MESTIERI

letture per bambini


di Gabriele Burrini

 

LO SPAZZACAMINO

     Scende la sera – dice il nonno, guardando la finestra. – Vieni vicino al focolare, Luce. Mentre la mamma prepara la cena, ti racconterò dei vecchi mestieri del nostro borgo. Stasera ti parlerò dello spazzacamino.

    Arrivo, nonno – disse il bambino,  lasciando sulla sedia impagliata la sua piccola collezione di conchiglie.

    Se il sarto era il mestiere più pulito, non c'è che dire, quello dello spazzacamino era uno dei più sporchi. Il giovane Attilio, che passava dalle nostre parti ogni anno a fine estate, si imbrattava da capo a piedi di fuliggine e diventava nero come il carbone.  "Spazzacamini si nasce, non si diventa",  borbottava. E lo diceva con orgoglio, perché allora gli spazzacamini venivano quasi tutti dalla provincia di Novara, che è un po' la patria di questo mestiere color nerofumo.

    Ma avevano una bottega?

     Ah, no, nessuna bottega, perché non vendevano niente. Prima che venisse l'autunno lasciavano la loro terra e andavano di paese in paese a ripulir camini. Oh, non avevano mica ferri del mestiere! Tutti i loro strumenti consistevano in una fascina di legna, legata a una lunga corda.

    E che cosa ci faceva? – chiese incuriosito Luce.

    Con una lunga fune a tracolla, Attilio saliva sul tetto e, una volta giunto sul comignolo, che è la parte più alta del tetto, là dove si toccano gli spioventi, si sbracciava in saluti agitando il berretto.  Quindi dava inizio all'opera: scopriva il fumaiolo, calava attentamente la fune dentro la canna fumaria e legava al fumaiolo l'altro capo della fune che gli era restato in mano.

    E poi?

    Poi scendeva dal tetto, prendeva la sua fascina di legna secca e andava in cucina. La legava all'altro capo della fune e infine chiudeva l'enorme bocca del camino con una tavola di legno. A quel punto era tutto pronto: Attilio risaliva sul tetto e – issa! issa! – a gran voce tirava la fune a più non posso. La fascina grattava le pareti della canna e asportava tutta la fuliggine che vi si era depositata. Quanta polvere! quanto fumo! E che baldoria!

    Ah, che bella la baldoria! – rise Luce.

    Poi diceva alla padrona di casa: "Attenzione, non tolga presto la tavola, perché la fuliggine deve depositarsi, altrimenti la polvere invaderà la casa.

    E se non si puliva il camino? – domandò Luce.

    In quel caso si depositava troppa fuliggine nella canna e il fumo del focolare passava a stento, anzi no… passava in cucina e faceva lacrimare gli occhi. E poi tutti lo sapevano: se c'era troppa fuliggine, la prima volta che dal focolare si levavano fiamme molto alte, quella fuliggine si accendeva. Si sentiva uno "uuuh" e sembrava che nella canna fosse entrato un grande vento. Un bel guaio, perché i mattoni della canna e del fumaiolo potevano anche spaccarsi e cadere dall'alto. Ma se la canna era ben ripulita, tutta la famiglia poteva contare su una bella notte di Natale e un caldo inverno al profumo di legna.


IL CALZOLAIO

     Stasera ti racconterò di Girolamo, il calzolaio.

    Son tutt'orecchi, nonno – disse Luce, che si era seduto all'incontrario sulla sua seggiolina impagliata, poggiando i gomiti sullo schienale e le guance fra i pugni.

    Calmo certo non era, direi anzi nervosetto. Me lo ricordo una volta – ero un ragazzino – che andava su e giù dinanzi alla sua bottega. Passò il fornaio in bicicletta, che gli chiese: "Cos'hai, Girolamo? Qualcosa non va?". "Aspetto che la corriera mi porti la pece", rispose l'altro.

    Che cos'è la pece? – chiese all'istante Luce.

    Quella volta avrei voluto saperlo subito anch'io. Ma mi toccò aspettare, aspetterai un pochino anche tu.

    Passò Terenzio il carrettiere: "Che succede, Girolamo?". Spazientito, il ciabattino precisò: "Ma niente, aspetto la pece". Poco dopo si trovò a passar di lì anche Firmino l'oste:"Aspetti qualcuno, Girolamo?". E quello, seccato: "Uffa, ma qui nessuno si fa i fatti suoi? A-s-p-e-t-t-o  l-a  p-e-c-e!". "Ma a cosa ti serve? Non sei mica un marinaio?", replicò Firmino. "Non sono un marinaio, ma le scarpe che fabbrico sono piccole barche: se non isolo i bordi, se non otturo le fessure con la pece, non immaginate quant'acqua ci possa entrare! E poi cosa ci fate con le scarpe fradicie?". "Ah, allora è una colla?", interloquì Firmino. "Macché colla! È un catrame, una resina gommosa". In quel mentre ripassò il fornaio in bici, che gridò: "Girolamo, è arrivata la corriera". Il ciabattino schizzò come una lippa. Ritornò sorridente, con un involto in mano. Entrò nella bottega, lo scartò e ne trasse fuori un piccolo pane nero. Era quella la pece! M'intrufolai dentro, mi accettò volentieri, forse per sfogarsi un pochino. "Fanno presto tutti a dire: 'Girolamo, aggiustami queste scarpe prima che venga Natale'. Ma tocca poi a me procurarmi le suole, i sopratacchi, i tacchi, le mezzepiante…".

