La malattia di Vimalakirti

di Alda Gallerano

Per l'uomo antico la malattia era un evento fastidioso, un disordine dell'organismo dovuto a un "demone" - una divinità o uno spirito di defunto irritati - che veniva dall'esterno a turbare l'equilibrio della persona sana e che, con l'aiuto della magia o della farmacologia sacra, bisognava scacciare quanto prima per ristabilire la naturale armonia psicofisica. Secondo questa concezione la malattia, come la morte, era un nemico temibile, da sconfiggere o "trasferire". Ma con l'avvento del Cristianesimo tale visione si modificò a poco a poco, tanto che nell'Alto Medioevo troviamo ben affermato il concetto di malattia come grazia: espiazione concessa dal Signore e mezzo principe di purificazione ai fini dell'evoluzione spirituale, tale che chi soffre diviene l'"eletto dal Signore".
Un mutamento così profondo, tuttavia, non è comprensibile se non sulla base di una trasmutazione radicale del sentire dell'uomo, dovuta al valore-cardine del Cristianesimo: la carità.
Questo vocabolo che nella civiltà greco-latina aveva il semplice significato di benevolenza derivante da stima, nella trattazione evangelica s'innalza a livello del Logos, e del Suo sacrificio diviene l'espressione più compiuta, del Suo annuncio il messaggio più alto.
L'uomo, che già secondo l'Antico Testamento è stato creato "a immagine e somiglianza di Dio", diviene per antonomasia "il prossimo" che, proprio in quanto "immagine" di Dio sulla Terra, deve essere amato e soccorso nel bisogno, anche se la sventura o la malattia abbia offuscato lo splendore della sua immagine e ne abbia mutato l'aspetto. " Ero infermo e mi avete visitato", sono le parole con cui il Signore alla fine dei tempi premierà i misericordiosi che nel loro prossimo sofferente avranno riconosciuto Lui stesso.
Il messaggio evangelico non poteva, meditato nel corso dei secoli, non mutare tutto l'atteggiamento dell'anima occidentale verso il dolore. Ma in Oriente, laddove dominavano le antiche religioni, la concezione della malattia come "fastidiosa" evenienza rimaneva intatta. Tanto che perfino nel moderno Induismo un grande pensatore e asceta come Shri Aurobindo la considera un segno di imperfezione o di debolezza, un attacco della natura inferiore o di forze avverse che approfittano di un cedimento dell'individuo per avere il sopravvento: essa giunge dal di fuori e come tale deve essere respinta. E' vero - suggerisce Aurobindo - che bisogna sopportare la malattia con calma ed equanimità, dal momento che è venuta, ma ­ aggiunge - bisogna ben guardarsi dal gioirne e il deciso rifiuto di essa è la prima condizione del suo scomparire.
Siamo ben lontani dalla nozione di malattia come qualcosa che sorga da noi stessi, in quanto trova in noi le ragioni profonde del suo sorgere, e come apertura a forze spirituali che non riescono a trovare entro il nostro essere altra via d'accesso che la rottura del falso equilibrio, su cui si fonda troppo spesso lo stato di salute.
E tuttavia bisogna dire che la visione dell'uomo antico era per lui giusta, in quanto, usufruendo egli spontaneamente dell'armonia cosmica, vivendone circondato, ammantato e ben protetto, doveva necessariamente concepire il morbo come qualcosa di "demoniaco" che dall'esterno venisse a turbare e a spezzare questo suo prezioso equilibrio.
Diversa è la condizione dell'uomo dal Sacrificio del Golgotha in poi (ma in parte già dal VI sec. a.C.). Perché, divenendo da allora sempre più libero, finisce per perdere questa protezione cosmica, per assumere la piena responsabilità di se stesso e del proprio destino: creatura ormai inavvicinabile per gli déi e per le forze celesti, a cui a volte la malattia apre un varco, a prezzo di uno sconvolgimento dell'egoistica compagine umana.
Affine per più di un aspetto alla concezione cristiana è quella buddista mahâyânica. Essa considera la malattia come il risultato di un concorso di visioni radicalmente false (viparyâsa), ossia false immaginazioni e passioni (klesha), perché in verità non si può affermare che ci sia un corpo malato, in quanto il corpo è composto da un insieme di dharma ("elementi"), i quali sono in se "vuoto"   (shûnya), vacuità (shûnyatâ).
