LA SANTITA' BUDDHISTA
dall'arhat del Piccolo Veicolo all'odissea cosmica dei Bodhisattva
Gli antichi
Indiani mancavano di quel «senso della storia» che è orgoglio e cruccio della
civiltà moderna, per converso possedevano un «senso dello spazio»
particolarmente spiccato: lo dimostrano al meglio i sūtra canonici,
le originarie scritture buddhiste redatte più di duemila anni fa, nelle quali
ogni predicazione del Buddha si apre con la puntuale designazione dell'ambiente
geografico in cui l'evento si svolge.
«Evam
mayâ śrutam: ekasmin samaye…»,
«Così da me fu udito, una volta…»: sono le parole con cui iniziano molti sūtra.
L'incipit sacro – che lungo la
storia del buddhismo ha assunto quasi la forza di un mantra – ci dischiude ogni volta la visione su un preciso
paesaggio, che può essere il parco delle gazzelle, presso Benares, o il
boschetto di Jeta, presso Śrâvastī, le rive del fiume Nerañjarâ o
le alture che circondavano Râjagrha[i],
la capitale del Magadha. Diversamente dai sūtra canonici, nelle
scritture del Grande Veicolo (Mahâyâna), la corrente buddhista sorta
agli inizi dell'era volgare, i contorni fisici del paesaggio presto sfumano,
trasfigurandosi nelle linee e nei colori di una «geografia dell'anima»: i
vegetali della terra si trasformano in esseri carichi di mito, nei paradisiaci
alberi mandâra, nei fantastici fiori udumbara,
lo spazio terreno apre l'adito a un più ampio spazio celeste, in cui
affluiscono gli esseri favolosi della natura e degli elementi (nâga, kimnara,
gandharva, asura, garuda), mentre dalle opposte direzioni del cosmo giungono
innumerevoli Bodhisattva. Perfino l'Illuminato va incontro a una
trasfigurazione.
Ecco, seguiamo il Beato, mentre lascia
Râjagrha, «splendida per i suoi palazzi», come scriverà il poeta Aśvaghosha[ii],
«contrassegnata da cinque alture, ben difesa e adornata da montagne,
innalzata e purificata da fauste acque termali»: Râjagrha, la città nella
quale la tradizione ha visto una delle sante dimore (âryavihâra), in
cui il Buddha risiedette per esercitare la sua predicazione, la sua
compassionevole opera verso gli esseri. Ora il Beato si avvia a nord-est della
capitale, verso il Picco dell'Avvoltoio (Grdhrakūtaparvata), la più alta
delle cinque montagne, così denominata perché vi si levavano gli avvoltoi per
dirigersi a sud della città, verso lo Śītavana, che era il cimitero
di Kuśâgra, la città vecchia, sede di un'altra antica capitale del
Magadha. Su questa cima, ricca di grotte e di caverne, si ritiravano un tempo
gli asceti indiani; sul Picco dell'Avvoltoio il re Bimbisâra, protettore e
amico del Buddha, inviò gli 80.000 podestà del Magadha, da lui convocati,
perché ascoltassero gli insegnamenti del Sublime[iii].
«Questa montagna», scriverà nel VII secolo d. C. il pellegrino cinese
Xuanzang nella sua relazione di viaggio, «offre fresche fonti, rocce
straordinarie e alberi ricoperti del più ricco fogliame. Quando il Buddha era
su questa terra, dimorava spesso su questa montagna e fu là che insegnò ai
discepoli il Sūtra del loto, la Perfezione della Saggezza e
numerosi altri sūtra»[iv].
A voler
seguire ancora l'immaginazione, man mano che la figura dell'Illuminato incede
sul crinale del Picco dell'Avvoltoio, la vediamo perdere le sembianze di Śâkyamuni,
il monaco mendicante della stirpe degli Śâkya, o del Buddho Gotamo
descritto nei testi pâli e a cui si lega la memoria del «Sermone di Benares»,
per assumere un nuovo aspetto: quello del Tathâgata, il Buddha eterno o
cosmico, destinato a restare per sempre sul Picco dell'Avvoltoio nell'intento di
promulgare il Dharma, la Dottrina. Per adorarlo e prosternarsi davanti a lui,
mentre predica i sūtra del Grande Veicolo, accorrono sul Picco
innumerevoli Bodhisattva, provenienti dalle dieci regioni dello spazio, dai
lontani «campi buddhici» dei Tathâgata celesti
[v].
Un policromo
affresco della scena che abbiamo evocato con rapide pennellate si può ammirare
nel prologo del Sūtra del loto, che recita:
«Così
ho udito. Una volta il Signore risiedeva a Râjagrha, sul Picco dell'Avvoltoio,
circondato da una numerosa assemblea di monaci, 1200 monaci, tutti arhat,
senza macchia, esenti da passioni, dotati di autocontrollo, completamente liberi
nel pensiero e nella conoscenza, di nobile stirpe, come grandi elefanti che
abbiano eseguito il loro lavoro, compiuto il proprio dovere, assolto il proprio
compito, raggiunta la meta; i legami che avvincono all'esistenza erano in loro
completamente distrutti, le loro menti erano del tutto destate alla perfetta
conoscenza; essi avevano conseguito la suprema perfezione nel soggiogare tutti i
loro pensieri e possedevano le facoltà supreme (abhijñâ).