    Che cosa sono piante nane, nonno? – si inserì Luce.

    Ma no, sono l'ultimo strato di gomma che protegge gran parte della suola. Con il tempo però scoprii che Girolamo non solo aggiustava le scarpe, ma le fabbricava perfino. Io restavo incantato nel vedere con quale arte usava la lésina, un grosso ago ricurvo, fissato a un corto manico: forava il duro cuoio della suola e quello più morbido della tomaia e li cuciva insieme facendo passare due volte in ogni punto lo spago impeciato.

    Allora per fare le scarpe ci vuole l'ago, nonno?

    Beh, non solo, anche i chiodini. Una volta che la scarpa aveva preso forma, Girolamo  la calzava su un piccolo piedino di ferro fissato a una tavoletta, che si poneva sulle ginocchia. Incollava quindi alla suola una seconda suola. Prendeva poi dal suo deschetto sempre in disordine un pizzico di "sementina" – questo il nome dei chiodini – e li inchiodava lungo i bordi con il tipico martello del ciabattino. Con una lunga lama rifilava quindi il bordo irregolare della scarpa e ci passava poi il pezzetto di pece.

    E la scarpa era pronta?

    Quasi – precisò il nonno. – L'ultimo tocco era la lucidatura con la spazzola e un pezzo di stoffa. E vuoi sapere un segreto di Girolamo?

    Sì, sì, dimmelo, nonno.

    Alla fine del lavoro si lucidava anche le scarpe che aveva ai piedi, perché – diceva – "il vero signore si riconosce dalle scarpe". E poi chiudeva bottega.


IL FALEGNAME

     Stasera ti parlerò del mestiere del falegname, il principe dei mestieri, il più considerato. Che era fra l'altro il mestiere di san Giuseppe. E mastro Giuseppe si chiamava il più vecchio falegname del borgo, quando io ero bambino. Gli dicevano "mastro" perché aveva insegnato a tanti l'arte di lavorare il legno.

    Lo conoscevi bene?

    Beh, certo, perché era mio nonno. Passavo ogni giorno dal suo laboratorio, me ne andavo in un angolino e lui mi dava dei chiodi, una tavoletta e un piccolo martello: "Metti un po' di chiodi – mi diceva – così stai buono".

    Che cosa c'era nel laboratorio?

    Ah, c'erano grandi tavole di legno, due enormi tavolacci con la morsa girevole, una ruota da arrotino e poi seghe, martelli, tenaglie e, per terra, tanti riccioli di legno e uno strato  di segatura.

    Ci veniva gente?

    I committenti, insomma quelli che avevano chiesto porte, tavoli, finestre, armadi. Il giorno di Santa Lucia – avevo dieci anni, non lo dimenticherò mai - si affacciò sulla porta don Nicola, il prete del paese, dicendo: "Mastro Giuseppe, ce la fai per Natale a consegnarmi il vestibolo della chiesa con le due porte? I fedeli si lamentano perché, quando viene aperto il portone, entra molto freddo". 

    E che cosa rispose il nonno? – domandò Luce.

    "Se tutto va bene, lo montiamo il mattino della vigilia, così per la messa di mezzanotte facciamo nascere al calduccio il Bambino", rise mastro Giuseppe.  Don Nicola se ne andò contento, ma Orazio l'apprendista borbottò: "Ma qui non abbiamo mica la bacchetta magica! Qui si fa tutto a mano!". 

    Un po' sfaticato questo Orazio?

    Sì, ma il nonno sapeva invogliarlo. "Dài, dài – riprese mastro Giuseppe – facciamo le porte".  Prese una lunga tavola di abete, ancora grezza, e la poggiò su due cavalletti; con una squadra di ferro prese certe misure e con il lapis che teneva sempre sull'orecchio tracciò lunghe linee.

    Una matita sull'orecchio?

