Tocs tirâs fur

            

Caro Discepolo,

ho letto per la prima volta le tue poesie una mattina all’alba a Cividale, nella stanza d’albergo, mentre Gianni dormiva amcora e il sole non si decideva a sorgere dietro Castelmonte. Le ho rilette poi in un non “luogo”, il treno per Roma, durante un lungo viaggio con un andirivieni confuso di viaggiatori nel nostro scompartimento.

Le ritrovo oggi nella mia casa a Roma tra gli oggetti familiari, con un sole che spacca. E mi accorgo che, come piccole bombe a orologeria, queste poesie hanno lavorato dentro di me, precisando e definendo ad ogni nuova lettura un percorso delimitato da due segnali: le due splendide foto.

Nella prima foto, buio, nero profondo. Una piccola apertura inquadra tanto cielo e solo le vette della montagna : “Alzo gli occhi...”. I monti, il cielo, le stelle, la luna, il sole... Il desiderio del volo (“e allora caro mio:/ o scendi dall’albero o impari a volare”; “Vorrei sfiorarti  e cominciare a volare...”) è un tentativo di evasione da una realtà (realtà?) di squallidi opportunismi, di ipocrisia ed esteriorità.

Come sottrarsi infatti ad un modno di inganni (“Ma che cazzo ci sto a fare qua, / questo non è mica il mio mondo!”), ad una “esistenza meccanica:/ sostanzialmente incolore”?

Baudelaire diceva nei suoi Petits poèmes en prose: < Envirez-vous !, < Ubriacatevi !> .

La musica è come droga, genera sogni, ma...

 

                                                “I miei sogni sono:

                                                un volo senz’ali,

                                                un albero senza radici,

                                                un aereo in picchiata

                                                ed essi sono come me

                                                senza futuro!

                                                Ed è inutile sperare in meglio:

                                                Le speranze sono sogni!”

 

Nasce così una poesia dalle forti connotazioni etiche, un atto d’accusa che prende le distanze dal

“buio”: “Sognare, sognare sempre / estraniarsi dalla realtà / accusarla di crudezza e malvagità.”

Realtà? “Ma in fondo, / anche la realtà / è un sogno chiamato incubo.”

Che cosa resta dell’indignazione, della passione, della tristezza profonda?

 

                                                “Come chi sfoga l’eccitazione

                                                con una masturbazione,

                                                io sfogo la mia tristezza  con

                                                un pensiero che tale rimane.

                                                ... e non resta che pulire

                                                per cancellare prove di perversione.”

 

E allora? Non c’è proprio salvezza, in questa “vita senza struttura portante”, che va ineluttabilmente verso un “destinazione ignota”?

 

Ma un volta toccato il fondo non si può che risalire. Ed ecco che, sorprendentemente, nasce un canto consapevole di disperata energia

 

                                                “ La to voe di lâ indenant

                                                è je tant che un gjat,

                                                chê di cori e di butasi

                                                di volade intun lac glaciât.”

 

La riscoperta della LINGUA perduta con la sua SCRITTURA riscatta il nulla. Ricordi i nostri discorsi all’”Osteria delle Querce” ? Vi dicevo: “Alla lingua nascosta, alla lingua minacciata, bisogna dare voce per farla vivere...”. O forse per farCI vivere.

“Nol è simpri il moment di scrivi, forsit nancje chel ca, / ma bisugne sfuarciasi. Il sito tache a fami pore.”

E si va avanti così “ Platât cjâf e cûr  intune pene che scrîf”, sperando che non finisca la carta.

 

Ma, anche se appeso ad un filo, c’è un corpo LIBERO, uno sguardo che scopre la libertà proprio nel nulla, nelle ferite di una terra “sence parons, sence stâts, sence dius”.

 

Dal vuoto al niente: non si aspetta più nulla dal cielo, ma c’è lucida e matura accettazione della propria immagine nebbiosa – come nell’ultima bellissima foto, come in questa splendida conclusione:

 

                                                “Come simpri tal vueit e tal plen

                                                ringrazi ce e chei che mi an fat cressi

                                    cussì: imateriâl.”

 

L’Arlêf non è rimandato a settembre: per me è promosso a pieni voti.

 

Un abbraccio

Paola