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Leo
J. Elders S.V.D.
La
metafisica dell'essere di san Tommaso d'Aquino in una prospettiva storica
Libreria
Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995
Volume
I - L'essere comune
Capitolo
XI
L'ENTE
IN ATTO E L'ENTE IN POTENZA
Nella sua
quarta Disputatio metaphysica, sectio VIII, Suarez solleva la
questione di sapere quale sia la prima divisione dell'essere: quella tra
essere finito e infinito (come insegna Scoto), la divisione tra l'uno e il
molteplice o quella tra ens per se e ens per accidens. L'opinione
di Suarez è che la divisione tra ente creato e non creato venga in primo
luogo. In un'ottica tomista tuttavia questo è impossibile, poiché Dio
non rientra sotto la categoria dell'ente comune che è oggetto di studio
della metafisica. Dio è il totalmente Altro, che supera ogni nostro
concetto. Anche se riferiamo a Dio il concetto di “essere”, questo
concetto non esprime tuttavia la sua realtà profonda.
Secondo
l'opinione di alcuni tomisti, la divisione tra sostanza (ens per se) e
accidenti è la prima e più propria divisione dell'ente. L'essere, nel
suo senso più vero, si realizza nella sostanza, laddove gli accidenti,
che sono determinazioni aggiuntive della sostanza, sono detti esseri in
senso meno proprio.
A
un esame più attento, comunque, risulta che a fondamento della
distinzione tra sostanza e accidente c'è la divisione dell'ente in ente
in atto e ente in potenza, per cui i concetti di atto e potenza precedono
quelli di sostanza e accidente anche da un punto di vista psicologico (Cfr.
In III Phys., lecto 2, n. 285: “Potentia et actus, cum sint de
primis differentiis entis...”; In V Metaph. 1, 9, n. 889: “...dividit
ens per potentiam et actum; et ens sic divisum est communius quam ens
perfecturn”, vale a dire l'essere delle categorie; In IX Metaph.,
1, 1, n. 897. In XI Metaph., 1, 9, n. 2289; SCG Il 54: “Potentia
autem et actus dividunt ens commune”).
L'atto
e la potenza sono presenti in tutti i predicati (In V Metaph., lectio
9, n. 897: “In omnibus enim praedictis quae significant decem
praedicamenta, aliquid dicitur in actu et aliquid in potentia”). La
metafisica si occupa di essi nella misura in cui essi conseguono
dall'essere comune, e non in quanto esistono nelle cose materiali che sono
soggette al cambiamento.
Certo
si può utilizzare l'analisi di queste ultime al fine di ottenere una
migliore conoscenza di ciò che l'atto e la potenza significano nell'ente
che si astrae dalla materia (In XI Metaph. 1, 1, nn. 1770-1: “Sed
principalis intentio huius doctrinae non est de potentia et actu secundum
quod sunt in rebus mobilibus sed secundurn quod sequuntur ens commune. Sed
cum dixerimus de potentia, quae est in rebus mobilibus et de actu ei
correspondente, ostendere poterimus et de potentia et actu secundum quod
sunt in rebus intellegibilibus”).
La
dottrina della potenza e dell'atto è giustamente considerata la pietra
angolare del tomismo (Cfr. G. MANSER, Das Wesen des Thomismus. Die
Lehre von Akt und Potenz als tiefste Grundlage der thomistischen Synthese 2
, Fribourg 1935). Tommaso ha fatto suo uno degli apporti più originali
dati da Aristotele alla filosofia, elaborandolo ulteriormente e dandogli
un'applicazione più estesa. Si può persino dire che con lo studio
dell'atto e della potenza il divenire (nel senso della possibilità
dell'essere e non in quello del divenire delle cose materiali) abbia
guadagnato un posto nella filosofia dell'essere, sebbene non il divenire
delle cose materiali in quanto materiali.
La
necessità di spiegare il cambiamento portò Aristotele alla sua dottrina
della potenza e dell'atto. Nella filosofia greca le teorie di Eraclito e
Parmenide rispetto a questo problema erano diametralmente opposte. Mentre
quest'ultimo sosteneva che l'essere è necessariamente uno e immutabile,
Eraclito considerava il cambiamento infinito come l'aspetto più profondo
della realtà. La risposta di Platone a quella che egli chiamava una lotta
tra giganti consisteva nell'accettazione di un mondo di forme immutabili
da un lato, e di un principio indefinito, fattore di estensione e pluralità
dall'altro.