    Sì, un lapis un po' piatto, verniciato di rosso. A quel punto prese la grande sega a corda, oleò la lama con la cotenna di lardo e cominciò a segare, facendo tanta segatura. Ottenne tutti pezzi uguali, poi disse a Orazio: "Mettili in morsa e passaci il piallone, invece sui bordi vai di sponderuola. Sulle nocche del legno passaci la raspa e liscia tutto con carta abrasiva". "Bene, maestro", rispose Orazio.  Mentre frugava in una scatola per scegliere cerniere, maniglie e serrature, il nonno mi disse: "Così teniamo al caldo il Bambino e anche i pastori, che poi siamo noi".

    Fece in tempo a consegnare il lavoro, nonno?

    Ah sì, il rivestimento del vestibolo, con le due porte,  crebbe a vista d'occhio, poi tutto fu verniciato di bianco. A mezzogiorno del 24 dicembre finirono di montarlo. Quando andammo alla messa di mezzanotte, si percepiva in chiesa un fresco odore di legname. Mentre tutti cantavano Astro del ciel, Orazio e mastro Giuseppe stavano in piedi come due angeli accanto al "loro" vestibolo, che luccicava di bianco come le porte del paradiso.


IL CONTADINO

     Vieni, Luce, stasera parleremo del mestiere del contadino.

    Sono tutt'orecchi, nonno – disse il bambino raggiungendo il focolare acceso.

    Quanti ce n'erano un tempo! Fino a cinquant'anni fa il nostro borgo era del resto un centro agricolo. Anche a scuola molti erano i figli dei contadini, come il mio coetaneo Vittorio, di dodici anni, che abitava a Colle Leone.

    Vittorio, che strano nome, nonno…

    Ricordava la vittoria del 1918 sugli Austriaci e poi era il nome del re… Il mio compagno mi invitò due volte a partecipare ai lavori nei campi, a giugno e a settembre.

    Perché proprio allora?

    Beh, per la mietitura e per la vendemmia. Una festa in tutte e due i casi. La prima volta arrivai alle sette del mattino e per "darmi forza" – io non ero in fondo un campagnolo abituato agli sforzi – mi misero sotto il naso due uova fritte e una fetta di pane casereccio. Poi di corsa fra i campi, dove crescevano alte le bionde spighe: il papà di Vittorio  e altri contadini falciavano con le grosse falci, le donne con quelle piccole; noi ragazzini raccoglievamo le singole spighe disperse e ne facevamo mannelli, che poi gli altri riunivano in covoni e infine in biche. "Perché fate così?", chiesi a Vittorio. "Perché questo grano, covone per covone, va caricato sul carro e portato nell'aia, dove si fa la trebbiatura".

    Che cos'è, nonno, la trebbiatura?

    Oggi la si fa con le macchine, ma un tempo si usavano dei bastoni. La trebbiatura consiste nel separare i chicchi dalla paglia e dalla pula. Il risultato? Un nuvolone di polvere e tanti chicchi raccolti su un telo.

    E la seconda volta?

    Era giorno di vendemmia, festa grande per i contadini. Le donne portavano ceste e ceste di uva nera e le rovesciavano in un'enorme tinozza. Dentro c'erano gli uomini a pigiare i grappoli, per lo più a piedi nudi. Da alcuni buchi allineati al fondo della tinozza usciva il mosto, un succo rosso che veniva raccolto in grandi bagnarole e riversato  dentro le botti che si trovavano in cantina. Lì sarebbe fermentato per mesi fino a diventare vino. Nella cantina si respirava uno speciale odore, indimenticabile, il tipico afrore del vino.

    Col grano si fa il pane, con l'uva il vino… che bella la vita del contadino! – esclamò Luce.

    Però è faticosa, piccino. Si tratta talvolta di potare gli alberi sotto la pioggia, di arare i campi con i primi freddi, di mietere o raccogliere la frutta sotto la calura.  Di dar da mangiare agli animali da cortile o della stalla al mattino presto, di correre dietro ai tacchini che si allontanano dall'aia, di zappare o di dar l'acqua ai pomodori con l'afa. E certe attività – come le semine o il travaso del vino dalle botti alle damigiane – non si può rimandarle, una volta che c'è la Luna giusta…

    Che cosa c'entra la Luna? – si agitò Luce sulla sedia.

    Per il contadino conta molto. Nei giorni di sole e senza vento, sotto la Luna crescente di marzo si imbottigliano i vini frizzanti, mentre sotto la Luna calante si imbottigliano i vini senza bollicine. In Luna crescente si potano le piante deboli e si seminano gli ortaggi, invece in Luna calante si seminano le insalate, i finocchi e gli spinaci, si interrano le patate e si vendemmia.

    Allora i contadini guardano sempre il cielo?

    Sì, proprio come i Re Magi, che scrutavano la stella cometa.

IL PASTORE

     Stasera ti parlerò del mestiere del pastore, ma ti racconterò anche di un bell'evento che si verificò nel borgo tanti anni fa.

    Dài, nonno – disse Luce, accostandosi un po' troppo al focolare.

