Questa relazione è basata su alcuni scritti del Prof. Suzuki, grande personalità del Buddismo Zen, ho reputato inoltre interessante e stimolante richiamare alcune riflessioni sullo Zen del monaco trappista Thomas Merton.
Nella filosofia Zen, di fatto tutta la filosofia buddista,
non si fanno distinzioni tra termini logici e termini psicologici,
e gli uni si traducono negli altri abbastanza facilmente.
Dal punto di vista della vita, tali distinzioni non possono esistere
perché qui la logica è psicologia e la psicologia
è logica.
Il termine cinese per discriminazione è "fen-pieh",
che è una traduzione dal sanscrito "wikalpa",
dividere e tagliare con un coltello.
Per discriminazione s'intende perciò conoscenza analitica,
la comprensione relativa che usiamo nei nostri quotidiani rapporti
della vita, e anche nei nostri pensieri altamente speculativi.
Secondo il modo di pensare buddista, o, piuttosto, secondo l'esperienza
buddista, questo potere di discriminazione è basato sulla
non-discriminante Prajna, conoscenza trascendente, che è
insieme l'atto del conoscere e l'"oggetto" del conoscere,
ossia la Realtà Ultima. (la parola oggetto è posta
tra virgolette, poiché quando Dio diventa oggetto, scrive
Merton, presto o tardi "muore", perché Dio come
oggetto è inconcepibile vedi Cartesio).
La Prajna è ciò che vi è di più fondamentale
nell'umano intelletto, ed è con questo che siamo in grado
di vedere addentro nell'Autonatura, che tutti noi possediamo e
che è anche conosciuta come natura del Budda.
Suzuki cerca di illustrare il concetto di Prajna con una metafora,
poi, via via, cercheremo di chiarire anche gli altri termini qui
usati.
E' come ammirare un bel pezzo di broccato, dice Suzuki.
Alla superficie vi è una confusione quasi sconcertante
di bellezza , e il conoscitore non riesce a rintracciare l'intrico
dei fili. Ma, non appena lo si rovescia, la stoffa rivela tutta
l'intricata bellezza e l'abilità della fattura.
Prajna consiste in questo rivoltare. L'occhio ha seguito finora
la superficie del panno, che, in realtà, è l'unica
parte che ci è dato vedere comunemente. Ora il panno è
rovesciato all'improvviso, il corso della visione viene bruscamente
interrotto. Con questa interruzione, o meglio rottura, l'intero
schema della vita viene afferrato improvvisamente: si ha il vedere
nella propria Autonatura.
Il lato della ragione è sempre presente, ed è a
causa di questo lato non visto che il lato visibile ha potuto
mostrare la sua multiforme bellezza. Questo è il significato
del concetto che il ragionamento discriminante è sempre
basato sulla Prajna non-discriminante, e che tutte le cose sono
quelle che sono, malgrado siano disposte nel tempo e nello spazio
e soggette alle cosiddette leggi di natura.
Questo qualcosa che condiziona tutte le cose e non è esso
stesso condizionato da alcuna cosa, assume vari nomi a seconda
del punto di vista da cui viene considerato.
Dal punto di vista spaziale viene chiamato "informe", in contrasto con tutto ciò che può essere compreso sotto il concetto di forma; dal punto di vista temporale esso è "non-permanente", non essendo diviso in frammenti chiamati pensieri e, come tale, trattenuto e conservato come cosa permanente; dal punto di vista psicologico esso è l'"inconscio", nel senso che tutti i nostri pensieri e sentimenti coscienti si sviluppano dall'"Inconscio", che è la Autonatura o la Mente, ossia abolizione dell'attività pensante dualistica; dal punto di vista dell'agire è "non-agire (wu-wei) vuoto di azione, uno stato di grazia in cui tutto è libertà perché tutto è azione inattiva.
Chiariamo meglio il concetto di "Inconscio" zen per
non equivocarlo con l'inconscio degli psicologi.