Aristotele
sviluppò una risposta definitiva a questo problema del divenire
introducendo il concetto di materia prima, cioè di quel sostrato
totalmente indifferenziato che rende possibile il passaggio da una
sostanza all'altra. Il pervenire all'essere delle cose materiali non
avviene dalla mera assenza alla presenza di una nuova forma, bensì dalla
potenzialità alla sua realizzazione (Metaph, 1949 b 24). Questa
potenzialità è presente nell'essenza di tutte le cose materiali che
possono trasformarsi in altre sostanze. Essa non è, di per sé stessa,
qualcosa, poiché, nel processo del cambiamento sostanziale, tutto ciò
che costituisce una cosa, vale a dire ogni determinazione, scompare per
far strada alla forma sostanziale di una nuova cosa che perviene
all'essere. Di conseguenza la materia prima è un sostrato completamente
indeterminato, una componente dell'ente che è realmente presente
nell'essenza delle cose materiali e che rende possibile il cambiamento con
la sua capacità di trasformarsi in una determinazione formale interamente
nuova.
La
materia prima non può esistere di per sé stessa, poiché essa non è che
indeterminatezza e possibilità di cambiamento. Essa esiste sempre con
qualcos'altro per mezzo del quale è conosciuta. La materia prima stessa
non è qualcosa che esiste, ma è ciò per mezzo della quale le cose
materiali esistono in quanto materiali. Questa materia si situa, in
qualche modo, tra il qualcosa e il niente ed è - per usare un ben noto
termine aristotelico - “un terzo qualcosa”, un'entità unica che si
situa tra il qualcosa e il niente. Aristotele traspose questa dottrina
della materia prima e della forma sostanziale (la trattazione della quale
non compete alla metafisica, che non studia l'ente in quanto materiale) al
livello della teoria generale dell'ente. Nacquero in tal modo la teoria
dell'atto e della potenza.
La
potenza
Il
termine il cui equivalente latino è potentia, è un termine
filosofico importante. Quanto alla storia del suo uso, vediamo che esso
viene adoperato ripetutamente da Omero nel senso di “capacità di fare
qualcosa” (meno tuttavia nel senso di forza fisica, come alcuni lo hanno
interpretato). Nel Corpus Hippocraticum il termine si riferisce
all'azione caratteristica di una cosa. Così ad esempio un vento o una
condizione favorevole dell'atmosfera hanno una dynamis che apporta
degli effetti benefici al corpo umano. Anche le malattie hanno le loro
proprie azioni e proprietà (cfr. G. PLAMBOCK, Dynamis im Corpus
Hippocraticum, “Abh. d. Akad. d. Wiss.”, Mainz, Geistes-u.
sozialwiss. Kl. 1964, n. 2). Così dynamis acquistò
progressivamente il significato di una natura soggiacente.
Per
Isocrate e i sofisti, la dynamis è l'attributo caratteristico
delle cose che si rivela nelle loro azioni. Nei dialoghi platonici essa
è la proprietà che manifesta l'essere: dynamis può essere un
principio di attività oppure un'attitudine a subire il cambiamento,
vale a dire ciò grazie a cui si fa o si subisce qualcosa: essa mostra la
natura nascosta delle cose e fa si che si possa dar loro un nome. E'
come se la dynamis si discostasse in qualche modo dall'essenza
delle cose (cfr. Teeteto, 156 a; Sofista, 24, 7 d).
Nella
Repubblica di Platone il termine si riferisce a ciò che noi chiamiamo
facoltà: “Le facoltà sono un modo particolare di essere, grazie al
quale possiamo fare ciò che facciamo... Per ciò che concerne una facoltà,
noi non teniamo conto che del perché essa esiste e di ciò che essa
produce” (Rep., 477 cd. Cfr. J. SOUILHE', Etudes sur le terme
AYNAMIE dans les dialogues de Platon, Paris, 1919).
