, «l'uomo con la sua ragione naturale giudica il bene della virtù e
lo ama e ne gode, anche se non ha la virtù» (QDM, q. 15, a. 2, ad 5).
Conviene sottolineare l'importanza di queste parole, perché se ne ricavano
dei corollari notevoli proprio ai fini di una corretta interpretazione del
pensiero tommasiano.
Innanzitutto,
anche nell'ambito dell'analisi sui vizi e, quindi, sul male morale, sul
disordine disumanizzante in cui l'uomo concreto, storico cade, Tommaso
ribadisce che non è spenta in lui la capacità di riconoscere, amare e
godere del bene dell'agire virtuoso, dell'agire secondo l'ordine etico.
Dunque,
nonostante la ferita del male, è possibile per l'uomo una riflessione
razionale, filosofica sul proprio agire, a cui non è precluso un approdo
veritativo. Non si tratta certo di una conoscenza totale ed esaustiva, ma
che, tuttavia, contiene degli orientamenti fondamentali, quali quelli che
stiamo richiamando in queste pagine, al- la luce dei testi dell'Aquinate.
Nei quali, dunque, c'è, pur in un contesto teologico, un'etica filosofica,
razionale, basata cioè su ciò che la ragione riesce a scoprire con le sue
forze naturali.
Ma
riconoscere e amare il bene della virtù, significa aprirsi all'amore di
amicizia per il bene sommo e perciò, se non altro per questo motivo, certo
non secondario, l'etica filosofica tommasiana non coincide affatto con
quella dì Aristotele (anche se ha molto da imparare da lui), perché la
prospettiva sostanzialmente antropocentrica di quest'ultimo (per il quale la
tensione dell'agire è mossa solo da un amore di concupiscenza) è
rovesciata dall'Aquinate, che vede l'essere e l'agire dell'uomo radicati
teocentricamente. E in questa luce tutta la prospettiva etica cambia.
Il
Mac
Intyre rileva che «S. Tommaso capovolge contro Aristotele i criteri per la
scoperta del bene ultimo a cui Aristotele stesso si era appellato, e li usa
per mostrare che, in primo luogo il bene ultimo deve trovarsi nel rapporto
dell'anima con qualcosa che si trova fuori di essa e, a seguire, che il
genere di bene in questione non è riscontrabile in alcuna realtà di questo
mondo». (36)
Se
dunque l'etica è per l'Aquinate ordo amoris (ordine dell'amore) ciò
significa anche che essa nasce, ha fondamento e senso nella chiamata
personale, rivolta a ciascun essere umano, a vivere nell'amore donativo, da
parte dell'amore gratuito e generoso di Dio.
12.
Vizi, disumanizzazione e virtù
Ora,
l'analisi tommasiana dei vizi capitali è una conferma e una verifica
(specie per chi fosse vittima di un ottundimento nella capacità di cogliere
e di amare il bene), per via
negativa, della prospettiva morale che abbiamo cercato di delineare.
Infatti
proprio nei vizi si toccano con mano, si sperimentano direttamente le
conseguenze disumanizzanti, con abissi spesso inenarrabili di sofferenza e
di disperazione, del rifiuto dell'ordo amoris. Di queste conseguenze
abbiamo una rappresentazione realistica e non edulcorata in quelle che
Tommaso chiama le figlie dei vizi capitali, cioè gli altri comportamenti
aberranti e viziosi che da essi scaturiscono. Per esempio, le figlie
dell'avarizia sono: il tradimento, la frode, la menzogna, lo spergiuro,
l'inquietudine, le violenze e l'indurimento del cuore contro la
misericordia, cioè nei confronti del bisogno altrui (cfr. QDM. q. 13, a.
3); e quelle dell'ira sono: la tracotanza, gli insulti, il clamore,
l'indignazione, la bestemmia, le risse, «nelle quali è incluso tutto ciò
che ne consegue, come lesioni, omicidi e cose di tal genere» (QDM, q. 12,
a. 5).
Come
si vede, la disumanizzazione, conseguente ai vizi capitali, riguarda,
secondo aspetti e modi diversi, sia il soggetto che li segue che le persone
con cui entra in relazione.
