MESTIERI
letture per bambini
–
Scende
la sera – dice il nonno, guardando la finestra. – Vieni vicino al focolare,
Luce. Mentre la mamma prepara la cena, ti racconterò dei vecchi mestieri del
nostro borgo. Stasera ti parlerò dello spazzacamino.
–
Arrivo,
nonno – disse il bambino, lasciando
sulla sedia impagliata la sua piccola collezione di conchiglie.
–
Se
il sarto era il mestiere più pulito, non c'è che dire, quello dello
spazzacamino era uno dei più sporchi. Il giovane Attilio, che passava dalle
nostre parti ogni anno a fine estate, si imbrattava da capo a piedi di fuliggine
e diventava nero come il carbone. "Spazzacamini
si nasce, non si diventa", borbottava.
E lo diceva con orgoglio, perché allora gli spazzacamini venivano quasi tutti
dalla provincia di Novara, che è un po' la patria di questo mestiere color
nerofumo.
–
Ma
avevano una bottega?
–
Ah,
no, nessuna bottega, perché non vendevano niente. Prima che venisse l'autunno
lasciavano la loro terra e andavano di paese in paese a ripulir camini. Oh, non
avevano mica ferri del mestiere! Tutti i loro strumenti consistevano in una
fascina di legna, legata a una lunga corda.
–
E
che cosa ci faceva? – chiese incuriosito Luce.
–
Con
una lunga fune a tracolla, Attilio saliva sul tetto e, una volta giunto sul
comignolo, che è la parte più alta del tetto, là dove si toccano gli
spioventi, si sbracciava in saluti agitando il berretto.
Quindi dava inizio all'opera: scopriva il fumaiolo, calava attentamente
la fune dentro la canna fumaria e legava al fumaiolo l'altro capo della fune che
gli era restato in mano.
–
E
poi?
–
Poi
scendeva dal tetto, prendeva la sua fascina di legna secca e andava in cucina.
La legava all'altro capo della fune e infine chiudeva l'enorme bocca del camino
con una tavola di legno. A quel punto era tutto pronto: Attilio risaliva sul
tetto e – issa! issa! – a gran voce tirava la fune a più non posso. La
fascina grattava le pareti della canna e asportava tutta la fuliggine che vi si
era depositata. Quanta polvere! quanto fumo! E che baldoria!
–
Ah,
che bella la baldoria! – rise Luce.
–
Poi
diceva alla padrona di casa: "Attenzione, non tolga presto la tavola, perché
la fuliggine deve depositarsi, altrimenti la polvere invaderà la casa.
–
E
se non si puliva il camino? – domandò Luce.
–
In
quel caso si depositava troppa fuliggine nella canna e il fumo del focolare
passava a stento, anzi no… passava in cucina e faceva lacrimare gli occhi. E
poi tutti lo sapevano: se c'era troppa fuliggine, la prima volta che dal
focolare si levavano fiamme molto alte, quella fuliggine si accendeva. Si
sentiva uno "uuuh" e sembrava che nella canna fosse entrato un grande
vento. Un bel guaio, perché i mattoni della canna e del fumaiolo potevano anche
spaccarsi e cadere dall'alto. Ma se la canna era ben ripulita, tutta la famiglia
poteva contare su una bella notte di Natale e un caldo inverno al profumo di
legna.
–
Stasera
ti racconterò di Girolamo, il calzolaio.
–
Son
tutt'orecchi, nonno – disse Luce, che si era seduto all'incontrario sulla sua
seggiolina impagliata, poggiando i gomiti sullo schienale e le guance fra i
pugni.
–
Calmo
certo non era, direi anzi nervosetto. Me lo ricordo una volta – ero un
ragazzino – che andava su e giù dinanzi alla sua bottega. Passò il fornaio
in bicicletta, che gli chiese: "Cos'hai, Girolamo? Qualcosa non va?".
"Aspetto che la corriera mi porti la pece", rispose l'altro.
–
Che
cos'è la pece? – chiese all'istante Luce.
–
Quella
volta avrei voluto saperlo subito anch'io. Ma mi toccò aspettare, aspetterai un
pochino anche tu.
–
Passò
Terenzio il carrettiere: "Che succede, Girolamo?". Spazientito, il
ciabattino precisò: "Ma niente, aspetto la pece". Poco dopo si trovò
a passar di lì anche Firmino l'oste:"Aspetti qualcuno, Girolamo?". E
quello, seccato: "Uffa, ma qui nessuno si fa i fatti suoi? A-s-p-e-t-t-o
l-a p-e-c-e!". "Ma
a cosa ti serve? Non sei mica un marinaio?", replicò Firmino. "Non
sono un marinaio, ma le scarpe che fabbrico sono piccole barche: se non isolo i
bordi, se non otturo le fessure con la pece, non immaginate quant'acqua ci possa
entrare! E poi cosa ci fate con le scarpe fradicie?". "Ah, allora è
una colla?", interloquì Firmino. "Macché colla! È un catrame, una
resina gommosa". In quel mentre ripassò il fornaio in bici, che gridò:
"Girolamo, è arrivata la corriera". Il ciabattino schizzò come una
lippa. Ritornò sorridente, con un involto in mano. Entrò nella bottega, lo
scartò e ne trasse fuori un piccolo pane nero. Era quella la pece! M'intrufolai
dentro, mi accettò volentieri, forse per sfogarsi un pochino. "Fanno
presto tutti a dire: 'Girolamo, aggiustami queste scarpe prima che venga Natale'.
