LA SANTITA' BUDDHISTA

dall'arhat del Piccolo Veicolo all'odissea cosmica dei Bodhisattva


di Gabriele Burrini

 

Gli antichi Indiani mancavano di quel «senso della storia» che è orgoglio e cruccio della civiltà moderna, per converso possedevano un «senso dello spazio» particolarmente spiccato: lo dimostrano al meglio i sūtra canonici, le originarie scritture buddhiste redatte più di duemila anni fa, nelle quali ogni predicazione del Buddha si apre con la puntuale designazione dell'ambiente geografico in cui l'evento si svolge.

«Evam mayâ śrutam: ekasmin samaye», «Così da me fu udito, una volta…»: sono le parole con cui iniziano molti sūtra. L'incipit sacro – che lungo la storia del buddhismo ha assunto quasi la forza di un mantra – ci dischiude ogni volta la visione su un preciso paesaggio, che può essere il parco delle gazzelle, presso Benares, o il boschetto di Jeta, presso Śrâvastī, le rive del fiume Nerañjarâ o le alture che circondavano Râjagrha[i], la capitale del Magadha. Diversamente dai sūtra canonici, nelle scritture del Grande Veicolo (Mahâyâna), la corrente buddhista sorta agli inizi dell'era volgare, i contorni fisici del paesaggio presto sfumano, trasfigurandosi nelle linee e nei colori di una «geografia dell'anima»: i vegetali della terra si trasformano in esseri carichi di mito, nei paradisiaci alberi mandâra, nei fantastici fiori udumbara, lo spazio terreno apre l'adito a un più ampio spazio celeste, in cui affluiscono gli esseri favolosi della natura e degli elementi (nâga, kimnara, gandharva, asura, garuda), mentre dalle opposte direzioni del cosmo giungono innumerevoli Bodhisattva. Perfino l'Illuminato va incontro a una trasfigurazione.

Ecco, seguiamo il Beato, mentre lascia Râjagrha, «splendida per i suoi palazzi», come scriverà il poeta Aśvaghosha[ii], «contrassegnata da cinque alture, ben difesa e adornata da montagne, innalzata e purificata da fauste acque termali»: Râjagrha, la città nella quale la tradizione ha visto una delle sante dimore (âryavihâra), in cui il Buddha risiedette per esercitare la sua predicazione, la sua compassionevole opera verso gli esseri. Ora il Beato si avvia a nord-est della capitale, verso il Picco dell'Avvoltoio (Grdhrakūta­parvata), la più alta delle cinque montagne, così denominata perché vi si levavano gli avvoltoi per dirigersi a sud della città, verso lo Śītavana, che era il cimitero di Kuśâgra, la città vecchia, sede di un'altra antica capitale del Magadha. Su questa cima, ricca di grotte e di caverne, si ritiravano un tempo gli asceti indiani; sul Picco dell'Avvoltoio il re Bimbisâra, protettore e amico del Buddha, inviò gli 80.000 podestà del Magadha, da lui convocati, perché ascoltassero gli insegnamenti del Sublime[iii]. «Questa montagna», scriverà nel VII secolo d. C. il pellegrino cinese Xuanzang nella sua relazione di viaggio, «offre fresche fonti, rocce straordinarie e alberi ricoperti del più ricco fogliame. Quando il Buddha era su questa terra, dimorava spesso su questa montagna e fu là che insegnò ai discepoli il Sūtra del loto, la Perfezione della Saggezza  e numerosi altri sūtra»[iv].

A voler seguire ancora l'immaginazione, man mano che la figura dell'Illuminato incede sul crinale del Picco dell'Avvoltoio, la vediamo perdere le sembianze di Śâkyamuni, il monaco mendicante della stirpe degli Śâkya, o del Buddho Gotamo descritto nei testi pâli e a cui si lega la memoria del «Sermone di Benares», per assumere un nuovo aspetto: quello del Tathâgata, il Buddha eterno o cosmico, destinato a restare per sempre sul Picco dell'Avvoltoio nell'intento di promulgare il Dharma, la Dottrina. Per adorarlo e prosternarsi davanti a lui, mentre predica i sūtra del Grande Veicolo, accorrono sul Picco innumerevoli Bodhisattva, provenienti dalle dieci regioni dello spazio, dai lontani «campi buddhici» dei Tathâgata celesti [v].

Un policromo affresco della scena che abbiamo evocato con rapide pennellate si può ammirare nel prologo del Sūtra del loto, che recita:

 «Così ho udito. Una volta il Signore risiedeva a Râjagrha, sul Picco dell'Avvoltoio, circondato da una numerosa assemblea di monaci, 1200 monaci, tutti arhat, senza macchia, esenti da passioni, dotati di autocontrollo, completamente liberi nel pensiero e nella conoscenza, di nobile stirpe, come grandi elefanti che abbiano eseguito il loro lavoro, compiuto il proprio dovere, assolto il proprio compito, raggiunta la meta; i legami che avvincono all'esistenza erano in loro completamente distrutti, le loro menti erano del tutto destate alla perfetta conoscenza; essi avevano conseguito la suprema perfezione nel soggiogare tutti i loro pensieri e possedevano le facoltà supreme (abhijñâ). C'erano eminenti discepoli[vi]; […] inoltre 80mila Bodhisattva senza-ritorno (avaivartika), dotati del prodigio della suprema e perfetta Illuminazione, in possesso di formule magiche e di una grande eloquenza; intenti a girare l'irreversibile Ruota della Dottrina; che avevano servito centinaia di migliaia di Buddha; che sotto molte centinaia di migliaia di Buddha avevano piantato radici di merito, erano stati in intimità con molte centinaia di migliaia di Buddha; erano nel corpo e nella mente pienamente compenetrati del sentimento della compassione; abili nel comunicare la saggezza dei Tathâgata; molto saggi, in quanto avevano raggiunto la Perfezione della saggezza (prajñâpâramitâ); rinomati in molte centinaia di migliaia di mondi; salvatori di molte centinaia di migliaia di miriadi di koṭi di esseri. Tali erano il principe reale Mañjuśrī, i Bodhisattva Mahâsattva Avalokiteśvara, Bhaishajyarâja, Maitreya [eccetera]. [...] Vi era inoltre Śakra, il re degli dèi, […] vi erano i quattro Mahârâja […], il dio Īśvara […], Brahmâ Sahâpati […], gli otto nâga […], i quattro kimnara, […] i quattro dèi dal corpo di gandharva […], i quattro prìncipi degli asura, […] i quattro prìncipi dei garuda […]. In quel momento il Beato entrò nella concentrazione detta Stazione dell'Istruzione Infinita e rimase con il corpo e la mente immobili. Non appena il Beato si trovò in quello stato, iniziò a cadere una fitta pioggia di fiori divini […]. Il campo buddhico (buddhakshetra) tremò…»[vii].