Il
soggetto che segue uno dei vizi capitali volta le spalle al fine ultimo e
così tradisce e delude la tensione della mente e del cuore alla felicità.
Ma
con ciò, proprio rifiutando l'ordo amoris, che è, poi. la regola
della ragione, introduce un disordine sia nelle proprie potenze e facoltà,
per cui, per esempio, la ragione si subordina all'appetito sensibile, sia
nel considerare la dignità degli esseri con cui entra in relazione, per
cui, per esempio, antepone le cose alle persone e tratta queste ultime come
strumenti, con un atteggiamento comunque reificante. Questa pretesa di
trattare gli altri come cose ha un costo umano molto elevato, con lacrime e
sangue; e sarebbe troppo facile esemplificare a partire dall'esperienza
quotidiana di ciascuno, dalla cronaca e dalla storia.
Ma
chi ama disordinatamente le cose (o le persone considerate e trattate come
cose) come fini supremi, con ciò inaridisce e reifica il proprio cuore e la
propria intelligenza, con un atteggiamento autolesionistico calpesta la
propria dignità, perché «... l'amore trasforma l'amante nell'amato, in
quanto a causa dell'amore l'amante è mosso verso la realtà amata» (QDM,
q. 6, ad 13; cfr. S.//t.,I-II,q.26,a.2).
Il
disastro che il vizio provoca nella vita dell'uomo emerge anche se si
considera che esso è una disposizione opposta alla virtù. La quale è di
importanza non secondaria per attuare, nella concretezza dell'agire, l'ordo
amoris, la volontà del fine.
Questo
ruolo decisivo della virtù per la rettitudine della deliberazione e della
scelta nei casi particolari, e addirittura singolari, su cui vertono le
azioni, si riscontra nella matura riflessione etica tommasiana. (37) Infatti
per la rettitudine dell'agire non sono sufficienti (anche se sono necessari)
ne i principi universalissimi, noti per natura (come: «nessun male è da
fare») e nemmeno la scienza pratica (cfr. S.th., I-II, q. 58, a. 5), cioè
la conoscenza dei principi e delle norme (inevitabilmente generali)
dell'ordine morale.
Giacché
«la scienza dell'universale non è principio di un qualche atto, se non in
quanto si applica al caso particolare: perché gli atti riguardano i casi
particolari» (QDM, q. 3. a. 9).
Facilmente
può capitare che i princìpi universali, conosciuti attraverso
l'intelligenza o attraverso la scienza, cioè la ricerca razionale, siano
corrotti e compromessi a causa di qualche passione, quando si tratta di
valutare e di orientarsi nei concreti casi particolari: «così a chi è
dominato dalla concupiscenza sembra buono quello che desidera, sebbene sia
contrario al giudizio universale della ragione» (S.th., MI. q. 58, a. 5).
Ciò
vuoi dire che uno può sapere cosa è bene in generale e conoscere anche le
norme (inevitabilmente universali, perché riguardanti non semplicemente dei
singoli casi particolari) dell'agire, ma poi a causa di qualche passione, può
agire male identificando il bene per sé e nella concretezza della sua
situazione, con qualcosa che non lo è, perché è contrario all'ordo
amoris, alla regola della ragione. Il goloso, magari, sa che è male
mangiare un cibo che gli danneggia la salute, ma poi, nella circostanza
concreta in cui se lo trova davanti come squisito, appetibile per il gusto,
a causa della brama del piacere, misconosce quella valutazione razionale e
anzi la rovescia nell'agire concreto, mangiandolo e giudicandolo così,
almeno implicitamente, come un qualcosa di buono e con veniente.
Cioè,
un qualcosa che non è buono e conveniente può apparire tale perché si
presenta come ciò che soddisfa il desiderio, condizionato e dipendente
dalla passione sregolata. Che quel bene poi non sia veramente tale (perché
lo è solo per un certo aspetto) il goloso se ne accorge quando, per
esempio, vede che danneggia la sua salute.