Ma tocca poi a me procurarmi le suole, i sopratacchi, i tacchi, le mezzepiante…".
–
Che
cosa sono piante nane, nonno? – si inserì Luce.
–
Ma
no, sono l'ultimo strato di gomma che protegge gran parte della suola. Con il
tempo però scoprii che Girolamo non solo aggiustava le scarpe, ma le fabbricava
perfino. Io restavo incantato nel vedere con quale arte usava la lésina, un
grosso ago ricurvo, fissato a un corto manico: forava il duro cuoio della suola
e quello più morbido della tomaia e li cuciva insieme facendo passare due volte
in ogni punto lo spago impeciato.
–
Allora
per fare le scarpe ci vuole l'ago, nonno?
–
Beh,
non solo, anche i chiodini. Una volta che la scarpa aveva preso forma, Girolamo
la calzava su un piccolo piedino di ferro fissato a una tavoletta, che si
poneva sulle ginocchia. Incollava quindi alla suola una seconda suola. Prendeva
poi dal suo deschetto sempre in disordine un pizzico di "sementina"
– questo il nome dei chiodini – e li inchiodava lungo i bordi con il tipico
martello del ciabattino. Con una lunga lama rifilava quindi il bordo irregolare
della scarpa e ci passava poi il pezzetto di pece.
–
E
la scarpa era pronta?
–
Quasi
– precisò il nonno. – L'ultimo tocco era la lucidatura con la spazzola e un
pezzo di stoffa. E vuoi sapere un segreto di Girolamo?
–
Sì,
sì, dimmelo, nonno.
–
Alla
fine del lavoro si lucidava anche le scarpe che aveva ai piedi, perché –
diceva – "il vero signore si riconosce dalle scarpe". E poi chiudeva
bottega.
–
Stasera
ti parlerò del mestiere del falegname, il principe dei mestieri, il più
considerato. Che era fra l'altro il mestiere di san Giuseppe. E mastro Giuseppe
si chiamava il più vecchio falegname del borgo, quando io ero bambino. Gli
dicevano "mastro" perché aveva insegnato a tanti l'arte di lavorare
il legno.
–
Lo
conoscevi bene?
–
Beh,
certo, perché era mio nonno. Passavo ogni giorno dal suo laboratorio, me ne
andavo in un angolino e lui mi dava dei chiodi, una tavoletta e un piccolo
martello: "Metti un po' di chiodi – mi diceva – così stai buono".
–
Che
cosa c'era nel laboratorio?
–
Ah,
c'erano grandi tavole di legno, due enormi tavolacci con la morsa girevole, una
ruota da arrotino e poi seghe, martelli, tenaglie e, per terra, tanti riccioli
di legno e uno strato di segatura.
–
Ci
veniva gente?
–
I
committenti, insomma quelli che avevano chiesto porte, tavoli, finestre, armadi.
Il giorno di Santa Lucia – avevo dieci anni, non lo dimenticherò mai - si
affacciò sulla porta don Nicola, il prete del paese, dicendo: "Mastro
Giuseppe, ce la fai per Natale a consegnarmi il vestibolo della chiesa con le
due porte? I fedeli si lamentano perché, quando viene aperto il portone, entra
molto freddo".
–
E
che cosa rispose il nonno? – domandò Luce.
–
"Se
tutto va bene, lo montiamo il mattino della vigilia, così per la messa di
mezzanotte facciamo nascere al calduccio il Bambino", rise mastro Giuseppe.
Don Nicola se ne andò contento, ma Orazio l'apprendista borbottò:
"Ma qui non abbiamo mica la bacchetta magica! Qui si fa tutto a
mano!".
–
Un
po' sfaticato questo Orazio?
–
Sì,
ma il nonno sapeva invogliarlo. "Dài, dài – riprese mastro Giuseppe –
facciamo le porte". Prese una
lunga tavola di abete, ancora grezza, e la poggiò su due cavalletti; con una
squadra di ferro prese certe misure e con il lapis che teneva sempre
sull'orecchio tracciò lunghe linee.
–
Una
matita sull'orecchio?
–
Sì,
un lapis un po' piatto, verniciato di rosso. A quel punto prese la grande sega a
corda, oleò la lama con la cotenna di lardo e cominciò a segare, facendo tanta
segatura. Ottenne tutti pezzi uguali, poi disse a Orazio: "Mettili in morsa
e passaci il piallone, invece sui bordi vai di sponderuola. Sulle nocche del
legno passaci la raspa e liscia tutto con carta abrasiva". "Bene,
maestro", rispose Orazio. Mentre
frugava in una scatola per scegliere cerniere, maniglie e serrature, il nonno mi
disse: "Così teniamo al caldo il Bambino e anche i pastori, che poi siamo
noi".
