ANTROPOLOGIA

FILOSOFICA E TEOLOGICA

        Dicesi antropologia qualsiasi studio dell'uomo; tale è in effetti il significata etimologico dei ter­mine: dal greco anthropos, uomo e logos, studio.

L'uomo può essere studiato da moltissi­mi punti di vieta: biologico, psicologico, so­ciologico, politico, etnologico, religioso, filosofico, teologico ecc. Noi qui, nell'esposi­zione del pensiero dì S. Tommaso ci limiteremo al suo discorso filosofico (antropologia filosofica) e teolo­gico (antropologia teologica).

 

I. ANTROPOLOGIA FILOSOFICA

 

        I capisaldi dell' antropologia fìlosofica di S. Tommaso sono due: l'appartenenza del corpo alla essenza, sostanza dell'uomo e la sussistenza dell'ani­ma anche senza il corpo. Con queste due te­si, il Dottore Angelico riesce a superare e a riunire in una sintesi superiore l'antropologia platonica e agostiniana, che svalutava la dimensione somatica e riduceva l'essenza dell'uomo alla sola anima, con l'antropologia aristotelica e averroisti­ca, che affermava l’unione sostanziale tra anima e corpo, ma rischiava di compromet­tere o addirittura negava la sussistenza sepa­rata dell'anima e quindi la sua immortalità.

        Dalle due tesi fondamentali della sussi­stenza e della unione sostanziale S. Tommaso ricava tutte le altre tesi caratteristiche della sua antropologia filosofica:

‑ l'atto dell’essere (actus essendi) del­l'uomo è prioritariamente atto dell'essere dell'anima e, mediante l'anima, diviene an­che atto d'essere del corpo;

‑ l'uomo è persona, ossia un sussistente nell'ordine dello spirito, grazie all'atto d'es­sere unico e irripetibile dell'anima; in quan­to persona l’uomo possiede una dignità asso­luta, sacra, inviolabile:

‑ legata sostanzialmente al corpo l'ani­ma è esposta all'impulso delle passioni. im­pulsi veementi che essa può tuttavia, con­trollare:

‑ l’anima opera mediante varie facoltà, di cui le principali sono l'intelletto e la vo­lontà. Nell'atto libero queste due facoltà si intrecciano e danno luogo a un'unica operazione: l'atto libero non è emesso esclusiva­mente dall’intelletto o dalla volontà ma è fi­glio di entrambe;

‑l’uomo è un essere morale, responsabi­le delle proprie azioni, in quanto agisce libe­ramente ed è arbitro delle motivazioni del proprio agire, mentre gli animali agiscono istintivamente;

‑ l’uomo è un essere sociale e politico, per cui è soggetto di diritti e di doveri rispet­to agli altri simili e alla comunità politica;

‑l'uomo tende alla felicità e la raggiunge soltanto col conseguimento del sommo be­ne, che è Dio stesso. La felicità consiste nel­la piena attuazione delle proprie facoltà; dell'intelligenza mediante la contemplazio­ne dì Dio, della volontà mediante l'unione con Dio nell'amore.

 

2. ANTROPOLOGIA TEOLOGICA

 

        Nella elaborazione dell'antropologia teologica, che è lo studio dell'uomo alla luce della Parola di Dio, S. Tommaso si avvale della grammatica del­l'umano fissata nell’antropologia filosofica. Con questo strumento egli cerca dì approfondire e capi­re meglio il senso del grandi misteri della storia della salvezza, una storia lunga e com­plicata in cui si presentano le vicende della umanità nella condizione originaria del pa­radiso terrestre, nella condizione desolata dì allontanamento da Dio dopo il peccato e nella condizione di riconciliazione grazie all’azione redentiva del Cristo.

        Sulla scorta della Scrittura e della teolo­gia patristica e scolastica S. Tommaso insegna che i progenitori, nel paradiso terrestre, godeva­no di speciali privilegi, in particolare di una straordinaria sapienza e dì un alto livello di santità. Adamo ebbe da Dio la scienza dì tutte le cose necessarie per la vita: la scienza non solo di quelle che sì possono conoscere per via naturale ma anche di quelle che ecce­dono la conoscenza naturale e che sono ne­cessarie per raggiungere il fine soprannatu­rale (I, q. 92. a.3). La santità di Adamo rag­giungeva tale livello da eccellere in tutte le virtù: “L'uomo nello stato di innocenza pos­sedeva in qualche modo tutte le virtù. Infatti abbiamo visto sopra che la perfezione dello stato primitivo era tale da applicare la su­bordinazione della ragione a Dio e delle po­tenze inferiori alla ragione. Perciò la perfe­zione dello stato primitivo (primi status) esi­geva che l'uomo possedesse in qualche mo­do tutte le virtù” (I, q, 95, a. 3).