 La storia del Mahâyâna trasse il suo primo e fondamentale impulso dalle proporzioni trascendenti (lokottara) ed eterne attribuite alla figura del Buddha. Non si trattò di divinizzazione, perché già nei testi canonici il Beato veniva additato come un essere più divino che umano (com'è consono peraltro alla mentalità indiana che nel jīvanmukta, nel «liberato vivente», ha sempre visto un essere più celeste che terreno); si trattò invece di una vera e propria cosmicizzazione, che si realizzò attraverso una serie di tappe parallele – nelle arti figurative, nel genere biografico e nella speculazione teologica, che in queste pagine non è il caso di ripercorrere[viii].

Su che cosa verte il messaggio del Tathâgata eterno attorniato da infiniti Bodhisattva nel cielo del Picco dell'Avvoltoio? Sulla trasfigurazione finale, in senso pressoché escatologico, della dimensione terrena e del nostro stesso mondo, il Sahâloka.

Si è soliti udire che il buddhismo svaluta la condizione umana, a favore della liberazione dal ciclo nascita-morte-rinascita (samsâra). Ma ciò è soltanto una semplificazione occidentale. Per la verità, già nel canonico Dhammapada – le livre de chevet dell'asceta theravâda[ix] – si legge: «Difficile da ottenere è la sorte umana, difficile la vita ai mortali, difficile udire la Disciplina, difficile il sorgere di uno Svegliato»[x]. Quanto al Mahâyâna l'idea di preziosità della vita umana e dell'incarnazione terrena – l'unica in cui si possa meritare il raro privilegio di incontrare un Buddha e, di conseguenza, l'unica in cui sia possibile acquisire l'Illuminazione – riecheggia in tutta la sua letteratura, tanto che ancora nel VII secolo d.C. il mistico poeta Śântideva scriverà: «Il Venerabile ha detto: "La condizione umana è così difficile da ottenere, come l'inserimento del collo di una tartaruga nell'apertura di un laccio galleggiante sull'oceano"»[xi]. L'alta considerazione del Buddha per la condizione umana e, più in generale, per la dimensione terrena, è in special modo attestata dall'Insegnamento di Vimalakīrti, che riporta le parole pronunciate dai Bodhisattva dello spazio nei riguardi del nostro mondo Sahâ[xii] – ritenuto infelice perché contaminato dalla triplice macchia del dolore, della malattia e della morte:

«Se partendo di qui in direzione del nadir si attraversano tanti campi di Buddha quanti sono i granelli di sabbia di quarantadue Gangi, ci si imbatte nell'universo Sahâ. Colà si trova, vive ed esiste adesso il beato Tathâgata Śâkyamuni, santo e perfettamente risvegliato, il quale, in questo universo dalle cinque corruzioni[xiii], predica la Legge a esseri dalle vili aspirazioni[xiv]. Colà predica la Legge ai Bodhisattva dell'universo Sahâ anche il bodhisattva Vimalakīrti, stabilito nella dottrina della liberazione inconcepibile. […] [Interrogato] Vimalakīrti rispose dicendo: "Signori, questi esseri [dell'universo Sahâ] sono difficili da convertire; a questi esseri difficili da convertire Śâkyamuni rivolge discorsi propri a convertire esseri ribelli e difficili da convertire". […] I Bodhisattva dissero: "La grandezza di Śâkyamuni è stabilita e il modo in cui converte gli umili, i poveri e gli esseri ribelli è meraviglioso. E i Bodhisattva che si sono stabiliti in questo miserabile campo di Buddha hanno una compassione inconcepibile". Allora Vimalakīrti disse: "Signori, è esattamente come voi dite. I Bodhisattva qui nati hanno una saldissima compassione. In questo universo essi fanno, in una sola esistenza, assai più di bene di quanto voi non ne facciate nell'universo Sarvagandasugandhâ durante centomila kalpa[xv].

Alla luce di queste verità, l'ecumene buddhista, dall'India al Giappone, ha visto nel Picco dell'Avvoltoio il luogo eterno, la dimora per eccellenza del Tathâgata circondato dai Bodhisattva, il luogo in cui si compie l'agire cosmico di quel particolare Corpo buddhico – il Corpo di Beatitudine (sambhogakâya) – che abbraccia Tathâgata e Bodhisattva in un'unica comunità ideale, un Sangha spirituale. Ma con la metafora di questo luogo mistico si è inteso esprimere anche l'eternità della Dottrina quale si preserva pur nelle asperità del nostro triste mondo Sahâ, la continuità dei Buddha e dei Bodhisattva e la certezza della futura venuta del Buddha Maitreya, destinato a rivelarsi su una cima contigua al Picco dell'Avvoltoio. Un detto zen racchiude in una breve immagine il senso delle nostre parole: «L'assemblea dei Bodhisattva che ascolta le parole del Buddha sul sacro Picco dell'Avvoltoio non si è mai sciolta: è sempre riunita e le parole riecheggiano ancora sulla montagna»[xvi].

L'Arhat theravâda. Prima che il Mahâyâna, sulla scia della cosmicizzazione del Buddha, elaborasse il complesso percorso cosmico e spirituale dei Bodhisattva, quale è descritto in molti sūtra e trattati del Grande Veicolo, uno solo era l'ideale di santità del buddhismo del Piccolo Veicolo: l'arhat, il grado di «santo» cui aspirava l'uditore (śrâvaka). Giungeva alla condizione di arhat il monaco theravâda che perseguiva l'Ottuplice Sentiero e viveva nella vigilante attenzione meditativa. Memore dei sermoni sull'impermanenza del mondo raccolti dalla viva voce del Beato, il monaco meditava per ottenere la consapevolezza (smrti): il suo codice morale era non nuocere ad alcuno, la sua disciplina era purificare la mente con la concentrazione, la sua saggezza era comprendere che la realtà è caduca, dolorosa e impersonale.