    Non così vicino, potrebbero schizzare faville capaci di scottarti. Ero un adolescente, quando don Nicola, il prete del paese, propose di mettere in scena il presepe vivente per la notte di  Natale, nello spiazzo di fronte alla chiesa.

    Vivente? Che vuol dire? – interruppe il nipotino.

    È un presepe in cui non ci sono statuine, ma persone in carne e ossa, una recita insomma, con la sacra Famiglia, i pastori e i Re Magi. Si riunì un comitato organizzatore  e allo zio Francesco, più grande di me, toccò trovare il pastore.

    Dove, nonno, in montagna?

    Ma no, d'inverno in montagna non c'erano più i pastori; le greggi venivano condotte soltanto d'estate in alpeggio, dove c'era erba fresca. Ai primi freddi invece i pastori le guidavano verso il mare lungo i sentieri della transumanza, detti tratturi. In ogni caso c'era qualche pastore anche nel nostro borgo. Francesco mi volle con sé e andammo da Giacomo, il più lesto, il più giovane. Capì subito. "Vi posso prestare il mio pastrano di lana pressata, il mio cappellaccio di feltro. Vi posso anche imprestare le ciocie…", ci disse.

    Le ciocie, che roba è? – s'intromise Luce.

    Chissà quante volte le avrai viste! Sono le calzature degli zampognari: tutt'un pezzo di cuoio fermato al piede da sottili strisce di pelle che, salendo, s'intrecciano sulla gamba.

    Ah, sì, le conosco.

    "Vi posso anche prestare lo zufolo, che mi fa compagnia quando pascolo il gregge", continuò Giacomo. "Ma per le pecore come fate?". "Pensavamo di chiedertene tre o quattro…", rispose Francesco. "Sì, ma poi chi le tiene a bada? Non sono mica statuine! Se ne andranno in giro, si metteranno a belare. Vorranno brucare…". "E già", riprese Francesco pensoso, "vorrà dire che ci sarai anche tu sulla scena". L'altro rise: "Insomma mi volete far impersonare Giacomo il pastore. Ci sto. Ma l'ariete, il maschietto delle pecore, non ve lo porto, quello lì è un tipo scontroso, chissà che cosa combinerebbe".

    E come recitò Giacomo?

    A meraviglia! Si mise di fianco alla capanna con i suoi animaletti e recitò ben bene il suo mestiere: diede erba fresca alle pecorelle, con un biberon dalla lunga tettarella allattò l'agnellino, munse la  capretta e offrì il suo latte ai viandanti che venivano dal deserto, tosò un pochino anche una pecora per mostrare al pubblico come si ottiene la lana. Quando fece l'inchino finale, meritò molti applausi, perché si era rivelato un "buon pastore": le sue pecore infatti lo avevano sempre seguito passo passo perché "riconoscevano la sua voce". Proprio come il Vangelo dice del Signore.


IL SARTO

     Ti ricorderai del presepe vivente allestito nel paese. Ebbene, stasera ti dirò che cosa fece il sarto. Quando il comitato si riunì, si discusse per prima cosa della veste della Madonna. "Ci mancherebbe! Ci pensiamo noi – garantì la vecchia sartina del borgo, Lea, guardando la sorella Ester. – La vestiremo come una Madonna di Raffaello.  Recupereremo un bel taglio di maglina  rossa per la tunica e per sopra le facciamo un manto di lana azzurro, come vuole la tradizione, bordato di una passamaneria dorata".

    E per gli altri personaggi? – chiese Luce.

    Si fece avanti Giorgio l'imbianchino: "Per le ali dell'angelo ci penso io: le farò di cartapesta leggera e le coprirò di tempera bianca". Intervenne Lucia, mammina da pochi mesi: "Le fasce per il Bambino ve le darò io, il mio bimbo non ne ha più bisogno". Restavano i pezzi forti.

    E cioè?

    La veste di san Giuseppe, la tunica dell'angelo e quelle dei Magi. Palmiero il sarto e il suo aiutante Corradino confabulavano in un angolo, poi il primo disse: "Ci penseremo noi". E  andarono.

    Dove?

    Ma in sartoria! Palmiero frugò e finalmente trovò: "Il caffettano di san Giuseppe lo faremo con questi pezzi di cotone a strisce verticali bianche e blu, che mi sono avanzati dallo scorso anno, quando facemmo i rivestimenti dei materassi. Questo t'insegni, Corradino, a non buttar via mai nulla. Presto, vieni qua, prendo su di te le misure per il caffettano". Srotolò il metro giallo plastificato, misurò le spalle, lo scalfo delle maniche, la lunghezza del braccio e quella della persona, dal collo alle caviglie. "Avrà le maniche molto ampie e si indosserà dall'alto, come fosse un maglione".

    Lo fece subito? – domandò il nipotino.

