La gioia spirituale dei Bodhisattva

di Alda Gallerano

Questo articolo è stato pubblicato su "Graal", anno V, num. 17-18.

C'è un elemento che permea tutta la personalità del bodhisattva e che costituisce quasi lo scenario sul quale si svolge il suo cammino interiore, intessuto di compassione (karunâ) e di potere di conoscenza. E' la gioia (muditâ, rati): che sboccia in lui all'atto iniziale della "carriera" (caryâ), cioè con la formulazione dei voti, ma che  in verità è lo stimolo stesso di questa formulazione, perché il bodhisattva âdikarmika ("novizio"), consapevole che il mondo e l'esistere sono sofferenza, sperimenta un'indicibile gioia nel momento in cui gli balena dinanzi un altro modo di essere, una dimensione sacrificale della vita, in cui ogni atto del suo esistere avrà un valore ai fini della salvezza propria e altrui.
E' allora che nel bodhisattva âdikarmika nasce quella gioia di cui sarà "sorgente nel mondo" (1): quasi un canto d'esultanza dell'anima, un "Magnificat" che si discioglie pieno di gratitudine verso i Tathâgata, da cui egli riceve aiuti e insegnamenti. Che cosa d'altronde, se non la silenziosa e segreta ispirazione dei Tathâgata, avrebbe potuto fargli intuire quell'universo inimmaginabile di grazia, a cui poter partecipare mediante l'entrata nella caryâ? Difatti la stessa formulazione del voto di salvare gli esseri e la prima scaturigine del pensiero d'illuminazione nascono da un atto di grazia dei Tathâgata verso chi per karma  sia maturo. "Oh, assai beatifica è quest'illuminazione che viene vista e udita, e quale è la forza di miracolo di chi in essa dimora o è giunto!" (2). Quella gioia è dunque vissuta come gratitudine  verso i Tathâgata, nella cui "famiglia" il bodhisattva âdikarmika rinasce in seguito allo scaturire di quel pensiero: per lui il triplice ostacolo è cancellato (3), egli "prova una gioia estrema e possiederà il potere su centinaia di mondi" (4).
Ma è anche gratitudine verso gli esseri, il cui dolore e il cui stato di peccato ispirano una così grande compassione da indurlo ad abbracciare quel difficile e lunghissimo cammino da bodhisattva. Una compassione inesauribile, che non potrà placarsi fino a che l'ultima delle creature non avrà attraversato il fiume del samsâra, ma  che  non potrebbe reggere alla dure prove cui dovrà essere sottoposta, se non fosse appunto permeata della gioia del sacrificio, del sentirsi essere sacrificale.
Numerosi a questo proposito sono gli episodi della Jatakamâla (5), atti a illustrare tale potere di sacrificio del bodhisattva, e fra questi la storia del re degli Shibi, che per la sua virtù di compassione era tutto pervaso di gioia nel vedere i mendicanti rallegrarsi dei doni da lui ricevuti. Un giorno il re degli dei, Shakra, volendo mettere alla prova la carità di questo re terreno, si presentò a lui come un vecchio mendicante cieco che gli chiedeva un occhio, per riacquistare almeno in parte la vista. Il re degli Shibi accondiscese subito al desiderio del postulante. Poi, "come vide aperto uno dei due occhi del vecchio gli offrì anche l'altro. E sebbene il re, poi ch' ebbe dato via i suoi due occhi, somigliasse, nel volto, a un lago senza loti, fu tuttavia pervaso da una grande gioia".
Il re degli Shibi non è altri, nella leggenda, che una delle numerose incarnazioni bodhisattviche del Buddha Shâkyamuni, quando praticava la karunâ lungo gli incalcolabili eoni, che secondo i testi, preludono all'entrata nella prima terra, chiamata Pramuditâ, la Gioiosa, a indicare il sentimento che predomina in chi ha intrapreso il sentiero bodhisattvico.
Questo sentimento, una volta sorto, accompagna poi tutto il lungo cammino dei bodhisattva, che, secondo le parole del Sûtra della Perfezione della Saggezza (6), parlano sempre "con un viso sorridente perché hanno sradicato l'avversione, scacciato l'invidia, sempre praticato la grande benevolenza, la grande pietà e la grande gioia".
Tale gioia viene alimentata dalla inamovibile fede nel Buddha, dalla protezione che il bodhisattva esercita costantemente sul pensiero d'illuminazione, dal cercare il bene degli esseri, dall'evitare ogni rilassamento della moralità, oltre che dall'esercitare le virtù della pazienza e dell'energia e dall'escludere sia pure l'ombra di una macchia dalla saggezza. Peraltro il bodhisattva è gioioso, quando è in grado di udire i dharma profondi senza tremare, o per il fatto che vede tutte le buone qualità dei propri simili, mentre non ne vede i difetti, così da non nutrire per loro né odio né avversione (7).
La gioia, così praticata, nutre tanto profondamente di sé il corpo sottile dei bodhisattva, da conferire a esso una colorazione aurea che si manifesta nei raggi di luce da loro emanati e nei fenomeni straordinari che commuovono la natura, in connessione con momenti particolarmente importanti del loro iter spirituale ( MPPS, p. 555). Così, quando un bodhisattva rinasce alla sua ultima incarnazione, nella quale diventerà un Buddha, si verificano fenomeni miracolosi che esprimono l'esultanza di tutto l'universo per l'evento.