Le scuole theravâda avevano ripartito in sette gradi il cammino dell'asceta buddhista verso la santità:

1) Ârya è l'asceta che ha raggiunto la determinazione (niyâma) verso il nirvâna in quanto ha concepito il primo pensiero del Sentiero di visione (darśanamârga);

 2) «Colui che ha visto le Quattro Nobili Verità» è l'asceta che ha raggiunto il 15° pensiero del Sentiero di visione;

 3) Srotaâpanna, «entrato nella corrente», è l'asceta che, avendo concepito il 16° pensiero del Sentiero di visione, ha ottenuto il primo frutto della vita religiosa, nel senso che è divenuto monaco. È pertanto destinato a ottenere l'Illuminazione dopo sette rinascite;

 4) Sakrdâgâmin, «legato a una sola nascita», è l'asceta che, giunto al 12° momento del successivo Sentiero della meditazione (bhâvanamârga), entra in possesso del secondo frutto della vita religiosa. È destinato a rinascere una sola volta nella Sfera del desiderio (Kâmadhâtu), cui appartiene l'umanità.

 5) Anâgâmin, «non soggetto a rinascita», è colui che, avendo raggiunto il 18° momento del Sentiero di meditazione e avendo ottenuto il terzo frutto, è destinato a non rinascere più nella Sfera del desiderio, ma fra gli dèi della Sfera della forma (Rupadhâtu) e della non forma (Arupyadhâtu);

6) «Colui che ha ottenuto la concentrazione simile al diamante» (vajropamasamâdhi) è l'asceta che ha raggiunto il 161° momento del Sentiero di meditazione, durante il quale abbandona la nona e ultima categoria di passioni[xvii];

 7) Arhat è infine il santo che, entrando nel 162° momento e acquisendo il quarto frutto della vita religiosa, si assicura il possesso del nirvâna. L'orizzonte ultimo di questo gradino è il raccoglimento nella cessazione di idee e sensazioni (samjñâvedita­nirodhasamapâtti).

 Alla corrente mahâyânica – sorta contemporaneamente al cristianesimo – parve che il Santo theravâda coltivasse esclusivamente il troncamento delle passioni e la fuga dalla successione delle rinascite, come riassume E. Lamotte: «Il monaco (bhikshu) è santo, ma un santo senz'altra preoccupazione che la sua santificazione personale, […] coltiva le virtù passive della rinuncia, dell'atarassia, che sole conducono quaggiù alla santità e, al di là, alla soppressione del dolore, alla cessazione del samsâra, al nirvâna. Il bhikshu è un solitario»[xviii]. Questo è in fondo il senso stesso della critica che muoveranno al percorso theravâda di santità i testi della letteratura mahâyânica sulla Prajñâpâramitâ, che precisano: «Essi [gli Uditori] decidono che "un solo essere ammansiremo, [...] un solo unico essere condurremo fino al nirvâna". Un Bodhisattva non deve certamente addestrarsi in questo modo. Al contrario, così egli deve addestrarsi: "Il mio sé disporrò nella tathatâ[xix] e, affinché il mondo intero possa essere aiutato, tutti gli esseri avvierò alla tathatâ; al nirvâna condurrò l'intero incommensurabile mondo di tutti gli esseri»[xx].

Con parole meno filosofiche, ma non certo poco convincenti l'asceta e poeta tibetano Milarepa (XII secolo) dirà: «Ma se, dopo un sedimento, ci si è risollevati; se si desidera liberare dalla trasmigrazione tutte le creature, contrariamente al Piccolo Veicolo che ha la preoccupazione della tranquillità personale, si diventa Bodhisattva. Ho capito che il Grande Veicolo è sacrificarsi, a forza di pietà e di commiserazione, alla causa di tutte le altre creature»[xxi].

Secondo il Mahâyâna è vana dunque la pretesa del Santo theravâda di raggiungere il nirvâna: egli infatti si limita a sradicare soltanto gli ostacoli passionali (kleśâvarana), ma lascia intatti gli ostacoli conoscitivi (jñeyâvarana) – che il Bodhisattva invece realmente rimuoverà nel suo cammino verso l'onniscienza (sarvajñatva), animato dall'intento di donare la felicità a tutti gli esseri[xxii]. Per questo i sūtra mahâyânici dichiareranno che, più che il Santo che medita la sua personale liberazione, gli dèi amano il giovane Bodhisattva che si è appena votato al suo cammino di liberazione, perché sarà lui che darà nuova vita al gotra, ovvero alla stirpe dei Buddha[xxiii].

Il Bodhisattva mahâyânico. L'ideale del Bodhisattva[xxiv] non appartiene al buddhismo originario, ma è un apporto successivo, che data al I secolo della nostra era, quando una nuova corrente si presentò con l'insegna di Grande Veicolo e i suoi seguaci come «potenziali Bodhisattva»: l'Illuminazione, che secondo il buddhismo primitivo era un privilegio di pochi, ora diveniva alla portata di tutti i fedeli. Da ciò l'altro nome dato a questa corrente: Bodhisattvayâna o Veicolo dei Bodhisattva.

Ripercorriamo in breve la storia di questo nome. Nel buddhismo originario il termine bodhisattva era riservato solamente alle innumerevoli rinascite trascorse dal futuro Buddha, prima che abbracciasse la missione storica di Śâkyamuni. Nei sūtra canonici, nella letteratura dei Jâtaka e nelle principali biografie dell'Illuminato il termine bodhisattva qualificava pertanto solo le vite precedenti del Buddha storico e dei Buddha leggendari che lo avevano preceduto.

