Il tema scelto per l'incontro di questa sera deriva da un'esperienza
che ho vissuto all'interno di un monastero in Grecia nelle tre
settimane che precedettero la Pasqua del 2002.
Spinto dal desiderio di conoscere il rito ortodosso non vi era
periodo migliore per addentrarvisi che la Pasqua, la celebrazione
più importante per i cristiani; anche se per motivi più
commerciali che religiosi in tutto l'Occidente il Natale è
divenuta la più popolare. Del resto la ricorrenza della
nascita di Gesù, per la sua tenerezza e umanità
è ben più accessibile all'intelletto umano del profondo
mistero che si cela nella Passione e nella Resurrezione, anche
se di fatto è quest'Ultima che ha generato la svolta decisiva
nel corso della storia. Nell'ortodossia si è mantenuto
il ruolo centrale della Pasqua tra le festività religiose.
Sono partito dopo aver celebrato la Pasqua secondo il rito cattolico,
con quasi un mese di anticipo rispetto alla commemorazione ortodossa.
La ragione è che il cristianesimo orientale non ha accettato
le modifiche del calendario di San Gregorio VIIº dell'XI
secolo, dove in sostanza è stata anticipata di tredici
giorni la nascita di Gesù e, di conseguenza, tutto il calendario.
Mantenendo il calendario Giuliano originario, la Pasqua, che cade
la domenica successiva al plenilunio di primavera, per gli ortodossi
nell'anno 2002 è stata celebrata il 5 di maggio in quanto
il plenilunio è stato il 27 di aprile mentre secondo il
calendario gregoriano è caduto il 28 di marzo, quindi la
domenica di Pasqua è stata celebrata dai cattolici il 31
marzo.
Il luogo che, oltre ad avermi aperto nuovi orizzonti sul significato
del rito cristiano, mi ha mostrato la sublime potenza de"l'esperienza
del Cristo" nella Pasqua, è stato il monastero di
Hosios Loukas, nei pressi di Delfi, a pochi colli dal Golfo di
Corinto che si affaccia sul Peloponneso.
Prima di cercare di trasmettervi quel che ho vissuto nel monastero
vorrei accennare alle principali differenze tra le due grandi
confessioni cristiane: la Chiesa d'Oriente, detta Ortodossa, e
la Chiesa d'Occidente, detta Cattolica e le loro cause storiche.
In realtà sono partito digiuno delle questioni che hanno
causato lo scisma, scevro dai preconcetti che si possono ereditare
da testi più o meno di parte, poiché avrebbero potuto
inquinare la mia esperienza dedita al senso spirituale della Pasqua.
I titoli "ortodossa" e "cattolica" prima
dello scisma erano attribuiti all'unica Chiesa.
Il termine "ortodosso" fu coniato per la prima volta
nel concilio di Calcedonia del 451 per distinguersi dai monofisiti,
ovvero da coloro che vedevano il Cristo solo come Dio e non come
uomo, ritenuti eretici. Si ebbe già allora una prima divisione
tra le Chiese siriana, armena e copta e il culto ufficiale, appunto
ortodosso.
L'Impero Romano verso il V-VI secolo diventa "bizantino",
poiché si ellenizza e perde la sua latinità originaria,
ma l'epiteto di "greco" che ricorda "pagano",
ovvero non cristiano, non fu impiegato prima dell'VIIIIX
secolo quando Carlo Magno indicava in forma dispregiativa l'Impero
Bizantino.
Con lo scisma sarà poi definitivamente attribuito l'appellativo
di "ortodossa" alla Chiesa d'Oriente, e quello di "cattolica"
alla Chiesa d'Occidente, anche se in realtà ambedue rivendicano
"ortodossia" e "cattolicesimo": la prima non
accettando il primato "cattolico", ovvero "universale",
di Roma, la seconda ritenendosi più "ortodossa",
ovvero "retta e pura", di quella orientale.
Le cause dello scisma
Con l'editto di Costantino a Milano nel 313 il cristianesimo
è ufficialmente consentito nell'impero romano; da religione
perseguitata diviene religione di stato. Inevitabilmente gli interessi
di potere all'interno di quella che diverrà sempre più
un'istituzione religiosa prenderanno il sopravvento sui valori
espressi dal Cristo Gesù. In una serie di Concili si decisero
dogmi la cui non accettazione prevedeva la scomunica da parte
della Chiesa, con la bolla di "eresia", e la conseguente
repressione da parte dell'Impero. Questa unione tra "quel
che è di Dio e quel che è di Cesare" crea una
polarità tra Chiesa e Impero che vedremo verrà per
così dire consacrata oltre cinquecento anni più
tardi con l'VIII Concilio di Costantinopoli.
Un forte conflitto d'interessi, tutt'altro che religiosi, generò
lotte intestine tra Roma e gli altri patriarcati (Costantinopoli,
Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), primo tra tutti quello
della nuova Bisanzio, che nel 329 Costantino aveva scelto come
capitale dell'Impero e ribattezzato Costantinopoli.
Non solo gli interessi politici, ma anche i diversi costumi e
impulsi spirituali rendevano sempre più inconciliabile
la sudditanza politica di Roma da Costantinopoli e religiosa del
patriarcato di Costantinopoli da Roma.
In breve tempo, da un lato Roma si rese sempre più autonoma
dal potere imperiale di Costantinopoli, dall'altro Costantinopoli
raggruppò intorno a sé i patriarcati d'Oriente svincolandosi
il più possibile dal giogo papale romano.
Nel 440 il vescovo di Roma Leone I stabilì il primato della
diocesi di Roma, proclamandosi Papa, ovvero padre di tutti i vescovi.
Costituì il clero e avviò un processo politico che
arriverà addirittura a creare, molti secoli dopo, un vero
e proprio Stato, lo Stato Pontificio. Il contrappeso Cristiano
a questa sconfitta dei valori fondamentali dati dal Cristo è
stato detto nel precedente incontro tenuto da Franco fu portato
dalla nascita del monachesimo.