Per Inconscio si intende aver pensieri eppure non averne, non
avere la mente macchiata mentre è in contatto con tutte
le circostanze della vita, è essere sempre distaccati dalle
condizioni oggettive nella propria coscienza, far fronte a tutte
le condizioni oggettive eppure essere liberi da ogni forma di
emozione.
L'Inconscio zen è perciò fondamentalmente diverso
dall'inconscio degli psicologi, esso ha un significato metafisico.
Esso è non pensare in termini dualistici, è non
pensare all'essere e al non-essere, al bene e al male, di aver
limiti e non aver limiti, è non pensare alle misure o alle
non-misure, non pensare all'illuminazione né pensare di
essere illuminati, è non pensare al Nirvana, né
pensare di raggiungere il Nirvana.
L'"Inconscio" è, per usare una fraseologia cristiana,
che "sia fatta la sua volontà" e non la mia.
Tutti i fatti e gli accadimenti che vengono a me dipendono dalla
volontà divina, fintanto che, da parte mia, non vi sono
attaccamenti, bramosie. Non esclama forse Cristo "non darti
dunque pensiero del domani, perché il domani si darà
da sé pensiero delle cose"?
Vediamo ora l'Ultima Realtà zen da un altro punto di
vista, esaminando il concetto di Autonatura.
Per Autonatura si intende la natura del Budda, che, nei termini
del Prajnaparamita, è Essenza (tathata) e Vuoto (sunyata).
Essenza significa l'Assoluto, qualcosa che non è soggetto
alle leggi della relatività, e che, perciò, non
può essere compreso per mezzo della forma. L'Assoluto è
quindi senza forma.
Nel buddismo forma (rupa) è opposto a non-forma (arupa),
che è l'incondizionato. Questo incondizionato, senza forma,
è il Vuoto. Vuoto non è un'idea negativa e non significa
neppure privazione, ma, poiché non si trova nella sfera
dei nomi e delle forme, viene chiamato il Vuoto.
Il Vuoto è irraggiungibile, ossia si pone al di là
della percezione, al di là della comprensione, eppure è
sempre con noi e in noi, condiziona tutta la nostra conoscenza,
tutti i nostri atti e la nostra stessa vita. E' solo quando tentiamo
di coglierlo e di presentarlo come una cosa davanti ai nostri
occhi, che esso ci elude, frustra i nostri sforzi e svanisce come
il vapore.
Ora che abbiamo preso confidenza con il mondo e la terminologia
buddista e zen, ci possiamo porre la seguente domanda.
Com'è possibile alla mente umana passare dalla discriminazione
alla non-discriminazione, dalle affezioni all'assenza di affezioni,
dall'essere al non-essere, dalla relatività al vuoto, dall'ignoranza
all'illuminazione?
Come questo passaggio sia possibile è il grande mistero
non solo del buddismo ma di tutte le religioni. Il raggiungimento
del Tao, da cui tutte le cose traggono origine, della Realtà
Ultima, non avviene in un continuo procedere dall'errore alla
verità, dall'ignoranza all'illuminazione.
Il processo di illuminazione è improvviso, significa che
vi è un salto, logico e psicologico, nell'esperienza buddista.
Il salto logico è che il comune processo di ragionamento
si arresta di colpo e si percepisce che quanto era stato considerato
irrazionale è perfettamente naturale.
Il salto psicologico è che i limiti della conoscenza vengono
sorpassati e cisi trova immersi nell'"Inconscio".
Questo processo è discontinuo, improvviso e assolutamente
incalcolabile; questo è "Vedere nella propria Autonatura",
è raggiungere l'assenza di pensiero, il vuoto mentale.
Ciò non è il risultato del ragionamento, ma avviene
quando il ragionamento è stato abbandonato perché
futile, e, psicologicamente quando la forza di volontà
si annulla. Insomma quando "si lascia la presa". E'
ciò che vedremo parlando del "mondo" e del "koan".