Nel canonico Buddhavamsa («Stirpe di Buddha») si trovano così enunciate le otto condizioni grazie alle quali il Bodhisattva può divenire Buddha: 1. deve nascere nella specie umana; 2. essere di sesso maschile; 3. essere capace di ottenere la santità; 4. aver pronunciato, in presenza di un Buddha (quale fu in una vita passata il Buddha Dipamkara per il futuro Gotamo), il voto di dedicarsi all'Illuminazione; 5. aver abbandonato il mondo; 6. possedere i cinque supersaperi[xxv]; voler sacrificare la propria vita per i Buddha; 8. nutrire l'energica decisione di divenire un Buddha[xxvi]. Nell'ottica theravâda tali condizioni non si presentavano pertanto come propensioni ottenibili da ogni essere umano, ma erano esclusivo patrimonio del Buddha storico. Analogamente la «predizione» che un Buddha rivolge a un futuro Illuminato, così come veniva esposta nel canonico Kathâvatthu («Testo relativo ai punti di controversia»), non affermava affatto l'innata vocazione di ogni essere all'Illuminazione[xxvii], bensì altro non era che la specifica predizione rivolta dal Buddha storico al Bodhisattva Maitreya[xxviii].

Per sentire per la prima volta lungo le vie battute dal buddhismo un messaggio di santità universale, accessibile a ogni essere umano, bisognerà attendere che si diffonda l'eco delle parole rivolte dall'Illuminato ai monaci sul Picco dell'Avvoltoio: «Voi diverrete Buddha»[xxix]. Da quel momento – un momento ontologico più che temporale – crebbe nei seguaci del Mahâyâna la certezza che ciascuno di essi, in quanto candidato al nirvâna, era incamminato sulla via dei Bodhisattva: era un potenziale «essere d'Illuminazione».

La tipologia di santità del Grande Veicolo si annuncia già al suo esordio come un ideale «dinamico» o, se si vuole, «evolutivo», che si svolge su uno scenario insieme umano e metastorico: tutt'altro che immutabilmente circoscritto a una «santità statica», acquisita una volta per tutte, il Bodhisattva è coinvolto in una crescita continua[xxx], che lo porta, di vita in vita, di gradino in gradino, a redimere se stesso redimendo i suoi fratelli, a ritornare in nuove e spesso volutamente infelici rinascite per prodigarsi nell'esercizio della compassione e del sacrificio come fossero vie parallele all'Illuminazione[xxxi]. Le vie maestre del sentiero bodhisattvico sono la saggezza e la compassione, che conducono da un lato all'onniscienza e dall'altro a quel supremo moto di carità che si concretizza nel continuo rinvio dell'entrata nel nirvâna completo, finché l'ultimo degli esseri viventi non sia stato salvato: ecco come la karunâ, la compassione, viene a coincidere con la saggezza dei santi.

Nella loro infinita opera di salvezza i Bodhisattva si rivelano pazienti, pronti ad attendere eoni su eoni prima di raggiungere il nirvâna. Sopprimendo negli esseri le contrapposte e false visioni dell'eternalismo e del nichilismo, essi li conducono al «Cammino di mezzo», quale si definisce la stessa Dottrina buddhista, spingendoli a produrre a loro volta il «pensiero d'Illuminazione» (bodhicitta), l'atto con cui ha inizio il sentiero mahâyânico della santità. Si legge infatti nei sūtra: «Costoro [i Bodhisattva], il cui seme è l'adesione (adhimukti) al più alto Veicolo, la cui madre è la Perfezione della Saggezza che genera il Dharma del Buddha, la cui matrice è il beato samâdhi, la cui nutrice si chiama Compassione, costoro sono i figli, i fratelli minori dei Buddha»[xxxii].

Ma vediamo come i testi mahâyânici descrivono le caratteristiche dei Bodhisattva e leggiamo la ricapitolazione che il Mahâyânasamgraha[xxxiii] fa delle dieci superiorità del Bodhisattva rispetto all'arhat:

 1. Il Bodhisattva opera sulle verità (dharma) del Grande Veicolo;

 2. Agisce in base a grandi cumuli di meriti e di saggezza;

 3. Percepisce l'insostanzialità (anâtman) del Sé e delle categorie mentali (dharma);

 4. Ottiene il nirvâna «instabile», che gli consente di non rifiutare la catena delle rinascite;

 5. Ascende lungo le dieci Terre spirituali (bhūmi), dove coltiva le sei perfezioni eroiche (pâramitâ), ovvero  dono (dânâ), moralità (śīla), pazienza (kshânti), energia (vīrya), meditazione (dhyâna), saggezza (prajñâ).

 6. Sopprime le contaminazioni passionali e purifica i campi buddhici (buddhakshetra), ovvero le regioni del cosmo in cui predica e agisce un Buddha;

 7. Non desiste dallo spingere gli esseri a maggiore evoluzione, in quanto ha acquisito il pensiero equanime (samacitta), che gli impedisce di fare differenze fra sé e gli altri;

 8. Nasce sempre nel lignaggio (gotra) del Tathâgata;

 9. È continuamente presente nelle assemblee che circondano il Buddha;

 10. Apporta incalcolabili frutti a beneficio di tutti gli esseri.

Con una semplicistica definizione si potrebbe dire che il Bodhisattva è cittadino di due mondi, quello terreno e quello cosmico o celeste: santo e angelo insieme. In base a questa distinzione la tradizione buddhista del Grande Veicolo ha concepito due tipi di Bodhisattva:

 1. I Bodhisattva che si incarnano in un corpo fisico e vivono come santi asceti. Tali furono i filosofi Nâgârjuna, Asanga, Vasubandhu, il poeta Śântideva (detto Bodhisattva Vinaya), Vimuktisena, il patriarca cinese Xuanzang. Appartiene potenzialmente a questa schiera ogni seguace del Mahâyâna, in particolare, il Bodhisattva novizio, ovvero colui che, concependo il primo pensiero d'Illuminazione, fa offerta di sé al Buddha, affinché l'Illuminazione riecheggi ininterrottamente sul piano terreno come felicità degli esseri. Questo primo tipo di Bodhisattva (fino alla sesta Terra spirituale) viene anche detto «a regressione» (vaivartika), nel senso che può regredire lungo il sentiero.