        Ma più ancora che sui privilegi, S. Tommaso ìn­siste sul dono della grazia (supernaturale bo­num gratiae) che Dio concesse ai progenitori sin dal momento della creazione. “E’ ovvio infatti che la soggezione del corpo all'anima e delle forze inferiori alla ragione (di cui essi godevano) non era naturale, perché altri­menti sarebbe rimasta anche dopo il pecca­to. (…) Per cui risulta chiaro che quella ini­ziale (prima) sottomissione grazie alla quale la ragione era soggetta a Dio non era secon­do l'ordine naturale ma era frutto del dono soprannaturale della grazia: infatti non può esserci effetto superiore alla causa” (I, q. 95. a. I ). La giustizia originale consisteva essen­zialmente in questa rettitudine (rectitudo), in forza della quale «la ragione era soggetta a Dio, le forze inferiori alla ragione, e il cor­po all'anima» (I, q. 95, a‑ I).

        Col peccato, che secondo Tommaso fu essenzialmente un atto di disordine (“pecca­tum proprie nominat actum inordinatum”) (I‑II, q. 71, a. 1) e specìficatamente un allon­tanamento da Dio sommo bene e un rivolgi­mento verso beni mutevoli (“inordinata con­versio ad commutabile bonum”) (I‑II, q. 84, a. I), Adamo (l'uomo) non solo venne pri­vato dei doni preternaturali ma la sua stessa natura mutò condizione: dallo status di natu­ra integra passò allo status naturae corrup­tae. Non fu quindi un evento che ferì soltan­to il colpevole (Adamo) ma, situandolo in una diversa condizione, status naturae cor­ruptae, comportò conseguenze disastrose e funeste per tutti i suoi discendenti i quali vennero necessariamente a trovarsi in tale stato di corruzione, stato di peccato. Il pec­cato originale che accompagna tutti ì discen­denti di Adamo è come un nuovo abito (ha­bitus) che li inclina verso il male anziché ver­so il bene: “Il peccato originale è precisa­mente un abito di questo genere. Infatti esso è una disposizione disordinata derivante dal turbamento di quell'armonia che costituiva la giustizia originale: esattamente come la malattia del corpo è una disposizione disor­dinata dì esso, la quale turba l’equilibrio che costituisce la salute. Perciò si dice che il pec­cato originale é un infermità della mente” (I‑II q. 82, a. 1). Allontanandosi dalla tra­dizione agostiniana che faceva consistere il peccato originale nella concupiscenza, S. Tommaso lo fa consistere nel disordine della volontà. Infatti, argomenta l'Aquinate, “tutto l'ordi­ne della giustizia originale sì doveva al fatto che la volontà umana era sottomessa a Dio. Sottomissione che consisteva principalmen­te nella volontà che ha il compito di muove­re tutte le altre facoltà verso il fine. Perciò la volontà, con il suo allontanamento da Dio (ex aversione a Deo) ha portato il disordine in tutte le altre facoltà dell'aìnima. Ecco quindi che la privazione della giustizia origi­nale, che assicurava la sottomissione della volontà a Dio, è l'elemento formale del pec­cato originale: mentre tutto il disordine del­le altre facoltà ne è come l'elemento mate­riale. Questo ultimo disordine consiste so­prattutto nel fatto che queste facoltà si vol­gono disordinatamente ai beni transitori, e tale disordine con ironie generico si può chiamare concupiscenza» (I‑II, q. 82, :i. 3). 11 peccato originale L una condizione perma­nente (appunto uno status) dì allontanamen­to da Dio, u perciò è una condizione perma­nente di peccato. Tuttavia, diversamente da Agostino, il quale nella dura polemica con­tro Pclagio aveva sostenuto che in tale con­dizione l'uomo non snubbe più in grado di compiere necnuna azione inoralmente buona e che le stesse virtù dei pagani sarebbero vizi mascherati, S. Tommaso non la considera una con­dizione di peccaminosità inevitabile: l'uomo può ancora conoscere il vero con la sua ragione (I‑II, q‑ 109, a. 1) e compiere alcune buone azioni con la sua volontà: “Non es­sendo la natura umana del tutto corrotta col peccato, al punto di essere privata di ogni bene naturale, l'uomo, nello stato di natura corrotta, può ancora compiere determinati beni particolari, come costruire case, piantare vigne. e altre cose del genere: ma non può compiere tutto il bene a lui connaturale così da non commettere qualche mancanza. Un infermo, per es., può da se stesso compiere alcuni movimenti, ma non è in grado di com­piere perfettamente i moti di un uomo sano, se non viene risanato con l'aiuto della medi­cina” (I‑II, q. 119, a. 2).