Secondo la visione Zen vi sono dunque due piani di vita: il
piano della coscienza e il piano dell'"Inconscio".
Le attività appartenenti al primo sono regolate dalle leggi
del Karma, mentre quelle del secondo appartengono all'"Inconscio",
al Prajna non-discriminante, e sono caratterizzate dall'assenza
di scopo e quindi di merito. La vita genuinamente religiosa prende
l'avvio da qui e dà i suoi frutti sul piano della coscienza.
Il Budda, con tutte le sue attività terrene tra noi, vive
sul piano dell'"Inconscio", in un mondo privo di sforzi
e di meriti, dove le categorie teleologiche(ossia finalistiche)
non sono applicabili.
Il buddismo zen è un monachesimo mistico, ma di un misticismo
tutto speciale nella sua ricerca dell'unione con la Realtà
Ultima, non dottrinale, antintellettualistico, e assolutamente
esperienziale.
Lo Zen possiede due tecniche esclusive di "allenamento":
il "mondo" o dialogo zen e il "koan" o enigma.
Ecco alcuni esempi di "mondo".
Un monaco chiese a un maestro zen: "Che diresti se tanto
la mente quanto i suoi oggetti fossero dimenticati?".
La mente e i suoi oggetti significano questo mondo di relatività,
in cui il soggetto è opposto all'oggetto, l'uno al molteplice,
etc. ; dimenticare questo significa trascendere un mondo di dualità
ed essere fusi con l'Assoluto.
La risposta fu: "Un rospo a tre zampe porta sul dorso un
enorme elefante".
Il maestro resta fermamente nell'Inconscio e rifiuta di lasciarsi
trasferire sul piano della coscienza, questo confonde il novizio.
Il maestro rifiuta di lasciarsi irretire nella trappola della
mente dualistica, la risposta vuole essere assurda, irrazionale
e tale da spingerci a oltrepassare i limiti della nostra comprensione
logica, così da farci scoprire una verità che esprima
direttamente la nostra stessa esperienza, non colorata dall'intelletto,
non il prodotto dell'intelletto, la sovrastruttura speculativa,
ma l'atto autentico che ha radici nell'Inconscio.
Occorre veramente fare un'esperienza prima di poter entrare nello
spirito del maestro, e, allora, la comprensione seguirà
da sé.
Ciò che conduce nel trabocchetto gli studiosi dello Zen
è il tentativo di sostituire una comprensione concettuale
o intellettuale di una esperienza alla stessa esperienza genuina
dello Zen.
Un'altra volta il maestro può essere più benevolo
e fornisce una spiegazione.
Il monaco Yuan chiese al maestro Hui-hai: "Quando ci si esercita
nel Tao, (ossia la Realtà Ultima) vi è qualche maniera
speciale per farlo?"
Il maestro: "Sì c'è"
Il monaco: "Qual è"
Il maestro: "Quando ho fame mangio e quando sono stanco dormo"
Il monaco: Questo è quanto fanno gli altri, il loro mondo
è dunque uguale al tuo?".
Il maestro: "Non è lo stesso".
Yuan: "Perché no?"
Hui-hai: "Quando mangiano essi non mangiano e basta, ma evocano
fantasie di ogni genere; quando dormono non dormono e basta, ma
si abbandonano ai più svariati e inutili pensieri.
Ecco perché il mio mondo non è come il loro.
Il monaco non domandò più nulla.
L'atto del mangiare si frammischia all'intellezione e, in questa
invasione da parte dell'intelletto, i semplici atti biologici
vengono contaminati dall'interesse egocentrico. Si verifica una
perdita di una innocenza originaria, come viene ricordata nel
mito biblico dell'Eden.
Nello Zen, e nel buddismo in generale, viene chiamata "contaminazione
affettiva (klesha) superando la quale lo Zen cerca di afferrare
il senso della vita alla sua radice.