 2. I Bodhisattva celesti che, durante l'ascesa della settima Terra spirituale, abbandonano il corpo di carne e, per poter aiutare le creature, rivestono il corpo eterico della Legge e quindi vengono dotati della possibilità di assumere «corpi di metamorfosi» con cui possono giungere al piano fisico. Liberi da debiti karmici che li legano al corpo di trasmigrazione, questi Bodhisattva divengono esseri angelici disincarnati e sono denominati «Grandi Esseri» (mahâsattva). Questo secondo tipo di Bodhisattva è detto «senza regressione» (avaivartika): «I Bodhisattva senza ritorno sono detti "i veri Bodhisattva", perché lo sono veramente»[xxxiv] .

A questo secondo tipo di Bodhisattva la tradizione buddhista ha talora dato il nome di kalyânamitra, «amico spirituale»: sotto questa veste di benevolo protettore appare in sogno al principe Śântideva il Bodhisattva della Saggezza Mañjuśrī che lo esorta ad abdicare al trono e a votarsi allo spirito. In seguito a ciò Śântideva diverrà il più grande poeta e mistico indiano del Grande Veicolo. A proposito di questi Bodhisattva celesti si legge nella MPPS: «Non sono Bodhisattva dal corpo di carne (mâmsakâya), legati agli atti e situati nel triplice mondo (traidhâtuka). Essi hanno ottenuto la sovranità del Corpo della Legge e oltrepassato la vecchiaia, la malattia e la morte; per pietà verso gli esseri, essi risiedono negli universi, percorrono e adornano i campi buddhici e convertono gli esseri. Avendo ottenuto la sovranità, vogliono divenire Buddha e vi pervengono»[xxxv].

La tradizione del Grande Veicolo racchiude l'iter cosmico di santità del Bodhisattva fra due confini, quasi fossero l'alfa e l'omega della sua evoluzione: «Il Bodhisattva è così nominato per tre ragioni: possiede il grande voto[xxxvi], il suo pensiero è incrollabile e la sua energia è senza ritorno (avaivartika). […] Egli è detto Bodhisattva nell'intervallo di tempo che va dalla prima produzione di pensiero [d'Illuminazione] fino al nono abbandono [di passioni], quando entra nella concentrazione di diamante»[xxxvii].

La durata dell'iter bodhisattvico (caryâ) di santità. I testi più antichi, tra cui il Cariyâpiṭaka, l'Anguttaranikâya, il Milindapañha, cui si aggiunge la Jâtakamâlâ di Ârya Śūra, avevano dichiarato che al discepolo buddhista occorrevano quattro «periodi incalcolabili» (asamkhyeyakalpa) e centomila kalpa per ascendere lungo le tappe della santità theravâda, fino all'Illuminazione. Ma la letteratura buddhista svaluta la lunghezza apparentemente interminabile di questi eoni, precisando che un kalpa vissuto nell'infelice mondo Sahâ equivale a un giorno e una notte del paradiso Sukhâvatī, dove regna e predica il Buddha della Luce, Amitâbha[xxxviii].

Secondo il Grande Veicolo[xxxix] i «periodi incalcolabili»  durante i quali il Bodhisattva completa la propria evoluzione spirituale sono invece per lo più tre. Secondo l'Abhidharmakośa di Vasubandhu[xl] l'iter bodhisattvico comporta tre periodi incalcolabili, seguiti da cento kalpa supplementari. Nel primo periodo (che comprende gli stadi propedeutici alle Terre spirituali) il Bodhisattva non sa con certezza se diverrà Buddha; alla fine del secondo periodo (che comprende le Terre dalla prima alla settima) sa che lo diverrà, ma non osa proclamarlo; lo proclama nel terzo periodo (che va dall'ottava alla decima Terra), allorché emette il «ruggito di leone» del Bodhisattva e dichiara: «Io diverrò Buddha». Nei cento kalpa successivi compie gli atti che imprimono su di lui i segni fisici del Grande Essere[xli].

Secondo la corrente theravâda dei Mahâsanghika all'inizio del terzo periodo il Bodhisattva riceve, da parte di un Buddha, la «predizione» che egli raggiungerà il nirvâna, come successe a Śâkyamuni, quando in una vita precedente incontrò il suo 24° predecessore, il Buddha Dipamkara, e da lui ricevette l'assicurazione che sarebbe divenuto un Illuminato; stando invece al Sūtra del Diamante mahâyânico  la predizione segna l'inizio di tutto l'iter bodhisattvico[xlii].

Le dieci Terre spirituali secondo il Mahâyâna. Secondo la classificazione più diffusa (attestata dal Daśabhūmikasūtra) il cammino dei Bodhisattva procede lungo dieci Terre Spirituali, in cui vengono praticate le sei, o talora dieci Perfezioni, (o Virtù):

1. Gioiosa: è la Terra in cui il Bodhisattva concepisce il pensiero d'Illuminazione, formula i voti di consacrazione e realizza la Perfezione del dono.

2. Immacolata: il Bodhisattva conquista la Perfezione della moralità e rina­sce talora nei purgatori buddhisti per convertire i peccatori.

3. Luminosa: ottiene la Perfezione della pazienza e ottiene i cinque «supersaperi».

4. Sfolgorante: ottiene la Perfezione dell'eroismo o dell'energia.

5. Difficile da conquistare: ottiene la Perfezione della meditazione e di­viene predicatore.

6. Faccia a faccia: si chiama così perché il Bodhisattva si pone qui di fronte al nirvâna e al samsâra (ciclo delle rinascite); penetra la legge della coproduzione condizionata (pratityasamutpâda) e ottiene la Perfezione della saggezza.

7. Che va lontano: ottiene la Perfezione dell'abilità nei mezzi salvifici (upâya), ovvero dell'amore operante, e raggiunge il «nirvâna instabile».

8. Inamovibile: ottiene la Perfezione del potere che lo porta ad acqui­sire i dieci poteri buddhici e a raggiungere una partico­lare forma di ata­rassia grazie alla quale il mondo gli appare come già illuminato; purifica i campi buddhici.