         Ciò che va rilevato nella dottrina toma­siana del peccato, nella sua essenza e in tutte le sue espressioni, è che non ha nulla di fata­listico, di fiscalistico o di cosistìco, come qualche studioso ha affermato. Per contro la dottrina tomasiana viene formulata con le categorie del migliore personalisnio. Il pec­cato viene presentato come rottura dei rap­porti dell'uomo con Dio: da rapporto di cor­rispondenza, amore, obbedienza, si trasfor­ma in rapporto di avversione, odio, disobbedienza. Il peccato è allontanamento da Dio (aversio a Deo) in quanto misura e fine ulti­mo della nostra vita. L'uomo vuol contare esclusivamente sulle sue forze, rientra in se stesso e si chiude. In tal modo si rende schia­vo del peccato: diventa schiavo di se stesso volendo fare lui da padrone. Tutte quelle energie che traggono alimento dal fine ulti­mo, Dio, cui l'essere umano si trova natural­mente inclinato e chiamato, ora si trovano dirottate verso la propria persona, il nuovo dio. È una situazione tale che una volta che vi si è entrati non rimane più scampo. Uno spirito che si sia allontanato da Dio, non po­tendo operare se non in vista di un fine ulti­mo, deve trasformarsi in un surrogato di Dio. È questa precisamente la misura dell'asservimento. Ma uno spirito non più sot­tomesso a Dio perde anche il potere su altre forze umane, che nella condizione originaria obbedivano spontaneamente ai suoi ordini. Esse ora si rendono indipendenti dal potere della ragione e seguono le loro tendenze (I- II, q. 109, a. 8). I sensi si ribellano e soltanto con grandi sforzi la ragione riuscirà a domi­narli. Questo profondo disordine è la pena necessaria per il peccato, quella che, come manifestazione empirica, si esprime nella sofferenza. L'Aquinate caratterizza la pena per il peccato in questi termini: “Dio lascia l’uomo in balia della sua natura.” (natura hu­mana sibi relinquitur) (I‑II, q. 87, a. 7). È questa la vera e profonda conseguenza del peccato ma anche al tempo stesso la pena che Dio infligge. II peccato sta nel fatto che l’uomo rifiuta l'amore e la grazia di quel Dio che lo chiama a vivere in comunione con Lui. E allora Dio rifiuta questo amore all'es­sere umano, non lo “disturba” più, lo lascia solo a se stesso. E lasciato solo a se stesso l'uomo precipita sempre più in basso.

L'uomo è dunque impossibilitato a ri­mettersi da solo sul retto cammino, a causa della profonda disgregazione che il peccato ha causato nel suo essere: perché egli possa raggiungere la piena realizzazione dì se stes­so e conseguire così la felicità (beatitudine eterna), Dio stesso gli viene in soccorso, in­viando in questo mondo il suo unico Figlio, Gesù Cristo. Questi libera l’uomo dal pecca­to, cioè dalla aversio a Deo, lo riconcilia con Dio e lo costituisce in una nuova condizione di vita: lo status naturae reparatae. In tale stato la imago Dei che, col peccato, era stata indebolita e deturpata ma non distrutta, vie­ne ripulita e potenziata: portata al secondo livello per cui può conoscere e amare Dio in maniera attuale e viene messa anche in con­dizione di raggiungere il terzo livello, in cui conoscerà e amerà Dio in maniera perfetta. L'effetto del risanamento della imago ope­rato da Cristo viene espresso da S. Tommaso (come già da S. Agostino) con la dottrina della gra­zia santificante.

