PARADISO

 

Dal greco paradeisos, orto, giardino. La S. Scrittura usa questo termine per indi­care sia il luogo privilegiato in cui furono collocati i progenitori prima della Caduta, sia il luogo che Dio riserva alle anime dei giusti dopo la vita presente. Per distinguere tra loro i due Paradisi, al primo si dà il nome di ter­restre, al secondo di celeste. Quest’ultimo più che un luogo è uno stato in cui i beati tut­ti insieme (comunione dei santi) godono della visione e dell’amore ineffabili della Trinità.

 

Dei due paradisi, terrestre e celeste, S. Tommaso presenta ampie e dettagliate descrizioni, che noi qui riassumeremo piuttosto succinta­mente, anche perché si tratta di descrizioni in cui lo stesso Dottore Angelico si è lasciato prendere troppo la mano dalla fantasia e dalla curiosità dei suoi contemporanei.

 


1.     PARADISO TERRESTRE

 

Secondo S. Tommaso il Paradiso terrestre fu un luogo reale, altrimenti la Scrittura non ne avrebbe fatto una narrazione storica. Fu un luogo conveniente all’uomo innocente, che era per grazia immortale. infatti alla causa interna di morte si ovvia col cibo e nel Paradiso c’era l’al­bero della vita; causa esterna di morte è un clima perfido e nel Paradiso terrestre c’era un clima sano e mitissimo. Dio pose l’uomo nel Paradiso "per custodirlo da ogni corruzione e da ogni male. Ma Dio pose l’uomo nel Paradiso an­che perché l’uomo a sua volta vi lavorasse e custodisse quel luogo di delizie. Ne tuttavia quell’occupazione sarebbe stata laboriosa come accadde dopo il peccato, ma piacevole per l’esperienza della divina natura. Ne quella custodia sarebbe stata contro qualche invasore, ma solo contro il peccato" (I, q. 102, a. 3).

 

2.     LA VISIONE BEATIFICA

 

Ciò che caratterizza il Paradiso celeste è la per­fetta beatitudine, la quale, secondo S. Tommaso, consiste essenzialmente nella visione beatifi­ca. In un’antropologia come quella dell’An­gelico che afferma il primato assoluto dell’intelletto rispetto alla volontà, è logico che si faccia consistere la beatitudine essenzial­mente nella conoscenza, diretta, immediata, personale di Dio. "Questa visione immedia­ta di Dio ci viene promessa nella S. Scrittu­ra: “Vediamo ora come per uno specchio in enigma; allora vedremo faccia a faccia” (1 Cor 13, 12). Parole queste che non sono da intendere in senso materiale, così da imma­ginare che Dio abbia una faccia corporea. Si è visto infatti (libro I, c. 27) che Dio è incor­poreo. E neppure è possibile che noi vedia­mo Dio con la nostra faccia materiale, poi­ché l’organo visivo che ê nella nostra faccia, Si limita alle cose materiali. Quindi noi ve­dremo Dio faccia a faccia, nel senso che lo vedremo immediatamente, come quando vediamo un uomo faccia a faccia. E con que­sta visione noi otteniamo la massima somi­glianza con Dio e diveniamo partecipi della sua beatitudine, perché Dio stesso intende la sua sostanza per mezzo della sua essenza, e questa è la sua felicità" (C. G., III, c. 51).

 

     Neppure dopo la risurrezione i beati vedran­no Dio con gli occhi corporali, perché questi percepiscono soltanto colori   e dimensioni, che in Dio non ci sono. Degli occhi corporali i beati si potranno servire per vedere le bel­lezze del mondo rinnovato annuncianti Dio, e per vedere l’umanità di Cristo (Suppl., q.92, a. 2).

 

Pur vedendo Dio, i santi non possono vedere tutto ciò che vede Dio, il quale cono­sce tutte le realtà con la scienza di visione e conosce tutti i possibili con la scienza di sem­plice intelligenza. I beati non possono cono­scere tutti i possibili, perché per ciò occorre un intelletto che eguagli l’infinita potenza di Dio, mentre il loro intelletto resta sempre un intelletto finito; non conoscono tutte le realtà benché vedano Dio, perché conoscere la causa non vuol dire conoscere tutti gli ef­fetti: la scienza dei beati varia perciò secon­do il grado del lume di gloria con cui vedono la divina essenza (Suppl., q. 92, a. 3).

 

3.     LA DOTE DEI BEATI

 

Parlando del premio che i beati ricevono in Paradiso, S. Tommaso distingue tra dote e aureola. La dote che e lo sposalizio con Cristo è comune a tutti e consiste essenzialmente in tre doni: vedere Dio, conoscerlo come bene presente, sapere che tale bene presente è da noi posse­duto; ciò corrisponde alle tre virtù teologali della fede, speranza e carità (Suppl., q. 95, a. 5). Invece l’aureola è uno speciale splen­dore che cinge l’anima dei beati e varia a Se­conda delle virtù in cui ciascuno si è reso eminente nella propria vita. Tre sono le bat­taglie che incombono a ogni uomo: contro la carne, contro il mondo e contro il diavolo; tre le vittorie privilegiate che se ne possono quindi riportare; tre, di conseguenza. i privi­legi o aureole corrispondenti, cioè l’aureola dei vergini, dei martiri e dei dottori. Il pre­mio si proporziona al merito, e questo può essere maggiore o minore; maggiore o mino­re perciò può essere anche il premio acci­dentale, cioè l’aureola: uno può quindi ave­re un’aureola più fulgida di un altro (Suppl., q. 96, aa. 11 e 13).

 

(Vedi, BEATITUDINE)


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