Il detto più famoso del maestro Ma-tsu è: "Questa
mente è il Budda stesso, la mente quotidiana (o pensiero)
di un uomo è il Tao".
La mente, in questa espressione non ha alcun riferimento con la
nostra concezione psicologica della mente o dell'anima; è
piuttosto uno stato mentale in cui non si ha coscienza specifica
del suo funzionamento, uno stato che ci ricorda ciò che
i filosofi chiamano "appercezione trascendentale".
Si tratta di uno stato d'incoscienza che accompagna ogni atto
conscio e inconscio della mente, è ciò che costituisce
la buddità.
Lo Zen è qualcosa in diretto contatto con la nostra vita
quotidiana, non ci sono speculazioni che sfrecciano verso il cielo,
nessuna astrazione da far girar la testa, nessuna sentimentale
dolcezza che trasformi la religione in un dramma d'amore. I fatti
dell'esperienza quotidiana vengono presi così come giungono
a noi e da essi si ricava uno stato di vuoto mentale.
L'idea dello Zen è che, se l'Inconscio può essere
conosciuto, ciò è possibile soltanto nel nostro
pensiero comune, perché non vi sono intermediari con ciò
che denominano il visto, l'udito, il pensato, il conosciuto. Ogni
atto di questi è permeato dall'Inconscio. La mente percettiva
è troppo occupata con l'attenzione verso l'esterno e dimentica
di avere dietro di sé un abisso insondabile di Prajna,
l'Inconscio, la Realtà Ultima, da cui tutte le cose traggono
origine.
Allo scopo di sfiancare il pensiero dualistico che ci impedisce
di cogliere la Prajna, lo Zen possiede un originalissimo metodo
elaborato in Cina nel Xll secolo, il Koan.
Per Koan si intende una sorta di problema che il maestro assegna
ai discepoli, affinché ne trovino la soluzione. Un Koan
classico è il seguente: "Se questo è il battito
di due mani, qual è il suono emesso da una mano?"
Quesiti non-senso di questo tipo hanno lo scopo di mortificare,
annullare l'intelletto dualistico, che non è in grado di
rispondere alle domande ultime, né di comprendere la totalità
dell'esistenza umana o la Realtà Ultima.
Il Koan dunque non può essere risolto con la testa ma,
dice lo Zen in forma simbolica, con l'addome, non con l'intelletto
ma con la volontà, ossia il Koan deve essere portato giù
nell'inconscio e non nel campo consapevole della coscienza (detto
per inciso, il misticismo cristiano percorre la via del cuore,
si avvale della sfera del sentimento).
Occorre qui fare un chiarimento.
Il Buddismo ha molte sfaccettature, ma, sostanzialmente, come
in tutte le grandi religioni, sono due gli aspetti dominanti:
il corpo dottrinale e il corpo mistico.
Per lo più, in Occidente, si conosce il Buddismo raziocinante,
quello delle Quattro Nobili Verità, Dell'Ottuplice Cammino
della Rettitudine, etc. Però, il Buddismo degli ordinamenti
sistematici è il prodotto a posteriori dell'esperienza
stessa che il Budda fece sotto l'albero della Bodhi, del Risveglio.
Esso offre al praticante un cammino consumato nell'esercizio delle
normali facoltà intellettuali.
Lo Zen, al contrario, è antintellettualistico, mistico,
esperienziale come accadde al Budda.
Per lo Zen Dio non è Logos ma Volontà Primordiale,
e considera quest'ultima il principio che si pone alla base di
tutte le esistenze, tutte unendole nell'unità dell'Essere.
Non c'è cosa che non esprima volontà di esistere:
le rocce sono dove sono, questa è la loro volontà,
i fiumi scorrono, questa è la loro volontà, le piante
crescono, questa è la loro volontà, gli esseri umani
parlano, questa è la loro volontà, le stagioni mutano,
questa è la loro volontà, le stelle brillano, questa
è la loro volontà.