La falsa visione è concepire il corpo come un'entità reale, avente essenzialità (âtman); la falsa passione è l'attaccamento alla propria individualità come dotata di valore assoluto.
Distruggendo queste false certezze, si distrugge la malattia e si consegue lo stato di samatâ, equanimità o imperturbabilità. Afferma il Vimalakîrtinirdesha ("L'Insegnamento di Vimalakîrti"): " Il fondamento della malattia è nella presa dell'oggetto (ossia, nell'attaccamento ai valori egoici). Questa presa essendo il fondamento, fintanto che vi è presa, vi è una malattia Come comprendere la presa che è il fondamento della malattia? E' una non-presa, una sovrapercezione. Questa sovrapercezione è la 'non presa' " (1).
C'è nel buddhismo Mahâyâna una parola-cardine che designa la magnanimità vasta, davvero cosmica, di questa dottrina: karunâ, la compassione. Vera "sorgente d'acqua viva" - che insieme all'aspirazione alla prajnâ ("saggezza") muove gli esseri a divenire bodhisattva, immettendoli in quell'iter difficile e faticoso, destinato a durare all'infinito, "fino a che tutte le creature non siano state tratte in salvo" - la karunâ è l'intima forza del Bodhisattva, l'indomabile energia che di vita in vita, di eone in eone, lo conduce a sperimentare sempre di nuovo la sofferenza degli esseri, pur di poterli salvare, guidandoli tutti alla suprema e perfetta illuminazione dei Buddha.
Vimalakîrti è uno di questi Bodhisattva, d'altissimo rango, poiché ha realizzato la suprema e perfetta illuminazione. Attorno a lui si svolge tutto il Vimalakîrtinirdesha: proveniente dalla Terra della Gioia Profonda (Abhirati), retta dal Buddha Akshobhya, in cui egli viveva in ragione dei suoi alti meriti, Vimalakîrti si è incarnato nel nostro mondo, precisamente a Vaishâlî, come upâsaka (discepolo buddista laico) per compiere la propria opera di Bodhisattva, ossia per salvare le creature. La sua vita esteriore è quella di un anziano laico, che ha moglie, figli e un harem, ma osserva la continenza. Per far maturare gli esseri irretiti nel mondo, si mostra nei locali da gioco, si unisce agli eretici erranti, si mescola alla folla, entra nelle case di prostituzione e nelle sale di scrittura, intraprende gli affari disinteressandosi del profitto: banchiere fra i banchieri, principe fra i principi, ministro fra i ministri, brahmano fra i brahmani. "Aveva raggiunto - afferma il Vimalakîrtinirdesha -una padronanza assoluta degli influssi buoni e cattivi, realizzando così l'impavidità Aveva domato le passioni e i demoni Primeggiava nella perfezione della saggezza (prajnâ-pâramitâ) ed era molto abile in tutti i metodi opportuni (upâya) d'insegnamento, esaudendo in questo modo tutti i grandi voti del bodhisattava Conosceva a fondo le inclinazioni mentali degli esseri viventi ed era in grado di distinguere le loro diverse nature spirituali. Aveva camminato a lungo sul sentiero del Buddha, e il suo pensiero era immacolato e vasto come il grande oceano".(2).
Ammalatosi, non può intervenire alla grande assemblea di monaci e bodhisattava che si era raccolta, nel parco di Amra a Vaishâlî, attorno al Buddha, per udire il suo insegnamento. Ma Vimalakîrti, rileva il testo, "si mostrava malato fisicamente" per attirare al suo capezzale visitatori, cui insegnare il Dharma. Egli quindi usava un mezzo salvifico (upâya), nel quale come tutti i grandi bodhisattva era maestro.
Il Buddha si preoccupò della sua salute e invitò ora l'uno ora l'altro dei suoi grandi discepoli a visitarlo. Ma uno per uno tutti rifiutarono, perché non si ritenevano sufficientemente qualificati a sostenere l'inevitabile discussione dottrinaria, in cui Vimalakîrti li avrebbe tratti. L'unico ad accettare l'invito del Buddha è Manjushrî (3), il bodhisattva della prajnâ per eccellenza, che si reca dunque da Vimalakîrti e lo interroga sulla sua malattia e sull'origine di essa.
"Poiché tutti gli esseri viventi sono soggetti alla malattia, anch'io sono malato - risponde Vimalakîrti -. Quando tutti gli esseri viventi non saranno più malati, la mia malattia avrà fine Un bodhisattva, a causa del suo voto di salvare gli esseri viventi, entra nel regno della nascita e della morte (samsâra) che è soggetto alla malattia; se tutti saranno guariti, il bodhisattva non sarà più malato. Ad esempio, quando l'unico figlio di un anziano si ammala, anche i suoi genitori si ammalano, e quando riacquista la salute, anche loro guariscono. Ugualmente, un bodhisattva ama tutti gli esseri viventi come se fossero i suoi figli; così quando essi si ammalano, anche il bodhisattva è malato, e quando si riprendono, non è più malato.
