IL GOETHEANISMO DI MIRCEA ELIADE

di Gabriele Burrini

 

Sono passati dieci anni dalla morte di Mircea Eliade, il più grande storico delle religioni del nostro secolo, noto per una serie di opere che sono pietre miliari negli studi religiosi, tra cui possiamo ricordare: Trattato di storia delle religioni (Torino 1954), Lo Yoga, immortalità e libertà (Milano 1973), Lo sciamanesimo e le tecniche dell'estasi (Roma 1953), Storia delle credenze e delle idee religiose (Firenze 1979-83). La produzione scientifica dello studioso romeno viene solitamente ascritta alla "fenomenologia", come per sottintendere che essa fosse aliena da ogni dimensione storicistica: come se Eliade guardasse soltanto alle immagini astratte dei fenomeni religiosi, più che al loro divenire storico.

Ma leggiamo una interessante pagina sull'Urpflanze goethiana tratta dal diario di questo autore, edito con il titolo di Giornale (Torino 1976, p.106): "Raramente, nella storia della scienza, è stata così difficilmente riconosciuta l'importanza di un metodo, forse perché Goethe considerava "la pianta originale" come una scoperta scientifica. Quando verrà scritta la storia dell'idea di morfologia quale Goethe l'intendeva, si vedrà fino a che punto sono state feconde, nelle scienze naturali, probabilmente, ma anche nella classificazione, l'analisi e l'interpretazione delle creazioni dello spirito, come le arti plastiche, le produzioni folcloristiche, le concezioni estetiche ecc. Mi ricordo che il folclorista russo Vladimir J. Propp citava a mo' di epigrafe dei vari capitoli della sua Morfologia della fiaba (Leningrado 1928) lunghi passi della Morfologia di Goethe. Ma il libro è passato inosservato [fu scoperto solo dopo la traduzione inglese del 1950, nella quale le citazioni di Goethe erano state soppresse, con grande indignazione di Propp], così come il saggio di Lucian Blaga del 1925 sul Fenomeno originale. Mi chiedo se la causa di ciò vada ricercata unicamente nella difficoltà materiale di accedere a tali libri [...], oppure nello Zeitgeist del periodo fra le due guerre, che si opponeva a siffatta maniera di liberare le strutture mediante la riduzione dei fenomeni ad "archetipi"".

Più oltre Eliade aggiunge: "Come Goethe [...] ho capito che le "forme storico-religiose" non sono che le espressioni, infinitamente variate, di alcune esperienze religiose fondamentali [...], strutture ed archetipi" (p.244).

In un libro-intervista a cura di C.H. Rocquet (La prova del labirinto, Milano 1980, p.130) Eliade ritorna in modo ancora più esplicito sullo stesso tema: "Accetto lo "strutturalismo" di Dumézil, di Propp - e di Goethe. Lei sa che Goethe, quando studiava la morfologia delle piante, aveva pensato che tutte le forme vegetali potevano essere ricondotte a ciò che egli chiamava la "pianta originaria" e che finì per identificare questa Urpflanze con la foglia. Propp era rimasto segnato da questa idea, al punto che, nell'edizione russa di Morfologia della fiaba, ogni capitolo porta in epigrafe un lungo brano del libro di Goethe. Quanto a me, ai miei inizi almeno, pensavo che per vederci chiaro in questo oceano di fatti, di figure, di riti, lo storico delle religioni doveva, nel suo ambito, ricercare "la pianta originaria", l'immagine primordiale, ovvero ciò che risulta dall'incontro tra l'uomo e il sacro. Insomma, lo strutturalismo che mi pare fecondo è quello che consiste nell'interrogarsi sull'essenza di un insieme di fenomeni, sull'ordine primordiale che ne fonda il significato".

Grazie a Mircea Eliade la concezione goethiana ha trovato frutti laddove non ha nemmeno seminato, in un ambito lontano dalle scienze naturali qual è l'ambito storico-religioso. Agli archetipi del sacro M. Eliade diede il nome di "ierofanie" e ne ricostruì dieci nel Trattato: il cielo, il sole, la luna, le acque, le pietre sacre, la terra-donna-fecondità, la vegetazione-rinnovamento, l'agricoltura, lo spazio sacro, il tempo sacro.

Un documento religioso (un testo, una pittura, una statua, una festa) sono espressioni delle modalità che un preciso archetipo assume in un certo periodo storico, rivelando la posizione che l'uomo, in quel momento, ha verso il sacro. Stabilire una serie di comparazioni fra i documenti delle diverse civiltà conduce dunque, da un lato, a scoprire l'aspetto universale degli archetipi, ma, dall'altro, a comprendere il senso della storia. Questa universalità degli archetipi riaffiora nell'importanza del rito nel mondo religioso: il rito - sostiene Eliade - è sempre la ripetizione di un gesto archetipico, compiuto alle origini dagli antenati o da un dio che, con quel gesto, ha creato o rinnovato la società umana. Ripetere il rito significa dunque ricreare il tempo: il sacerdote cristiano che celebra l'eucarestia attualizza nel proprio contesto temporale il sacrificio archetipico del Cristo; il buddhista che medita ripete l'azione ideale compiuta dal Buddha nella notte dell'Illuminazione. Meditando la "Pietra di fondazione" riviviamo anche noi nel nostro presente il momento archetipico in cui R. Steiner pose le basi di una nuova comunità umana, fondata sul rinnovato accordo di pensare sentire volere, ovvero di arte scienza religione.

 

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