–
Fece
in tempo a consegnare il lavoro, nonno?
–
Ah
sì, il rivestimento del vestibolo, con le due porte, crebbe a vista d'occhio, poi tutto fu verniciato di bianco. A
mezzogiorno del 24 dicembre finirono di montarlo. Quando andammo alla messa di
mezzanotte, si percepiva in chiesa un fresco odore di legname. Mentre tutti
cantavano Astro del ciel, Orazio e mastro Giuseppe stavano in piedi come
due angeli accanto al "loro" vestibolo, che luccicava di bianco come
le porte del paradiso.
–
Vieni,
Luce, stasera parleremo del mestiere del contadino.
–
Sono
tutt'orecchi, nonno – disse il bambino raggiungendo il focolare acceso.
–
Quanti
ce n'erano un tempo! Fino a cinquant'anni fa il nostro borgo era del resto un
centro agricolo. Anche a scuola molti erano i figli dei contadini, come il mio
coetaneo Vittorio, di dodici anni, che abitava a Colle Leone.
–
Vittorio,
che strano nome, nonno…
–
Ricordava
la vittoria del 1918 sugli Austriaci e poi era il nome del re… Il mio compagno
mi invitò due volte a partecipare ai lavori nei campi, a giugno e a settembre.
–
Perché
proprio allora?
–
Beh,
per la mietitura e per la vendemmia. Una festa in tutte e due i casi. La prima
volta arrivai alle sette del mattino e per "darmi forza" – io non
ero in fondo un campagnolo abituato agli sforzi – mi misero sotto il naso due
uova fritte e una fetta di pane casereccio. Poi di corsa fra i campi, dove
crescevano alte le bionde spighe: il papà di Vittorio e altri contadini falciavano con le grosse falci, le donne
con quelle piccole; noi ragazzini raccoglievamo le singole spighe disperse e ne
facevamo mannelli, che poi gli altri riunivano in covoni e infine in biche.
"Perché fate così?", chiesi a Vittorio. "Perché questo grano,
covone per covone, va caricato sul carro e portato nell'aia, dove si fa la
trebbiatura".
–
Che
cos'è, nonno, la trebbiatura?
–
Oggi
la si fa con le macchine, ma un tempo si usavano dei bastoni. La trebbiatura
consiste nel separare i chicchi dalla paglia e dalla pula. Il risultato? Un
nuvolone di polvere e tanti chicchi raccolti su un telo.
–
E
la seconda volta?
–
Era
giorno di vendemmia, festa grande per i contadini. Le donne portavano ceste e
ceste di uva nera e le rovesciavano in un'enorme tinozza. Dentro c'erano gli
uomini a pigiare i grappoli, per lo più a piedi nudi. Da alcuni buchi allineati
al fondo della tinozza usciva il mosto, un succo rosso che veniva raccolto in
grandi bagnarole e riversato dentro
le botti che si trovavano in cantina. Lì sarebbe fermentato per mesi fino a
diventare vino. Nella cantina si respirava uno speciale odore, indimenticabile,
il tipico afrore del vino.
–
Col
grano si fa il pane, con l'uva il vino… che bella la vita del contadino! –
esclamò Luce.
–
Però
è faticosa, piccino. Si tratta talvolta di potare gli alberi sotto la pioggia,
di arare i campi con i primi freddi, di mietere o raccogliere la frutta sotto la
calura. Di dar da mangiare agli
animali da cortile o della stalla al mattino presto, di correre dietro ai
tacchini che si allontanano dall'aia, di zappare o di dar l'acqua ai pomodori
con l'afa. E certe attività – come le semine o il travaso del vino dalle
botti alle damigiane – non si può rimandarle, una volta che c'è la Luna
giusta…
–
Che
cosa c'entra la Luna? – si agitò Luce sulla sedia.
–
Per
il contadino conta molto. Nei giorni di sole e senza vento, sotto la Luna
crescente di marzo si imbottigliano i vini frizzanti, mentre sotto la Luna
calante si imbottigliano i vini senza bollicine. In Luna crescente si potano le
piante deboli e si seminano gli ortaggi, invece in Luna calante si seminano le
insalate, i finocchi e gli spinaci, si interrano le patate e si vendemmia.
–
Allora
i contadini guardano sempre il cielo?
– Sì, proprio come i Re Magi, che scrutavano la stella cometa.
–
Stasera
ti parlerò del mestiere del pastore, ma ti racconterò anche di un bell'evento
che si verificò nel borgo tanti anni fa.
–
Dài,
nonno – disse Luce, accostandosi un po' troppo al focolare.
