Essenza
Dal
latino essentia, natura di una cosa.
Generalmente denota l’elemento formale costitutivo di una cosa, l’elemento
che l’assegna a una determinata specie e allo stesso tempo la separa da
tutte le altre specie.
1. USO DEL TERMINE IN S. TOMMASO
Generalmente
S. Tommaso adopera il termine essenza per indicare ciò che appartiene necessariamente
a una cosa, e pertanto viene posto nella sua definizione. "L’essenza o
natura comprende in sé soltanto quel che è incluso nella definizione
della specie; così umanità abbraccia solo quel che è incluso nella
definizione di uomo; solo per questo infatti l’uomo è uomo, e precisamente
questo indica il termine umanità, quello cioè per cui l’uomo è
uomo" (I, q. 3, a. 3). "L’essenza propriamente è ciò che viene
espresso dalla definizione. Ora la definizione comprende i principi
specifici e non quelli individuali. Perciò nelle cose composte di materia e
forma l’essenza non significa né la sola forma né la sola materia ma il
composto di materia e di forma in universale (ex materia et forma communi), in quanto sono principi della
specie" (I, q. 29, a. 2).
Nelle
opere giovanili il termine "essentia"
viene anche usato, ma abbastanza raramente, come sinonimo di esse: "Philosophus
accipit ibi esse pro essentia, vel quidditate, quam significat definitio"
(III Sent., d. 6, q. 2, a. 2, ad 4; cfr. III Sent., d. 8, q. 1, a. 5).
Sinonimi
del termine "essenza" nel linguaggio di S. Tommaso sono: natura,
quiddità, "ciò che è" (quod
quid est), sostanza, specie.
2. CONOSCENZA DELL' ESSENZA
Conoscere
l’essenza delle cose è funzione propria della prima facoltà
dell’intelletto, l’apprensione. "Come afferma il Filosofo (nel II
libro del De Anima) l’operazione dell’intelletto è duplice: una è
chiamata apprensione degli indivisibili. Mediante questa operazione esso
apprende l’essenza stessa delle cose. L’altra operazione (il giudizio)
appartiene all’intelletto in quanto unisce o divide" (In I Periherm.,
proem., n. 1). Ciò però non significa affatto che l’essenza sia colta
intuitivamente. Secondo S. Tommaso tutte le conoscenze dell’intelletto
sono frutto del processo astrattivo, persino la conoscenza del concetto di
ente e del princìpi primi (cfr. C. G., II. c. 83). S. Tommaso esclude
perentoriamente sia la teoria platonica della reminiscenza, sia quella
agostiniana dell’illuminazione che affermano che l’anima possiede una
conoscenza diretta e immediata delle essenza delle cose senza passare attraverso
il canale dell’esperienza sensibile (vedi: CONOSCENZA).
Di
fatto, la nostra mente giunge all’apprensione delle essenza a poco a poco,
mediante laboriose considerazioni, accurate analisi, ragionamenti sottili.
Solo alla fine essa riesce a enucleare l’essenza liberandola da ciò che
è occasionale, accidentale, individuale. "L’intelletto, come
suggerisce il nome stesso, denota una conoscenza che raggiunge l’intimità
della cosa. Così, mentre il senso e la fantasia si occupano degli accidenti
che circondano l’essenza della cosa, l’intelletto invece raggiunge
l’essenza stessa. Per questo motivo, secondo il Filosofo, oggetto
dell’intelletto è la quiddità della cosa. Però nell’apprensione
dell’essenza c’è una differenza. Talvolta l’essenza viene appresa
immediatamente e direttamente (apprehenditur
ipsa essentia per seipsam) senza che l’intelletto abbia bisogno di
entrare nell’essenza passando attraverso ciò che la circonda; e questo
è il modo di conoscere proprio delle sostanze separate; per cui sono chiamate
intelligenze. Altre volte non si raggiunge l’intimità della cosa se non
passando attraverso gli elementi circostanti, come se fossero delle porte; e
questo è il modo di conoscere proprio degli uomini, i quali arrivano alla
conoscenza dell’essenza partendo dagli effetti e dalle proprietà. E in
questo c’e bisogno del procedimento discorsivo, perciò la conoscenza
dell’uomo è detta ragione, sebbene si concluda con l’intelletto, in quanto
la ricerca conduce alla conoscenza della essenza della cosa" (III Sent.,
d. 35, q. 2, a. 2. sol. 2).
3. FUNZIONE DELL' ESSENZA
S.