La
ragione valuta il bene della salute da preferire al bene del piacere
passeggero (cfr. QDM, q. 6), ma, nel in cui uno agisce sotto l'impulso della
passione, l'uso della ragione è impedito e quindi il suo giudizio è messo
da parte: «la passione oscura o anche lega il giudizio della ragione» (QDM,
q. 3, a. 11).
Di
qui l'importanza delle virtù morali, nelle quali l'uomo, governando le
passioni, è in grado di cogliere e perseguire rottamente i fini dell'agire:
«così per essere ben disposto rispetto ai principi particolari dell'agire,
e cioè ai fini, è necessario l'acquisto di alcuni abiti, in forza dei
quali diviene connaturale per lui giudicare rettamente del
fine. E questo è il compito delle virtù morali... Dunque per avere
la retta ragione nelle azioni da compiere, cioè la prudenza, si richiede
che uno possieda le virtù morali» (S.th.,I-II,q.58,a.5).
In
proposito Tommaso cita spesso l'affermazione di Aristotele: «quale è
ciascuno, tale anche gli appare il fine»,38 per sostenere che il nostro
cogliere e perseguire il fine. nella concretezza dell'agire, dipende anche
dal nostro essere con certe disposizioni acquisite, virtuose o viziose: «la
volontà dell'uomo adirato e quella dell'uomo calmo si muovono diversamente
verso un qualche obiettivo, perché non è lo stesso l'oggetto conveniente
(cioè che soddisfa il desiderio) per l'uno e per l'altro» (QDM, q-6).
Il
giudizio di chi, in un singolo atto o abitualmente, si lascia accecare dalla
passione è falso, pretende di conoscere ciò che in realtà non conosce: il
proprio bene. Questo lo si conosce con la retta ragione, favorita, nel suo
esercizio, dalle disposizioni virtuose.
Di
qui l'importanza della virtù come abito (habitus), come buona disposizione,
purché non la si confonda con l'abitudine come determinazione a un solo
oggetto o a un solo modo di operare (cfr. Sent, d. 23, q. 1. a. 1). Al
contrario «rispetto all'infinita varietà delle azioni singole la buona
disposizione dovrà rimanere aperta a concretizzazioni diverse, duttile,
pronta alle sorprese, ai cambiamenti... {'habitus è... il potenziamento
delle facoltà spirituali o educabili dallo spirito che abilita l'individuo
a rimanere perfettamente uomo. per quanto a lui possibile, nel turbinio
delle circostanze della vita».(39)
A
questo punto, in base a una prima superficiale considerazione, potrebbe
sembrare che nel discorso tommasiano ci sia un circolo vizioso, perché, da
un lato, per agire bene l'uomo deve essere virtuoso e, d'altra parte, la
virtù si acquisisce agendo bene. Sembrerebbe impossibile divenire virtuoso
per chi già non lo è.
In
realtà il circolo vizioso non sussiste perché l'uomo, anche se non
possiede ancora la virtù, con la sua intelligenza, con la sua ragione e con
la sua volontà può conoscere i primi principi morali universali, può
scoprire l'ordine etico e amare il bene a cui esso è finalizzato. Può,
quindi, cominciare ad agire bene avviandosi ad acquisire le virtù morali.
13.
I vizi e il problema del male
Qui
non possiamo affrontare l'ardua e complessa tematica del male nella sua
dimensione metafisica. Speriamo di poterlo fare in altra occasione, magari
presentando le questioni disputate sul male che precedono quelle qui
tradotte.
Bisogna
comunque sottolineare che l'analisi dei vizi conferma e corrobora, in sede
morale, la visione tommasiana del male.