–
Non
così vicino, potrebbero schizzare faville capaci di scottarti. Ero un
adolescente, quando don Nicola, il prete del paese, propose di mettere in scena
il presepe vivente per la notte di Natale,
nello spiazzo di fronte alla chiesa.
–
Vivente?
Che vuol dire? – interruppe il nipotino.
–
È
un presepe in cui non ci sono statuine, ma persone in carne e ossa, una recita
insomma, con la sacra Famiglia, i pastori e i Re Magi. Si riunì un comitato
organizzatore e allo zio Francesco,
più grande di me, toccò trovare il pastore.
–
Dove,
nonno, in montagna?
–
Ma
no, d'inverno in montagna non c'erano più i pastori; le greggi venivano
condotte soltanto d'estate in alpeggio, dove c'era erba fresca. Ai primi freddi
invece i pastori le guidavano verso il mare lungo i sentieri della transumanza,
detti tratturi. In ogni caso c'era qualche pastore anche nel nostro borgo.
Francesco mi volle con sé e andammo da Giacomo, il più lesto, il più giovane.
Capì subito. "Vi posso prestare il mio pastrano di lana pressata, il mio
cappellaccio di feltro. Vi posso anche imprestare le ciocie…", ci disse.
–
Le
ciocie, che roba è? – s'intromise Luce.
–
Chissà
quante volte le avrai viste! Sono le calzature degli zampognari: tutt'un pezzo
di cuoio fermato al piede da sottili strisce di pelle che, salendo,
s'intrecciano sulla gamba.
–
Ah,
sì, le conosco.
–
"Vi
posso anche prestare lo zufolo, che mi fa compagnia quando pascolo il
gregge", continuò Giacomo. "Ma per le pecore come fate?".
"Pensavamo di chiedertene tre o quattro…", rispose Francesco.
"Sì, ma poi chi le tiene a bada? Non sono mica statuine! Se ne andranno in
giro, si metteranno a belare. Vorranno brucare…". "E già",
riprese Francesco pensoso, "vorrà dire che ci sarai anche tu sulla
scena". L'altro rise: "Insomma mi volete far impersonare Giacomo il
pastore. Ci sto. Ma l'ariete, il maschietto delle pecore, non ve lo porto,
quello lì è un tipo scontroso, chissà che cosa combinerebbe".
–
E
come recitò Giacomo?
–
A
meraviglia! Si mise di fianco alla capanna con i suoi animaletti e recitò ben
bene il suo mestiere: diede erba fresca alle pecorelle, con un biberon dalla
lunga tettarella allattò l'agnellino, munse la
capretta e offrì il suo latte ai viandanti che venivano dal deserto, tosò
un pochino anche una pecora per mostrare al pubblico come si ottiene la lana.
Quando fece l'inchino finale, meritò molti applausi, perché si era rivelato un
"buon pastore": le sue pecore infatti lo avevano sempre seguito passo
passo perché "riconoscevano la sua voce". Proprio come il Vangelo
dice del Signore.
–
Ti
ricorderai del presepe vivente allestito nel paese. Ebbene, stasera ti dirò che
cosa fece il sarto. Quando il comitato si riunì, si discusse per prima cosa
della veste della Madonna. "Ci mancherebbe! Ci pensiamo noi – garantì la
vecchia sartina del borgo, Lea, guardando la sorella Ester. – La vestiremo
come una Madonna di Raffaello. Recupereremo
un bel taglio di maglina rossa per
la tunica e per sopra le facciamo un manto di lana azzurro, come vuole la
tradizione, bordato di una passamaneria dorata".
–
E
per gli altri personaggi? – chiese Luce.
–
Si
fece avanti Giorgio l'imbianchino: "Per le ali dell'angelo ci penso io: le
farò di cartapesta leggera e le coprirò di tempera bianca". Intervenne
Lucia, mammina da pochi mesi: "Le fasce per il Bambino ve le darò io, il
mio bimbo non ne ha più bisogno". Restavano i pezzi forti.
–
E
cioè?
–
La
veste di san Giuseppe, la tunica dell'angelo e quelle dei Magi. Palmiero il
sarto e il suo aiutante Corradino confabulavano in un angolo, poi il primo
disse: "Ci penseremo noi". E andarono.
–
Dove?
–
Ma
in sartoria! Palmiero frugò e finalmente trovò: "Il caffettano di san
Giuseppe lo faremo con questi pezzi di cotone a strisce verticali bianche e blu,
che mi sono avanzati dallo scorso anno, quando facemmo i rivestimenti dei
materassi. Questo t'insegni, Corradino, a non buttar via mai nulla. Presto,
vieni qua, prendo su di te le misure per il caffettano". Srotolò il metro
giallo plastificato, misurò le spalle, lo scalfo delle maniche, la lunghezza
del braccio e quella della persona, dal collo alle caviglie. "Avrà le
maniche molto ampie e si indosserà dall'alto, come fosse un maglione".
–
Lo
fece subito? – domandò il nipotino.
–
Eh
no. Prima dovette fare il cartamodello.