9. Terra del bene: il Bodhisattva ottiene la Perfezione del voto e di­venta un grande ma­estro spirituale.

10. Nuvola della Dottrina: è la Terra più alta, in cui il Bodhisattva raggiunge la Perfezione della conoscenza e rina­sce nel cielo dei Tushita, dove si prepara alla sua ultima incarna­zione ter­rena. Il cielo dei Tushita è una regione celeste del Nord, appartenente, come la nostra Terra, alla Sfera del Desi­de­rio (Kamadhâtu); a essa i fedeli possono accedere soltanto con la medita­zione.

 

Conclusione. Un grande maestro spirituale del '900, Shrī Aurobindo, evoca con queste belle parole lo spirito di amore operativo, tipico del Bodhisattva:

 «La vita spirituale – e questa è realmente la sua missione – può in realtà trasformare la vita materiale a sua immagine, cioè secondo l'immagine del Divino. Per questo motivo, accanto ai grandi solitari che hanno cercato e raggiunto la liberazione personale, si incontrano i grandi maestri spirituali che hanno voluto liberare anche gli altri, e, più in alto di tutti, le grandi anime dinamiche che, sentendosi per la potenza dello Spirito più forti di tutte le forze della vita materiale congiunte, si son gettate sul mondo abbracciandolo in una lotta d'amore per costringerlo a consentire alla sua trasfigurazione»[xliii].

Sul piano dell'escatologia buddhista questa «lotta d'amore» assume tutta la sua rilevanza in un ben preciso momento storico, che la tradizione mahâyânica ha chiamato gli «ultimi tempi», i quali corrispondono ai quinti 500 anni della Dottrina, dunque all'epoca attuale. Nel Sūtra del Diamante il discepolo Subhūti pone un quesito al Buddha: «Ci saranno esseri nel periodo futuro, nell'ultimo tempo, nell'ultima epoca, negli ultimi 500 anni, al tempo del crollo della Buona Dottrina, i quali, una volta che saranno state insegnate queste parole del Sūtra, comprenderanno la verità?». Il Buddha rispose: «Sì, persino allora tali esseri ci saranno. Poiché persino in quel tempo, o Subhūti, ci saranno Bodhisattva dotati di buona condotta, dotati di qualità virtuose, dotati di sapienza e che, una volta che saranno state insegnate queste parole del Sūtra, ne comprenderanno la verità. […] Essi saranno tali da aver onorato molte centinaia di migliaia di Buddha. […] E tutti loro genereranno un incommensurabile e incalcolabile cumulo di merito»[xliv].

Caratteristica prima di tali Bodhisattva attivi negli «ultimi tempi» sarà l'«essere cresciuti come alberi», dissetandosi tanto nelle acque della conoscenza quanto in quelle della compassione. Che è poi il senso ultimo del duplice cammino evolutivo dell'iter bodhisattvico: coltivare l'educazione della mente come il buddhismo la insegna, attraverso la pratica meditativa dello śamatha (calma concentrata) e della vipaśyanâ (visione profonda), ma anche coltivare tutte le forme di compassione, fino all'upâya, la virtù dell'abilità nei mezzi salvifici di conversione ovvero la forza trasfiguratrice dell'amore, che il Bodhisattva acquisisce nella settima Terra spirituale. Perciò è detto nell'Insegnamento di Vimalakīrti: «Dei puri Bodhisattva la madre è la Perfezione della Saggezza e il padre è l'Abilità nei mezzi salvifici: le Guide del mondo crescono da tali genitori»[xlv].

Fino all'inizio dell'era volgare l'umanità aveva prevalentemente concepito due tipologie di santità e di perfezionamento spirituale[xlvi].

Le civiltà semitiche avevano prodotto l'ideale del nabi, del profeta, o dello shaddiq ebreo, dell'uomo giusto[xlvii], che vive della sua fede, secondo l'espressione di Abacuc (2,4), ma  anche del «giusto che soffre», secondo la composizione Ludlul bēl nemēqi, una lamentazione spesso presentata come «il Giobbe babilonese». Il profeta è per antonomasia colui che ascolta la voce di Dio, colui che è chiamato ad agire secondo il nomos, la Legge, a operare in ubbidienza della Rivelazione per amore del Dio unico, creatore e salvatore.

Le civiltà di origine indeuropea, da quella greca a quella indiana, avevano invece prodotto un ideale di santità fortemente connesso al cammino speculativo, fatto di saggezza e di intuizione: erano nati così il sòphos (saggio) greco e lo rshi (veggente) vedico, o in senso lato l'ideale dell'iniziato (mystes) che si attiene all'aurea regola «Conosci te stesso»: «L'uomo saggio è l'iniziato, chiamato a contemplare i misteri del vero», riassumeva Werner Jaeger[xlviii]. Potremmo perciò dire che il saggio è soprattutto colui che vede i misteri dei mondi spirituali.

Dall'inizio dell'era volgare la civiltà umana ha intrapreso un secolare cammino di integrazione e di convergenza fra i due ideali di santità appena ricordati, a favore di un nuovo ideale di salvezza, che nel bacino del Mediterraneo si espresse in singolar modo nel theòlogos greco-bizantino (da Origene a Massimo il Confessore), il quale fonde in sé sophia e agape, la saggezza e l'amore, mentre sulle rive del Gange e poi sulla Via della Seta, fino al Giappone prese il nome di Bodhisattva.

Sarebbe difficile trovare una motivazione metastorica di un tale parallelismo. Di certo, in questo ambito, le filosofie buddhiste non ci soccorrono, parche come sono di una filosofia della storia, benché favorevoli a riconoscere che «anche il Cristo era un Bodhisattva», come ha più volte dichiarato l'attuale Dalai Lama.

Proviamo allora a considerare le cose dalla prospettiva cristologica: il Cristo, Signore del tempo, ha diviso in due il corso della storia, aprendo all'umanità una nuova via di salvezza, la via dell'amore come più alta forma di conoscenza. Quando l'eco del Logos è risuonata in Oriente, la si è sentita sul Picco dell'Avvoltoio, dove ha parlato per bocca del Tathâgata, o meglio del suo Corpo bodhisattvico, quel corpo mistico del Buddha cosmico che la corrente idealistica yogâcâra chiamò sambhogakâya, Corpo di Beatitudine.