Narra infatti il poeta Ashvaghosha: "Due cascate d'acqua, una con la proprietà del caldo, l'altra con la proprietà del freddo, sgorgarono dal cielo limpide come raggi di luna ­ alla nascita di Shâkyamuni - e si riversarono sul suo fausto capo per allietarne il corpo con il loro tocco", e "la terra, imperniata sull'Himâlaya, sussultò come una nave colpita dal vento; cadde dal cielo una pioggia di calici di loti azzurri e rossi (fragrante) di sandalo. Spirarono brezze piacevoli al tatto e gradite alla mente il sole stesso splendette maggiormente e il fuoco brillò con benigna fiamma senza essere attizzato Le schiere di esseri celesti fautori della Legge riempirono il bosco per vederlo e la (loro) meraviglia fece cadere fiori dagli alberi fuori stagione. Il quel tempo anche gli animali feroci stavano assieme e non si recavano danno a vicenda; anche le malattie degli uomini, quali che fossero, venivano sanate senza fatica e si era diffusa la gioia" (8).
E quando il principe Siddhârtha, futuro Buddha, a ventinove anni abbandona la reggia di suo padre per una vita povera d'asceta, facendo voto di non ritornare nella città di Kapilavastu prima di aver visto l'altra sponda della vita e della morte, "gioirono le schiere del Signore della ricchezza, e le moltitudini degli dei".
Quando poi il bodhisattva Shâkyamuni fece il suo ingresso nella foresta, dove sarebbe vissuto in meditazione, i cervi e gli asceti lo contemplarono immobili, presi da stupore, mentre "le vacche sacrificali, colte da gioia, versavano latte sebbene fossero già state munte".
Infine, allorché l'asceta, dopo anni di dura ricerca interiore, si pose a sedere ai piedi dell'albero sotto cui avrebbe conseguito la bodhi, sulla foresta, non più battuta dal vento, scese il silenzio perfetto dell'immobilità. Tutto "il mondo gioì" in quell'istante (9); e quando, dopo una notte di profonda meditazione, Mâra (10), che tutto aveva  tentato per distrarlo, si riconobbe vinto, il cielo e la luna si illuminarono di più vivo splendore e un pioggia profumata di fiori inondò la terra (11).
Restava ora a Shâkyamuni il conseguimento dell'onniscienza, che realizzò all'alba del quarto giorno, divenendo un Buddha, un Illuminato. La terra allora "barcollò come una donna ebbra di vino e possenti tamburi risuonarono in cielo. Soffiarono lievi,  piacevoli brezze e dagli alberi piovvero fiori e frutti fuori stagione per fargli onore Anche gli esseri delle sfere inferiori provarono gioia e il mondo dei vivi si rallegrava come se fosse prospero". (12).
La storia del Buddha Shâkyamuni è il paradigma della vicenda di tutti i bodhisattva, una vicenda che è insieme celeste e terrena, perché nei cieli ha la  sorgente il loro potere di miracolo che, grazie alla bodhi, nasce e si diffonde sulla terra e sui mondi soggetti alla sofferenza. E dell'atmosfera dei cieli ogni bodhisattva si porta il sentore, in quella leggerezza che ne pervade la figura, tutta la personalità, nonostante il grave peso di cui si fa carico, d'incarnazione in incarnazione, per la salvezza degli esseri.
Per questo il Cosmo intero, commosso, trema e ogni essere,  visibile e invisibile, partecipa all'unisono con la natura al primo sbocciare della bodhi e al suo rinnovarsi a ogni atto di conoscenza e di compassione del bodhisattava.
Questa gioia - dicono i testi - "questa felicità mentale è come l'acqua di una sorgente rocciosa che sgorga spontaneamente e non viene dall'esterno. Praticando il pensiero d'uguaglianza, osservando la continenza, praticando i dieci buoni cammini dell'atto, si è purie senza difetto; è questa che si chiama felicità interna" (13).
La gioia è causa di salvezza per gli esseri che per essa non sono maturi. E' così che un giorno, narra l'MPPS (p. 541), essendo entrato il Buddha, accompagnato da Ananda, nella città di Shrâvastî per mendicare cibo, videro una povera vecchia sul ciglio della strada. Ananda disse al Buddha: "Questa donna è degna di pietà, il Buddha dovrebbe salvarla". Ma avendo il Buddha risposto che la donna non soddisfaceva le condizioni volute per la salvezza, Ananda replicò: "Che il Buddha le si avvicini. Quando ella vedrà il Buddha con i suoi segni (14) ella proverà un pensiero di gioia (muditâcitta) e soddisferà così le condizioni richieste".
I Buddha, e con loro i bodhisattva, hanno il potere di trasmutare con atto immediato il dolore esistenziale e di far maturare nello  spazio di un istante gli esseri in forza del loro ininterrotto, gioioso sacrificio, ricco di benevolenza verso le creature. Di questa gioia, che egli sacrificalmente crea a ogni istante, il bodhisattva consente che fruiscano anche gli altri. Nel suo sacrificarsi non c'è nulla d'oscuro o di gravoso, ma tutto spira  una levità celeste che ha la sua scaturigine nella consapevolezza di rinunciare soltanto a ciò che è inferiore, perché il superiore viva. Possiamo dire con l'MPPS (p. 1063) che "la saggezza ha questo potere meraviglioso, di stimolare due tipi di uomini: l'ignorante, per mezzo del timore; il saggio, mediante la gioia".
 