–
Il
carta… che?
–
Una
volta che ha preso le misure, un sarto fa un vestito di carta, nel senso che
disegna su una carta trasparente le proporzioni esatte delle maniche, del dorso,
del torace. Poi stende la stoffa sul tavolo, ci appoggia sopra la carta e taglia
il tessuto seguendo i bordi della carta. In capo a pochi giorni, Palmiero fece
esattamente così: tagliò i vari pezzi, li imbastì, cioè li cucì fra loro in
modo provvisorio. Quindi chiamò Corradino: "Pròvati il caffettano",
gli disse. E quando glielo vide addosso, esclamò: "Perfetto! Vedrai che ti
faranno rappresentare san Giuseppe". Lo passò dunque sotto la macchina da
cucire, ripiegando per bene tutti i bordi. Toccò a Corradino stirarlo: il
giovane accese il braciere, prese con la pinza da fuoco i piccoli tizzoni,
scoperchiò il ferro e li mise dentro. Di tanto in tanto allontanava il ferro
dal panno, soffiando sui buchi che facevano corona al basamento, perché la
cenere non sporcasse la stoffa. Per finire, Corradino appese il caffettano al
manichino e lo espose in vetrina.
–
Ma
come? Lo mise in vendita?
–
Ma
no! Perché i compaesani lo ammirassero. E ci fu perfino chi disse: "È
troppo bello, verrà sicuramente dall'Oriente".
–
E
per le tuniche, nonno, come fecero?
–
Ah,
si risolse in fretta. L'astuto Palmiero se le fece prestare da un sarto amico,
che abitava in un paese vicino, dove per Carnevale avevano allestito un carro
con vizir e sultani, tutti addobbati con vesti di raso. Ma volle una tunica nera
per Gaspare, che portava il vasetto della mirra, gialla per Baldassarre, che
portava l'incenso, bianca per Melchiorre, che recava l'oro. La tunica rossa
dell'angelo sembrò un fuoco vivido, che brillava inesauribile nel cielo della
Notte Santa.
–
Stasera
ti parlerò del mestiere del fabbro. Quand'ero giovane, ce n'era uno solo nel
borgo, che bastava per tutti. Il
suo cognome era Torrente, ma in paese lo chiamavamo Torre per via della sua
corporatura. Era un monumento di muscoli, ma buono come il pane. Non sono mai
entrato nella sua fucina, però…
–
Fermati,
nonno, dimmi prima che cos'è la fucina…
–
Ma
come? La maestra non ti ha mai parlato di Vulcano, il fabbro degli dèi che
forgiò le indistruttibili armi di Marte? La sua fucina, la sua officina con i
fuochi sempre accesi, si trovava nelle viscere dell'Etna, in Sicilia…
–
Ho
capito.
–
Ebbene,
ti dicevo, la fucina di Torre non l'ho mai vista all'interno, ricordo soltanto
che dall'entrata proveniva un odore acre di metallo bruciato, misto a ruggine e
zolfo. Però nella buona stagione ho visto Torre lavorare all'aperto, con il
torace nudo, coperto solamente di un lungo grembiule grigio, di grossa fibra. Il
nostro fabbro era tutt'altro che ignorante, tant'è che sul lato sinistro del
portone aveva inciso un antico motto latino, Solve et coagula, che
vuol dire "sciogli e rapprendi". Se qualcuno gliene chiedeva la
ragione, diceva che quello era il succo del suo mestiere, infatti il principe
dei metalli, il ferro, non si piega se prima non lo si ammorbidisce con il
fuoco. Sul battente del portone aveva invece agganciato un San Michele che
uccide il dragone con la lancia, perché – diceva – "quell'asta di
ferro qualche fabbro gliel'avrà pur forgiata, dunque lui ci protegge dai
pericoli del fuoco".
–
Ma
protegge anche noi, vero, nonno?
–
Protegge
tutti, certo. Quanta ferraglia era sparsa nel cortile della sua bottega! Ferri
di cavallo, portavasi, cerchi per botti, catene per il camino, aste uncinate per
abbassare i rami più alti delle piante e cogliere, per esempio, i fichi, pezzi
di aratro, vecchie insegne, chiodi, chiavi, bidenti, zappe… Al centro dello
spiazzo troneggiava su un grande ceppo un'enorme incudine a due corni, accanto a
un fornello di braci ardenti, che poi era la sua fucina.
–
Faceva
tutto da solo, Torre?
–
Ah
no. Aveva un aiutante, che si era guadagnato il nomignolo di Taverna perché
amava rinfrescarsi in osteria i bollori delle fiamme. Torre no, era già rubizzo
di suo, a forza di star vicino ai fuochi. C'era da divertirsi nel vederlo
lavorare all'aperto, per esempio con i cerchi per le botti. E cominciava già
mesi prima della vendemmia. Prendeva una fascia di ferro e la poneva sulle
braci, poi dava un colpo di màntice per ravvivare i carboni ardenti, quindi
arroventava il metallo perché fosse malleabile. Quand'era divenuto ben
incandescente, lo toglieva dalla fucina con due lunghe tenaglie e lo curvava con
forza, urlando a squarciagola verso Taverna: "Laqualaqualaqua".