E
in questa prospettiva è interessante leggere le pagine che seguono. Anche
nei peccati e nei vizi non è mai il male come pura negatività (che, in
quanto tale, non esiste e non può certo indurre a operare) a muovere
all'agire o a spingere a certi comportamenti, anche emissivi, ma è sempre
un aspetto di bene, presente in qualsiasi realtà, è sempre un bene, male
inteso, apparente, perché
parziale
e considerato falsamente come totale, perché perseguito disordinatamente,
cioè contro o fuori dall'or- dine che conduce al fine ultimo e, quindi,
tale da impedire di volere altri beni e addirittura il bene sommo. Ma ecco
la chiara spiegazione tommasiana che si avvale dell'anaiisi di situazioni e
di scelte concrete: «se capita che un uomo voglia tanto fruire di un
piacere, per esempio del- l'adulterio o di qualunque cosa appetibile di tal
genere, da non evitare di incorrere nella deformità [come contrarietà alla
debita forma, alla propria natura] del peccato che avverte essere congiunta
al bene che vuole, si dice non solo che vuole quel bene che vuole
prioritariamente, ma anche la stessa deformità, a cui sceglie di consentire
per non essere privato del bene bramato. Onde l'adultero vuole il piacere
principalmente e vuole in secondo luogo la deformità...» (QDM,
q. 3, a. 12).
Ciò
evidenzia che «nessun uomo che agisce mira al male, volendolo
principalmente, ma tuttavia, come conseguenza, il male risulta voluto da uno
quando non evita di incorrere nel male, per godere del bene bramato» (QDM,
q. 3, a. 12. ad).
In
tal modo Tommaso spiega la possibilità del male morale pur tenendo fermo
che, anche nell'uomo non virtuoso, la ragione è capace di riconoscere il
bene, che la volontà è amore al bene (cfr. S.th., I-II, q, 26, a. 1), e
dall'amore, il cui oggetto proprio è il bene (cfr. S.th., I-II, a. 27, a.l),
scaturiscono tutte le affezioni della persona (cfr. QDM, q. 10, a. 1, ad 1).
Ma
conviene citare le chiare parole tommasiane che aiutano a capire più di
qualsiasi intervento interpretativo: «Il male non viene amato che sotto
l'aspetto di bene, cioè in quanto è un bene parziale, per un certo
aspetto, ed è invece considerato come un bene totale, sotto ogni aspetto. E
in tal modo un amore può essere cattivo, perché tende verso un oggetto che
non è un vero bene sotto
ogni
aspetto. E per questo si ama l'iniquità, perché mediante l'iniquità si
ottiene un qualche bene, per esempio il piacere, o il denaro, o altre simili
cose» (S.th., I-II, q. 27, a. 1, ad 1). Ma, ancora, ci si può chiedere: se
la ragione ha la capacità di cogliere veritativamente il bene e uno può
arrivare a conoscere le norme dell'ordine etico e la volontà è volontà
del bene, come avviene che. nell'azione concreta, uno non di rado compie il
male?
Qui
non possiamo seguire l'attenta e complessa analisi
che Tommaso dedica alle cause del male morale, del peccato (cfr. QDM,
q. 3). Rinviando a essa, sottolineiamo alcuni aspetti che ci sembrano
importanti per il nostro discorso.
L'atto,
peccaminoso o virtuoso, dipende da una scelta, la quale, a sua volta,
presuppone un consiglio, cioè una deliberazione, che è una forma di
ricerca tra le possibili vie da seguire. Perciò la scelta morale è frutto
di un ragionamento, almeno implicito, che conclude sull'azione da fare.
Si
tratta di una sorta di sillogismo pratico (cfr. QDM, q. 3, a. 9, ad 7), nel
quale la premessa maggiore è un principio generale e la premessa minore è
una valutazione dell'atto concreto e singolare. Per esempio, chi ha la virtù
della temperanza (per cui gli appetiti inferiori tendono al bene umano sotto
il governo della ragione) è mosso solo dal giudizio della ragione, onde il
sillogismo che lo guida è: «non si deve commettere nessuna fornicazione,
questo atto è un atto di fornicazione, quindi non lo si deve fare»
(ibid.).
Al
contrario, il vizioso intemperante segue totalmente la concupiscenza e si
lascia guidare da questo sillogismo:
«bisogna godere di tutto ciò che è piacevole, questo atto è piacevole,
quindi è da compiere» (ibid.).