La
teoria della potenza di Aristotele è il risultato della sua analisi del
divenire e di un dialogo critico con i filosofi presocratici e con
Platone. I pensatori della scuola di Megara sostenevano che la potenza è
identica alla sua realizzazione. Senza questa attualizzazione non c'è
semplicemente potenza. Essi giunsero a questa conclusione dal momento che
la potenza non può essere percepita. E' vero, concede Aristotele, che si
può sapere che una facoltà esiste solo quando è attiva. Ma ciò non
implica che tale facoltà esista solo allorquando viene utilizzata.
Anteriormente a questa attività deve esserci un'attitudine ad agire,
proprio come anteriormente al cambiamento deve esserci la capacità di
trasformarsi in una nuova cosa. Senza questa capacità non ci sarebbero né
attività né cambiamento (Vedi G. VERBEKE, “The Meaning of Potency in
Aristotle”, in LLOYD P. GERSON, Graceful Reason. Essays in Ancient
and Medieval PhyIosophy Presented to Joseph Owens CSSR, Toronto 1983,
pp. 55-74).
Aristotele
definisce e descrive la dynamis come segue: “Potenzialità
significa in generale la fonte del movimento o del cambiamento in qualche
altra cosa oppure nella stessa cosa in quanto diversa, così come la fonte
di una cosa è mossa da un'altra cosa o dalla cosa stessa (in quanto
questa è diversa)” (Metaph., V, 12, 1019 a 15 ss.).
Aristotele aggiunge che la facoltà di attuare bene quanto detto è
chiamata dynamis. Poiché la natura non fa niente invano, non può
esserci in potenza qualcosa che non è mai attualizzato. Potenzialità è
un termine analogo: esso denota tipi molto diversi di abilità e
possibilità nell'ordine sostanziale e accidentale. Acquisiamo questo
concetto proprio all'inizio della nostra vita intellettuale quando ci
rendiamo conto che possiamo fare qualcosa e che c'è una capacità
di cambiamento nelle cose e in noi stessi. Quando si sviluppa la nostra
capacità innata del linguaggio, la esprimiamo per mezzo di parole come
“potere”, “possibile”, “facoltà”, oppure col condizionale dei
verbi ecc. Aristotele ebbe l'idea geniale di effettuare un'analisi (resolutio
ad universale) delle diverse forme di potenza riducendole a un
concetto analogo. Nel fare ciò egli si manteneva vicino alla nostra prima
esperienza dell'ente. E' così che quello di potenza diventa un concetto
chiave nel nostro studio della realtà.
L'atto
Passando
ora allo studio dell'atto dobbiamo dapprima fare
un'osservazione sulla sua origine. Storicamente i termini furono
inventati da Aristotele. Alcuni sostengono che è formata da tre parole:
vale a dire “la realizzazione del fine (perfezione) in sé stessa”
(K. VONFRITZ, Philosophie und sprachlicher Ausdruck bei Demokrit,
Platon und Aristoteles, Darmstadt 1963, p. 66). Secondo altri
il termine è derivato da “essere completo”. Il termine si formò
sulla base del già esistente “attivo” e significa attività, forza,
essere qualcosa. Riguardo a questo termine Aristotele scrive: “Il
termine atto, che mettiamo in relazione con la realtà nel suo insieme,
viene trasposto principalmente dal movimento ad altre cose, poiché nel
senso stretto della parola atto è pensato come identico al movimento”
(Metaph, V, 12, 1019 a 15 ss.). Aristotele afferma qui che “fare
qualcosa” è la forma d'atto più manifesta e un grado particolare
dell'essere reale.
Nella
nostra esperienza, fare qualcosa o divenire qualcosa è sempre la
realizzazione di una possibilità. Per questa ragione sviluppiamo nel
nostro primo concetto, cioè quello dell'essere, la distinzione tra ciò
che è veramente (che è divenuto o è giunto a compimento) e ciò che può
ancora divenire o agire. Nel linguaggio corrente l'attitudine a fare o a
cambiare è espressa grazie alle forme modali dei verbi (quello che si
chiama il modo potenziale) o da un verbo ausiliare come “potere” o
“essere in grado di”. Solo a uno stadio ulteriore noi formiamo i
termini astratti “possibile” e “possibilità”. Infine si può
concepire un atto o una compiutezza che non siano il risultato di un
processo del divenire, ma che esistono sempre nell'attualità pura. Questo
è ciò che si chiama actus purus, pura realtà e pienezza
dell'essere.