Le tensioni politiche arrivarono al punto che l'imperatore Giustiniano
II tentò di far condurre Papa Sergio alla capitale in catene,
ma ormai la Roma non più imperiale era potente anche militarmente
e l'impresa si tramutò nel 705 in un invito ufficiale che
il Papa accolse. Fu ricevuto a Costantinopoli con tutte le onorificenze
e fu l'ultima visita di un vescovo di Roma presso l'Impero d'Oriente.
Lo Scisma sarà l'inevitabile punto d'arrivo di un lento
processo di separazione che durò quattro secoli.
Le questioni che portarono alla rottura furono essenzialmente
politiche. Il punto cruciale fu l'evangelizzazione dei paesi slavi
(800/900) di cui volle occuparsi tanto Roma quanto Bisanzio. Quest'ultima
ebbe la meglio, tanto che i missionari bizantini diedero alle
tribù slave in via di civilizzazione addirittura un alfabeto,
il cirillico. La Chiesa di Roma nello stesso periodo, grazie soprattutto
all'opera di Carlo Magno, trovava ampi consensi nel nord Europa.
Le questioni di potere portarono al ben più grave rifiuto
da parte di Bisanzio di far proprie le decisioni/dogmi imposti
da Roma con l'VIII Concilio di Costantinopoli del 869/870.
L'ortodossia si scandalizzò di fronte alla tesi cattolica
che metteva la figura dello Spirito Santo in secondo piano rispetto
a quella del Figlio oltre che del Padre. La questione, puramente
teologica, del "Filioque" (lett. "dal Figlio")
che si voleva introdurre nel Credo cattolico durante la messa:
"Io credo in un solo Padre in una sola chiesa cattolica e
apostolica nello Spirito Santo che procede dal Figlio" sdegnò
gli Orientali che sostengono che la figura trinitaria dello Spirito
Santo procede solo dal padre e non anche dal Figlio come si sostenne
nel Concilio.
Il Filioque non fu aggiunto al Credo fino all'inizio del secolo
XI, quando si ebbe la rottura definitiva e Roma riconobbe il VII
e l'VIII Concilio Ecumenico.
Il 15 Luglio del 1054 durante la liturgia celebrata alla presenza
del patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario, il legato del
Papa Leone IX Umberto fece irruzione in Santa Sofia e pose sull'altare
un libello in cui rimproverava gli "Orientali" di non
aver adottato nel Credo il "Filioque". Accusava inoltre
il Patriarca Michele di essere nemico dello Spirito e nemico di
Dio. Il patriarca riunì un Concilio e anatematizzò
"questo scritto empio e stupido".
I Franchi che temevano una rivolta di tutti i Romani d'Occidente
non osarono attentare direttamente al Patriarca dell'antica Roma.
Quando però l'impero germanico fu ristabilito, l'ultimo
Papa Ortodosso Giovanni XVIII fu deportato in un monastero dell'Italia
meridionale e Sergio IV che doveva il suo trono all'Imperatore
tedesco Enrico II, professò il Filioque nella lettera di
intro-nizzazione che indirizzò al Patriarca di Costantinopoli
Sergio II. Quest'ultimo, per decisione conciliare, fece cancellare
il nome dei Pontefici dagli editti dei patriarchi orientali (mai
più rimesso) e chiudere tutte le chiese latine di Costantinopoli.
Secondo gli Orientali la differenza trinitaria tendeva a sminuire
il trait d'union tra uomo e Dio, appunto lo Spirito Santo. Questo
sottile differenza che però intaccava il concetto stesso
di ascesi dell'uomo dal suo stato terreno a quello divino fece,
possiamo dire, da sostrato a un'altra importante decisione di
tipo antropologico presa durante il suddetto Concilio.
Partendo dalla scissione temporale tra Chiesa e Impero fu sancito,
fra i vari canoni, non come dogma, che l'uomo è costituito
di un'anima e un corpo; sottinteso che all'Impero era affidato
il compito di vigilare sul corpo e alla Chiesa sull'anima.
La gravità della decisione presa a fini politici sta nel
fatto che identificando l'anima con lo spirito in realtà
si crea una confusione nei fedeli che tendono a rappresentarsi
lo spirito, non più come la parte costitutiva più
elevata del proprio essere, bensì con Dio. Ne consegue
che l'ascesi dell'uomo è verso un Dio che sta fuori di
noi, non in noi, ovvero nega l'ascesi se non nel post-mortem.
Ciò però consente ai "gestori della fede",
ai "detentori della parola di Dio" di rappresentare
l'ente attraverso il quale i fedeli possono accedere ai favori
di Dio, ovvero allo Spirito.
L'antica tripartizione è così ridotta alla dicotomia
di anima e corpo, identificando, sulla scia di Aristotele, l'anima
con lo spirito.
Come Aristotele rinnega la tricotomia indicata dal suo maestro,
così fa la Chiesa cattolica con Paolo di Tarso. L'apostolo
infatti nella prima lettera ai Tessalonicesi esprime chiaramente
la tripartizione scrivendo che "tutto quello che è
vostro" è spirito, anima e corpo: <<Il Dio della
pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è
vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per
la venuta del Signore nostro Gesù Cristo>>(1Ts.5,23).
Si potrebbe dire che il cristianesimo orientale, rifiutando questa
dicotomia abbia assunto un atteggiamento platonico, riconoscibile,
come vedremo, anche nella solenne sacralità delle cerimonie,
mentre il cattolicesimo, con quel suo ridimensionamento del concetto
di ascesi e del rito stesso, abbia sviluppato un'attitudine aristotelica.
In realtà questo canone non fu oggetto di dissenso da parte
di Bisanzio, a cui poteva fare buon gioco; chi non lo accettò
furono i teologi ortodossi che continuarono a parlare di uomo
tripartito. Non a caso per gli ortodossi Paolo è la figura
più importante degli apostoli che fonde in sé sia
l'insegnamento della scuola di Giovanni che la Chiesa apostolica
di Pietro. Per Paolo l'uomo si deve divinizzare!
All'intelletto umano veniva così negato di concepire uno
spirito divino a cui l'anima deve tendere non separato dall'uomo,
ma quale essenza prima dell'uomo. Il monaco domenicano Maister
Echkart nel XIII secolo rischiò di finire abbrustolito
per aver solo accennato a tale verità.