Tommaso, studiando più a fondo dei suoi predecessori il ruolo che
l’essenza svolge in seno all’ente (l’ente reale, non l’ente
intenzionale o logico), giunge alla conclusione che il suo ruolo principale è
quello di porre dei confini alla perfezione dell’essere (che è di diritto
infinita) nell’ente: i confini non vengono imposti né dalla materia né
dalla forma, bensì dall’essenza stessa. Si prenda per es. un banco: perché
non ha un maggior grado di essere e di perfezione di quello che di fatto gli
appartiene? La risposta di S. Tommaso è che il banco, proprio in forza
della sua natura o essenza di banco, non comporta un maggior grado di essere
o di perfezione; potrà essere di materiale più pregiato, lavorato più
finemente, più largo, più alto ecc., ma non potrà mai avere la perfezione
della coscienza, della libertà, della conoscenza, del movimento e tante attre
perfezioni che la sua essenza di banco esclude e che invece l’ente in quanto
actualitas omnium actuum contiene
necessariamente. Quindi la limitazione della perfezione dell’essere negli
enti e, pertanto la ragione ultima della differenza ontologica tra ente ed
essere, va ricercata nell’essenza.
Le
essenze, spiega S. Tommaso, sono come recipienti e contengono tanto di essere
quanto ne comporta la loro capacità; viceversa l’essere si trova negli
enti secondo la misura della capacità delle essenza. "L’essere che
in se stesso è infinito può essere partecipato da infiniti enti e in
infiniti modi. Se dunque l’essere di qualche ente è finito, bisogna che
esso sia limitato da qualche altra cosa, che sia in una certa guisa presente
nell’ente come suo principio" (C. G., I, c. 43, n. 363). Tale è il
ruolo dell’essenza. D’altronde le cose non si possono distinguere le une
dalle altre in ragione dell’essere che è comune a tutte. Perciò "se
differiscono realmente tra loro, bisogna o che l’essere stesso sia
specificato da alcune differenze aggiunte, in maniera che cose diverse
abbiano un essere specificamente diverso, oppure che le cose differiscano,
perché lo stesso essere compete a nature specificamente diverse. Il primo
caso è impossibile, perché all’essere non si può fare aggiunta in quel
modo con cui si aggiunge la differenza specifica al genere. Bisognerà allora
ammettere che le cose differiscano a cagione delle loro diverse nature, per
le quali si acquista l’essere in modi diversi" (C. G., c. 26, n. 239).
L’intuizione che la delimitazione della
perfezione dell’essere è dovuta all’essenza, anziché alla materia o
alla forma, consente a S. Tommaso di disfarsi della teoria dell’ilemorfismo
universale, teoria patrocinata da Avicebron e che ai tempi di S. Tommaso
contava molti seguaci anche tra gli scolastici latini. Secondo questi studiosi
la materia è un elemento che entra nella costituzione di tutte le creature,
compresi gli angeli, perché soltanto la presenza della materia le
distinguerebbe da Dio. S. Tommaso non è di questo avviso. Egli ritiene che
per spiegare la finitudine degli angeli come di qualsiasi altra realtà creata
può bastare l’essenza. (vedi: ANGELI). Questa, in quanto finita, è la
ragione intrinseca della delimitazione della perfezione infinita dell’essere
nell’ente creato (cfr. il testo magistrale De sub. sep., c. 8).
Fungendo da recipiente dell’essere,
l’essenza, rispetto all’essere che è sommamente atto (actualitas
omniun actuum) , Si comporta come la materia rispetto alla forma, cioè
si comporta come potenza. Tuttavia lo stesso S. Tommaso precisa che la
composizione che si stabilsce all’interno dell’ente per mezzo
dell’essenza e dell’essere ha connotati diversi da quelli della
composizione di materia e forma. Ecco come egli spiega la diversità nella Summa contra Gentes: "Non sono identiche queste due
composizioni sebbene ambedue risultino di potenza e atto.
Primo,
perché la materia non è l’essenza (substantia)
stessa della cosa, altrimenti avremmo che tutte le forme sarebbero accidentali
come ritenevano gli antichi naturalisti; la materia invece è una parte della
essenza.
Secondo,
perché l’essere stesso non è l’atto proprio della materia, ma della
sostanza tutta intera; infatti l’essere è l’atto di ciò che può dirsi
esistente. Ora, l’esistere non si dice della materia da sola ma
dell’insieme (de toto). Perciò non può dirsi della materia che essa sia, ma ciò
che veramente esiste è la sostanza.
Terzo.
perché neppure la forma è l’essere, ma c’è fra di loro (la forma e
l’essere) un certo ordine, perché la forma si paragona all’essere come la
luce al risplendere e la bianchezza all’essere bianco. E inoltre alla
forma l’essere si rapporta come atto. Infatti, negli esseri composti di
materia e forma si dice che la forma è principio dell’essere perché è il
complemento della sostanza, il cui atto è l’essere stesso (..). Invece
nelle sostanze intellettuali (o separate), che non sono composte di
materia e di forma ma la stessa forma è in esse sostanza sussistente, la
forma è ciò che esiste; mentre l’essere è sia atto sia ciò per cui
esiste la forma. Per questo motivo vi è in esse la sola composizione di atto
e potenza, composizione che risulta dall’essenza e dall’essere (unica
tantum compositio actus et potentiae, quae scilicet est ex substantia et esse),
e da alcuni viene anche detta di ciò
che è, ed essere oppure di ciò che è e
ciò per cui è" (C. G., II, c. 54, nn. 1287-1293; cfr. De sub. sep.,
c. 1).
