L'ESPERIENZA DEL CRISTO NEL CRISTIANESIMO ORTODOSSO


Marcello Girone Daloli

 
Il tema scelto per l'incontro di questa sera deriva da un'esperienza che ho vissuto all'interno di un monastero in Grecia nelle tre settimane che precedettero la Pasqua del 2002.
Spinto dal desiderio di conoscere il rito ortodosso non vi era periodo migliore per addentrarvisi che la Pasqua, la celebrazione più importante per i cristiani; anche se per motivi più commerciali che religiosi in tutto l'Occidente il Natale è divenuta la più popolare. Del resto la ricorrenza della nascita di Gesù, per la sua tenerezza e umanità è ben più accessibile all'intelletto umano del profondo mistero che si cela nella Passione e nella Resurrezione, anche se di fatto è quest'Ultima che ha generato la svolta decisiva nel corso della storia. Nell'ortodossia si è mantenuto il ruolo centrale della Pasqua tra le festività religiose.
Sono partito dopo aver celebrato la Pasqua secondo il rito cattolico, con quasi un mese di anticipo rispetto alla commemorazione ortodossa. La ragione è che il cristianesimo orientale non ha accettato le modifiche del calendario di San Gregorio VIIº dell'XI secolo, dove in sostanza è stata anticipata di tredici giorni la nascita di Gesù e, di conseguenza, tutto il calendario. Mantenendo il calendario Giuliano originario, la Pasqua, che cade la domenica successiva al plenilunio di primavera, per gli ortodossi nell'anno 2002 è stata celebrata il 5 di maggio in quanto il plenilunio è stato il 27 di aprile mentre secondo il calendario gregoriano è caduto il 28 di marzo, quindi la domenica di Pasqua è stata celebrata dai cattolici il 31 marzo.
Il luogo che, oltre ad avermi aperto nuovi orizzonti sul significato del rito cristiano, mi ha mostrato la sublime potenza de"l'esperienza del Cristo" nella Pasqua, è stato il monastero di Hosios Loukas, nei pressi di Delfi, a pochi colli dal Golfo di Corinto che si affaccia sul Peloponneso.
Prima di cercare di trasmettervi quel che ho vissuto nel monastero vorrei accennare alle principali differenze tra le due grandi confessioni cristiane: la Chiesa d'Oriente, detta Ortodossa, e la Chiesa d'Occidente, detta Cattolica e le loro cause storiche.
In realtà sono partito digiuno delle questioni che hanno causato lo scisma, scevro dai preconcetti che si possono ereditare da testi più o meno di parte, poiché avrebbero potuto inquinare la mia esperienza dedita al senso spirituale della Pasqua.

I titoli "ortodossa" e "cattolica" prima dello scisma erano attribuiti all'unica Chiesa.
Il termine "ortodosso" fu coniato per la prima volta nel concilio di Calcedonia del 451 per distinguersi dai monofisiti, ovvero da coloro che vedevano il Cristo solo come Dio e non come uomo, ritenuti eretici. Si ebbe già allora una prima divisione tra le Chiese siriana, armena e copta e il culto ufficiale, appunto ortodosso.
L'Impero Romano verso il V-VI secolo diventa "bizantino", poiché si ellenizza e perde la sua latinità originaria, ma l'epiteto di "greco" che ricorda "pagano", ovvero non cristiano, non fu impiegato prima dell'VIII­IX secolo quando Carlo Magno indicava in forma dispregiativa l'Impero Bizantino.
Con lo scisma sarà poi definitivamente attribuito l'appellativo di "ortodossa" alla Chiesa d'Oriente, e quello di "cattolica" alla Chiesa d'Occidente, anche se in realtà ambedue rivendicano "ortodossia" e "cattolicesimo": la prima non accettando il primato "cattolico", ovvero "universale", di Roma, la seconda ritenendosi più "ortodossa", ovvero "retta e pura", di quella orientale.

Le cause dello scisma
Con l'editto di Costantino a Milano nel 313 il cristianesimo è ufficialmente consentito nell'impero romano; da religione perseguitata diviene religione di stato. Inevitabilmente gli interessi di potere all'interno di quella che diverrà sempre più un'istituzione religiosa prenderanno il sopravvento sui valori espressi dal Cristo Gesù. In una serie di Concili si decisero dogmi la cui non accettazione prevedeva la scomunica da parte della Chiesa, con la bolla di "eresia", e la conseguente repressione da parte dell'Impero. Questa unione tra "quel che è di Dio e quel che è di Cesare" crea una polarità tra Chiesa e Impero che vedremo verrà per così dire consacrata oltre cinquecento anni più tardi con l'VIII Concilio di Costantinopoli.
Un forte conflitto d'interessi, tutt'altro che religiosi, generò lotte intestine tra Roma e gli altri patriarcati (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), primo tra tutti quello della nuova Bisanzio, che nel 329 Costantino aveva scelto come capitale dell'Impero e ribattezzato Costantinopoli.
Non solo gli interessi politici, ma anche i diversi costumi e impulsi spirituali rendevano sempre più inconciliabile la sudditanza politica di Roma da Costantinopoli e religiosa del patriarcato di Costantinopoli da Roma.
In breve tempo, da un lato Roma si rese sempre più autonoma dal potere imperiale di Costantinopoli, dall'altro Costantinopoli raggruppò intorno a sé i patriarcati d'Oriente svincolandosi il più possibile dal giogo papale romano.
Nel 440 il vescovo di Roma Leone I stabilì il primato della diocesi di Roma, proclamandosi Papa, ovvero padre di tutti i vescovi. Costituì il clero e avviò un processo politico che arriverà addirittura a creare, molti secoli dopo, un vero e proprio Stato, lo Stato Pontificio. Il contrappeso Cristiano a questa sconfitta dei valori fondamentali dati dal Cristo è stato detto nel precedente incontro tenuto da Franco fu portato dalla nascita del monachesimo.
Le tensioni politiche arrivarono al punto che l'imperatore Giustiniano II tentò di far condurre Papa Sergio alla capitale in catene, ma ormai la Roma non più imperiale era potente anche militarmente e l'impresa si tramutò nel 705 in un invito ufficiale che il Papa accolse. Fu ricevuto a Costantinopoli con tutte le onorificenze e fu l'ultima visita di un vescovo di Roma presso l'Impero d'Oriente.