Malgrado non ci fu mai una vera e propria separazione dal punto
di vista dottrinale, durante i secoli che completarono lo scisma,
Bisanzio accusò di atteggiamento "ebraico" la
Chiesa di Roma che aveva ripreso i pani azzimi (l'ostia attuale)
nell'eucarestia e il digiuno del sabato, e non accettò
la sua supremazia e le sue imposizioni, tra cui il celibato ecclesiastico.
Già nel primo secolo (Paolo) i cristiani usavano celebrare
il rito eucaristico con il pane lievitato proprio per evidenziare
il superamento dell'antica ritualità ebraica. In Occidente
è proprio a partire dal IX secolo che la chiesa di Roma
torna al pane azzimo per motivi più pratici che teologici.
Non rivolti ai laici, come ha fatto la chiesa ortodossa, bensì
per agevolare gli ordini monacali, mendicanti e missionari che
in viaggio trovavano più comodo portare il pane azzimo
che si conservava più a lungo. In ogni caso la polemica
"teologica" sull'azzimo, che significa "cena pasquale
di Gesù" prese piede solo dopo lo scisma d'Oriente.
L'Ortodossia manterrà anche il vino, che nel cattolicesimo
sarà abolito per ragioni pratiche, abolirà poi il
digiuno del sabato (come avverrà anche nel cattolicesimo)
e continuerà a permettere agli uomini sposati di prendere
i voti senza dover abbandonare la consorte com'era sempre stato
sino all'avvento di Leone Magno.
Oggi i rapporti tra le due Chiese si sono ammorbiditi, anche se
le posizioni restano le stesse: l'ortodossia accetta i primi sette
concili ecumenici con i dogmi ivi stabiliti, non riconosce l'infallibilità
del Papa, mantiene il ruolo centrale delle festività attribuito
alla Pasqua, ha mantenuto il calendario Giuliano originario, nega
il purgatorio e l'immacolata concezione, pur attribuendo fondamentale
importanza al culto della Madonna e altre diversità di
tipo liturgico e di forma del culto.
Caposaldi dell'Ortodossia
La necessità di disporre di un dogma inerente la natura
divino-umana del Cristo sorse dal prorompere della corrente alessandrina
che privilegiava la natura divina a quella umana del Cristo e
che, con il Concilio di Nicea del 325, aveva fatto sì che
l'identità del Figlio con il Padre e la preesistenza del
Logos divenissero dottrina di fede.
Su queste basi i grandi Padri Greci del cristianesimo d'Oriente
formularono il principio della theòsis espresso nella massima
di Sant'Atanasio: "Dio si è fatto uomo perché
l'uomo si facesse Dio".
L'obiettivo del cristiano dev'essere divinizzarsi, ascendere alla
propria natura divina, al Cristo in sé.
Per il cattolicesimo invece il perno su cui deve ruotare la disciplina
cristiana è il problema del male e la condizione di peccato
dell'uomo.
Questa è ancora oggi la più grossa differenza dottrinale
tra cattolicesimo e ortodossia: il primo mira alla redenzione
dei peccati, la seconda alla divinizzazione dell'uomo. Nella sostanza
non cambia molto, giacché ambedue sono necessarie, ma mentre
nel cattolicesimo l'ascesi è una via mistica, del dolore,
fondata sull'imitazione di Cristo, un Cristo più uomo che
Dio, più Gesù che Logos, nell'ortodossia si è
mantenuto il senso del mistero intorno alla figura del Messia
tramandato dalla tradizione giovannita.
Nel cattolicesimo l'immagine di Gesù crocifisso per salvare
l'uomo dal peccato ha prevalso su quella del Risorto a tal punto
da identificare l'intera fede cattolica con il simbolo della croce.
Nell'ortodossia la stessa croce è vista come simbolo di
gloria, come via alla Resurrezione.
La passione diventa un tutt'uno con la resurrezione.
Spiridon Logothetis, igumeno e fondatore del monastero di Nafpaktos
(Lepanto) insistendo sull'indissolubile coesistenza di crocifissione
e resurrezione, di dolore e gioia come una delle principali caratteristiche
della teologia ortodossa scrisse: <<Non è solo una
realtà teologica, ma esperienza di vita: non ci fermiamo
mai alla crocifissione, ma siamo sempre nella luce della resurrezione,
in una prospettiva pasquale>>. Ecco che la via crucis
diventa una "via lucis".
A proposito mi piace ricordare la Via lucis che padre Gentili
ha fatto realizzare con delle formelle appese nel refettorio del
monastero barnabita di Eupilio (Co) di cui è priore. A
dimostrazione che anche nel monachesimo cattolico la via crucis
non ha del tutto soppiantato la via lucis.
Resta l'eccezione che conferma la regola; la resurrezione
resta il più alto mistero del Cristo, la cui meditazione
non è certo alla portata di tutti.
Gabriele chiese a delle monache se avessero provato a contemplare
la resurrezione oltre alla passione. Gli risposero che avevano
provato, ma gli confessarono di essersi perse.
L'unicità di passione e resurrezione fa parte dei grandi
ossimori del cristianesimo, o meglio della vita spirituale: "il
silenzio che si fa parola, la fermezza movimento, la morte vita".
Del resto non vi può essere un vero cristianesimo senza
la resurrezione. Come scrisse Paolo stesso nella lettera ai Corizi:
"se il Cristo non è risorto è vana la vostra
fede" (Cor. 15,17).
L'ortodossia si rifà a Dionigi l'Areopagita, o meglio alla
scuola identificata con tale figura, nell'indicare tre gradi di
ascesi: purificazione, illuminazione e perfezione, o deificazione.
Le condizioni, o virtù, indispensabili per l'ascesi spirituale
sono: la fede, la speranza e la carità (amore).
Nell'XI secolo le Chiese d'Oriente si raccolsero intorno a
quattro patriarcati: Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e
Gerusalemme. Nel 1589 la Russia istituisce un suo patriarcato,
oggi a Mosca.