Ma attenzione, la Volontà Primordiale non è cieca,
né inconscia, appare tale a causa della nostra ignoranza
(avidya) che ci rende dimentichi persino della sua esistenza reale.
Quella Volontà è Prajna più Karuna, Sapienza
più Amore.
La meditazione buddista, soprattutto zen, osserva Merton, non
cerca di spiegare ma di prestare "attenzione", acquistare
consapevolezza, sviluppare un certa tipo di coscienza che è
al di sopra e al di là dell'inganno delle formule verbali
o dell'eccitazione emozionale. Inganno in che cosa? Nel concetto
che essa coscienza ha di sé, quale realmente è,
inganno dovuto a diversione e distrazione da ciò che è
proprio lì: la coscienza stessa.
Lo Zen non è "kerigma" (ossia annuncio della
fede ai non credenti) ma conoscenza, non rivelazione ma coscienza,
non lieta novella del Padre che manda il figlio suo nel mondo,
ma la consapevolezza del fondo ontologico del nostro essere, qui
ed ora, appunto in mezzo al mondo.
Ecco una storiella che descrive bene lo spirito zen.
Un monaco domandò a un grande maestro, Hui Neng, il
Sesto Patriarca: "Chi ha ereditato lo spirito del Quinto
Patriarca?" (cioè, chi è adesso il Patriarca?).
Hui Neng rispose: "Uno che conosce il Buddismo".
Il monaco incalzò: "Allora lo hai ereditato tu?".
Hui Neng: "No".
"Perché no?", chiese il monaco.
"Perché io non conosco il Buddismo", rispose
il maestro.
Che vuol dire, "io non possiedo ciò che tu cerchi",
in altre parole, il maestro non vuole impartire un insegnamento
che provenga dalla sua autorità, una dottrina sull'Illuminazione,
che non farebbe germogliare lo Zen nell'altro.
Il monaco, nei dialoghi zen, continua Merton, si sforza di
capire, mentre dovrebbe cercare di "vedere". I detti
zen, apparentemente misteriosi e criptici, diventano più
semplici se li consideriamo nell'intero contesto dell'attenzione
e consapevolezza buddista, che, nella sua forma elementare, consiste
in quella "nuda attenzione" che semplicemente "vede"
quello che c'è e non aggiunge alcun commento né
interpretazione, né giudizio, né conclusione. "Vede"
soltanto. Imparare a vedere in questo modo è l'esercizio
fondamentale della meditazione buddista.
Se a un certo punto non si riesce a comprendere, non è
una tragedia: è semplicemente un avvertimento di smettere
di pensare e di cominciare a guardare.
L'uomo ha in sé la tendenza a "falsificare" il
rapporto col mondo e con le cose. Questa falsificazione è
chiamata dai buddisti "avidya" (ignoranza). E' una disposizione
a considerare l'io empirico una realtà assoluta e centrale,
e a rapportare ad esso tutte le cose come oggetto di desiderio
o di repulsione.
Invece di vedere le "cose" e i "fatti" come
sono, li vediamo come riflessioni e verificazioni di giudizi che
abbiamo precedentemente formulato nella nostra mente.
Lo Zen usa il linguaggio contro il linguaggio, per demolire quei
preconcetti e distruggere la "realtà" fittizia
nella nostra mente, affinché possiamo vedere direttamente.
Lo Zen dice, come ammonisce Wittgenstein, "Non pensare, guarda".
Lo Zen mira sempre a cogliere il fatto centrale della vita, che non può mai essere portato sul tavolo di dissezione dell'intelletto. Per cogliere il fatto centrale della vita, lo Zen è costretto a proporre una serie di negazioni. La negazione, però, non è per se stessa lo spirito dello Zen. Perché non vi è né affermazione, né negazione, ma un fatto ordinario, una pura esperienza. E' in questo senso che lo Zen non insegna nulla, solo ci mette in condizione di svegliarci e di divenire coscienti. Non insegna, addita.