Lo Scisma sarà l'inevitabile punto d'arrivo di un lento processo di separazione che durò quattro secoli.
Le questioni che portarono alla rottura furono essenzialmente politiche. Il punto cruciale fu l'evangelizzazione dei paesi slavi (800/900) di cui volle occuparsi tanto Roma quanto Bisanzio. Quest'ultima ebbe la meglio, tanto che i missionari bizantini diedero alle tribù slave in via di civilizzazione addirittura un alfabeto, il cirillico. La Chiesa di Roma nello stesso periodo, grazie soprattutto all'opera di Carlo Magno, trovava ampi consensi nel nord Europa.
Le questioni di potere portarono al ben più grave rifiuto da parte di Bisanzio di far proprie le decisioni/dogmi imposti da Roma con l'VIII Concilio di Costantinopoli del 869/870.
L'ortodossia si scandalizzò di fronte alla tesi cattolica che metteva la figura dello Spirito Santo in secondo piano rispetto a quella del Figlio oltre che del Padre. La questione, puramente teologica, del "Filioque" (lett. "dal Figlio") che si voleva introdurre nel Credo cattolico durante la messa: "Io credo in un solo Padre in una sola chiesa cattolica e apostolica nello Spirito Santo che procede dal Figlio" sdegnò gli Orientali che sostengono che la figura trinitaria dello Spirito Santo procede solo dal padre e non anche dal Figlio come si sostenne nel Concilio.
Il Filioque non fu aggiunto al Credo fino all'inizio del secolo XI, quando si ebbe la rottura definitiva e Roma riconobbe il VII e l'VIII Concilio Ecumenico.
Il 15 Luglio del 1054 durante la liturgia celebrata alla presenza del patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario, il legato del Papa Leone IX Umberto fece irruzione in Santa Sofia e pose sull'altare un libello in cui rimproverava gli "Orientali" di non aver adottato nel Credo il "Filioque". Accusava inoltre il Patriarca Michele di essere nemico dello Spirito e nemico di Dio. Il patriarca riunì un Concilio e anatematizzò "questo scritto empio e stupido".
I Franchi che temevano una rivolta di tutti i Romani d'Occidente non osarono attentare direttamente al Patriarca dell'antica Roma. Quando però l'impero germanico fu ristabilito, l'ultimo Papa Ortodosso Giovanni XVIII fu deportato in un monastero dell'Italia meridionale e Sergio IV che doveva il suo trono all'Imperatore tedesco Enrico II, professò il Filioque nella lettera di intro-nizzazione che indirizzò al Patriarca di Costantinopoli Sergio II. Quest'ultimo, per decisione conciliare, fece cancellare il nome dei Pontefici dagli editti dei patriarchi orientali (mai più rimesso) e chiudere tutte le chiese latine di Costantinopoli.
Secondo gli Orientali la differenza trinitaria tendeva a sminuire il trait d'union tra uomo e Dio, appunto lo Spirito Santo. Questo sottile differenza che però intaccava il concetto stesso di ascesi dell'uomo dal suo stato terreno a quello divino fece, possiamo dire, da sostrato a un'altra importante decisione di tipo antropologico presa durante il suddetto Concilio.
Partendo dalla scissione temporale tra Chiesa e Impero fu sancito, fra i vari canoni, non come dogma, che l'uomo è costituito di un'anima e un corpo; sottinteso che all'Impero era affidato il compito di vigilare sul corpo e alla Chiesa sull'anima.
La gravità della decisione presa a fini politici sta nel fatto che identificando l'anima con lo spirito in realtà si crea una confusione nei fedeli che tendono a rappresentarsi lo spirito, non più come la parte costitutiva più elevata del proprio essere, bensì con Dio. Ne consegue che l'ascesi dell'uomo è verso un Dio che sta fuori di noi, non in noi, ovvero nega l'ascesi se non nel post-mortem. Ciò però consente ai "gestori della fede", ai "detentori della parola di Dio" di rappresentare l'ente attraverso il quale i fedeli possono accedere ai favori di Dio, ovvero allo Spirito.
L'antica tripartizione è così ridotta alla dicotomia di anima e corpo, identificando, sulla scia di Aristotele, l'anima con lo spirito.
Come Aristotele rinnega la tricotomia indicata dal suo maestro, così fa la Chiesa cattolica con Paolo di Tarso. L'apostolo infatti nella prima lettera ai Tessalonicesi esprime chiaramente la tripartizione scrivendo che "tutto quello che è vostro" è spirito, anima e corpo: <<Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo>>(1Ts.5,23).
Si potrebbe dire che il cristianesimo orientale, rifiutando questa dicotomia abbia assunto un atteggiamento platonico, riconoscibile, come vedremo, anche nella solenne sacralità delle cerimonie, mentre il cattolicesimo, con quel suo ridimensionamento del concetto di ascesi e del rito stesso, abbia sviluppato un'attitudine aristotelica.
In realtà questo canone non fu oggetto di dissenso da parte di Bisanzio, a cui poteva fare buon gioco; chi non lo accettò furono i teologi ortodossi che continuarono a parlare di uomo tripartito. Non a caso per gli ortodossi Paolo è la figura più importante degli apostoli che fonde in sé sia l'insegnamento della scuola di Giovanni che la Chiesa apostolica di Pietro. Per Paolo l'uomo si deve divinizzare!
All'intelletto umano veniva così negato di concepire uno spirito divino a cui l'anima deve tendere non separato dall'uomo, ma quale essenza prima dell'uomo. Il monaco domenicano Maister Echkart nel XIII secolo rischiò di finire abbrustolito per aver solo accennato a tale verità.