" Majushrî chiese: 'Qual è la causa della malattia di un bodhisattva?'.
"Vimalakîrti rispose:  'La malattia di un bodhisattva proviene dalla sua grande compassione (mahâ-karunâ) A causa della sua propria malattia dovrebbe avere compassione di tutti coloro che sono sofferenti. Sapendo di aver sofferto nel corso d'innumerevoli eoni passati, dovrebbe pensare alla felicità di tutti gli esseri viventi. Dovrebbe essere consapevole della vita pura. Invece di produrre dolore e afflizione, dovrebbe dare costantemente origine allo zelo e alla devozione (nella pratica del Dharma). Dovrebbe divenire un re della guarigione per curare le malattie altrui' " (4).
In queste parole, in questo "insegnamento" di Vimalakîrti è tutta la concezione buddhista mahâyâna della malattia, come profonda partecipazione alla sofferenza degli altri, come dedizione a un comune cammino di sventura, come un sostanziale con-soffrire, così come ai genitori di un figlio unico ammalato accade di ammalarsi a loro volta, per condividere con lui il peso della malattia e aiutarlo a guarirne. Vimalakîrti è dunque insieme il paziente e il medico: poiché soffre di una malattia che in realtà non gli appartiene in quanto frutto karmico e perché proprio con il patirla guarisce gli altri. La sua, come quella di tutti i bodhisattva, è una natura eminentemente terapeutica, guaritrice. Afferma Novalis: "Certi uomini sono di natura medica e questi hanno le premesse per diventare saggi nel più vero significato della parola" (5). E Vimalakîrti è maestro di prajnâ, il fine al quale egli vuole condurre gli uomini attraverso il "mezzo" della sua malattia, che in quanto mezzo è quello che il Vimalakîrtinirdesha definisce un "artificio salvifico", un upâya ("mezzo"), che esprime la sua grande abilità, la sua "santa astuzia", nel trovare sempre i mezzi adatti alla salvezza degli esseri.
Di ognuno egli conosce le "inclinazioni mentali", di ognuno riconosce la "natura spirituale" e per ognuno trova un modo diverso di presentare il Dharma, a lui specificatamente adatto. E così usa la pazienza per placare gli iracondi, la devozione per convertire i pigri, la serenità come antidoto all'agitazione, la purezza come farmaco per i bramosi.
La figura di Vimalakîrti, così come viene celebrata nel Vimalakîrtinirdesha, sembra essere il paradigma di questa virtù bodhisattvica, tanto da potersi affermare che quest'opera sia insieme la celebrazione dell'upâya-kaushalya ("abilità negli espedienti salvifici"). Senza di essa, d'altra parte, la saggezza del bodhisattva non sarebbe in grado di realizzare il suo scopo, che è quello di fare in modo  che tutti gli esseri possano presto o tardi divenire dei Buddha.
Per questo, pur se hanno raggiunto le più alte vette dell'illuminazione, i bodhisattva ritornano sempre di nuovo come umili discepoli del Dharma, per avvicinare con umiltà coloro che del Dharma hanno bisogno. "Noi non siamo che discepoli, molto lontani dalla più alta e suprema illuminazione": questo è in fondo il loro più abile artificio di salvezza, e insieme il segreto del loro eterno ritorno.
 
 
NOTE
 
(1)   Vimalakîrtinirdesha ­ L'Enseignement de Vimalakîrti, trad. di È. Lamotte, lovanio 1962, IV, 14, p. 231. Cfr. anche la traduzione italiana dalla versione inglese di Charles Luk, edita presso Ubaldini, Roma 1982. Questo testo appartiene alla Scuola del Mezzo (Madhyamaka) e tratta in particolare dell'abilità nei mezzi salvifici (upâya-kaushalya) e del vuoto (shunya) di tutti i fenomeni, incentrandosi sulla massima: "Dall'impurità del pensiero gli esseri sono resi impuri; dalla purificazione del pensiero, sono purificati" (III, 34).
(2)   Op. cit., cap. II.
(3)   Per la figura del bodhisattva Manjushrî v. "Graal" III, n. 10-11, p. 97 e segg.
(4)   Op. cit., cap. V.
(5)   Frammenti, Milano 1976, p. 404.

 

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