C'è qualcos'altro, nello Zen, che merita di essere sottolineato,
dice Merton. Se questa mente è il Budda stesso, se la mente
quotidiana (o pensiero) di un uomo è il Tao, ciò
significa che il "nirvana" è in mezzo al mondo
che ci circonda, e la verità non è qualcosa di diverso
dal mondo che ci circonda. Essere qui ed ora, dove siamo e come
siamo, è essere nel "nirvana", ma, finché
abbiamo una brama, falsifichiamo la nostra situazione e non possiamo
realizzarla come "nirvana".
Se fossimo capaci di un istante di perfetta autenticità
capiremmo subito che "nirvana" e "samsara"
(il mondo delle reincarnazioni) sono la stessa cosa.
A questo proposito, è interessante e assai opportuno il
richiamo di Padre Merton ai "Fratelli Karamazov", perché
offre l'occasione di riconoscere la nostra condizione di Occidentali.
Alla vigilia della sua morte lo staretz Zosima dice: "Noi
non comprendiamo che la vita è paradiso, poiché
basta soltanto desiderare comprenderlo e subito il paradiso apparirà
dinanzi a noi in tutta la sua bellezza".
Ovviamente, commenta Merton, il "desiderare" di Zosima
non è un pio desiderare, una semplice velleità,
significa uno sconvolgimento e una trasformazione di tutta la
vita. Si deve desiderare questa sola realizzazione e mettere da
parte ogni altro desiderio, ci si deve dedicare con tutto il cuore
e l'anima alla riconquista della propria "innocenza"
(per un cristiano non avviene senza la Grazia divina).
Nella purezza dell'innocenza originale, tutto si compie in noi
ma senza di noi, "in nobis et sine nobis". Ma prima
di raggiungere questo livello, dobbiamo anche imparare a operare
in un altro livello di "conoscenza" dove la grazia opera
in noi ma "non senza di noi, "in nobis sed non sine
nobis". L'innocenza, sostiene Merton, non esclude né
distrugge la conoscenza. Esse devono procedere insieme. E' proprio
in questo che molti uomini apparentemente spirituali hanno fallito.
Alcuni di essi erano talmente innocenti da aver perduto ogni contatto
con la realtà quotidiana della vita in un mondo di uomini
agitato e complesso. Avevano coltivato una mancanza di conoscenza
senza la presenza della saggezza.
Ma attenzione, il regno della conoscenza (scientia) è un
regno in cui l'uomo è soggetto all'influenza del demonio,
poiché, direbbe l'antroposofia, potenziatosi il pensiero,
il demonio si annida nelle idee.
La purezza di cuore conosce Dio non per concetti o visioni, ma
solo per "ignoranza", e questo sembra avvicinare il
misticismo cristiano allo Zen.
Sembra possibile, a questo punto, proporre un parallelismo tra
la dimensione escatologica del Cristianesimo e la missione del
Bodhisattva. Quest'ultimo si propone di riscattare dalla sofferenza
gli uomini, il Cristianesimo di realizzare l'opera della "nuova
creazione" la restaurazione di tutte le cose in Cristo. Il
mondo fu creato senza l'uomo, ma la "nuova creazione",
che è il vero regno di Dio, dev'essere l'opera di Dio nell'uomo
e attraverso l'uomo.
Per lo Zen, come del resto in tutta la spiritualità
orientale, il divenire del mondo è la manifestazione fallace
dei sensi, del molteplice illusorio; lo Zen è interessato
all'Essere, alla pienezza ontologica, conquistata la quale la
realtà fenomenica si nirvanizza ed è vissuta pienamente.
Per l'occidente il divenire appartiene al processo spirituale,
nella fusione col mondo l'uomo apporta la sua coscienza, la quale
è un fattore di trasformazione. Per l'Antroposofia, in
particolare, questa fusione si attua attraverso il pensiero. "Non
io soltanto penso", afferma Steiner, "ma si pensa in
me,
il divenire del mondo si esprime in me, la mia anima offre soltanto
il campo d'azione nel quale il mondo si esplica sotto forma di
pensiero..Nel pensare mi sento tutt'uno col fluire del divenire
universale."