Malgrado non ci fu mai una vera e propria separazione dal punto di vista dottrinale, durante i secoli che completarono lo scisma, Bisanzio accusò di atteggiamento "ebraico" la Chiesa di Roma che aveva ripreso i pani azzimi (l'ostia attuale) nell'eucarestia e il digiuno del sabato, e non accettò la sua supremazia e le sue imposizioni, tra cui il celibato ecclesiastico.
Già nel primo secolo (Paolo) i cristiani usavano celebrare il rito eucaristico con il pane lievitato proprio per evidenziare il superamento dell'antica ritualità ebraica. In Occidente è proprio a partire dal IX secolo che la chiesa di Roma torna al pane azzimo per motivi più pratici che teologici. Non rivolti ai laici, come ha fatto la chiesa ortodossa, bensì per agevolare gli ordini monacali, mendicanti e missionari che in viaggio trovavano più comodo portare il pane azzimo che si conservava più a lungo. In ogni caso la polemica "teologica" sull'azzimo, che significa "cena pasquale di Gesù" prese piede solo dopo lo scisma d'Oriente.
L'Ortodossia manterrà anche il vino, che nel cattolicesimo sarà abolito per ragioni pratiche, abolirà poi il digiuno del sabato (come avverrà anche nel cattolicesimo) e continuerà a permettere agli uomini sposati di prendere i voti senza dover abbandonare la consorte com'era sempre stato sino all'avvento di Leone Magno.
Oggi i rapporti tra le due Chiese si sono ammorbiditi, anche se le posizioni restano le stesse: l'ortodossia accetta i primi sette concili ecumenici con i dogmi ivi stabiliti, non riconosce l'infallibilità del Papa, mantiene il ruolo centrale delle festività attribuito alla Pasqua, ha mantenuto il calendario Giuliano originario, nega il purgatorio e l'immacolata concezione, pur attribuendo fondamentale importanza al culto della Madonna e altre diversità di tipo liturgico e di forma del culto.

Caposaldi dell'Ortodossia
La necessità di disporre di un dogma inerente la natura divino-umana del Cristo sorse dal prorompere della corrente alessandrina che privilegiava la natura divina a quella umana del Cristo e che, con il Concilio di Nicea del 325, aveva fatto sì che l'identità del Figlio con il Padre e la preesistenza del Logos divenissero dottrina di fede.
Su queste basi i grandi Padri Greci del cristianesimo d'Oriente formularono il principio della theòsis espresso nella massima di Sant'Atanasio: "Dio si è fatto uomo perché l'uomo si facesse Dio".
L'obiettivo del cristiano dev'essere divinizzarsi, ascendere alla propria natura divina, al Cristo in sé.
Per il cattolicesimo invece il perno su cui deve ruotare la disciplina cristiana è il problema del male e la condizione di peccato dell'uomo.
Questa è ancora oggi la più grossa differenza dottrinale tra cattolicesimo e ortodossia: il primo mira alla redenzione dei peccati, la seconda alla divinizzazione dell'uomo. Nella sostanza non cambia molto, giacché ambedue sono necessarie, ma mentre nel cattolicesimo l'ascesi è una via mistica, del dolore, fondata sull'imitazione di Cristo, un Cristo più uomo che Dio, più Gesù che Logos, nell'ortodossia si è mantenuto il senso del mistero intorno alla figura del Messia tramandato dalla tradizione giovannita.
Nel cattolicesimo l'immagine di Gesù crocifisso per salvare l'uomo dal peccato ha prevalso su quella del Risorto a tal punto da identificare l'intera fede cattolica con il simbolo della croce.
Nell'ortodossia la stessa croce è vista come simbolo di gloria, come via alla Resurrezione.
La passione diventa un tutt'uno con la resurrezione.
Spiridon Logothetis, igumeno e fondatore del monastero di Nafpaktos (Lepanto) insistendo sull'indissolubile coesistenza di crocifissione e resurrezione, di dolore e gioia come una delle principali caratteristiche della teologia ortodossa scrisse: <<Non è solo una realtà teologica, ma esperienza di vita: non ci fermiamo mai alla crocifissione, ma siamo sempre nella luce della resurrezione, in una prospettiva pasquale>>. Ecco che la via crucis diventa una "via lucis".
A proposito mi piace ricordare la Via lucis che padre Gentili ha fatto realizzare con delle formelle appese nel refettorio del monastero barnabita di Eupilio (Co) di cui è priore. A dimostrazione che anche nel monachesimo cattolico la via crucis non ha del tutto soppiantato la via lucis.
Resta l'eccezione che conferma la regola; la resurrezione resta il più alto mistero del Cristo, la cui meditazione non è certo alla portata di tutti.
Gabriele chiese a delle monache se avessero provato a contemplare la resurrezione oltre alla passione. Gli risposero che avevano provato, ma gli confessarono di essersi perse.
L'unicità di passione e resurrezione fa parte dei grandi ossimori del cristianesimo, o meglio della vita spirituale: "il silenzio che si fa parola, la fermezza movimento, la morte vita". Del resto non vi può essere un vero cristianesimo senza la resurrezione. Come scrisse Paolo stesso nella lettera ai Corizi: "se il Cristo non è risorto è vana la vostra fede" (Cor. 15,17).
L'ortodossia si rifà a Dionigi l'Areopagita, o meglio alla scuola identificata con tale figura, nell'indicare tre gradi di ascesi: purificazione, illuminazione e perfezione, o deificazione. Le condizioni, o virtù, indispensabili per l'ascesi spirituale sono: la fede, la speranza e la carità (amore).