Nel
Rinascimento il termine “energia” acquistò nei paesi occidentali il
senso che ritroviamo anche nella Poetica di Aristotele, vale a dire quello
della forza espressiva. Keplero fu nel 1619 il primo a usare il termine
nell'accezione moderna di energia fisica. Intorno al 1840 energia cominciò
inoltre a significare la capacità latente di impiegare una certa forza.
Nella fisica moderna le parole energia e materia hanno un senso
completamente diverso di quello che avevano in Aristotele.
Atto
e potenza
I
concetti di atto e potenza sono correlativi. E' vero che noi concepiamo
l'ente, il nostro primo concetto, come un atto, ma ciò avviene a uno
stadio anteriore della distinzione tra atto e potenza. Quest'ultima può
essere definita come la possibilità o la capacità di divenire o di
ricevere un atto (posse ad actum). La potenza ha in effetti una
relazione essenziale con l'atto, vale a dire col raggiungimento di un
grado particolare dell'essere. Non c'è che una sola forma di potenza; il
concetto di potenza è analogo, e si può trovare a diversi livelli
dell'essere.
L'atto
in quanto tale non ha tuttavia questa relazione necessaria ed essenziale
con la potenza, sebbene in un certo ordine, quello del mondo materiale,
sia sempre in relazione con essa.
Poiché
il mondo materiale è la prima cosa che giungiamo a conoscere, concepiamo
l'atto prima di tutto come un risultato del processo del divenire. In
seguito possiamo conseguire il giudizio che un atto che non sia il
risultato di un processo del divenire non è solo possibile ma esiste
necessariamente. L'atto stesso non può essere definito, non più che il
concetto dell'ente o addirittura meno, dal momento che non possiede la
dualità propria di “ciò che è”. Il concetto di atto è definito
solo da casi concreti: un essere realizzato o un'attività nella quale si
è coinvolti. Aristotele cita come esempi concreti un edificio costruito
(distinto da un edificio che può essere costruito) e il “vedere”,
distinto dal fatto di essere in grado di vedere (Metaph, 1048
a 37 ss.).
L'atto
è dunque legato nel modo più intimo all'essere, e si riferisce sempre a
qualcosa che esiste. Aimé Forest obietta che un atto limitato dalla
potenza non appartiene in quanto tale al livello dell'esistenza, e non è
altro che qualcosa di astratto, vale a dire un universale (La structure
métaphysique du concret, Paris 1956, p. 163). Questa è tuttavia una
rappresentazione erronea: l'ente è anche un concetto astratto, ma si
riferisce nondimeno all'“essere reale” di qualcosa. Il modo universale
proprio del nostro concetto non si applica alla realtà che questo
concetto sta a significare, ma alla forma che esso ha nel nostro pensiero.
In favore della visione di Forest si può tuttavia dire che nelle cose
materiali, che si compongono di materia e forma, la forma essenziale
(l'atto) è limitata dalla materia, e l'esistenza appartiene al tutto
costituito da questi due componenti essenziali (materia e forma),
piuttosto che a uno di essi. L'affermazione sopra riportata è accettabile
in questo senso limitato, ma a condizione che venga interpretata in modo
tale che, in questo composto sostanziale, l'essere (esse) è molto
più strettamente legato alla forma che alla materia, come si argomenterà
nel prossimo capitolo.
La
divisione dell'atto e della potenza
L'atto
è diviso come segue:
a)
Distinguiamo
actus purus, cioè l'atto puro, la pienezza dell'essere senza
alcuna potenzialità, e actus impurus, cioè l'atto che è l'atto
di una potenza ed è limitato da questa o che contiene la potenza in sé
ad essere determinato posteriormente.
b)
Distinguiamo
anche tra actus primus e actus secundus. Quest'ultimo
presuppone un altro essere dal quale dipende e che esso stesso completa
(per esempio un'operazione presuppone una facoltà), mentre il primo è
una realtà fondamentale che deve essere ulteriormente determinata
(riguardo alla distinzione tra actus primus e actus secundus vedi
ARISTOTELE, Protrettico, framm. B 24 [Dúring] e De anima 412
a 22; 417 b 30).
c)
Infine
l'atto nel senso di essere reale si divide secondo i predicati.