Da allora le convergenze fra buddhismo e cristianesimo hanno di secolo in secolo trovato ulteriori conferme proprio nella cerchia delle filosofie mahâyâniche che maggiormente hanno teorizzato la dottrina dei Bodhisattva.

 1. La scuola Madhyamaka fondata da Nâgârjuna (II secolo d.C.) è parallela - per conte­nuti, anche se non proprio per cronologia - alla scuola cristiana orien­tale di Dionigi l'Areo­pagita, il fondatore della teologia negativa o apo­fatica e pre­cursore del misticismo cristiano[xlix]. Nâgârjuna negò, oltre alla realtà del Sé (âtman), anche quella dei dharma, per affermare che la natura del pensare è im­perso­nale, vuota (śūnya) e che il pensiero è «vuoto di sé», non ha una propria realtà sostanziale. Non diversamente, Dionigi affermava il carattere sovressenziale del pensiero (noûs) e la natura prettamente noetica delle Intelligenze angeliche. La leggenda vuole che Nâgârjuna fosse ispirato da Mañjuśrī, il Bodhisattva celeste della conoscenza, fortemente affine sul piano simbologico e iconografico all'arcangelo Michele.

2. La scuola idealistica Yogâcâra, fondata nel IV secolo d.C. dai fratelli Asanga e Vasubandhu, ispirati, secondo la tradizione, dal Bodhi­sattva Maitreya, è assimilabile invece alla coeva Patristica greca dei grandi Cappadoci. Come lo Yogâcâra speculò infatti sulla natura dei tre Corpi buddhici (trikâya), così la Patristica dell'età dell'oro speculò sulle due nature del Cristo[l].



[i] L’antica Rājagrha si identifica oggi con il villaggio di Rājgir, nel distretto di Patnā, sito nel Bihar meridionale.

[ii] Aśvaghosha, Le gesta del Buddha, trad. di A. Passi, Milano 1979, p.121.

[iii] Cfr. A. Foucher, La vie du Bouddha, Paris 1949, p.257.

[iv] S. Beal (a cura di), Si-Yu-Ki: Buddhist Records of the Western World, New York 1968, p. 100; Hoëli et Yen-thsong, Histoire de la vie de Hiuoen-thsang et de ses voyages dans l'Inde, trad. di S. Julien, Paris 1853, vol. I, pp. 160 sgg.

[v] Cfr. Le Traité de la Grande Vertu de Sagesse de Nāgārjuna – Mahāprajñāpāramitāśāstra (abbreviato MPPS), trad. di E. Lamotte, Louvain 1981, vol. I, cap. XV.

[vi] Fra questi, i primi cinque discepoli, poi Mahākāśyapa, Śāriputra, Maudgalyāyana, Subhūti, Ānanda e Rāhula, figlio del Buddha.

[vii] Saddharmapundarīkasūtra, incipit; cfr. Sutra del loto, trad. di L. Meazza, Milano 2001, pp. 43 sgg. Per l'identità degli esseri favolosi citati in questa scena rimando al glossario da me curato in Śāntideva, Il cammino dei Bodhisattva, Edilibri, Milano 2004.

[viii] Per una concisa rassegna delle biografie del Buddha si veda la mia prefazione a La vita di Buddha nei testi del canone pali (a cura di V. Cucchi), Xenia, Milano 1994.

[ix] Si tratta del monaco del Piccolo Veicolo o Hinayāna, precedente al Grande Veicolo o Mahāyāna.

[x]  Canone buddhistico, L'orma della Disciplina (Dhammapada), a cura di E. Frola, Torino 1968, strofa 182.

[xi] A. Pezzali, Śāntideva e il Bodhicaryāvatāra, Bologna 1982,  IV, 20, p. 90.

[xii] Cfr. anche MPPS, I, p. 575.

[xiii] Le «cinque corruzioni» consistono nella degenerazione dei tempi (kalpa), delle opinioni, delle passioni, della durata della vita, degli esseri senzienti, sempre più afflitti da difetti fisici. Cfr. P. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Milano 2003, p. 128.

[xiv] Agli esseri legati al Piccolo Veicolo.

[xv] L'insegnamento di Vimalakīrti, trad. di R. Gnoli, in La rivelazione del Buddha, vol. II, Milano 2004, pp. 507, 511. I kalpa sono gli eoni.

[xvi] Cit. in D.T. Suzuki, Essais sur le Bouddhisme Zen, Paris 1972, vol. III, p. 157.

[xvii] Cfr. MPPS, vol. I, p. 242.

[xviii] Lo spirito del buddhismo antico, Venezia-Roma 1960, p. 36.

[xix] Letteralmente: Realtà così com'è.

[xx] The Perfection of Wisdom in Eight Thousand Lines and its Verse Summary, a cura di E. Conze, Bolinas 1973, p.163.

[xxi] Vita di Milarepa, trad. di J. Bacot, Milano 1975, p. 96.

[xxii] Mahāyānasamgraha – La Somme du Grand Véhicule d'Asanga, trad. di E. Lamotte, vol. II, Louvain 1973, p. 6.

[xxiii] Kaśyapaparivarta in A Treasury of Mahāyāna Sūtras, Selections from the Mahāratnakūta Sūtra, a cura di Garma C.C. Chang, Delhi 1983, p. 398.

[xxiv] Questo termine sanscrito, secondo la più comune etimologia, significa «essere vivente destinato a ottenere la completa Illuminazione», oppure indica l'essere la cui «intenzione è l'Illuminazione». Cfr. Y. Kajiyama, «On the meanings of the words bodhisattva and mahāsattva in Prajñāpāramitā literature» in Indological and Buddhists Studies, Delhi 1982, pp. 253-254.

[xxv] Le cinque abhijñā sono: poteri magici, chiaroveggenza, chiaru­dien­za, conoscenza del pensiero altrui, ricordo delle esistenze anteriori.

[xxvi] Buddhavamsa, II, 59, cit. in E. J. Thomas, The History of Buddhist Thought, London 1963, pp, 171-172.

[xxvii] A quest'innata vocazione alla bodhi nel corso della letteratura mahāyānica (Ratnagotravibhāga, Mahāparinirvānasūtra, Śrīmālāsimhanādasūtra ecc.) verrà dato il nome di tathāgatagarbha, «embrione del Tathāgata».