Nell'XI secolo le Chiese d'Oriente si raccolsero intorno a quattro patriarcati: Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Nel 1589 la Russia istituisce un suo patriarcato, oggi a Mosca.
Costantinopoli è la sede ecumenica di tutti i patriarcati, che si gestiscono autonomamente, come pure le diocesi più grandi dette Arcidiocesi. Ad Atene per esempio vi è un sinodo formato da settanta vescovi facente capo al patriarcato di Costantinopoli.
Ogni patriarcato ha il suo patriarca e ogni Arcidiocesi il suo metropolita che è a capo del collegio dei vescovi.
Il clero è suddiviso in cinque livelli: gli Ordini inferiori di cui fanno parte i suddiaconi (aiutanti del diacono) e i lettori e gli Ordini superiori costituiti da vescovi, presbiteri, che amministrano i sacramenti (corrispondenti ai sacerdoti cattolici), e diaconi.
I vescovi sono nominati solo tra i monaci. Ciò denota che, nonostante a diaconi e presbiteri sia concesso di rimanere sposati, vivendo quindi la realtà familiare dei laici, le redini della struttura ecclesiastica sono nelle mani di coloro che hanno preso i tre voti monacali, ovvero che si dedicano esclusivamente alla vita religiosa.
A mostrare il ruolo canonico centrale ed essenziale che il monachesimo occupa nell'Ortodossia è la realtà di l'Aghion Oros, il Santo Monte, o Monte Athos, lo stato teocratico dell'ortodossia. Situato sul versante orientale della penisola Calcidica è un lungo e stretto promontorio/penisola che sporge sul Mar Egeo che, in una ventina di monasteri e in eremitaggi sparsi lungo il promontorio, oggi ospita 2300 monaci provenienti da tutto il mondo.
Il monachesimo ortodosso, a differenza di quello cattolico, non è suddiviso in ordini e può essere anche intrapreso a livello individuale (anacoreti).

Vorrei concludere questa prima parte con un breve passo tratto dalla cronaca di Nestore, la leggenda che sta alle origini del cristianesimo in Russia.
Si narra che nel 900 il principe di Kiev Vladimir per eleggere quale rito cristiano sarebbe stato adottato nel suo regno inviò dieci osservatori presso tutte le sedi di culto esistenti affinché ne giudicassero il cerimoniale. Questi scrissero: <<Giungemmo in Grecia e ci condussero là dove essi adorano il loro Dio e più non sapevamo se eravamo in cielo o in terra: non c'è sulla terra uno spettacolo simile, una simile bellezza, né riusciremo ad esprimerla. Sappiamo soltanto che là Dio dimora con gli uomini e le loro sacre funzioni superano quelle di ogni paese. Non potremmo dimenticare quella bellezza>>.
Io non so se "c'è sulla terra uno spettacolo simile", ma per quel che ho visto sino ad ora posso affermare che anch'io "non sapevo se ero in cielo o in terra". L'unica esperienza di pari intensità l'ho vissuta durante la messa del pellegrino nella cattedrale di Santiago de Compostela, ma era un'altra storia

Nel rito bizantino-greco tutte le cerimonie sono celebrate in greco antico, che si avvicina a quello moderno pressappoco come il latino all'italiano. Solo i più dediti praticanti lo capiscono.
Della versione greca dell'Antico Testamento, i LXX, si racconta che il re Tolomeo Filadelfo (285-247 a.C.) commissionò la traduzione per la biblioteca di Alessandria a settantadue sapienti ebrei (sei per ogni tribù), i quali furono rinchiusi in settantadue celle sull'isola di Faro in Egitto per settanta giorni. Ne scaturirono settantadue traduzioni identiche, che oggi sono appunto i LXX.
Dalla mia esperienza sul campo mi sono formulato la tesi che la non comprensione delle letture da parte dei fedeli richiede loro un duplice impegno: leggere prima la traduzione in greco corrente dei passi che saranno letti per poi focalizzare il momento del rito sulla partecipazione interiore. Una simile pratica compenserebbe l'atteggiamento tipico della chiesa ortodossa che mette in primo piano il fervore mistico, peraltro caratteristico di tutte le dottrine orientali, basti pensare alla ripetizione dei mantra indù e buddhisti che, contrariamente ai rosari cristiani, nella maggior parte dei casi non hanno un vero e proprio significato. Ciò che conta è l'effusione devozionale, l'afflato mistico. Questo crea uno squilibrio tra le forze del pensare e del sentire che devono co-operare affinché il rito sia percepito in tutta la sua potenza spirituale. Cogliere il significato di una cerimonia non è un'operazione esclusivamente sentimentale né esclusivamente dell'intelletto.
Un autentico coinvolgimento interiore può divenire il movente dell'operare nel quotidiano proprio grazie alla sua controparte intellettiva. La comprensione e la profonda partecipazione devono viaggiare di pari passo; il fatto di averne separato i momenti può rivelarsi maggiormente incisivo. Per di più lo studio che dovrebbe precedere il rito fa sì che l'afflato mistico non prevalga causando gli scompensi che illudono e fuorviano.

Abbiamo detto che il monastero è il cuore del cristianesimo ortodosso. Per me l'esperienza della preparazione alla Pasqua e la celebrazione della Pasqua nel monastero di Hosios Loukas ha rappresentato un tuffo interiore nel mistero del Cristo. Il freddo, i digiuni (nei quaranta giorni che precedono la Pasqua nei monasteri non si mangia dopo l'esperinos (i vespri) e mai carne, anche se nella carne non è incluso il pesce, né latticini, non si usa l'olio, né si beve vino), il lavoro fisico che fanno parte della vita monastica sono necessari per vigilare sulle tendenze dell'anima a dondolarsi nella dolce culla del mistico sentire che nei monasteri tende comunque a prendere il sopravvento sul pensare. E' fondamentale mantenere il corpo attivo e dinamico in modo che la mente sia stimolata a restare fresca e attenta.
A tale proposito ritengo altrettanto, se non più, importante sostenere l'attività di pensiero con letture e studi che mantengono la mente impegnata.
Personalmente mi ha accompagnato in ogni giorno di questo viaggio la colossale opera di Massimo Scaligero Dell'Amore immortale.