Costantinopoli è la sede ecumenica di tutti i patriarcati,
che si gestiscono autonomamente, come pure le diocesi più
grandi dette Arcidiocesi. Ad Atene per esempio vi è un
sinodo formato da settanta vescovi facente capo al patriarcato
di Costantinopoli.
Ogni patriarcato ha il suo patriarca e ogni Arcidiocesi il suo
metropolita che è a capo del collegio dei vescovi.
Il clero è suddiviso in cinque livelli: gli Ordini inferiori
di cui fanno parte i suddiaconi (aiutanti del diacono) e i lettori
e gli Ordini superiori costituiti da vescovi, presbiteri, che
amministrano i sacramenti (corrispondenti ai sacerdoti cattolici),
e diaconi.
I vescovi sono nominati solo tra i monaci. Ciò denota che,
nonostante a diaconi e presbiteri sia concesso di rimanere sposati,
vivendo quindi la realtà familiare dei laici, le redini
della struttura ecclesiastica sono nelle mani di coloro che hanno
preso i tre voti monacali, ovvero che si dedicano esclusivamente
alla vita religiosa.
A mostrare il ruolo canonico centrale ed essenziale che il monachesimo
occupa nell'Ortodossia è la realtà di l'Aghion
Oros, il Santo Monte, o Monte Athos, lo stato teocratico dell'ortodossia.
Situato sul versante orientale della penisola Calcidica è
un lungo e stretto promontorio/penisola che sporge sul Mar Egeo
che, in una ventina di monasteri e in eremitaggi sparsi lungo
il promontorio, oggi ospita 2300 monaci provenienti da tutto il
mondo.
Il monachesimo ortodosso, a differenza di quello cattolico, non
è suddiviso in ordini e può essere anche intrapreso
a livello individuale (anacoreti).
Vorrei concludere questa prima parte con un breve passo tratto
dalla cronaca di Nestore, la leggenda che sta alle origini del
cristianesimo in Russia.
Si narra che nel 900 il principe di Kiev Vladimir per eleggere
quale rito cristiano sarebbe stato adottato nel suo regno inviò
dieci osservatori presso tutte le sedi di culto esistenti affinché
ne giudicassero il cerimoniale. Questi scrissero: <<Giungemmo
in Grecia e ci condussero là dove essi adorano il loro
Dio e più non sapevamo se eravamo in cielo o in terra:
non c'è sulla terra uno spettacolo simile, una simile bellezza,
né riusciremo ad esprimerla. Sappiamo soltanto che là
Dio dimora con gli uomini e le loro sacre funzioni superano quelle
di ogni paese. Non potremmo dimenticare quella bellezza>>.
Io non so se "c'è sulla terra uno spettacolo simile",
ma per quel che ho visto sino ad ora posso affermare che anch'io
"non sapevo se ero in cielo o in terra". L'unica esperienza
di pari intensità l'ho vissuta durante la messa del pellegrino
nella cattedrale di Santiago de Compostela, ma era un'altra storia
Nel rito bizantino-greco tutte le cerimonie sono celebrate
in greco antico, che si avvicina a quello moderno pressappoco
come il latino all'italiano. Solo i più dediti praticanti
lo capiscono.
Della versione greca dell'Antico Testamento, i LXX, si racconta
che il re Tolomeo Filadelfo (285-247 a.C.) commissionò
la traduzione per la biblioteca di Alessandria a settantadue sapienti
ebrei (sei per ogni tribù), i quali furono rinchiusi in
settantadue celle sull'isola di Faro in Egitto per settanta giorni.
Ne scaturirono settantadue traduzioni identiche, che oggi sono
appunto i LXX.
Dalla mia esperienza sul campo mi sono formulato la tesi che la
non comprensione delle letture da parte dei fedeli richiede loro
un duplice impegno: leggere prima la traduzione in greco corrente
dei passi che saranno letti per poi focalizzare il momento del
rito sulla partecipazione interiore. Una simile pratica compenserebbe
l'atteggiamento tipico della chiesa ortodossa che mette in primo
piano il fervore mistico, peraltro caratteristico di tutte le
dottrine orientali, basti pensare alla ripetizione dei mantra
indù e buddhisti che, contrariamente ai rosari cristiani,
nella maggior parte dei casi non hanno un vero e proprio significato.
Ciò che conta è l'effusione devozionale, l'afflato
mistico. Questo crea uno squilibrio tra le forze del pensare e
del sentire che devono co-operare affinché il rito sia
percepito in tutta la sua potenza spirituale. Cogliere il significato
di una cerimonia non è un'operazione esclusivamente sentimentale
né esclusivamente dell'intelletto.
Un autentico coinvolgimento interiore può divenire il movente
dell'operare nel quotidiano proprio grazie alla sua controparte
intellettiva. La comprensione e la profonda partecipazione devono
viaggiare di pari passo; il fatto di averne separato i momenti
può rivelarsi maggiormente incisivo. Per di più
lo studio che dovrebbe precedere il rito fa sì che l'afflato
mistico non prevalga causando gli scompensi che illudono e fuorviano.
Abbiamo detto che il monastero è il cuore del cristianesimo
ortodosso. Per me l'esperienza della preparazione alla Pasqua
e la celebrazione della Pasqua nel monastero di Hosios Loukas
ha rappresentato un tuffo interiore nel mistero del Cristo. Il
freddo, i digiuni (nei quaranta giorni che precedono la Pasqua
nei monasteri non si mangia dopo l'esperinos (i vespri)
e mai carne, anche se nella carne non è incluso il pesce,
né latticini, non si usa l'olio, né si beve vino),
il lavoro fisico che fanno parte della vita monastica sono necessari
per vigilare sulle tendenze dell'anima a dondolarsi nella dolce
culla del mistico sentire che nei monasteri tende comunque a prendere
il sopravvento sul pensare. E' fondamentale mantenere il corpo
attivo e dinamico in modo che la mente sia stimolata a restare
fresca e attenta.
A tale proposito ritengo altrettanto, se non più, importante
sostenere l'attività di pensiero con letture e studi che
mantengono la mente impegnata.