[xxviii] E. J. Thomas, op. cit., p. 172.

[xxix] Saddharmapundarīkasūtra, II, 50; V, 44.

[xxx] Saddharmapundarīkasūtra, V, 40: «I numerosi Bodhisattva che, attenti e risoluti, hanno compreso l'intero triplice mondo alla ricerca dell'eccelso risveglio sono come alberi dalla crescita costante». Questa scalata spirituale (indubbiamente connessa all'ascesa delle Terre spirituali) non pare tuttavia slegata da una certa scalata sociale, visto che in Cina dopo la dinastia Han (221-589) «le masse si sentirono molto attratte dall'ideale del Bodhisattva che apriva ogni possibilità anche alle categorie più basse della gerarchia sociale» (E. Conze, Breve storia del buddhismo, Milano 1985, p. 110).

[xxxi] In ambito occidentale la figura più prossima a quella bodhisattvica è il «servo sofferente» evocaato dal profeta Isaia: «Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (53, 3-5). La tradizione ebraica ha sempre visto in questa figura biblica una metafora dello stesso popolo d'Israele, mentre la tradizione cristiana vi ha visto il preannuncio del Cristo (Mt 8, 17). Quanto poi al confronto tra l'ideale del Bodhisattva e il Cristo si rimanda agli atti del simposio svoltosi nel college di Middlebury (N.Y.) il 27-30 settembre 1984: The Christ and the Bodhisattva, a cura di D. S. Lopez jr e S. C. Rockefeller, New York 1987.

[xxxii] J. Takasaki, A Study on the Ratnagotravibhāga (Uttaratantra), Roma 1966, p. 29, v. 34.

[xxxiii] Mahāyānasamgraha, cit., III, pp. 171-173.

[xxxiv] MPPS, vol. I, p. 243.

[xxxv] MPPS, vol. I, p. 392. I tre mondi concepiti dalla cosmologia buddhista sono: Sfera del desiderio, che ingloba umani, animali, anime bramose di rinascita, deva (angeli), asura (demoni); Sfera della forma, in cui dimorano più alte entità celesti; Sfera della non forma, che ha dimore invisibili.

[xxxvi] Si tratta del voto di raggiungere il nirvāna, che accompagna la prima concezione del pensiero d'Illuminazione (bodhicitta): in seguito a ciò il Bodhisattva accede alla prima Terra spirituale.

[xxxvii] MPPS, vol. I, p. 242.

[xxxviii] La speranza di rinascere nella Sukhāvatī, o Paradiso d'Occidente, e l'altruismo incarnato dai Bodhisattva sono talmente diffusi nella religiosità cinese che, ai tempi di Mao Zedong, essi furono utilizzati dal Partito comunista come spinte ideali per la realizzazione del piano quinquennale, al fine di «portare su questa terra il Paradiso d'Occidente». «In forza di questa interpretazione i buddisti cinesi erano chiamati, come tutti gli altri cittadini non buddisti, a dare il proprio contributo al compimento del piano economico cinese: il lavoro produttivo altro non era se non l'adempimento del voto del Bodhisattva […], infatti la condotta del Bodhisattva consiste nell'essere buono con tutti gli esseri viventi […]. In tal modo, per così dire, il circolo si chiudeva, poiché nessun Bodhisattva può raggiungere l'Illuminazione totale senza aiutare gli altri esseri viventi. Ne conseguiva, con logica dialettica, che l'Illuminazione non poteva essere ottenuta isolatamente dalle masse lavoratrici» (H. BrÄker, Il buddismo in Unione Sovietica: annientamento o sopravvivenza?, in «Russia cristiana», n. 214, p. 136).

[xxxix] Cfr. E. Lamotte, Histoire du Bouddhisme indien, des origines à l'ère Śaka, Louvain 1958, pp. 693-694.

[xl] Abhidharmakośa de Vasubandhu, a cura di L. de La Vallée Poussin, Paris 1923-1931, IV, pp. 220 sgg. Vasubandhu era il fratello del filosofo mahāyānico Asanga; fu dapprima un pensatore theravāda (della corrente sautrantika), poi si convertì al Grande Veicolo.

[xli] MPPS, I, p. 249; Abhidharmakośa de Vasubandhu, cit., IV, 224.

[xlii] Sūtra del Diamante, paragrafo 17b. Cfr. MPPS, I, p. 249.

[xliii] La sintesi dello Yoga, vol. I, Roma 1967, p.32.

[xliv] Op. cit., paragrafo 6. Cfr. E. Conze, I libri buddhisti della sapienza, Roma 1976, pp. 25-26. La nozione di «ultimi tempi» ritorna nel Sūtra del Loto e di conseguenza viene enfatizzata nella corrente buddhista giapponese della Terra Pura, che si rifà principalmente a questo sūtra maahāyānico: Hōnen Shōnin (1133-1212), Shinran Shōnin (1173-1262) e Nichiren (1222-1282) si fecero alfieri della concezione dell'epoca finale (mappō-jidai) e ritennero che essa fosse iniziata già ai loro tempi. Cfr. L. S. Kawamura (a cura di), The Bodhisattva Doctrine in Buddhism, Calgary 1981, pp. 166-167.

[xlv] Op. cit., VII, 6, p. 491.

[xlvi] Ho considerato in breve queste tipologie anche nella mia antologia I grandi temi della mistica ebraica, EDB, Bologna 2003, pp. 172-174.

[xlvii] Su questo ideale si veda: A. Neher, L'essenza del profetismo, Casale Monferrato 1984; J. Krašovec, La justice (zdq) de Dieu dans la Bible hébraïque et l'intereprétation juive et chrétienne, Göttingen 1988.

[xlviii] Paideia. La formazione dell'uomo greco, Firenze 1936, p. 281.

[xlix] Cfr. Dionigi l'Areopagita, Gerarchie celesti, trad. di G. Burrini, Tilopa, Roma 1983.

[l] Cfr. A. Gallerano Burrini, «Il bodhicittotpāda e lo svincolamento dal karman», in «Annali dell'I. U.O.», 1985, 45, p.163.

 

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