Monastero di Hosios Lukas
Sono arrivato a Hosios Loukas a piedi sotto un temporale. Ancora bagnato ho assistito alla mia prima cerimonia ortodossa e l'impressione è stata subito di potenza percepita dalle anime addette al culto: il lettore, il monaco e soprattutto l'abate che presiedeva la cerimonia. Ho chiesto ospitalità e Pater Jorius me la concesse.
Pater Jorius è l'igumeno, l'abate in greco, del monastero. La lunga barba e capelli bianchi raccolti nell'alto cappello, alto, in carne e di bell'aspetto, Padre Giorgio ha cinquant'anni ed è stato tra i più giovani a essere stato ordinato igumeno all'età di trenta. I suoi occhi sono severi e amorevoli al tempo stesso. I suoi rapporti con i discepoli come con il vescovo, suo diretto superiore, sono fondati su un amore che trascende palesemente il limite egoico. E' chiaramente il faro del monastero.
Chrisiantos, il monaco ventisettenne alto e magro, svelto di testa e di corpo, anche lui con la barba lunga sino al petto e i capelli legati in una lunga coda è il suo alter ego.
E' importante sottolineare come la bellezza, l'eleganza nel portamento, la grazia del monaco intriso della sua missione esprimano chiaramente il suo grado di ascesi. La bellezza spirituale plasma l'essere sin nella sua fisicità.
Quella sera, uscito dalla chiesa, venni come travolto dal suggestivo silenzio di quel luogo sacro da cui si schiude un panorama mozzafiato: l'ampia vallata sottostante cinta dalle montagne del vicino Peloponneso che la chiudono a ventaglio senza una casa, senza una luce al sopraggiungere della sera.
Il giardino fiorito di fronte alla casetta dove ho dormito era come una spiaggia che accompagna lo sguardo verso quel mare di verde. Dal tavolo in pietra sotto il mandorlo mi pareva contemplare l'infinito.
L'indomani era domenica, giorno di liturgia. Nel rito ortodosso la liturgia si celebra solo la domenica e in poche altre feste comandate, poiché è considerata un dono divino troppo grande per essere ricevuto tutti i giorni, per questo viene chiamata Theia litourghia, Divina liturgia. E' impegnativa, dura tre ore e quaranta minuti e, come mi ha poi spiegato il giovane lettore che, insieme a Chrisiantos, ha recitato e cantato ininterrottamente per più di un'ora, "si lascia molto spazio all'anima del singolo devoto di spingersi verso Dio, rappresentato dal Cristo".
Giornalmente si praticano l'orthros, il mattutino e l'esperinos, il vespro che durano circa quaranta minuti.
La mia permanenza a Hosios Loukas mi ha offerto perle di vita interiore che la stupefacente bellezza del luogo non poteva che far risplendere. Come se interiorità ed esteriorità si fondessero in un'unica danza.
Oltre al panorama, la struttura del monastero, il cortile con diverse varietà di alberi, alcuni pluri-centenari, l'esplosione primaverile della natura, i paramenti, i mosaici, gli affreschi e le icone nella Chiesa del decimo secolo fanno di Hosios Loukas un reale "patrimonio mondiale dell'umanità" (UNESCU)
Nella chiesa madre, dedicata alla Panaghia, la Madonna, nessuna nicchia, nessuna volta è priva di affreschi o mosaici. Laddove lo sguardo si leva è rappresentata un'entità spirituale.
La caratteristica principale delle chiese ortodosse è la divisione dell'area del rito accessibile a tutti dal presbiterio, detto Sacro Vima, dove si celebrano i misteri, con una parete abbellita da icone detta appunto Iconòstasi, dal greco eikon, immagine e stasis, collocamento.
L'Iconòstasi ha tre aperture-ingressi dai quali si accede, centralmente all'altare maggiore e ai lati a due stanzette dette rispettivamente: "Altarino del Dhiaconicòn", sul lato destro, dove sono conservate le vesti, gli oggetti e i libri liturgici, equivale alla sacrestia delle chiese cattoliche, e "Altarino della Pròtesi", ovvero della preparazione, sul lato sinistro, la sala operativa dove si svolgono tutti i preparativi. Questi tre spazi, comunicanti all'interno tra loro, formano appunto il Sacro Vima.
Le letture cantate e le continue litanie dalle tonalità arabeggianti, l'importanza conferita alla luce delle candele insieme al profumo dell'incenso, con cui l'igumeno durante le cerimonie benedice molto spesso le immagini sacre, e altri particolari, richiamano l'Oriente.
Se si riesce a non perdersi nelle melodie delle interminabili letture che, non comprendendone il significato, rischiano di avere un effetto di tipo mantrico in cui il sentire rapisce il pensare, si ha tutto il tempo di immergersi nella forza spirituale evocata dal rito.
Un'altra differenza con le chiese cattoliche che salta subito all'occhio è il pavimento completamente coperto da lunghi tappeti uniti tra loro.