Personalmente mi ha accompagnato in ogni giorno di questo viaggio
la colossale opera di Massimo Scaligero Dell'Amore immortale.
Monastero di Hosios Lukas
Sono arrivato a Hosios Loukas a piedi sotto un temporale.
Ancora bagnato ho assistito alla mia prima cerimonia ortodossa
e l'impressione è stata subito di potenza percepita dalle
anime addette al culto: il lettore, il monaco e soprattutto l'abate
che presiedeva la cerimonia. Ho chiesto ospitalità e Pater
Jorius me la concesse.
Pater Jorius è l'igumeno, l'abate in greco, del
monastero. La lunga barba e capelli bianchi raccolti nell'alto
cappello, alto, in carne e di bell'aspetto, Padre Giorgio ha cinquant'anni
ed è stato tra i più giovani a essere stato ordinato
igumeno all'età di trenta. I suoi occhi sono severi e amorevoli
al tempo stesso. I suoi rapporti con i discepoli come con il vescovo,
suo diretto superiore, sono fondati su un amore che trascende
palesemente il limite egoico. E' chiaramente il faro del monastero.
Chrisiantos, il monaco ventisettenne alto e magro, svelto di testa
e di corpo, anche lui con la barba lunga sino al petto e i capelli
legati in una lunga coda è il suo alter ego.
E' importante sottolineare come la bellezza, l'eleganza nel portamento,
la grazia del monaco intriso della sua missione esprimano chiaramente
il suo grado di ascesi. La bellezza spirituale plasma l'essere
sin nella sua fisicità.
Quella sera, uscito dalla chiesa, venni come travolto dal suggestivo
silenzio di quel luogo sacro da cui si schiude un panorama mozzafiato:
l'ampia vallata sottostante cinta dalle montagne del vicino Peloponneso
che la chiudono a ventaglio senza una casa, senza una luce al
sopraggiungere della sera.
Il giardino fiorito di fronte alla casetta dove ho dormito era
come una spiaggia che accompagna lo sguardo verso quel mare di
verde. Dal tavolo in pietra sotto il mandorlo mi pareva contemplare
l'infinito.
L'indomani era domenica, giorno di liturgia. Nel rito ortodosso
la liturgia si celebra solo la domenica e in poche altre feste
comandate, poiché è considerata un dono divino troppo
grande per essere ricevuto tutti i giorni, per questo viene chiamata
Theia litourghia, Divina liturgia. E' impegnativa, dura
tre ore e quaranta minuti e, come mi ha poi spiegato il giovane
lettore che, insieme a Chrisiantos, ha recitato e cantato ininterrottamente
per più di un'ora, "si lascia molto spazio all'anima
del singolo devoto di spingersi verso Dio, rappresentato dal Cristo".
Giornalmente si praticano l'orthros, il mattutino e l'esperinos,
il vespro che durano circa quaranta minuti.
La mia permanenza a Hosios Loukas mi ha offerto perle di
vita interiore che la stupefacente bellezza del luogo non poteva
che far risplendere. Come se interiorità ed esteriorità
si fondessero in un'unica danza.
Oltre al panorama, la struttura del monastero, il cortile con
diverse varietà di alberi, alcuni pluri-centenari, l'esplosione
primaverile della natura, i paramenti, i mosaici, gli affreschi
e le icone nella Chiesa del decimo secolo fanno di Hosios Loukas
un reale "patrimonio mondiale dell'umanità" (UNESCU)
Nella chiesa madre, dedicata alla Panaghia, la Madonna,
nessuna nicchia, nessuna volta è priva di affreschi o mosaici.
Laddove lo sguardo si leva è rappresentata un'entità
spirituale.
La caratteristica principale delle chiese ortodosse è la
divisione dell'area del rito accessibile a tutti dal presbiterio,
detto Sacro Vima, dove si celebrano i misteri, con una
parete abbellita da icone detta appunto Iconòstasi,
dal greco eikon, immagine e stasis, collocamento.
L'Iconòstasi ha tre aperture-ingressi dai quali si accede,
centralmente all'altare maggiore e ai lati a due stanzette dette
rispettivamente: "Altarino del Dhiaconicòn",
sul lato destro, dove sono conservate le vesti, gli oggetti e
i libri liturgici, equivale alla sacrestia delle chiese cattoliche,
e "Altarino della Pròtesi", ovvero
della preparazione, sul lato sinistro, la sala operativa dove
si svolgono tutti i preparativi. Questi tre spazi, comunicanti
all'interno tra loro, formano appunto il Sacro Vima.
Le letture cantate e le continue litanie dalle tonalità
arabeggianti, l'importanza conferita alla luce delle candele insieme
al profumo dell'incenso, con cui l'igumeno durante le cerimonie
benedice molto spesso le immagini sacre, e altri particolari,
richiamano l'Oriente.
Se si riesce a non perdersi nelle melodie delle interminabili
letture che, non comprendendone il significato, rischiano di avere
un effetto di tipo mantrico in cui il sentire rapisce il pensare,
si ha tutto il tempo di immergersi nella forza spirituale evocata
dal rito.
Un'altra differenza con le chiese cattoliche che salta subito
all'occhio è il pavimento completamente coperto da lunghi
tappeti uniti tra loro.
La liturgia dell'immagine
Importantissimo è il fenomeno dell'iconodulia, ovvero
dell'adorazione delle icone, parte integrante del rito bizantino.
Il culto dell'immagine risale ai primordi del cristianesimo; suoi
grandi sostenitori furono i più importanti padri della
Chiesa d'Oriente: sant'Atanasio d'Alessandria, san Cirillo d'Alessandria,
san Gregorio Nazianzeno, detto il "teologo" (330-390),
san Basilio il Grande (329-379) e san Giovanni Crisostomo (347-407).
Questi ultimi tre sono considerati i santi gerarchi per eccellenza;
vissero nello stesso periodo, furono tutti e tre ecumenici, e
tutti e tre provenivano dall'Asia minore: i primi due dalla Cappadocia
e Giovanni da Antiochia in Siria. San Basilio fu arcivescovo di
Cesarea e san Giovanni Crisostomo Patriarca di Costantinopoli.