–
Perché
l'acqua? – chiese incuriosito Luce.
–
Ma
per temprare il ferro e "congelare" la curva ottenuta! Se il ferro
incandescente viene raffreddato di colpo, si tempra, si irrobustisce e si blocca
nella forma che ha preso; se invece si vuole ancora lavorarlo, basta lasciare
che si raffreddi da solo. Il passo successivo era chiudere il cerchio con due
borchie di ferro e poi giù colpi di maglio sull'incudine. L'ultimo tocco di
ogni suo lavoro era una passata di lima sul ferro messo in morsa. Gioviale
com'era, anche quando si trovava alle prese con pesanti lavori, Torre non si
scoraggiava mai e mormorava: "È passata l'età della pietra, è passata
l'età del bronzo, ma l'età del ferro non finirà mai".
–
Un
nuovo mestiere ci aspetta stasera, il muratore. Sediamoci al focolare. Luce.
–
Eccomi,
nonno.
–
Di
muratori ce ne sono sempre stati tanti nel nostro borgo, perché ogni famiglia
ha pensato di costruirsi una casetta. A fabbricare la nostra fu mastro Aristide
con la sua compagnia: Aristide padre, Aristide figlio, due lavoranti e un
manovale, addetto solamente a impastare la calcina o la malta.
–
Non
so cos'è la malta…
–
Ah,
sì, sabbia e cemento. Il manovale la impasta come una massaia che vuol fare la
pasta all'uovo: fa una circonferenza con la farina e al centro mette il bianco e
rosso dell'uovo. Non diversamente, il manovale fa un cerchio di sabbia e al
centro mette acqua e cemento, poi con la pala parte del centro per amalgamare il
tutto, facendo in modo che l'acqua non fuoriesca dalla circonferenza di sabbia.
Vedi, Luce, la malta è la colla dei muratori.
–
E
qual è la carta? – domandò subito il nipotino.
–
Senz'altro
i mattoni, pieni o traforati che siano. Eh sì, i mattoni rossi cotti nella
fornace, quell'alta ciminiera che si trova al limitare del paese.
–
E
gli strumenti del muratore? – incalzò il piccolo.
–
Te
li presento subito: innanzi tutto la livella, poi la cazzuola triangolare, il régolo,
il filo a piombo, la pala, la caldarella, il martello a coda di rondine con il
manico lungo, che serve per mettere i chiodi e per estrarli. Forse non c'è
altro. Ah, già, la carriola: se non l'avessero inventata mille anni fa, non si
sarebbero costruite le cattedrali.
–
Che
buffo, la carriola ha mille anni… – rise Luce
–
Quando
fabbricarono la nostra casa, andavano in cantiere già per le sette, poi alle
dodici in punto staccavano per il pranzo e un'ora dopo riprendevano fino alle
cinque. Lavoravano per lo più d'estate, in canottiera, per far sì che il sole
asciugasse preso i muri.
–
Come
fecero per costruire la casa?
–
A
scuola ti avranno detto che il nostro corpo è fatto di ossa, muscoli,
pelle. Ora, anche la casa ha uno scheletro, che sono i pilastri di
cemento armato, i muscoli sono le pareti, la pelle è l'intonaco.
Per cominciare, i muratori fabbricano lo scheletro a partire dai piedi:
gettano le fondamenta e innalzano i pilastri, poi tra un pilastro e l'altro
erigono le pareti in mattoni. Un mattone e uno strato di malta, sempre così,
centrando il mattone di sopra sui due di sotto. Per evitare di costruire un muro
storto in verticale maestro Aristide aveva insegnato ai suoi a usare il filo a
piombo, mentre per mantenerlo ben dritto in orizzontale ave dato a ciascuno di
loro una livella.
–
E
com'è fatta?
–
Semplice.
Un lungo pezzo di alluminio con al centro un tubetto in vetro contenente acqua
ma anche, attento!, una bolla d'aria. Aristide poneva la livella in cima al muro
e controllava se la bollicina era perfettamente al centro.
–
E
se non lo era?
–
Mastro
Aristide s'infuriava: "Non mettere più malta a destra e meno a sinistra,
altrimenti il muro sale sghembo!".
–
Che
tipo questo Aristide! – aggiunse Luce.
–
Infine
fecero il tetto. Mentre costruivano l'armatura di legno con lunghe travi di
abete, chiamarono mio padre: "Ci volete le tegole o i coppi?". Per gli
spioventi furono scelte le tegole, sui displuvi misero invece file di coppi. A
copertura finita – com'è tradizione dei muratori dalle nostre parti –
piantarono sul tetto il tricolore.
–
Stasera
parleremo di due mestieri fratelli, anche perché fratelli erano in paese
Giacomo e Giovanni, il primo un mugnaio e il secondo un fornaio, entrambi
impolverati di bianco.
