Le angherie, le
ingiustizie e i soprusi subiti dai pastori aurunci sono state
veramente tante nel corso dei secoli. I signori (principi,
marchesi, conti e baroni) conquistavano con la spada o si vedevano
assegnare dai re, per "benemerenze", feudi, villaggi e montagne e
su essi dominavano dettando leggi dure per sudditi umili, poveri
ed indifesi. La proprietà era del signore e chi la coltivava o vi
pascolava il bestiame doveva pagarla a caro prezzo. Nel corso di
mie recenti ricerche storiche ho trovato documenti con i quali,
sin dal 1300, per antichi diritti di proprietà, alcuni villici
"ebbero l'ardire" di rivendicare i loro beni al cospetto dei
padroni. Alcuni casi, ad esempio, si registrarono sui Monti
Aurunci, compresi nella Contea di Fondi, allorché una commissione
nominata da Onorato II ebbe l'incarico di compilare l'inventario
dei suoi beni. Nella migliore delle ipotesi, il conte aveva
concesso ad alcune famiglie di coltivare piccoli appezzamenti di
terreno, pagando tasse, fida, balzelli vari, nonché fornendo
prodotti in natura: legna da ardere, frutti della terra e almeno
un cappone o un capretto per le feste ricorrenti. Pochi contadini
e pastori potettero dimostrare che la terra coltivata era di loro
proprietà. Ad esempio nell'inventario del 1491 sul "Castello di
Campodimele" la commissione attestò: "In verità, i sopraccitati
(cittadini) dicono che anticamente i detti monti (Aurunci) e altri
luoghi boscosi del circondario di detta terra erano di
proprietà privata, come si vede che ci sono, attualmente, alberi
di ulivi, peri ed altri alberi fruttiferi e resti di macere (muri
a secco) e forni e da poco tempo l'illustre signor conte di Fondi
ci ha fat-to usare dette cose, e dove c'erano le ghiande ha posto
i suoi porci con grande pregiudizio per gli stessi cittadini di
detta terra: però si riservano su questo ogni loro diritto ed uso
e quando
vogliono li possono cacciare e ridurre a cultura a loro arbitrio e
volontà".
Tra quei pochi sudditi che tentarono di
ribellarsi e rivendicare la proprie-tà vi fu tal mastro Nardo di
Cicca Barosa, il quale - come riporta lo stesso inventario -
"mostra un testamento redatto al tempo del Papa Gregorio nel 1378,
dove si attestano alcuni possedimenti, tra i quali una terra...".
Anche un arciprete rivendicò il diritto di proprietà su dieci
tomoli di terra esibendo un "inventario pubblico in carta di cuoio
fatto al tempo di Carlo II, nell'anno del Signore 1307". Per
secoli lo strapotere dei signori tenne in grave soggezione e
miseria contadini e pastori, sino a quando, ai primi
dell'Ottocento questi, aggregandosi, non trovarono la forza di
ribellarsi e - grazie allo spirito nuovo indotto dalla rivoluzione
francese - chiamarono in giudizio i padroni. Nel "Bullettino delle
sentenze emanate dalla Suprema Commissione per le liti fra i già
Ba-roni ed i Comuni" istituiti dal Regno delle Due Sicilie ho
rinvenuto provvedimenti molto interessanti degli anni 1809 e
seguenti, nei quali il feudatario principe di Fondi Vincenzo di
Sangro fu richiamato al rispetto di alcuni diritti di pastori e
contadini: "Si servano i cittadini di Lenola e Campodimele de'
loro diritti di pascere, acquare e pernottare ne' demani di Fondi
dichiarati comunali". Con altra sentenza il principe fu condannato
ad astenersi dall'esigere la fida e di restituire le somme
indebitamente esatte ai predetti allevatori e coltivatori. Di
questo ed altro riferisce il mio recente libro "Re, Briganti e
Streghe nella Terra dei Longevi (ed. Alges, Gaeta, 2001). Ho
raccolto anche aneddoti, racconti e leggende che forniscono uno
spaccato significativo dei tempi andati nel Lazio Meridionale,
quando con un "pollastro" offerto al signore si ottenevano
privilegi e favori o quando bastava una "scudella di grano" per lo
sfruttamento di un appezzamento di terreno ad Ambrifi, a Valle
Bernarda, a Campello o ad Appiolo. |