La liturgia dell'immagine
Importantissimo è il fenomeno dell'iconodulia, ovvero dell'adorazione delle icone, parte integrante del rito bizantino.
Il culto dell'immagine risale ai primordi del cristianesimo; suoi grandi sostenitori furono i più importanti padri della Chiesa d'Oriente: sant'Atanasio d'Alessandria, san Cirillo d'Alessandria, san Gregorio Nazianzeno, detto il "teologo" (330-390), san Basilio il Grande (329-379) e san Giovanni Crisostomo (347-407). Questi ultimi tre sono considerati i santi gerarchi per eccellenza; vissero nello stesso periodo, furono tutti e tre ecumenici, e tutti e tre provenivano dall'Asia minore: i primi due dalla Cappadocia e Giovanni da Antiochia in Siria. San Basilio fu arcivescovo di Cesarea e san Giovanni Crisostomo Patriarca di Costantinopoli. I loro scritti sono alla base della vita monastica e liturgica del cristianesimo ortodosso.
I tre "dottori ecumenici" sono tra i più citati durante le invocazioni ai santi. Nel 1100 dopo una futile disputa su chi fosse il più grande si decise di unirne la commemorazione in un'unica festività, celebrata il 30 gennaio, come fossero una sorta di "trinità terrestre". Questa scelta li ha uniti anche nell'iconografia, dove sono rappresentati frontalmente con la mano destra benedicente e la sinistra che regge il vangelo.
Nel 726 all'interno del cristianesimo orientale ebbe inizio una grave crisi, conosciuta come crisi iconoclasta che, non solo mise in dubbio, ma addirittura definì idolatra il culto delle icone.
Fonti ortodosse ritengono che iconoclasti furono i Franchi, i Longobardi e alcuni vescovi dell'Italia del nord, mentre gli Ortodossi, "partigiani delle Icone" erano numerosi anche nel clero in Gallia e nell'episcopato di tradizione romana.
La crisi culminò nel 730, anno in cui furono distrutte moltissime icone sacre. In Oriente, e a
Tuttavia l'iconoclasmo si protrasse solo una cinquantina d'anni e terminò con VII Concilio Ecumenico, il Concilio di Nicea del 787 dove, grazie all'imperatrice Irene, fu ripristinato il culto delle icone.
Nel Concilio, che i vescovi franchi di Carlo Magno non riconobbero e contro il quale si levarono, si stabilì che il Cristo non solo può, ma deve, essere raffigurato in immagini, poiché l'immagine simboleggia il passo successivo dall'Antico al Nuovo Testamento, ovvero dalla sola rivelazione della divinità attraverso la Scrittura, alla Sua incarnazione, alla Sua manifestazione nella carne, quindi in immagine che l'uomo può e deve riprodurre. Da qui la certezza dell'ispirazione interiore dell'iconografo che viene per così dire compenetrato dall'entità spirituale che raffigura.
"L'icona è metafisica. Nei metodi dell'antica pittura di icone risalenti alla più remota antichità, mi appaiono chiaramente i fondamenti della metafisica universale", scrisse nel 1922 Pavel Florenskji in Iconòstasi (oggi intitolato Le porte regali).

Sull'arte iconografica ci sarebbe molto da dire. Basti pensare alla quantità di icone e di tipologie di icone in base all'ispirazione dell'iconografo: abbiamo oltre trecento tipologie della Panaghia con il bambino, e ad ognuna è stato dato un nome. Ciò denota ancora una volta l'importanza che il credo bizantino conferisce al singolo rapporto con il Divino. In realtà ogni raffigurazione è una tipologia a sé, in base alla singolare visione che l'ha prodotta. Da alcune icone emerge chiaramente il genio del pittore che si direbbe proprio la riproduce nella posizione e con l'espressione che gli sono apparsi in visione.
Per esempio nella Vergine Hodighitria, ovvero colei che mostra la Via, la Panaghia dirige l'attenzione dell'osservatore sul "Figlio" con un gesto morbido della mano che, lunga e solenne, lo indica come "la Via, la Verità, la Vita". Si percepisce chiaramente la potenza del bambino, sorretto dalla madre come fosse su un trono, che appare un adulto tanto il suo sguardo esprime saggezza (Vedi icona). Ambedue, la madre e il bambino, guardano direttamente l'osservatore.
Tre stelle, due all'altezza delle spalle e una sulla testa simboleggiano la Trinità e la verginità della Madre di Dio.
La veste rosso oro del Cristo denota la regalità e il papiro l'autorità della scrittura. Benedice con la mano destra mantenendo i polpastrelli del pollice e dell'anulare uniti a indicare la duplice natura divino-umana del Cristo e le altre tre dita alzate in segno trinitario in segno che ne rivela le due nature e la trinità. L'aureola del Cristo riporta una croce con inscritta la risposta che Dio diede a Mosè: "Io sono colui che sono" (Esodo 3,14). Le tre lettere impresse alla destra dell'aureola del Cristo sono abbreviazioni greche di Gesù Cristo e quelle ai lati della Madonna "Madre di Dio".

In altre icone il Cristo bambino sembra impartirle un insegnamento con un papiro nella mano sinistra mentre la benedice con la destra, in altre ancora invece emerge l'amore naturale del bambino per la madre, per esempio dalle guance che si appoggiano teneramente alle Sue e dalle mani che la tengono stretta. Cambiano i volti, le espressioni e i gesti di ambedue, ma sempre si evidenzia la devozione, la saggezza e la tenerezza quali sintomi della potenza dell'Agape.

Vediamo quindi il duplice aspetto dell'ascesi, quello mistico e quello conoscitivo che si compenetrano nell'arte iconografica.
Nell'ortodossia si parla infatti di "liturgia dell'immagine" a fianco alla liturgia della parola. Probabilmente per certe composizioni di musica sacra si potrebbe parlare di "liturgia della musica", o "del suono".
Credo l'arte rispecchi la libera espressione dello spirito, dell'Io superiore, o Cristo in noi che la rende liturgica nel momento in cui altri dalle sue manifestazioni sono proiettati verso il proprio, in ultima analisi lo stesso, Spirito.
L'arte diviene liturgia se stimola creativamente lo sviluppo delle forze in noi latenti.

La liturgia dell'immagine non si esplica solo nelle icone, ma anche negli affreschi e nei mosaici che decorano le pareti delle chiese più ricche.
Qui la caratteristica più immediata delle raffigurazioni degli aios, i santi, dei padri della chiesa e degli apostoli sono gli occhi sgranati, estatici, a indicare lo stato di contemplazione profonda, di effusione con il Divino.
Le loro figure, oltre a mostrare lo stato d'ispirazione, riflettono anche un'eleganza nelle posture e nel movimento delle mani che dispone l'osservatore a uno stato di grazia.
Con l'impiego della prospettiva rovesciata l'osservatore è attirato dall'immagine. Da cui lo stretto legame tra icone ed eucarestia laddove il Cristo risorge in noi.
L'importante da parte dell'osservatore è cercare di cogliere quel filo diretto che i Santi raffigurati avevano con Theos (Dio).
Questo spiegherebbe perché le loro opere sono reali veicoli, come lo sono le sacre scritture.
L'icona diviene così immagini liturgica come lo è nell'induismo e nel buddhismo, a mostrare ancora una volta il legame con l'Oriente.