–
Perché
di bianco?
–
Ma
la farina, Luce! All'inizio il mulino e il forno erano l'uno accanto all'altro,
poi Giovanni si spostò, perché – come disse al fratello – "Il mulino
fa troppa polvere, mi tien lontani i clienti".
–
Eh
già, non volevano impolverarsi.
–
Un
tempo i mulini erano azionati ad acqua: la forza del torrente girava una grande
ruota a pale che fungeva per così dire da turbina. Dove l'acqua non c'era, il
motore del mulino era il mulo, doverosamente munito di paraocchi, perché legato
a stanghe e costretto a girare in cerchio. Ma quando venne l'elettricità, la
corrente sostituì sia l'acqua sia il mulo.
–
Com'era
fatto un mulino?
–
C'erano
due grandi macine cilindriche, l'una sovrapposta all'altra, che giravano in
senso fra loro contrario. Macinavano il grano per l'alimentazione dell'uomo e il
granturco per il pollame. Il mugnaio poteva regolare la grana del macinato e
ottenerla grossa o fine. La farina si radunava al centro e attraverso certe
scanalature fuorusciva ai piedi della macchina di pietra. Poi il mugnaio, con
una pala di legno, la raccoglieva per versarla nei sacchi. Dopo la mietitura da
Giacomo c'era un viavai di
contadini. Il mugnaio, però. non toccava il denaro: quando un contadino portava da lui un certo numero di sacchi di
grano, Giacomo si tratteneva per compenso uno di essi o uno dei sacchi della
farina appena macinata.
–
Faceva
un baratto, insomma?
–
Eh
sì. Attento, però. La farina ottenuta nel mulino non era pura, perché era
mista a crusca. Per dividere l'una dall'altra la massaia usava il setaccio, uno
strumento circolare fatto con una rete metallica e un alto bordo di legno. Lo
poneva sul tavolo e vi metteva un bel po' di farina, poi, senza sollevare il
setaccio dal tavolo, compiva una serie di gesti rotatori, che facevano passare
la farina bianca attraverso le sue fitte maglie, trattenendo invece sulla rete
le fibre rossicce della crusca.
–
E
buttava la crusca?
–
Macché.
L'aggiungeva al trògolo del maialino. Vi è da dire, Luce, che Giacomo era un
buon uomo, eppure aveva dei nemici…
–
I
ladri!
–
No,
i topi. Perciò metteva tante trappole in magazzino. Ma soprattutto aveva un
gatto che faceva una guardia continua, come un autentico pretoriano. Se non
fosse che di giorno si faceva spesso distrarre dalla gracula indiana, l'uccello
nero dal becco giallo che sa imitare i suoni umani. A Giacomo faceva compagnia e
lui, quando il tempo era mite, esponeva la voliera davanti al portone del
mulino. A chi usciva, la gracula gracchiava con accento tedesco: "Chaipagato?".
C'era sempre qualche estraneo che ci cascava.
–
E
del fornaio, nonno, che cosa mi dici?
–
Era
un tipo segaligno, scattante. Del resto, per far la vita del fornaio ci vuole
energia: Giovanni si alzava prima dell'alba e correva in bici al forno, nel
retro del negozio. Apriva la grossa madia e…
–
Scusa,
nonno, ma com'era la madia?
–
Era
un mobile di legno, con il coperchio a ribalta, in cui i contadini riponevano il
pane fatto in casa. Giovanni ci teneva, fra l'altro, una ciotola in cui ogni
sera mescolava acqua e farina, lasciava la ciotolina scoperta ed essa di notte
si riempiva di muffa
e il suo contenuto diveniva acido. Era
il lievito.
–
A
che cosa serviva?
–
Il
lievito è l'anima, la vita del pane, la forza che lo fa crescere e che lo rende
soffice. E Giovanni lo sapeva bene, tanto che, nel prendere il lievito, si
segnava e recitava un paternoster, perché il Cielo benedicesse la
panificazione della giornata e la facesse andare a buon fine. Poi faceva la
"fontana": un cratere di farina con al centro acqua e lievito;
mescolava il tutto e poi impastava con tutta la forza dei polsi.
–
E
dopo?
–
Lasciava
riposare per circa tre ore l'impasto, affinché si gonfiasse e si alzasse:
questo primo panetto era chiamato "pasta madre". Al quel punto apriva la porticina del forno: con la pala di
ferro spingeva in fondo i tronchi grossi, poi aggiungeva le fascine, quindi dava
loro fuoco. Intanto preparava altre "fontane", aggiungendo a ciascuna
un pezzo di "pasta madre". Amalgamava, manipolava, impastava e formava
numerosi panetti tondi, che allineava su altrettanti pezzi di stoffa grezza
disposti su una lunga asse di legno. Su ogni panetto tracciava una croce con i
rebbi della forchetta. A quel punto
apriva il forno e, sbirciando dentro, il più delle volte diceva: "Sì, il
cielo è bianco, segno che posso infornare".