        La grazia viene definita anzitutto, secon­do il linguaggio della Scrittura, come lex no­va: “Princìpaliter lex nova est ipsa gratia Spi­ritus Sanctus, quae datar Christi fidelibus” (I­II, q. 106, a. 1). Ma poi, a livello di appro­fondimento filosofico, Tommaso ricorre al linguaggio aristotelico e definisce la grazia come forma o qualità. È una nuova forma o qualità che diventa nell'anima sorgente del suo agire soprannaturale; non è quindi sem­plicemente un impulso divino ad agire bene, che rimane al dì fuori di noi, bensì qualche cosa che viene posto da Dio dentro il nostro essere trasformandolo. S. Tommaso lo prova me­diante l'analogia di quanto accade nell'ordi­ne naturale. In tale ordine “Dio non prov­vede alle creature soltanto muovendole ai loro zitti naturali, ma donando loro le forme e le facoltà che sono i princìpi di codesti atti, perché da se stesse tendano a essi. Ed è così che i moti impressi da Dio diventano conna­turali e facili alle creature, secondo le parole della Sapienza: "Tutto dispone con soavità". Perciò a maggior ragione egli infonde forme o qualità soprannaturali (formas vel qualita­tes supernatarales) in coloro che muove al conseguimento di un bene soprannaturale, mediante le quali li muove a raggiungere i beni eterni con soavità e con prontezza. Ec­co quindi che il dono della grazia è una qua­lità” (I‑II, q. 110, a. 2). La grazia risiede direttamente nell'essenza stessa dell'anima, non in qualche abito o facoltà, e così rende l'anima partecipe della natura divina: “La grazia, come precede le virtù, così deve ave­re una sede che preceda le potenze dell'ani­ma (dato che le virtù perfezionano le poten­ze): essa cioè deve risiedere nell'essenza del­l'anima. Infatti l'uomo, come partecipa alla conoscenza divina con la virtù della fede me­diante l'intelletto, e all'amore divino con la virtù della carità mediante la facoltà volitiva, così partecipa alla natura divina, secon­do una certa somiglianza, con una nuova generazione o creazione, mediante la natura dell'anima» (I‑II, q. 110, a. 4).

Nella spiegazione del piano soprannatu­rale S. Tommaso si serve come modello del piano naturale e ne riprende tutte le linee fonda­mentali. Ora, l’Aquinate sa bene che nel piano naturale l'uomo, oltre a una forma so­stanziale, l'anima, possiede anche delle fa­coltà (e le facoltà spirituali sono tre: memo­ria, intelletto e volontà): quindi analoga­mente per il piano soprannaturale egli consi­dera necessari, dotare l'anima oltre che di una nuova forma, la grazia, anche di tre fa­coltà: fede, speranza e carità, le quali inve­stono immediatamente le tre potenze natu­rali trasformandole ed elevandole così da metterle in condizione dì svolgere atti con­forti a quella natura divina, di cui l'anima è resa partecipe mediante la grazia. L'aversio a Deo viene così radicalmente estirpata, mentre la conversio ad Deum diviene pro­fonda anche se noti definitiva. La partecipa­zione alla vita divina, secondo S. Tommaso, non è una semplice metafora ma una stupenda realtà. Seppure in modo speculare anziché diretto (“a faccia a faccia”) mediante la fe­de, la speranza e la carità, chi è stato rigene­rato da Cristo e professa la nova lex, cono­sce Dio, lo possiede e lo ama così come Dio conosce, possiede e anima se stesso (I‑II, q. 110, a. 3). Dobbiamo ripetere qui, a propo­sito della dottrina tomasìana della grazia, quanto abbiamo già osservato in precedenza a proposito della sua dottrina sul peccato. Lungi dall'intendere il mistero della grazia secondo schemi fisicalistici, esterioristici, cosistici, come qualcuno gli ha rimproverato, l'Aquinate lo interpreta in un senso squi­sitamente personalistico. La grazia tocca in modo reale e profondo tutto l'essere dell'uo­mo e lo tocca in maniera tale da trasformare radicalmente il suo agire: mediante la con­versio ad Deum: e la generazione alla vita di­vina egli entra nuovamente in rapporti di dialogo, di obbedienza, di amore, di pietà fi­liale verso Dio; e i nuovi rapporti con Dio esigono nuovi rapporti anche col prossimo: diventano anch'essi rapporti di fiducia, di dialogo, di solidarietà, di amore. L'amore verso Dio e verso il prossimo è l’espressione concreta della nova lex che Cristo ha conse­gnato all'umanità. Così il circolo dell'amore si chiude: quell'amore che era partito da Dio per ricondurre l’uomo a se stesso rigenerandolo a nuova vita, ritorna a Dio attraverso l'uomo il quale ora, mediante la partecipa­zione alla vita divina, può amare Dio come Lui ama se stesso.

 

(Vedi: UOMO, ANIMA, CORPO, GRAZIA, PECCATO, SALVEZZA)

 

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