    Eh no. Prima dovette fare il cartamodello.

    Il carta… che?

    Una volta che ha preso le misure, un sarto fa un vestito di carta, nel senso che disegna su una carta trasparente le proporzioni esatte delle maniche, del dorso, del torace. Poi stende la stoffa sul tavolo, ci appoggia sopra la carta e taglia il tessuto seguendo i bordi della carta. In capo a pochi giorni, Palmiero fece esattamente così: tagliò i vari pezzi, li imbastì, cioè li cucì fra loro in modo provvisorio. Quindi chiamò Corradino: "Pròvati il caffettano", gli disse. E quando glielo vide addosso, esclamò: "Perfetto! Vedrai che ti faranno rappresentare san Giuseppe". Lo passò dunque sotto la macchina da cucire, ripiegando per bene tutti i bordi. Toccò a Corradino stirarlo: il giovane accese il braciere, prese con la pinza da fuoco i piccoli tizzoni, scoperchiò il ferro e li mise dentro. Di tanto in tanto allontanava il ferro dal panno, soffiando sui buchi che facevano corona al basamento, perché la cenere non sporcasse la stoffa. Per finire, Corradino appese il caffettano al manichino e lo espose in vetrina.

    Ma come? Lo mise in vendita?

    Ma no! Perché i compaesani lo ammirassero. E ci fu perfino chi disse: "È troppo bello, verrà sicuramente dall'Oriente".

    E per le tuniche, nonno, come fecero?

    Ah, si risolse in fretta. L'astuto Palmiero se le fece prestare da un sarto amico, che abitava in un paese vicino, dove per Carnevale avevano allestito un carro con vizir e sultani, tutti addobbati con vesti di raso. Ma volle una tunica nera per Gaspare, che portava il vasetto della mirra, gialla per Baldassarre, che portava l'incenso, bianca per Melchiorre, che recava l'oro. La tunica rossa dell'angelo sembrò un fuoco vivido, che brillava inesauribile nel cielo della Notte  Santa.


IL FABBRO

     Stasera ti parlerò del mestiere del fabbro. Quand'ero giovane, ce n'era uno solo nel borgo, che bastava per tutti.  Il suo cognome era Torrente, ma in paese lo chiamavamo Torre per via della sua corporatura. Era un monumento di muscoli, ma buono come il pane. Non sono mai entrato nella sua fucina, però…

    Fermati, nonno, dimmi prima che cos'è la fucina…

    Ma come? La maestra non ti ha mai parlato di Vulcano, il fabbro degli dèi che forgiò le indistruttibili armi di Marte? La sua fucina, la sua officina con i fuochi sempre accesi, si trovava nelle viscere dell'Etna, in Sicilia…

    Ho capito.

    Ebbene, ti dicevo, la fucina di Torre non l'ho mai vista all'interno, ricordo soltanto che dall'entrata proveniva un odore acre di metallo bruciato, misto a ruggine e zolfo. Però nella buona stagione ho visto Torre lavorare all'aperto, con il torace nudo, coperto solamente di un lungo grembiule grigio, di grossa fibra. Il nostro fabbro era tutt'altro che ignorante, tant'è che sul lato sinistro del portone aveva inciso un antico motto latino, Solve et coagula, che vuol dire "sciogli e rapprendi". Se qualcuno gliene chiedeva la ragione, diceva che quello era il succo del suo mestiere, infatti il principe dei metalli, il ferro, non si piega se prima non lo si ammorbidisce con il fuoco. Sul battente del portone aveva invece agganciato un San Michele che uccide il dragone con la lancia, perché – diceva – "quell'asta di ferro qualche fabbro gliel'avrà pur forgiata, dunque lui ci protegge dai pericoli del fuoco".

    Ma protegge anche noi, vero, nonno?

    Protegge tutti, certo. Quanta ferraglia era sparsa nel cortile della sua bottega! Ferri di cavallo, portavasi, cerchi per botti, catene per il camino, aste uncinate per abbassare i rami più alti delle piante e cogliere, per esempio, i fichi, pezzi di aratro, vecchie insegne, chiodi, chiavi, bidenti, zappe… Al centro dello spiazzo troneggiava su un grande ceppo un'enorme incudine a due corni, accanto a un fornello di braci ardenti, che poi era la sua fucina.

    Faceva tutto da solo, Torre?

    Ah no. Aveva un aiutante, che si era guadagnato il nomignolo di Taverna perché amava rinfrescarsi in osteria i bollori delle fiamme. Torre no, era già rubizzo di suo, a forza di star vicino ai fuochi. C'era da divertirsi nel vederlo lavorare all'aperto, per esempio con i cerchi per le botti. E cominciava già mesi prima della vendemmia. Prendeva una fascia di ferro e la poneva sulle braci, poi dava un colpo di màntice per ravvivare i carboni ardenti, quindi arroventava il metallo perché fosse malleabile. Quand'era divenuto ben incandescente, lo toglieva dalla fucina con due lunghe tenaglie e lo curvava con forza, urlando a squarciagola verso Taverna: "Laqualaqualaqua".