I loro scritti sono alla base della vita monastica e liturgica
del cristianesimo ortodosso.
I tre "dottori ecumenici" sono tra i più citati
durante le invocazioni ai santi. Nel 1100 dopo una futile disputa
su chi fosse il più grande si decise di unirne la commemorazione
in un'unica festività, celebrata il 30 gennaio, come fossero
una sorta di "trinità terrestre". Questa scelta
li ha uniti anche nell'iconografia, dove sono rappresentati frontalmente
con la mano destra benedicente e la sinistra che regge il vangelo.
Nel 726 all'interno del cristianesimo orientale ebbe inizio una
grave crisi, conosciuta come crisi iconoclasta che, non solo mise
in dubbio, ma addirittura definì idolatra il culto delle
icone.
Fonti ortodosse ritengono che iconoclasti furono i Franchi, i
Longobardi e alcuni vescovi dell'Italia del nord, mentre gli Ortodossi,
"partigiani delle Icone" erano numerosi anche nel clero
in Gallia e nell'episcopato di tradizione romana.
La crisi culminò nel 730, anno in cui furono distrutte
moltissime icone sacre. In Oriente, e a
Tuttavia l'iconoclasmo si protrasse solo una cinquantina d'anni
e terminò con VII Concilio Ecumenico, il Concilio di Nicea
del 787 dove, grazie all'imperatrice Irene, fu ripristinato il
culto delle icone.
Nel Concilio, che i vescovi franchi di Carlo Magno non riconobbero
e contro il quale si levarono, si stabilì che il Cristo
non solo può, ma deve, essere raffigurato in immagini,
poiché l'immagine simboleggia il passo successivo dall'Antico
al Nuovo Testamento, ovvero dalla sola rivelazione della divinità
attraverso la Scrittura, alla Sua incarnazione, alla Sua manifestazione
nella carne, quindi in immagine che l'uomo può e deve riprodurre.
Da qui la certezza dell'ispirazione interiore dell'iconografo
che viene per così dire compenetrato dall'entità
spirituale che raffigura.
"L'icona è metafisica. Nei metodi dell'antica pittura
di icone risalenti alla più remota antichità, mi
appaiono chiaramente i fondamenti della metafisica universale",
scrisse nel 1922 Pavel Florenskji in Iconòstasi
(oggi intitolato Le porte regali).
Sull'arte iconografica ci sarebbe molto da dire. Basti pensare
alla quantità di icone e di tipologie di icone in base
all'ispirazione dell'iconografo: abbiamo oltre trecento tipologie
della Panaghia con il bambino, e ad ognuna è stato
dato un nome. Ciò denota ancora una volta l'importanza
che il credo bizantino conferisce al singolo rapporto con il Divino.
In realtà ogni raffigurazione è una tipologia a
sé, in base alla singolare visione che l'ha prodotta. Da
alcune icone emerge chiaramente il genio del pittore che si direbbe
proprio la riproduce nella posizione e con l'espressione che gli
sono apparsi in visione.
Per esempio nella Vergine Hodighitria, ovvero colei che mostra
la Via, la Panaghia dirige l'attenzione dell'osservatore sul "Figlio"
con un gesto morbido della mano che, lunga e solenne, lo indica
come "la Via, la Verità, la Vita". Si percepisce
chiaramente la potenza del bambino, sorretto dalla madre come
fosse su un trono, che appare un adulto tanto il suo sguardo esprime
saggezza (Vedi icona). Ambedue, la madre e il bambino, guardano
direttamente l'osservatore.
Tre stelle, due all'altezza delle spalle e una sulla testa simboleggiano
la Trinità e la verginità della Madre di Dio.
La veste rosso oro del Cristo denota la regalità e il papiro
l'autorità della scrittura. Benedice con la mano destra
mantenendo i polpastrelli del pollice e dell'anulare uniti a indicare
la duplice natura divino-umana del Cristo e le altre tre dita
alzate in segno trinitario in segno che ne rivela le due nature
e la trinità. L'aureola del Cristo riporta una croce con
inscritta la risposta che Dio diede a Mosè: "Io sono
colui che sono" (Esodo 3,14). Le tre lettere impresse alla
destra dell'aureola del Cristo sono abbreviazioni greche di Gesù
Cristo e quelle ai lati della Madonna "Madre di Dio".
In altre icone il Cristo bambino sembra impartirle un insegnamento con un papiro nella mano sinistra mentre la benedice con la destra, in altre ancora invece emerge l'amore naturale del bambino per la madre, per esempio dalle guance che si appoggiano teneramente alle Sue e dalle mani che la tengono stretta. Cambiano i volti, le espressioni e i gesti di ambedue, ma sempre si evidenzia la devozione, la saggezza e la tenerezza quali sintomi della potenza dell'Agape.
Vediamo quindi il duplice aspetto dell'ascesi, quello mistico
e quello conoscitivo che si compenetrano nell'arte iconografica.
Nell'ortodossia si parla infatti di "liturgia dell'immagine"
a fianco alla liturgia della parola. Probabilmente per certe composizioni
di musica sacra si potrebbe parlare di "liturgia della musica",
o "del suono".
Credo l'arte rispecchi la libera espressione dello spirito, dell'Io
superiore, o Cristo in noi che la rende liturgica nel momento
in cui altri dalle sue manifestazioni sono proiettati verso il
proprio, in ultima analisi lo stesso, Spirito.
L'arte diviene liturgia se stimola creativamente lo sviluppo delle
forze in noi latenti.
La liturgia dell'immagine non si esplica solo nelle icone,
ma anche negli affreschi e nei mosaici che decorano le pareti
delle chiese più ricche.
Qui la caratteristica più immediata delle raffigurazioni
degli aios, i santi, dei padri della chiesa e degli apostoli
sono gli occhi sgranati, estatici, a indicare lo stato di contemplazione
profonda, di effusione con il Divino.
Le loro figure, oltre a mostrare lo stato d'ispirazione, riflettono
anche un'eleganza nelle posture e nel movimento delle mani che
dispone l'osservatore a uno stato di grazia.