L'immagine divina del Cristo Re, predominante tanto nella Chiesa latina quanto in quella d'Oriente, è l'affresco del Cristo Pantocrator, Onnipotente, circondato dalla Panaghia, Giovanni Battista e i quattro Arcangeli e, appena più in basso, dai sedici Profeti. Con la mano destra in segno di benedizione e reggendo il Vangelo con la sinistra lo troviamo generalmente sulla volta delle cupole come ad abbracciare l'intero luogo di culto, come se quel Suo sguardo calmo e compassionevole creasse una cappa di protezione su tutte le anime e le opere sottostanti.
La Basilica di Santa Sofia a Bisanzio, la cattedrale di Kiev e di Santa Sofia di Novgorod sono tra i più sublimi esempi.

Per concludere questo viaggio nell'arte dell'immagine sacra è doveroso perlomeno accennare al simbolo del Tetramorfo, che troviamo tanto nelle basiliche romane quanto nelle cattedrali gotiche, ma che è un soggetto comune soprattutto alle icone russe del XV secolo.
Il Tetramorfo sono i quattro Evangelisti in veste dei quattro Cherubini che presiediarono la creazione della Terra, la formazione delle prime quattro razze, "l'ossatura dell'evoluzione spirituale". Il Cristo del Tetramorfo rappresentato in trono tra i quattro Evangelisti "è il centro attorno al quale gravita tutta l'evoluzione passata che dell'incarnazione del Logos è solo preparazione" (Gabriele Burrini in L'angelo dei nuovi tempi).

L'immagine sacra invade i luoghi di culto ortodossi: le pareti delle chiese sono interamente dipinte o affisse da icone. Da un punto di vista stilistico può risultare pesante, ma se si entra nella dimensione spirituale di tale veicolo se ne viene come avvolti e la contemplazione delle immagini si rivela realmente una liturgia interiore.

 

La Pasqua
L'importanza della raffigurazione, la liturgia dell'immagine, oltre che dalle icone, emerge dalle simbologie care al culto ortodosso. Le frequenti processioni lungo il perimetro della chiesa a ogni liturgia: con i calici prima dell'eucarestia, con la croce, con un tempietto che rappresenta il sepolcro, con un tappeto che rappresenta il corpo di Cristo che vi è deposto e infine con la luce, la luce del Golgotha.
Nella settimana santa durante le cerimonie si rivive passo per passo la passione di Cristo, e quella "messa in scena" aiuta l'immaginazione a compenetrarsi del più grande sacrificio offerto all'umanità.
La liturgia pasquale culmina a mezzanotte quando l'igumeno alza le braccia al cielo e grida: Christos anesti! Christos anesti! Christos anesti! e tutti in coro rispondiamo Aghiots Anesti!, è realmente risorto!
Da una candela giunta accesa da Atene, l'abate ci dà la luce, e ognuno di noi va ad accendere il suo lume da quella fiamma.
Ad Atene a sua volta questa candela ha "ricevuto la luce" dalla candela che è arrivata in aereo da Gerusalemme dov'era stata accesa sul monte del Golgotha. Così avviene anche nei patriarcati di Costantinopoli e Mosca da dove poi la stessa luce si passa alle varie diocesi, quindi a tutti i fedeli. La stessa fiamma che è stata accesa sul Golgotha illumina ogni fedele. Un rituale della luce simboleggia il mistero della resurrezione. Quella luce che duemila anni fa è scesa nel mondo (Gv.1,9), con la resurrezione del Cristo non si è mai più spenta.
Si alzano cori al cielo, una intima liberazione si esprime nell'euforia generale.
Quella notte scrissi sul mio diario: "Quel peso opprimente che avvertivo dal giorno della crocifissione è come svanito di colpo all'incedere nelle profondità della coscienza delle potenti parole dell'igumeno "Christos anesti!".
I mistici lo chiamano "afflato spirituale", gli scettici "autosuggestione", io non credo si tratti né di tanto, né di tanto poco, bensì di un moto dell'anima che rivive in sé il più grande mistero dell'uomo moderno. Certo sono le forze del sentire che scuotono, ma trovo a dir poco riduttivo semplificare a mero sentimentalismo, o romanticismo religioso una simile esperienza.
Gabriele Burrini, nel suo L'angelo dei nuovi tempi definendo la "via misterica", scrive: "Ancora oggi la potenza di questa esperienza liturgica è ben viva nel cristianesimo orientale, ove il fedele sente di assistere, durante la liturgia, a divini misteri, su uno scenario umano-cosmico presenziato dalle gerarchie celesti, con le quali gli stessi oranti si identificano".
Il pericolo consiste nel farsi trasportare dall'enfatuazione mistica, dal cadere in quello che spesso Steiner definisce "abbaglio mistico". Per questo è importante non perdere la lucidità, restare presenti nel pensare, ma neppure negare la potenza che viene espressa sul piano del sentire. La grandezza di un padre spirituale sta proprio nel far sì che l'Impulso cristico non si limiti al sentire, ma sia reso percepibile anche al pensare.