–
Ma
perché quei pezzi di stoffa?
–
Perché
a metà cottura estraeva dal forno l'asse e, tirando a sé di getto i riquadri
di stoffa, capovolgeva il pane – intoccabile perché troppo caldo – per
farlo cuocere anche sotto. Nel locale si diffondeva un aroma fragrante, che
inondava anche il negozio. Poco dopo le prime pagnotte erano già in vetrina.
–
Ti
ho mai parlato del mestiere dello scalpellino?
–
No
mai, nonno.
–
E
allora cominciamo. Se il mondo si fosse fermato a mille anni fa, lo chiameremmo
ancora lapidario, ma oggi lo chiamiamo scalpellino perché scalpella la pietra.
Ai miei tempi in paese a far questo mestiere era Eugenio, per gli amici Gegè.
Come un macellaio sa riconoscere i quarti di bue dalle fibre, Gegè sapeva
distinguere le pietre dalle venature: il marmo bianco di Carrara, il rosso
Verona, il granito rosa di Baveno, il travertino romano…
–
Ma
che cosa scolpiva?
–
Beh,
insegne di botteghe, targhe per le ville dei signori, stele commemorative, cippi
per monumenti, targhe per le scuole o per il palazzo del comune. Va da sé che
scolpiva anche le lapidi dei defunti, "altrimenti – diceva – qui
defungo presto anch'io per la fame". Però in fondo era un inventore…
–
In
che senso?
–
Lo
capii io stesso, un giorno di agosto, quando il professore nostro vicino lo
chiamò dall'altro lato della via: "Eugenio, avrei bisogno di un'epigrafe,
da porre accanto al portone. Una pietra trenta per trenta, bordata da una
decorazione e, all'interno, un'iscrizione latina, Gutta cavat lapidem, in
grafia capitale medievale". Gegè aggrottò le sopracciglia e fece una
strana faccia! Gli si leggeva in fronte quel che pensava: "Ma questo con
chi crede di avere a che fare, con Michelangelo?". Poi gli chiese:
"Professore, quelle parole che cosa vorrebbero dire?". L'altro,
uncinando con i pollici lo scalfo del gilè, sentenziò: "La goccia scava
la pietra". Gegè si fece pensoso, col pollice sollevò un po' sulla fronte
la visiera del berretto, poi disse: "Professore, guardi che si sbaglia: per
scavare la pietra ci vuole il mio scalpello. Se aspetta l'acqua, ci mette un
secolo!". Alla fine accettò il lavoro. "Mi procuri un bel marmo
bianco, per la decorazione del bordo a te la scelta… Ma per l'iscrizione ti
dovrò seguire io, non vorrei che sbagliassi". "Va bene", rispose
Gegè.
–
E
cosa fece?
–
Andò
in città, si procurò la pietra. Una volta in laboratorio, sgrezzò i margini e
la molò tutta con la macchina
elettrica munita di un disco di carta abrasiva. Il giorno dopo salì verso il
monte, fino al torrente, che era quasi in secca, e raccolse tante pietruzze
colorate, ben levigate dall'acqua. Gegè le sapeva distinguere: "Questa
bianca è calcite, questa rosa è dolomite, quest'altra nera è ossidiana,
questo invece è un quarzo trasparente, questo di certo è un frammento di
tormalina verde". Il sole era già calato quando ritornò a casa con il suo
sacchettino di ciottoli. Si destò presto, con il progetto già in mente.
–
Quale
progetto?
–
Beh,
la decorazione… A due dita dal bordo fece una scanalatura di un dito, ci versò
dentro il cemento bianco e poi ci conficcò sopra le pietruzze, alternando con
arte i colori.
–
Ma
sporgevano dal canale?
–
Certo
che sporgevano! L'aveva fatto apposta. Quando il cemento si seccò, si armò di
mola e pareggiò tutto, quindi polì con la carta abrasiva e lucidò con la
spazzola e uno speciale liquido. Quando lo asciugò, si accorse che la
decorazione era un piccolo capolavoro di colori!
–
E
quando fece la scritta?
–
Il
giorno dopo, sotto l'occhio vigile del professore. Prese le misure con la
squadra, tracciò una serie di linee diritte e in diagonale, quindi scrisse il
motto a matita. A colpi di mazzuolo di legno ben calibrati sullo scalpello Gegè
cominciò a incidere i solchi delle lettere, a coda di rondine. Il professore
guardava attento, al colmo dello stupore. Quando l'incisione fu terminata, Gegè
verniciò di rosso i due versanti dei solchi. Poi rimirò il lavoro da vicino e
da lontano, scrutò i particolari, sorrise compiaciuto: "Non le resta che
dire al fabbro di appendere la lastra con quattro ganci. Guardi, però,
professore che io resto della mia idea: se si fosse affidato all'acqua per
scavare la pietra, non avrebbe mica visto questo capolavoro".