Con l'impiego della prospettiva rovesciata l'osservatore è
attirato dall'immagine. Da cui lo stretto legame tra icone ed
eucarestia laddove il Cristo risorge in noi.
L'importante da parte dell'osservatore è cercare di cogliere
quel filo diretto che i Santi raffigurati avevano con Theos
(Dio).
Questo spiegherebbe perché le loro opere sono reali veicoli,
come lo sono le sacre scritture.
L'icona diviene così immagini liturgica come lo è
nell'induismo e nel buddhismo, a mostrare ancora una volta il
legame con l'Oriente.
L'immagine divina del Cristo Re, predominante tanto nella Chiesa
latina quanto in quella d'Oriente, è l'affresco del Cristo
Pantocrator, Onnipotente, circondato dalla Panaghia, Giovanni
Battista e i quattro Arcangeli e, appena più in basso,
dai sedici Profeti. Con la mano destra in segno di benedizione
e reggendo il Vangelo con la sinistra lo troviamo generalmente
sulla volta delle cupole come ad abbracciare l'intero luogo di
culto, come se quel Suo sguardo calmo e compassionevole creasse
una cappa di protezione su tutte le anime e le opere sottostanti.
La Basilica di Santa Sofia a Bisanzio, la cattedrale di Kiev e
di Santa Sofia di Novgorod sono tra i più sublimi esempi.
Per concludere questo viaggio nell'arte dell'immagine sacra
è doveroso perlomeno accennare al simbolo del Tetramorfo,
che troviamo tanto nelle basiliche romane quanto nelle cattedrali
gotiche, ma che è un soggetto comune soprattutto alle icone
russe del XV secolo.
Il Tetramorfo sono i quattro Evangelisti in veste dei quattro
Cherubini che presiediarono la creazione della Terra, la formazione
delle prime quattro razze, "l'ossatura dell'evoluzione spirituale".
Il Cristo del Tetramorfo rappresentato in trono tra i quattro
Evangelisti "è il centro attorno al quale gravita
tutta l'evoluzione passata che dell'incarnazione del Logos è
solo preparazione" (Gabriele Burrini in L'angelo dei nuovi
tempi).
L'immagine sacra invade i luoghi di culto ortodossi: le pareti delle chiese sono interamente dipinte o affisse da icone. Da un punto di vista stilistico può risultare pesante, ma se si entra nella dimensione spirituale di tale veicolo se ne viene come avvolti e la contemplazione delle immagini si rivela realmente una liturgia interiore.
La Pasqua
L'importanza della raffigurazione, la liturgia dell'immagine,
oltre che dalle icone, emerge dalle simbologie care al culto ortodosso.
Le frequenti processioni lungo il perimetro della chiesa a ogni
liturgia: con i calici prima dell'eucarestia, con la croce, con
un tempietto che rappresenta il sepolcro, con un tappeto che rappresenta
il corpo di Cristo che vi è deposto e infine con la luce,
la luce del Golgotha.
Nella settimana santa durante le cerimonie si rivive passo per
passo la passione di Cristo, e quella "messa in scena"
aiuta l'immaginazione a compenetrarsi del più grande sacrificio
offerto all'umanità.
La liturgia pasquale culmina a mezzanotte quando l'igumeno alza
le braccia al cielo e grida: Christos anesti! Christos anesti!
Christos anesti! e tutti in coro rispondiamo Aghiots Anesti!,
è realmente risorto!
Da una candela giunta accesa da Atene, l'abate ci dà la
luce, e ognuno di noi va ad accendere il suo lume da quella fiamma.
Ad Atene a sua volta questa candela ha "ricevuto la luce"
dalla candela che è arrivata in aereo da Gerusalemme dov'era
stata accesa sul monte del Golgotha. Così avviene anche
nei patriarcati di Costantinopoli e Mosca da dove poi la stessa
luce si passa alle varie diocesi, quindi a tutti i fedeli. La
stessa fiamma che è stata accesa sul Golgotha illumina
ogni fedele. Un rituale della luce simboleggia il mistero della
resurrezione. Quella luce che duemila anni fa è scesa nel
mondo (Gv.1,9), con la resurrezione del Cristo non si è
mai più spenta.
Si alzano cori al cielo, una intima liberazione si esprime nell'euforia
generale.
Quella notte scrissi sul mio diario: "Quel peso opprimente
che avvertivo dal giorno della crocifissione è come svanito
di colpo all'incedere nelle profondità della coscienza
delle potenti parole dell'igumeno "Christos anesti!".
I mistici lo chiamano "afflato spirituale", gli scettici
"autosuggestione", io non credo si tratti né
di tanto, né di tanto poco, bensì di un moto dell'anima
che rivive in sé il più grande mistero dell'uomo
moderno. Certo sono le forze del sentire che scuotono, ma trovo
a dir poco riduttivo semplificare a mero sentimentalismo, o romanticismo
religioso una simile esperienza.
Gabriele Burrini, nel suo L'angelo dei nuovi tempi definendo
la "via misterica", scrive: "Ancora oggi la potenza
di questa esperienza liturgica è ben viva nel cristianesimo
orientale, ove il fedele sente di assistere, durante la liturgia,
a divini misteri, su uno scenario umano-cosmico presenziato dalle
gerarchie celesti, con le quali gli stessi oranti si identificano".
Il pericolo consiste nel farsi trasportare dall'enfatuazione mistica,
dal cadere in quello che spesso Steiner definisce "abbaglio
mistico". Per questo è importante non perdere la lucidità,
restare presenti nel pensare, ma neppure negare la potenza che
viene espressa sul piano del sentire. La grandezza di un padre
spirituale sta proprio nel far sì che l'Impulso cristico
non si limiti al sentire, ma sia reso percepibile anche al pensare.
La metania
Un ultimo aspetto, anche se ve ne sarebbero molti altri, che
voglio ricordare riguardo alla peculiarità del rito ortodosso
è la metania, ovvero l'inchino che nel rito ortodosso accompagna
sempre il segno della croce.