    Perché l'acqua? – chiese incuriosito Luce.

    Ma per temprare il ferro e "congelare" la curva ottenuta! Se il ferro incandescente viene raffreddato di colpo, si tempra, si irrobustisce e si blocca nella forma che ha preso; se invece si vuole ancora lavorarlo, basta lasciare che si raffreddi da solo. Il passo successivo era chiudere il cerchio con due borchie di ferro e poi giù colpi di maglio sull'incudine. L'ultimo tocco di ogni suo lavoro era una passata di lima sul ferro messo in morsa. Gioviale com'era, anche quando si trovava alle prese con pesanti lavori, Torre non si scoraggiava mai e mormorava: "È passata l'età della pietra, è passata l'età del bronzo, ma l'età del ferro non finirà mai".


IL MURATORE

    Un nuovo mestiere ci aspetta stasera, il muratore. Sediamoci al focolare. Luce.

    Eccomi, nonno.

    Di muratori ce ne sono sempre stati tanti nel nostro borgo, perché ogni famiglia ha pensato di costruirsi una casetta. A fabbricare la nostra fu mastro Aristide con la sua compagnia: Aristide padre, Aristide figlio, due lavoranti e un manovale, addetto solamente a impastare la calcina o la malta.

    Non so cos'è la malta…

    Ah, sì, sabbia e cemento. Il manovale la impasta come una massaia che vuol fare la pasta all'uovo: fa una circonferenza con la farina e al centro mette il bianco e rosso dell'uovo. Non diversamente, il manovale fa un cerchio di sabbia e al centro mette acqua e cemento, poi con la pala parte del centro per amalgamare il tutto, facendo in modo che l'acqua non fuoriesca dalla circonferenza di sabbia. Vedi, Luce, la malta è la colla dei muratori.

    E qual è la carta? – domandò subito il nipotino.

    Senz'altro i mattoni, pieni o traforati che siano. Eh sì, i mattoni rossi cotti nella fornace, quell'alta ciminiera che si trova al limitare del paese.

    E gli strumenti del muratore? – incalzò il piccolo.

    Te li presento subito: innanzi tutto la livella, poi la cazzuola triangolare, il régolo, il filo a piombo, la pala, la caldarella, il martello a coda di rondine con il manico lungo, che serve per mettere i chiodi e per estrarli. Forse non c'è altro. Ah, già, la carriola: se non l'avessero inventata mille anni fa, non si sarebbero costruite le cattedrali.

    Che buffo, la carriola ha mille anni… – rise Luce

    Quando fabbricarono la nostra casa, andavano in cantiere già per le sette, poi alle dodici in punto staccavano per il pranzo e un'ora dopo riprendevano fino alle cinque. Lavoravano per lo più d'estate, in canottiera, per far sì che il sole asciugasse preso i muri.

    Come fecero per costruire la casa?

    A scuola ti avranno detto che il nostro corpo è fatto di ossa, muscoli,  pelle. Ora, anche la casa ha uno scheletro, che sono i pilastri di cemento armato, i muscoli sono le pareti, la pelle è l'intonaco.  Per cominciare, i muratori fabbricano lo scheletro a partire dai piedi: gettano le fondamenta e innalzano i pilastri, poi tra un pilastro e l'altro erigono le pareti in mattoni. Un mattone e uno strato di malta, sempre così, centrando il mattone di sopra sui due di sotto. Per evitare di costruire un muro storto in verticale maestro Aristide aveva insegnato ai suoi a usare il filo a piombo, mentre per mantenerlo ben dritto in orizzontale ave dato a ciascuno di loro una livella.

    E com'è fatta?

    Semplice. Un lungo pezzo di alluminio con al centro un tubetto in vetro contenente acqua ma anche, attento!, una bolla d'aria. Aristide poneva la livella in cima al muro e controllava se la bollicina era perfettamente al centro.

    E se non lo era?

    Mastro Aristide s'infuriava: "Non mettere più malta a destra e meno a sinistra, altrimenti il muro sale sghembo!".

    Che tipo questo Aristide! – aggiunse Luce.

    Infine fecero il tetto. Mentre costruivano l'armatura di legno con lunghe travi di abete, chiamarono mio padre: "Ci volete le tegole o i coppi?". Per gli spioventi furono scelte le tegole, sui displuvi misero invece file di coppi. A copertura finita – com'è tradizione dei muratori dalle nostre parti – piantarono sul tetto il tricolore.