La
divisione della potenza:
a)
Distinguiamo tra potentia logica e potentia realis. La
prima si riferisce alla possibilità oggettiva che qualcosa che non esiste
possa esistere. Questa cosiddetta possibilità logica non implica una
potenzialità reale nella natura (sia attiva che passiva), ma è
detta di una cosa considerata in sé stessa (De potentia, q. 1, a.
3: “... non secundum aliquam potentiam sed secundum seipsum, sicut
dicimus possibile quod non est impossibile esse, et impossibile dicimus
quod necesse est non esse”): non è impossibile che essa esista. San
Tommaso usa i termini possibile esse et non esse quando si
riferisce a questa possibilità di esistere che ogni contenuto essenziale
possiede se non ha caratteristiche contraddittorie; un esempio di opposto
è un cerchio quadrato (cfr. capitolo XIV). Oltre questa possibilità
logica c'è anche la potenzialità realmente presente nelle cose come
elemento costitutivo dell'essere (la potentia realis).
b)
La potenza reale si divide in potenza attiva (potentia
operativa) e potenza passiva (De potentia, q. 1, a. 1: “Duplex
est potentia: una activa cui respondet actus qui est operatio; et huic
primo nomen potentiac videtur fuisse attributum; alia est potentia
passiva, cui respondet actus primus qui est forma ad quam similiter
videtur secundario nomen potentiae devolutum”). Quest'ultima è la
possibilità di ricevere e di divenire qualcosa, ad esempio la potenzialità
di divenire una forma sostanziale (questa potenzialità è chiamata materia
prima); la potenzialità del suppositum (la sostanza) rispetto
all'atto dell'essere, e infine la potenzialità della sostanza nei
confronti delle sue determinazioni accidentali. La potenzialità di
acquisire una forma sostanziale è la potenza nel senso più pieno del
termine: la stessa materia prima non ha alcuna determinazione (In III
Metaph. lecto 2, n. 2438). La potenza nel senso di capacità attiva di
produrre un effetto presuppone un soggetto cui essa sia inerente. Un tale
soggetto è determinato da questa facoltà ed è ordinato a essa come una
potenza passiva lo è rispetto al suo atto (In IV Seni., d. 12, q.
2, a. 1, ql. 3). La potenza attiva è capace di una certa
auto-determinazione, mentre la potenza passiva è determinata
esclusivamente dall'esterno (cfr. H. P. KAINZ, The Thomistic Doctrine
of Potency, “Divus Thomas” 73 (1970) pp. 308‑320).
Anche
Hegel parla di possibilità, ma la sua possibilità logica include la
possibilità reale e considera entrambe come identiche e allo stesso tempo
in contraddizione tra loro a causa della molteplicità di altre cose
contenute in esse (Wissenschaft der Logic II, Theorie Werkausg, p.
209). E' vero che san Tommaso usa l'espressione potentia
contradictionis per indicare che un ente materiale che, ad un dato
momento, ha questo contenuto particolare, può diventare qualcos'altro. Ma
si deve comprendere che l'espressione “qualcosa è in potenza
non-essere” non denota una reale potenza al non-essere, ma ha un
senso logico che dipende dal fatto che la materia è in uno stato di
potenza rispetto ad altre forme (su potentia contradictionis vedi In
IX Metaph., 1. 9, n. 1869. Cfr. De potentia, q. 5, a. 3: “Materia
enim cum non possit esse sine forma non potest esse in potentia ad non
esse nisi quatenus existens sub una forma est in potentia ad aliam formam”.
Vedi anche I 104, 3 e 4). Questa potenza si trova soltanto nelle forme
materiali; quindi il termine potentia contradictionis, nel senso
che Tommaso gli dà, non appartiene alla metafisica, che astrae dagli
esseri materiali in quanto tali. Inoltre questa potenza della materia è
una potenza verso altre forme e la possibilità di perdere la forma
presente. Comunque non è una potenzialità di non-essere in quanto tale.
Di conseguenza il non essere non è compreso in essa, come asserisce Hegel.