Questo gesto, che denota la partecipazione dei fedeli, non è
sintomo di devozione cieca. Dalla stessa radice di quel "Metanoeîte!"
che gridava il Battista sulle rive del Giordano, l'inchino del
devoto non si piega al peso di un'istituzione, ma si prostra dinnanzi
all'invito al cambiamento. Quella "voce che gridava nel deserto"
invitava alla conversione chiedendo di andare oltre la mente.
Quel "Convertitevi" (Mt.3,2) letteralmente andrebbe
tradotto "trasformatevi, mutate pensiero, mutate le vostre
menti", aprite le vostre menti a un nuovo modo di pensare.
Meta significa dopo, e noûs mente, pensiero.
Il Battista, il Precursore annuncia la venuta di "colui che
battezza in Spirito Santo" (Gv.1,33), che offre "la
seconda nascita", per cui è necessario Metanoeîte,
andare oltre, "dopo", la mente. Per comprendere il Principio
Cristo dobbiamo mutare il nostro pensiero. Purificare il pensare
oltre il pensiero riflesso dal mondo significa accedere al pensiero
puro di cui parlarono i grandi Maestri dei nuovi tempi.
Ecco il significato della metania, dell'inchino non solo del penitente,
ma del rivoluzionario, del ricercatore spirituale, del devoto
alla libertà, al Cristo, all'Amore.
Conclusione
L'Ortodossia non mise mai in secondo piano il Cristo Dio rispetto
al Cristo Gesù come accadde nel Cattolicesimo. Potremmo
dire che l'Ortodossia, conservando la sacralità del senso
del mistero del Cristo, creò le basi per la Scienza dello
Spirito. Rudolf Steiner indagherà dal punto di vista conoscitivo
ciò che la Chiesa d'Oriente venerava come Mistero.
L'igumeno Vassili ci ha offerto un'immagine poetica e sacra della sua tradizione cristiana che mi ricorda quanto Steiner ha insegnato riguardo al sangue che dal Cristo in croce penetrava nella terra. "Siamo come la terra che continuamente accoglie nelle sue viscere la rugiada celeste, la pioggia spirituale della nostra santa tradizione".
Vi ho parlato questa sera di un'esperienza vissuta due anni
fa, e vorrei concludere con una esperienza ben più recente,
nata anche dagli stimoli ricevuti nei nostri incontri di quest'anno.
Da quando sono tornato dalla difficile esperienza nella fabbrica
indiana è sorta in me un'esigenza di introspezione e raccoglimento,
in parte per elaborare il duro vissuto e cercare di capire come
esprimerlo, e in parte per riprendere le redini della disciplina.
Gli stimoli ricevuti dai nostri incontri si sono per così
dire materializzati in due brevi esperienze in ambiente monastico,
la prima con Mauro, presso l'Eremo di Camaldoli e la seconda ad
Assisi, da cui ho tratto grandi doni.
Uno di questi è rappresentato dall'"Absorbeat",
una preghiera, che il nostro Patrono amava recitare con i suoi
frati e che questa sera, in chiusura del nostro anno di incontri
vorrei condividere con voi.
"Rapisca, ti prego, o Signore,
l'ardente e dolce forza del tuo amore
la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo,
perché io muoia per amore dell'amor tuo,
come tu ti sei degnato morire
per amore dell'amor mio".
Il titolo di per sé esprime un senso di spazialità
che ci fa sentire come immersi in un dipinto, rapiti dall'abbraccio
de "l'ardente e dolce forza", o meglio della più
ardente, e al tempo stesso più dolce, forza che possa compenetrare
l'uomo. E' l'Agape, l'Amore che da soggetto diviene oggetto nella
seconda terzina. Si invertono le parti per far risuonare un "morire
per amore" di cui il catulliano romantico morire d'amore
per l'amata, dove l'amore è intriso di passione, non è
che un tenue riflesso, spesso neppure quello.
Il morire a causa dell'amore implica una totale immersione nell'amato.
E qui, l'amato non è Dio, bensì il suo attributo
primo, il suo amore. Qui si chiede di morire per amore dell'amore
di Dio!
Un'immagine che non possiamo raffigurare con strumenti sensibili,
ma percepibile solo nell'interiorità.
Il sentimento puro sospinto dalle forze del volere che deve riecheggiare
l'ancor più frastornante immagine del Cristo uomo che "si
è degnato di morire" per aver tanto amato il nostro
amore.
Cristo morto d'amore per quel che di più sublime vive in
noi, in ogni uomo, per quella forza che siamo chiamati a rappresentare;
Cristo morto per aver tanto amato il compito dell'uomo, il senso
ultimo della nostra esistenza, il nostro amore che Lui rappresenta
in noi. Ecco che in questi pochi versi troviamo la missione dell'uomo
di conoscere l'amore in sé, il Cristo in lui, la sua vera
essenza, se stesso. Le vie filosofico-conoscitiva e quella mistico-religiosa
si fondono in Cristo.
Gesù muore per amore del nostro amore, ovvero dell'amore
in noi, della forza che ci dovrebbe contraddistinguere e che sola
ci rende degni di essere Uomini.
Abbiamo visto quanto fortemente sia sentito nella Chiesa d'oriente
quest'Agape che culmina sul Golgotha.
Francesco dice la Leggenda maggiore di san Bonaventura da Bagnoregio,
"difficilmente riusciva a sentir nominare l'amore di Dio,
senza provare un intimo turbamento" (Leg.M.,1). Quell'"intimo
turbamento" è l'amore che lui provava per quell'amore.
Ibn al-Farid il poeta mistico arabo coevo di Francesco scrisse:
"Chi non muore del proprio amore non ne vive".
Vi inviterei quindi a meditare questa preghiera scaturita dal più nobile impulso che fluisce nell'anima umana come augurio per la nostra crescita sul cammino spirituale.
"Rapisca, ti prego, o Signore,
l'ardente e dolce forza del tuo amore
la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo,
perché io muoia per amore dell'amor tuo,
come tu ti sei degnato morire
per amore dell'amor mio".
Amin
Marcello Girone Daloli (marcellogirone@tiscali.it), Gruppo
Oriente Occidente
Società Antroposofica, Milano 22 giugno 2004