IL MUGNAIO E IL FORNAIO

     Stasera parleremo di due mestieri fratelli, anche perché fratelli erano in paese Giacomo e Giovanni, il primo un mugnaio e il secondo un fornaio, entrambi impolverati di bianco.

    Perché di bianco?

    Ma la farina, Luce! All'inizio il mulino e il forno erano l'uno accanto all'altro, poi Giovanni si spostò, perché – come disse al fratello – "Il mulino fa troppa polvere, mi tien lontani i clienti".

    Eh già, non volevano impolverarsi.

    Un tempo i mulini erano azionati ad acqua: la forza del torrente girava una grande ruota a pale che fungeva per così dire da turbina. Dove l'acqua non c'era, il motore del mulino era il mulo, doverosamente munito di paraocchi, perché legato a stanghe e costretto a girare in cerchio. Ma quando venne l'elettricità, la corrente sostituì sia l'acqua sia il mulo.

    Com'era fatto un mulino?

    C'erano due grandi macine cilindriche, l'una sovrapposta all'altra, che giravano in senso fra loro contrario. Macinavano il grano per l'alimentazione dell'uomo e il granturco per il pollame. Il mugnaio poteva regolare la grana del macinato e ottenerla grossa o fine. La farina si radunava al centro e attraverso certe scanalature fuorusciva ai piedi della macchina di pietra. Poi il mugnaio, con una pala di legno, la raccoglieva per versarla nei sacchi. Dopo la mietitura da Giacomo  c'era un viavai di contadini. Il mugnaio, però. non toccava il denaro: quando  un contadino portava da lui un certo numero di sacchi di grano, Giacomo si tratteneva per compenso uno di essi o uno dei sacchi della farina appena macinata. 

    Faceva un baratto, insomma?

    Eh sì. Attento, però. La farina ottenuta nel mulino non era pura, perché era mista a crusca. Per dividere l'una dall'altra la massaia usava il setaccio, uno strumento circolare fatto con una rete metallica e un alto bordo di legno. Lo poneva sul tavolo e vi metteva un bel po' di farina, poi, senza sollevare il setaccio dal tavolo, compiva una serie di gesti rotatori, che facevano passare la farina bianca attraverso le sue fitte maglie, trattenendo invece sulla rete le fibre rossicce della crusca.

    E buttava la crusca?

    Macché. L'aggiungeva al trògolo del maialino. Vi è da dire, Luce, che Giacomo era un buon uomo, eppure aveva dei nemici…

    I ladri!

    No, i topi. Perciò metteva tante trappole in magazzino. Ma soprattutto aveva un gatto che faceva una guardia continua, come un autentico pretoriano. Se non fosse che di giorno si faceva spesso distrarre dalla gracula indiana, l'uccello nero dal becco giallo che sa imitare i suoni umani. A Giacomo faceva compagnia e lui, quando il tempo era mite, esponeva la voliera davanti al portone del mulino. A chi usciva, la gracula gracchiava con accento tedesco: "Chaipagato?".  C'era sempre qualche estraneo che ci cascava.

    E del fornaio, nonno, che cosa mi dici?

    Era un tipo segaligno, scattante. Del resto, per far la vita del fornaio ci vuole energia: Giovanni si alzava prima dell'alba e correva in bici al forno, nel retro del negozio. Apriva la grossa madia e…

    Scusa, nonno, ma com'era la madia?

    Era un mobile di legno, con il coperchio a ribalta, in cui i contadini riponevano il pane fatto in casa. Giovanni ci teneva, fra l'altro, una ciotola in cui ogni sera mescolava acqua e farina, lasciava la ciotolina scoperta ed essa di notte si riempiva di  muffa  e il suo contenuto diveniva acido.  Era il lievito.

    A che cosa serviva?

    Il lievito è l'anima, la vita del pane, la forza che lo fa crescere e che lo rende soffice. E Giovanni lo sapeva bene, tanto che, nel prendere il lievito, si segnava e recitava un paternoster, perché il Cielo benedicesse la panificazione della giornata e la facesse andare a buon fine. Poi faceva la "fontana": un cratere di farina con al centro acqua e lievito; mescolava il tutto e poi impastava con tutta la forza dei polsi.

    E dopo?

    Lasciava riposare per circa tre ore l'impasto, affinché si gonfiasse e si alzasse: questo primo panetto era chiamato "pasta madre".  Al quel punto apriva la porticina del forno: con la pala di ferro spingeva in fondo i tronchi grossi, poi aggiungeva le fascine, quindi dava loro fuoco. Intanto preparava altre "fontane", aggiungendo a ciascuna un pezzo di "pasta madre". Amalgamava, manipolava, impastava e formava numerosi panetti tondi, che allineava su altrettanti pezzi di stoffa grezza disposti su una lunga asse di legno. Su ogni panetto tracciava una croce con i rebbi della forchetta.  A quel punto apriva il forno e, sbirciando dentro, il più delle volte diceva: "Sì, il cielo è bianco, segno che posso infornare".