Invece in chi non ha raggiunto la piena maturità della virtù (in base alla
quale l'atto buono gli è connaturale), ma resiste alle passioni sregolate o
in chi non è consegnato totalmente al vizio (in base a cui l'atto
peccaminoso diventa connaturale) (cfr. S.th., II-II, q. 56, a. 3), ma cede
momentaneamente alla passione, si avverte il richiamo di tutti e due i
ragionamenti, appena citati, cioè di sollecitazioni opposte.
«Tanto
chi è continente che l'incontinente sono spinti in due sensi opposti:
secondo la ragione a evitare il peccato, secondo la concupiscenza, invece, a
commetterlo; ma in chi è continente prevale il giudizio della ragione,
mentre nell'incontinente prevale il moto della concupiscenza» (QDM, q. 3,
a. 9, ad 7).
Come
abbiamo visto, nel sillogismo pratico, la scienza pratica, che dirige gli
atti umani, è duplice; è universale vertendo su principi e norme generali,
ma è anche del particolare, in quanto conoscenza e valutazione delle
circostanze detratto singolare e concreto.
Questa
duplice conoscenza pratica ci induce a fare il bene e ci dissuade dal male (cfr.
QDM, q. 3, a. 6). Ora la mancanza di questa conoscenza, anche in uno solo
dei suoi due aspetti, provoca l'atto contrario all'ordine morale. Questo
atto è colpevole se l'ignoranza che lo provoca, in quanto rimuove, elimina
o rifiuta la conoscenza che lo impedisce (cfr. ibid.}, è colpevole. Ci sono
varie forme di ignoranza, non tutte tolgono volontarietà all'atto, proprio
perché alcune sono frutto di una scelta volontaria. Per esempio quella
forma di ignoranza che Tommaso chiama errore (error) è
manifestamente colpevole, perché, consistendo nell'« approvare come vero
ciò che è falso», non si
verifica «senza la presunzione per cui uno pronunzia un giudizio su ciò
che ignora, e massimamente negli ambiti in cui c'è il pericolo di sbagliare»
(QDM. q. 3, a. 7).
Così,
analogamente, nel peccato si ha una sorta di accecamento volontario, per cui
si presume di sapere ciò che in realtà non si sa e, cioè, qual è il
proprio bene in quell'atto concreto. Ora voler ignorare, o accettare di
ignorare, o non curarsi di imparare, per non essere trattenuti dal peccato,
è ignoranza colpevole (cfr. QDM, Q.3, a. 8).
Quando
si cede a una forte passione, anche se si sa che cosa si deve fare m
generale, la considerazione di questa conoscenza è impedita nel caso
particolare su cui verte la passione, la quale respinge il sapere circa quel
particolare. E ciò sia distraendo dalla considerazione di quella scienza
pratica, sia distruggendola, vanificandola a forza di contraddirla (cfr. QDM,
q. 3, a. 9). Qui l'uso della ragione (usus rationis) è legato, è impedito
da una certa alterazione corporea, provocata dalla passione (ibid.). Ma ciò
non elimina o attenua la responsabilità e la colpa, perché questo legare o
impedire l'uso della ragione deriva dal fatto che l'intenzione (e
l'attenzione) della mente e del cuore (intentio animae) si
applica in modo veemente all'atto dell'appetito sensibile, onde è distolta
dal considerare e dal? applicare al caso particolare ciò che il soggetto
conosce abitualmente in generale (cfr.QDM, q. 3, a. 10). Ma «è in potere
della volontà respingere questo legame Io impedimento nell'uso] della
ragione». Infatti «applicare l'intenzione a qualcosa o non applicarla è
in potere della volontà, onde è in potere della volontà escludere questo
impedimento nell'uso della ragione» (QDM, q. 3, a. 10).
Dunque
la ferita del male morale non corrompe intrinsecamente la capacità
veritativa della ragione, non spenta anche in chi non possiede la virtù, ma
ne può ostacolare più o meno gravemente l'uso, per responsabilità del
volontà che si lascia dominare da qualche passione o abitudine viziosa.