I
principi che esprimono la relazione di atto e potenza con l'ente
San
Tommaso fa uso di una serie di principi per illustrare la natura e la
funzione dell'atto e della potenza in relazione all'ente:
a)
Il primo di questi principi è che “ tutto ciò che esiste è o puro
atto oppure è composto di potenza e atto come suoi componenti essenziali
”. Quest'affermazione statuisce che atto e potenza sono le nostre chiavi
per la comprensione della realtà. La tesi è derivata da una parte dal
fatto che ciò che è reale è atto, e dall'altro dal cambiamenti e dalla
molteplicità delle cose: se il cambiamento è la transizione da un ente
all'altro, deve esserci necessariamente la possibilità di movimento,
possibilità per la quale questa cosa può cambiare e diventare diversa.
Questa possibilità si trova nella cosa che cambia. Sostenere che il nuovo
prende il posto del vecchio in maniera tale da essere lì proprio a un
dato momento, significherebbe accettare la posizione della Scuola di
Megara, una posizione che era stata rifiutata da Aristotele: secondo i
seguaci di questa scuola non esiste alcuna connessione tra le cose e
neanche una spiegazione del loro esserci. L'uomo stesso diventa un insieme
di azioni che non procedono da lui, cosicché si trova a non essere più sé
stesso.
E'
necessario inoltre assumere che le cose sono composte di atto e potenza al
fine di spiegare la loro molteplicità: di per sé un atto sarebbe solo
una concentrazione di realtà, sarebbe solo sé stesso, col risultato che
non sarebbe possibile alcuna moltiplicazione di esso. Ma se la molteplicità
esiste realmente - come realmente esistono molte persone, molte cose buone
e belle ecc. -, allora l'atto di essere deve necessariamente essere
moltiplicato, se in ogni occasione esso è recepito e limitato dai
soggetti che lo possiedono. Di conseguenza in ciò che esiste deve esserci
una compresenza di potenza e atto. Noi possiamo tuttavia concepire un puro
atto di essere che possiede l'intero contenuto dell'essere nella sua
completa unità, in altre parole un atto puro. Nella seconda parte di
questo libro si mostrerà che questo atto puro esiste necessariamente.
b)
“La potenza non può esistere solo per sé stessa, giacché non è
qualcosa. Essa non può che appartenere a, essere una componente di ciò
che esiste”. Poiché il concetto di potenza è un concetto
estremamente difficile, possiamo conoscerlo solo in maniera negativa: la
potenza non è qualcosa, essa è indeterminata. Di conseguenza non
sorprende che essa sia stata spesso fraintesa nella storia della
filosofia. Una delle opinioni correnti errate considera la potenza come
una sola e medesima cosa (vale a dire come una sorta di materia diffusa
per tutto l'universo che sarà presente nelle varie cose. Tuttavia
possiamo parlare solo di una molteplicità di potenze che sono ordinate al
vari atti. La riduzione a una sola potenza è assolutamente impossibile,
poiché la potenza è un concetto analogo (Cfr. CAIETANO, In Primam
Partem Summae Theol., q. 75, a. 6).
Atto
e potenza nel pensiero filosofico moderno e contemporaneo
La
distinzione tra forma materiale e sostanziale, tra il soggetto esistente e
il suo atto dell'essere, tra l'atto primo e l'atto secondo non può essere
compresa che attraverso un'analisi filosofica della realtà e non può
essere ottenuta tramite un approccio matematico o scientifico alle cose,
dal momento che quest'ultimo approccio non si situa allo stesso livello
dell'essere. Non sorprende allora che Cartesio abbia criticato la dottrina
della materia prima o della forma sostanziale e abbia seguito un cammino
diverso (Lettre à Regius, Adam et Tannery, III, p. 502), o che
J-P. Sartre abbia rifiutato il concetto di potenza, poiché esso non può
essere ulteriormente definito. Il suo rifiuto di accettare la potenza
coincide con la sua opinione che l'essere in sé stesso non è soggetto al
cambiamento, rimane fermo e non comunica sé stesso. Altri filosofi, tra
cui Hegel, fanno uso dei termini di atto e potenza, ma danno loro un
significato diverso. Hegel trasforma l'atto e la potenza nell'affermazione
e nella negazione dello spirito. Spencer, Bergson e altri tendono a fare
del divenire puro la categoria fondamentale della realtà. Heidegger parla
ripetutamente del possibile. In Sein und Zeit, distingue tra: 1) la
possibilità che concerne l'uomo, vale a dire ciò che l'uomo cerca di
realizzare. Nella sua visione questa è la possibilità nel senso stretto
del termine; 2) la capacità del Dasein di essere le sue proprie
possibilità proiettate, capacità che è propria dell'uomo; 3) c'è
infine il potere di rendere possibile (ermóglichen) tutto ciò che
è possibile. Nella concezione heideggeriana del possibile sembra tuttavia
aver avuto luogo una certa evoluzione. Prima della “svolta”, egli
vedeva la possibilità nella prospettiva del Dasein, mentre in seguìto
l'avrebbe considerata più nella prospettiva dell'Essere (cfr. il suo Brief
uber den Humanismus (1947); Sein und Zeit, p. 43 ss.; p. 144;
R. KEARNEY, “Heidegger, le possible et Dieu”, in R. KEARNEY e ST. O'
LEARY, Heidegger et la questìon de Dieu, Paris 1980, pp.