 
NOTE
 
(1) A. Pezzali, Shântideva e il Bodhicaryâvatâra,  Bologna 1982, I, 26, p. 59.
(2) Bodhisattvabhûmi, ed. by U. Wogihara, Tokyo 1930, pp.13-14.
(3) I tre ostacoli sono moha (offuscamento mentale), dvesha (avversione) e kâma  (desiderio).
(4) Madhyamakâvatâra, éd. tib. par L. de La Vallée Poussin, San Pietroburgo 1912, I, 6.
(5) Arya Sura, Storia della tigre, a cura di R. Gnoli, Bari 1964, p.19 sgg.
(6) Mahâprajnâpâramitâshâstra. Le Traité de la Grande Vertu de la Sagesse de Nâgârjuna (MPPS), trad. di  È. Lamotte, Lovanio 1949, p. 352.
(7) Vimalakîrtinirdesha. L'Enseignement de Vimalakîrti, trad. di È. Lamotte, Lovanio 1962, III, 64.
(8) Ashvaghosha, Le gesta del Buddha, Milano 1979, pp. 17-31.
(9) Ibidem, pp. 156-157.
(10) Il dio della morte e dell'illusione.
(11) Ashvaghosha, op. cit., p. 168.
(12) Ibidem, pp.180-181.
(13) MPPS, cit., p. 502.
(14) Lakshana: i trentadue segni corporei del bodhisattva acquisiti con i meriti lungo infinite rinascite.

 

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