«L'esercizio
della ragione dipende dalla volontà: conosco perché lo voglio (intelligo
quia volo) e uso di tutte le mie potenze e abiti perché lo voglio.» (QDM,
q. 6). Ecco perché «il peccato consiste soprattutto nella volontà» (S.th.,
1I-II, q. 156, a. 3) e implica un non voler vedere. (40)
Questo
è molto importante per capire la realistica ed equilibrata antropologia
tommasiana e, quindi, per una corretta visione della condizione umana.
Nonostante il disastro del male morale, non è spenta nell'uomo la capacità
di cogliere e di vedere il bene. Anche nel vizio si
ricerca un qualche bene, sia pur parziale o apparente, e in maniera
fuorviante e distorta.
Ma,
soprattutto, la ragione non è corrotta intrinsecamente dal male, quindi
conserva la sua capacità di conoscere e apprezzare il bene, anche se l'uomo
può essere ostacolato o impedito nell'uso della ragione.
Se
fosse corrotta intrinsecamente la ragione, l'uomo sarebbe consegnato
irreversibilmente al male, non sarebbe più capace di atti buoni, ma questa
disumanizzazione totale (41) non esiste, proprio perché quella capacità,
nell'uomo, non è mai totalmente spenta, sicché sussiste sempre in lui una
possibilità di cambiamento, di inversione di tendenza, di conversione
rispetto agli abissi di colpa più o meno gravi in cui è caduto.
Dunque
la lettura profonda che Tommaso ci offre dei vizi, certamente mette in luce
le miserie dell'uomo nelle sue varie radici e forme, ma è proprio nella
miseria che la sua grandezza.
La degenerazione patologica non potrebbe essere nemmeno avvertita, senza il
riferimento, almeno intuito, alla normale condizione di bene, che è l'umana
vocazione alla felicità, al vero e al bene, a compiacersi dell'infinito.
Sicché l'uomo non è definito dal male, che pure può commettere e
commette, ma da quella
vocazione che lo costituisce intrinsecamente e che è affidata alla sua
libertà.
Dunque
la vita umana ha un senso, racchiuso nel disegno dell'amore creatore di Dio,
che ne è l'origine e la meta.
Quindi,
per vari motivi, l'indagine veritativa sul male può essere salutare.
Specialmente perché apre alla ricerca e all'accoglienza della luce e della
salute al di là delle umane capacità naturali: «Per S. Tommaso... è
proprio la scoperta del male deliberato che rende possibile la realizzazione
del fine proprio dell'uomo: l'umile riconoscimento della propria
imperfezione è infatti la condizione necessaria per disporsi a ricevere le
virtù infuse della fede, della speranza e della carità».(42) In questo
senso: felix culpa; il male può essere riscattato e messo a servizio
del bene.
14.
Le questioni disputate: un metodo dialagico di ricerca e di insegnamento
L'analisi,
che qui presentiamo, sui vizi capitali è parte integrante delle Questioni
disputate sul male.
E
bisogna dire che con le Questioni disputate Tommaso d'Aquino ci ha lasciato
l'espressione più ampia, approfondita e rigorosa del suo pensiero. Esse
sono il frutto del suo insegnamento, specie all'Università di Parigi, che
si accompagna, attraverso un lavoro molto intenso e fecondo, a una
straordinaria produzione scientifica, lungo l'arco di circa sedici anni, dal
1256 al 1272.