126‑167). Le divergenze tra le numerose concezioni riguardanti la
potenza mostrano chiaramente che è difficile comprendere questo termine
in modo corretto. Riguardo a questo concetto è importante non imporre i
nostri concetti alla realtà ma formarli in accordo con ciò che ci rivela
uno studio paziente delle cose che ci sono rivelate.
La
relazione tra la potenza e l'atto
Per
ciò che concerne la relazione tra la potenza e l'atto, san Tommaso
ricorre al seguenti principi:
a)
Riguardo alla perfezione
dell'ente: “Ogni essere è perfetto in quanto è in atto,
imperfetto in quanto è in potenza” (SCG 1, 28). Ciò consegue
chiaramente dal contenuto dei concetti di atto e potenza: ciò che è
reale è atto; potenza, per contro, è la potenzialità verso un atto. “In
qualsiasi genere, l'atto è più perfetto della potenza in rapporto a quel
genere” (In II Sent., d. 44, q. i ad 2). Pertanto, una
potenza può a volte essere più perfetta dell'atto che non è dello
stesso genere. Così l'intelletto umano, che è una potenza, è più
nobile della forma sostanziale di una pietra; la sostanza è più nobile
di una determinazione accidentale, pur essendo un sostrato potenziale in
rapporto a una tale determinazione. L'atto puro è totalmente e
interamente perfetto.
b)
Per ciò che concerne la causalità elenchiamo i principi seguenti:
“Niente agisce se non in quanto è atto” (SCG 1, 28),
“La potenza implica l'attitudine a ricevere” (1, 25, 1 ad I).
Questi principi sono ovvi se si considera il significato dei termini atto
e potenza. “Ciò che è in potenza non giunge ad attuazione se non
tramite un essere in atto” (13, 1. - Hegel contraddice questo principio
quando afferma che il possibile può diventare reale. Cfr. la sua Wissenschaft
der Logik, II (Theorie Werkausg. p. 210): “Diese Bewegung der
sich selbst aufhebenden realen Móglichkeit bringt also dieselben schon
vorhandenen Momente hervor, nur jedes aus dem anderen werdend; sie ist
daher in dieser Negation auch nicht ein úbergehen, sondern ein
Zusammengehen mit sich selbst”. Cf B. LAKEBRINK, Hegels dialektische
Ontologie und die thomistische Analektik, Ratingen 1968, p. 185 ss.).
Per produrre un effetto è necessario un agente. Tuttavia l'agente non
agisce se non quando attualizza la sua azione (agit actu). Si può
anche esprimere l'idea formulata da questo principio nel modo seguente:
“Tutto ciò che cambia è mosso da qualcos'altro”, vale a dire è
portato da qualcun altro a quella realtà che è il termine di tale
cambiamento. Se una cosa non ha una forma particolare, non può neanche
darsela da sé (dal momento che non la possiede), ma deve riceverla da
qualcos'altro.