La metania
Un ultimo aspetto, anche se ve ne sarebbero molti altri, che voglio ricordare riguardo alla peculiarità del rito ortodosso è la metania, ovvero l'inchino che nel rito ortodosso accompagna sempre il segno della croce.
Questo gesto, che denota la partecipazione dei fedeli, non è sintomo di devozione cieca. Dalla stessa radice di quel "Metanoeîte!" che gridava il Battista sulle rive del Giordano, l'inchino del devoto non si piega al peso di un'istituzione, ma si prostra dinnanzi all'invito al cambiamento. Quella "voce che gridava nel deserto" invitava alla conversione chiedendo di andare oltre la mente. Quel "Convertitevi" (Mt.3,2) letteralmente andrebbe tradotto "trasformatevi, mutate pensiero, mutate le vostre menti", aprite le vostre menti a un nuovo modo di pensare. Meta significa dopo, e noûs mente, pensiero. Il Battista, il Precursore annuncia la venuta di "colui che battezza in Spirito Santo" (Gv.1,33), che offre "la seconda nascita", per cui è necessario Metanoeîte, andare oltre, "dopo", la mente. Per comprendere il Principio Cristo dobbiamo mutare il nostro pensiero. Purificare il pensare oltre il pensiero riflesso dal mondo significa accedere al pensiero puro di cui parlarono i grandi Maestri dei nuovi tempi.
Ecco il significato della metania, dell'inchino non solo del penitente, ma del rivoluzionario, del ricercatore spirituale, del devoto alla libertà, al Cristo, all'Amore.

Conclusione
L'Ortodossia non mise mai in secondo piano il Cristo Dio rispetto al Cristo Gesù come accadde nel Cattolicesimo. Potremmo dire che l'Ortodossia, conservando la sacralità del senso del mistero del Cristo, creò le basi per la Scienza dello Spirito. Rudolf Steiner indagherà dal punto di vista conoscitivo ciò che la Chiesa d'Oriente venerava come Mistero.

L'igumeno Vassili ci ha offerto un'immagine poetica e sacra della sua tradizione cristiana che mi ricorda quanto Steiner ha insegnato riguardo al sangue che dal Cristo in croce penetrava nella terra. "Siamo come la terra che continuamente accoglie nelle sue viscere la rugiada celeste, la pioggia spirituale della nostra santa tradizione".

Vi ho parlato questa sera di un'esperienza vissuta due anni fa, e vorrei concludere con una esperienza ben più recente, nata anche dagli stimoli ricevuti nei nostri incontri di quest'anno.
Da quando sono tornato dalla difficile esperienza nella fabbrica indiana è sorta in me un'esigenza di introspezione e raccoglimento, in parte per elaborare il duro vissuto e cercare di capire come esprimerlo, e in parte per riprendere le redini della disciplina.
Gli stimoli ricevuti dai nostri incontri si sono per così dire materializzati in due brevi esperienze in ambiente monastico, la prima con Mauro, presso l'Eremo di Camaldoli e la seconda ad Assisi, da cui ho tratto grandi doni.
Uno di questi è rappresentato dall'"Absorbeat", una preghiera, che il nostro Patrono amava recitare con i suoi frati e che questa sera, in chiusura del nostro anno di incontri vorrei condividere con voi.

"Rapisca, ti prego, o Signore,
l'ardente e dolce forza del tuo amore
la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo,
perché io muoia per amore dell'amor tuo,
come tu ti sei degnato morire
per amore dell'amor mio".

Il titolo di per sé esprime un senso di spazialità che ci fa sentire come immersi in un dipinto, rapiti dall'abbraccio de "l'ardente e dolce forza", o meglio della più ardente, e al tempo stesso più dolce, forza che possa compenetrare l'uomo. E' l'Agape, l'Amore che da soggetto diviene oggetto nella seconda terzina. Si invertono le parti per far risuonare un "morire per amore" di cui il catulliano romantico morire d'amore per l'amata, dove l'amore è intriso di passione, non è che un tenue riflesso, spesso neppure quello.
Il morire a causa dell'amore implica una totale immersione nell'amato. E qui, l'amato non è Dio, bensì il suo attributo primo, il suo amore. Qui si chiede di morire per amore dell'amore di Dio!
Un'immagine che non possiamo raffigurare con strumenti sensibili, ma percepibile solo nell'interiorità.
Il sentimento puro sospinto dalle forze del volere che deve riecheggiare l'ancor più frastornante immagine del Cristo uomo che "si è degnato di morire" per aver tanto amato il nostro amore.
Cristo morto d'amore per quel che di più sublime vive in noi, in ogni uomo, per quella forza che siamo chiamati a rappresentare; Cristo morto per aver tanto amato il compito dell'uomo, il senso ultimo della nostra esistenza, il nostro amore che Lui rappresenta in noi. Ecco che in questi pochi versi troviamo la missione dell'uomo di conoscere l'amore in sé, il Cristo in lui, la sua vera essenza, se stesso. Le vie filosofico-conoscitiva e quella mistico-religiosa si fondono in Cristo.
Gesù muore per amore del nostro amore, ovvero dell'amore in noi, della forza che ci dovrebbe contraddistinguere e che sola ci rende degni di essere Uomini.
Abbiamo visto quanto fortemente sia sentito nella Chiesa d'oriente quest'Agape che culmina sul Golgotha.
Francesco dice la Leggenda maggiore di san Bonaventura da Bagnoregio, "difficilmente riusciva a sentir nominare l'amore di Dio, senza provare un intimo turbamento" (Leg.M.,1). Quell'"intimo turbamento" è l'amore che lui provava per quell'amore.
Ibn al-Farid il poeta mistico arabo coevo di Francesco scrisse: "Chi non muore del proprio amore non ne vive".

Vi inviterei quindi a meditare questa preghiera scaturita dal più nobile impulso che fluisce nell'anima umana come augurio per la nostra crescita sul cammino spirituale.

"Rapisca, ti prego, o Signore,
l'ardente e dolce forza del tuo amore
la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo,
perché io muoia per amore dell'amor tuo,
come tu ti sei degnato morire
per amore dell'amor mio".

Amin

 

Marcello Girone Daloli (marcellogirone@tiscali.it), Gruppo Oriente Occidente
Società Antroposofica, Milano 22 giugno 2004

 

 

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