Gli zen, osserva Suzuki, non vivono fuori dalla società,
non possono ignorare i valori etici. Soltanto vogliono avere il
cuore interamente mondo da tutte le impurità prodotte dalla
"Conoscenza" che abbiamo acquistato mangiando il frutto
dell'albero proibito.
Quando ritorniamo allo stato di "Innocenza", qualunque
cosa facciamo è bene.
(Cogliamo qui una collimazione tra il Buddismo ove dice "Purifica
la mente e fa ciò che vuoi" e il Cristianesimo che,
con Sant'Agostino, sentenzia "Ama Dio e fa ciò che
vuoi").
L'idea buddista di "anabhogacarya" (atto senza sforzo)
corrisponde all'Innocenza.
Quando si desta la conoscenza nel giardino dell'Eden, dove si
vive in Innocenza, si crea la differenza tra Bene e Male. Allo
stesso modo, fuori dal vuoto della Mente un pensiero sorge misteriosamente
e abbiamo il mondo della molteplicità.
L'idea giudeo-cristiana di Innocenza è l'interpretazione
morale della dottrina buddista del Vuoto, che è metafisica,
mentre l'idea giudeo-cristiana della Conoscenza corrisponde, epistologicamente,
alla nozione buddista di Ignoranza (Avidya).
Come abbiamo visto, le differenze tra Oriente e Occidente sono
profonde. Constatarne le diversità è tuttavia arricchente,
per arrivare a percepire la complessità spirituale dell'uomo
e coltivare lo spirito di comprensione.
Un confronto fulmineo e definitivo ce lo offre, ancora una volta,
una storiella zen.
Accadde che un maestro zen prese a calci un monaco che osò
porgli la seguente domanda: "Qual è il significato
della venuta di Bodhidarma dall'Occidente?" (Bodhidarma portò
il Buddismo dall'India in Cina).
Nello Zen questa domanda equivale all'incirca a dire: "Qual
è il significato ultimo del Dharma (Verità)?"
In Occidente la domanda equivalente potrebbe essere: "Perché
Cristo è venuto sulla Terra, perché Dio si è
incarnato?".
Lo Zen liquida la risposta con una pedata, per l'Occidente la
risposta è la ragion d'essere del Cristianesimo, è
"kerygma", annuncio della fede ai non credenti.
E mentre il Cristianesimo esclama con Paolo "Non sono più
io che vivo, ma Cristo vive in me", il sutra buddista dice
"Tu riconoscerai che Budda sei tu".
Oltre a quanto s'è detto su Oriente e Occidente, Zen
e Antroposofia hanno una posizione polare dal punto di vista della
volontà e del pensiero, che, a mio parere può essere
colta se prendiamo in considerazione la concentrazione.
Concentrazione è estrema attenzione, quando il pensiero
diviene, per così dire, puntiforme, quando sembra annullarsi
la separazione tra soggetto e oggetto, quando il pensiero non
è più discorsivo o concettuale, ma è immerso
nel "qui ed ora".
L'attenzione cui mira lo Zen è riversata totalmente nell'azione;
in tutto l'agire quotidiano il praticante deve essere costantemente
presente in ciò che fa, come un acrobata sul filo; il pensiero
è nella volontà, è la volontà ad essere
sviluppata.
All'opposto, nella concentrazione messa a punto da Steiner (quella
sull'oggetto immaginato) è la volontà al servizio
del pensiero, la volontà che ha per obiettivo la realizzazione
di un pensiero consapevole, ed è sempre la volontà
che utilizza la forza del pensiero, ossia è volontà
nel pensiero, è il pensiero ad essere sviluppato.
Milano, Società Antroposofica dicembre 2000