La teoria della composizione (e relativa
distinzione) di essenza e essere rappresenta una delle grandi innovazioni
della metafisica tomistica rispetto alla metafisica aristotelica. Aristotele
aveva ristretto l’applicazione della teoria dell’atto e potenza (vedi: ATTO) ai due
casi della materia (potenza) e forma (atto), e della sostanza (potenza) e
accidenti (atto). S. Tommaso nei tessuti dell’ente scopre invece che c’è
un altro rapporto d’atto e potenza, quello tra la natura di una cosa (la
sua essenza) e la sua effettiva realizzazione (l’atto d’essere). Con
questa singolare scoperta egli risolve molto meglio degli ilemorfisti
seguaci di Avicebron il problema della finitudine delle creature angeliche.
4. LA DISTINZIONE REALE TRA ESSENZA E ATTO D’ESSERE
A
dire di molti studiosi autorevolissimi (Gilson, Masnovo, Maritain, Fabro ecc.)
la dottrina della distinzione reale tra essenza e atto d’essere rappresenta
uno dei grandi cardini, anzi il cardine principale di tutta la costruzione
filosofica di S. Tommaso A noi pare che il vero cardine di tutto l'edificio
tomistico sia non la distinzione reale, bensì l’essere concepito
intensivamente. Tuttavia non v’è dubbio che soltanto la distinzione reale consente
a S. Tommaso di mettersi al riparo dagli errori di Parmenide, il quale privo di
tale distinzione, aveva assolutizzato talmente l’essere da vanificare
qualsiasi distinzione tra gli enti.
Tra
gli stessi discepoli di S. Tommaso la distinzione tra essenza e atto
d’essere (che con linguaggio improprio da alcuni è stato chiamato esistenza)
ha costituito argomento di vivaci dispute: e da alcuni (Egidio Romano) è
stata intesa ed espressa in termini di una distinzione eccessivamente
realistica, facendo della essenza e della esistenza due distinti modi di essere:
l’esse essentiae e l’esse existentiae; mentre da altri (Suarez) è stata interpretata
come una distinzione logica con qualche fondamento nella realtà. Ma si tratta
di due interpretazioni errate: S. Tommaso concepisce certamente la distinzione
tra l’essenza e l’atto d’essere come una distinzione reale e non come
una distinzione logica, ma si tratta di una distinzione metafisica e non
fisica (come la distinzione tra anima e corpo) e di una distinzione
metafisica incomparabile, perché si ha esclusivamente tra l’essenza e
l’atto d’essere.
Dalla
stessa funzione espletata dall’essenza rispetto all’essere si evince la
sua necessaria distinzione da esso, una distinzione che non può essere ridotta
al piano logico: la sua funzione è quella di limitare l’infinita perfezione
dell’essere nell’ente. Tale limitazione non viene posta dalla nostra mente
ma la nostra mente la riconosce all’essenza, e non a una essenza astratta
bensì all’essenza concreta, ossia alle essenza che sono dotate dell’atto
d’essere ma in maniera limitata.
La
distinzione reale si evince inoltre dal fatto che i rapporti tra essenza e atto
d’essere sono interpretati da S. Tommaso come rapporti tra potenza e atto, che
sono due aspetti chiaramente, realmente distinti all’interno dell’ente.
E come c’è distinzione reale tra materia e forma, sostanza e accidenti,
analogamente c’è distinzione reale tra essenza e atto d'essere.
Ma
la distinzione reale si trova enunciata esplicitamente dallo stesso S. Tommaso
in numerosi testi. Si veda in particolare: I Sent, d. 19, q. 2, a. 2; De Ver.,
q. 27, a. 1, ad 8; In De Hebd., II, nn. 33-34.
Così
S. Tommaso può concludere contro Avicenna che certamente l’essere è
realmente distinto dall’essenza (sostanza), ma senza diventare per questo un
aspetto accidentale dell'essenza stessa. Infatti "La completezza finale
d’ogni cosa è data dalla partecipazione all’essere. Quindi l’essere è il
completamento d’ogni forma: essa infatti è completa quando ha l’essere, e
ha l’essere quando è in atto: sicché non c’è nessuna forma, se non in
forza dell’essere. Per questo affermò che l’essere sostanziale di una cosa
non è un accidente ma è !‘attualità di qualsiasi forma esistente, tanto di
quelle materiali come di quelle immateriali (Quodl., XII, q. 5, a. 1; cfr. IV
Met., lect. 2, nn. 556-558).
(Vedi: ENTE, ESSERE, ATTO, POTENZA, METAFISICA)
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