    Ma perché quei pezzi di stoffa?

    Perché a metà cottura estraeva dal forno l'asse e, tirando a sé di getto i riquadri di stoffa, capovolgeva il pane – intoccabile perché troppo caldo – per farlo cuocere anche sotto. Nel locale si diffondeva un aroma fragrante, che inondava anche il negozio. Poco dopo le prime pagnotte erano già in vetrina.


LO SCALPELLINO

    Ti ho mai parlato del mestiere dello scalpellino?

    No mai, nonno.

    E allora cominciamo. Se il mondo si fosse fermato a mille anni fa, lo chiameremmo ancora lapidario, ma oggi lo chiamiamo scalpellino perché scalpella la pietra. Ai miei tempi in paese a far questo mestiere era Eugenio, per gli amici Gegè. Come un macellaio sa riconoscere i quarti di bue dalle fibre, Gegè sapeva distinguere le pietre dalle venature: il marmo bianco di Carrara, il rosso Verona, il granito rosa di Baveno, il travertino romano…

    Ma che cosa scolpiva?

    Beh, insegne di botteghe, targhe per le ville dei signori, stele commemorative, cippi per monumenti, targhe per le scuole o per il palazzo del comune. Va da sé che scolpiva anche le lapidi dei defunti, "altrimenti – diceva – qui defungo presto anch'io per la fame". Però in fondo era un inventore…

    In che senso?

    Lo capii io stesso, un giorno di agosto, quando il professore nostro vicino lo chiamò dall'altro lato della via: "Eugenio, avrei bisogno di un'epigrafe, da porre accanto al portone. Una pietra trenta per trenta, bordata da una decorazione e, all'interno, un'iscrizione latina, Gutta cavat lapidem, in grafia capitale medievale". Gegè aggrottò le sopracciglia e fece una strana faccia! Gli si leggeva in fronte quel che pensava: "Ma questo con chi crede di avere a che fare, con Michelangelo?". Poi gli chiese: "Professore, quelle parole che cosa vorrebbero dire?". L'altro, uncinando con i pollici lo scalfo del gilè, sentenziò: "La goccia scava la pietra". Gegè si fece pensoso, col pollice sollevò un po' sulla fronte la visiera del berretto, poi disse: "Professore, guardi che si sbaglia: per scavare la pietra ci vuole il mio scalpello. Se aspetta l'acqua, ci mette un secolo!". Alla fine accettò il lavoro. "Mi procuri un bel marmo bianco, per la decorazione del bordo a te la scelta… Ma per l'iscrizione ti dovrò seguire io, non vorrei che sbagliassi". "Va bene", rispose Gegè.

    E cosa fece?

    Andò in città, si procurò la pietra. Una volta in laboratorio, sgrezzò i margini e la molò  tutta con la macchina elettrica munita di un disco di carta abrasiva. Il giorno dopo salì verso il monte, fino al torrente, che era quasi in secca, e raccolse tante pietruzze colorate, ben levigate dall'acqua. Gegè le sapeva distinguere: "Questa bianca è calcite, questa rosa è dolomite, quest'altra nera è ossidiana, questo invece è un quarzo trasparente, questo di certo è un frammento di tormalina verde". Il sole era già calato quando ritornò a casa con il suo sacchettino di ciottoli. Si destò presto, con il progetto già in mente.

    Quale progetto?

    Beh, la decorazione… A due dita dal bordo fece una scanalatura di un dito, ci versò dentro il cemento bianco e poi ci conficcò sopra le pietruzze, alternando con arte i colori.

    Ma sporgevano dal canale?

    Certo che sporgevano! L'aveva fatto apposta. Quando il cemento si seccò, si armò di mola e pareggiò tutto, quindi polì con la carta abrasiva e lucidò con la spazzola e uno speciale liquido. Quando lo asciugò, si accorse che la decorazione era un piccolo capolavoro di colori!

    E quando fece la scritta?

    Il giorno dopo, sotto l'occhio vigile del professore. Prese le misure con la squadra, tracciò una serie di linee diritte e in diagonale, quindi scrisse il motto a matita. A colpi di mazzuolo di legno ben calibrati sullo scalpello Gegè cominciò a incidere i solchi delle lettere, a coda di rondine. Il professore guardava attento, al colmo dello stupore. Quando l'incisione fu terminata, Gegè verniciò di rosso i due versanti dei solchi. Poi rimirò il lavoro da vicino e da lontano, scrutò i particolari, sorrise compiaciuto: "Non le resta che dire al fabbro di appendere la lastra con quattro ganci. Guardi, però, professore che io resto della mia idea: se si fosse affidato all'acqua per scavare la pietra, non avrebbe mica visto questo capolavoro".

  

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