Tutto
ciò che cambia è costituito da potenza e atto, giacché, per cambiare,
qualcosa deve esistere e deve inoltre essere in uno stato di potenzialità
rispetto a ciò che diverrà attraverso un tale cambiamento. Nel processo
del divenire la potenza precede l'atto nel soggetto che passa dalla
potenza all'atto. In termini assoluti è invece l'atto a precedere, poiché
in ultima analisi la fonte e la causa dell'ente e del contenuto essenziale
delle cose deve essere qualcosa di reale.
c)
Per ciò che concerne la distinzione reale tra potenza e atto si
possono formulare i seguenti principi: in un essere mutevole, la potenza e
l'atto sono realmente distinti uno dall'altro: la potenza è ciò che
ancora non è atto, ma che può divenire realtà e determinazione, laddove
l'atto è già una determinazione ed è reale. Una cosa che abbia un
contenuto preciso e ciò che non è ancora determinato sono realmente
distinti. Da questo fatto possiamo concludere che, nello stesso ordine
dell'ente, una cosa non può essere al tempo stesso atto e potenza, mentre
ciò è possibile in ordini diversi. Così ad esempio la sostanza è atto
nell'ordine sostanziale, ma è in potenza verso le determinazioni
accidentali. Posto che una cosa è un solo essere, è impossibile per due
cose che sono in atto costituire un solo essere. Questo assioma acquista
un grande significato nell'antropologia tomista, poiché implica
l'impossibilità di una pluralità di forme sostanziali nell'uomo.
d)
Per ultimo abbiamo il principio fondamentale concernente la limitazione
dell'atto. “Poiché l'atto è perfezione, esso può essere
limitato solo da una potenza”. Il principio qui enunciato è uno
degli elementi più importanti della dottrina dell'essere di san Tommaso.
Esso è il fondamento della cosiddetta Quarta Via per dimostrare
l'esistenza di Dio. Da un punto di vista storico dobbiamo associare questo
principio alla teoria risalente a Plotino che un atto non ha alcuna
limitazione ma mira piuttosto a riempire di sé ogni cosa (cfr. Enneadi,
IV, 8, 6). Nella filosofia aristotelica la materia prima non aveva la
funzione di limitare le forme sostanziali, ma solo di rendere possibile il
cambiamento sostanziale. In questa visione le forme sostanziali sono
limitate da ciò che sono. San Tommaso tuttavia sviluppò ulteriormente la
teoria della potenza e dell'atto considerandola alla luce della metafisica
dell'essere, col risultato di attribuire alla forma e alla materia un
significato più ampio: un atto può essere limitato solo da una potenza
realmente distinta da esso (cfr. N. CLARKE, The Limitation of Act by
Potency: Aristotelism or Neoplatonism?, “The New Scholasticism” 26
(1952), pp. 167-194). Questa tesi riposa sul giudizio seguente: l'atto è
in sé stesso perfezione e realizzazione. Le perfezioni come l'amore o la
conoscenza non implicano alcuna limitazione, bensì solo completezza. Se
di fatto sono limitate, questa limitazione non può derivare da una
perfezione quale l'amore o la conoscenza, ma proviene solamente dal fatto
che ciò che riceve questa perfezione la ottiene in un modo limitato. Se
delle perfezioni formali come l'amore o la conoscenza comportano al tempo
stesso e in sé stesse una limitazione quanto al loro contenuto formale,
esse conterranno una contraddizione. Di conseguenza le perfezioni formali
che sono in realtà limitate non lo sono a causa di loro stesse ma a causa
della potenza alla quale sono collegate o del soggetto nel quale sono
incluse. Constatiamo che nessun atto è limitato se non da una potenza che
lo riceve; “che le forme sono limitate a seconda della potenzialità
della materia. Così, se il Motore Primo è un atto cui non si aggiunge
alcuna potenza, - poiché esso non è la forma di alcun corpo... - è
necessario che sia esso stesso infinito” (Compendium theologiae, 18).
Si può parlare anche di “limitazione della potenza da parte
dell'atto”. Il termine limitazione acquista allora un senso diverso.
Così la materia prima è limitata dalla forma sostanziale e le facoltà
cognitive lo sono dalle species cognoscibiles poiché queste
potenze sono determinate all'atto del conoscere da questa forma
particolare (cfr. F. KOVACH, “St. Thomas Aquinas: Limitation of Potency
by Act. A Textual and Doctrinal Analysis”, in Atti del VIII Congresso
Internazionale dell'Accademia Pontificia di San Tommaso d'Aquino, V,
Città del Vaticano 1982, pp. 387-411).
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