In
particolare le Questioni disputate sono, secondo il Grabmann, «dal punto di
vista scientifico, l'opera più profonda e fondamentale che S. Tommaso abbia
scritto».(43)
Questo
giudizio concorda con quello di un altro insigne studioso del pensiero
medievale, lo Chenu, il quale scrive: «Con le Quaestiones disputatae,
opera di Tommaso giunto al vertice del suo curriculum di insegnamento, noi
ci troviamo di fronte al frutto maturo del pensiero scolastico (filosofico e
teologico) e insieme all'opera più ricca del suo genio personale».(44)
Converrà,
dunque, fare qualche cenno su quest'opera che aiuti a comprenderne la genesi
e la struttura. La questione disputata al tempo di S. Tommaso «era
considerata come l'atto più significativo della vita universitaria»,(45)
nei suoi due aspetti peculiari e inscindidibili: la ricerca e
l'insegnamento. Essa constava di tre momenti: la discussione, libera e
ordinata, intorno a un determinato problema, a cui contribuivano gli
studenti, i baccellieri o assistenti e gli altri partecipanti, con il
maestro reggente che presiedeva e moderava il dialogo critico; la soluzione
o risposta del maestro, che in genere la presentava in una sessione
successiva a quella della controversia o discussione, dopo aver riflettuto,
tenendo conto dei diversi punti di vista emersi (infatti, dopo la risposta
generale al problema, c'è la risposta puntuale a ogni posizione e
obiezione); e, infine, la redazione definitiva e Dedizione che spettavano
pure al maestro. Tommaso da la preferenza alla disputa nell'indagine
speculativa e nell'insegnamento non solo perché fa tesoro della lezione del
suo maestro Alberto Magno, il quale proponeva, per la scoperta della verità,
proprio il metodo del dialogo e del lavoro in équipe,46 ma anche a causa
dell'influsso, certamente non secondario, della dialettica platonica e
aristotelica.
Tommaso
è convinto che l'umana ragione può scoprire la verità, che si manifesta
nella discussione, nel dialogo critico, nel quale, proprio in quanto
emergono diversi punti di vista, si ha la possibilità di un approccio non
unilaterale al problema.
Questo,
però, non deve far pensare che quello tommasiano sia un tentativo
eclettico, al contrario l'Aquinate ritiene che l'autentica prospettiva
veritativa sia capace (e deve mostrare questa capacità) di discernere e di
valorizzare tutti gli sforzi di ricerca della verità da qualsiasi parte
provengano; essa «deve vedere in pieno quel che l'errore vede solo in
maniera parziale e ingiusta e deve pure giudicare e salvare, grazie ai suoi
princìpi e alla sua propria luce, quel che l'errore, senza saperlo
comprendere nemmeno esso, comporta di verità».(47)
D'altra
parte, in base alla lezione aristotelica, un sapere rigoroso emerge nella
sua incontrovertibilità, non in quanto ignora le obiezioni, le posizioni
contrarie, ma proprio in quanto è in grado di tenersi saldo, essendo in
grado di confutare e di negare le proprie negazioni.
Ma,
se quello della disputa è un valido metodo di ricerca, è evidente che reca
con sé anche un grande valore pedagogico-didattico. Il giovane, formato a
questa scuola, non era un eterodiretto che non comprendeva le ragioni, il
fondamento del sapere che apprendeva, ne un disorientato in balìa di
opinioni diverse e contrastanti, senza la capacità di valutarle
criticamente e veritativa- mente. Egli era guidato alla scoperta personale
della verità, con un ruolo attivo della sua intelligenza, mirante a un
discernimento critico nell'ambito delle diverse posizioni di pensiero. In
tal modo si evitava di cadere in una trasmissione ripetitiva del sapere e in
un apprendimento
meramente
mnemonico. Al contrario, nel dialogo critico con il sapere trasmesso, veniva
stimolata nello studente la creatività, per un incremento delle conoscenze.
Non a caso l'Università medievale, così impostata, è alla radice della
nostra civiltà europea e non solo europea.
Perciò
ii metodo della disputa, che possiamo imparare dalle tommasiane Questioni
disputate, non è solo quello di una «pedagogia attiva», come scrive il
Torrell,(48) ma è anche e, direi, in primo luogo un valido strumento di
ricerca rigorosa, come riconosce il Bazan, autore di uno degli studi più
recenti e approfonditi sull'argomento: «(la questione disputata) è una
forma regolare di insegnamento, di apprendimento e di ricerca, presieduta
dal maestro, caratterizzata da un metodo dialettico, che consiste nel
presentare ed esaminare degli argomenti di ragione e d'autorità, che si
oppongono intorno a un problema teorico o pratico e che sono forniti dai
partecipanti, e dove il maestro deve pervenire a una soluzione dottrinale
con un atto di determinazione che lo conferma nella sua funzione magistrale».(49)
UMBERTO
GALEAZZI
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