C'erano eminenti discepoli[vi];
[…]
inoltre 80mila Bodhisattva senza-ritorno (avaivartika), dotati del
prodigio della suprema e perfetta Illuminazione, in possesso di formule magiche
e di una grande eloquenza; intenti a girare l'irreversibile Ruota della
Dottrina; che avevano servito centinaia di migliaia di Buddha; che sotto molte
centinaia di migliaia di Buddha avevano piantato radici di merito, erano stati
in intimità con molte centinaia di migliaia di Buddha; erano nel corpo e nella
mente pienamente compenetrati del sentimento della compassione; abili nel
comunicare la saggezza dei Tathâgata; molto saggi, in quanto avevano raggiunto
la Perfezione della saggezza (prajñâpâramitâ);
rinomati in molte centinaia di migliaia di mondi; salvatori di molte centinaia
di migliaia di miriadi di koṭi di esseri. Tali erano il principe
reale Mañjuśrī, i Bodhisattva Mahâsattva Avalokiteśvara,
Bhaishajyarâja, Maitreya [eccetera]. [...]
Vi era inoltre Śakra, il re degli dèi, […] vi erano i
quattro Mahârâja
[…], il dio Īśvara […], Brahmâ Sahâpati […], gli
otto nâga
[…],
i quattro kimnara,
[…]
i quattro dèi dal corpo di gandharva […], i quattro prìncipi degli asura,
[…]
i quattro prìncipi dei garuda […]. In quel momento il Beato entrò
nella concentrazione detta Stazione dell'Istruzione Infinita e rimase con il
corpo e la mente immobili. Non appena il Beato si trovò in quello stato, iniziò
a cadere una fitta pioggia di fiori divini […]. Il campo buddhico (buddhakshetra)
tremò…»[vii].
La
storia del Mahâyâna trasse il suo primo e fondamentale impulso dalle
proporzioni trascendenti (lokottara) ed eterne attribuite alla figura del
Buddha. Non si trattò di divinizzazione, perché già nei testi canonici il
Beato veniva additato come un essere più divino che umano (com'è consono
peraltro alla mentalità indiana che nel jīvanmukta,
nel «liberato vivente», ha sempre visto un essere più celeste che terreno);
si trattò invece di una vera e propria cosmicizzazione, che si realizzò
attraverso una serie di tappe parallele – nelle arti figurative, nel genere
biografico e nella speculazione teologica, che in queste pagine non è il caso
di ripercorrere[viii].
Su che cosa
verte il messaggio del Tathâgata eterno attorniato da infiniti Bodhisattva nel
cielo del Picco dell'Avvoltoio? Sulla trasfigurazione finale, in senso pressoché
escatologico, della dimensione terrena e del nostro stesso mondo, il Sahâloka.
Si è soliti
udire che il buddhismo svaluta la condizione umana, a favore della liberazione
dal ciclo nascita-morte-rinascita (samsâra). Ma ciò è soltanto una
semplificazione occidentale. Per la verità, già nel canonico Dhammapada – le livre de chevet dell'asceta theravâda[ix]
– si legge: «Difficile da ottenere è la sorte umana, difficile la vita ai
mortali, difficile udire la Disciplina, difficile il sorgere di uno Svegliato»[x].
Quanto al Mahâyâna l'idea di preziosità della vita umana e dell'incarnazione
terrena – l'unica in cui si possa meritare il raro privilegio di incontrare un
Buddha e, di conseguenza, l'unica in cui sia possibile acquisire l'Illuminazione
– riecheggia in tutta la sua letteratura, tanto che ancora nel VII secolo d.C.
il mistico poeta Śântideva scriverà: «Il Venerabile ha detto:
"La condizione umana è così difficile da ottenere, come l'inserimento del
collo di una tartaruga nell'apertura di un laccio galleggiante sull'oceano"»[xi].
L'alta considerazione del Buddha per la condizione umana e, più in generale,
per la dimensione terrena, è in special modo attestata dall'Insegnamento di
Vimalakīrti, che riporta le parole pronunciate dai Bodhisattva dello
spazio nei riguardi del nostro mondo Sahâ[xii]
– ritenuto infelice perché contaminato dalla triplice macchia del dolore,
della malattia e della morte:
«Se partendo di qui in direzione del
nadir si attraversano tanti campi di Buddha quanti sono i granelli di sabbia di
quarantadue Gangi, ci si imbatte nell'universo Sahâ. Colà si trova, vive ed
esiste adesso il beato Tathâgata Śâkyamuni, santo e perfettamente
risvegliato, il quale, in questo universo dalle cinque corruzioni[xiii],
predica la Legge a esseri dalle vili aspirazioni[xiv].
Colà predica la Legge ai Bodhisattva dell'universo Sahâ anche il bodhisattva
Vimalakīrti, stabilito nella dottrina della liberazione inconcepibile. […] [Interrogato]
Vimalakīrti rispose dicendo: "Signori, questi esseri [dell'universo Sahâ] sono difficili da convertire; a
questi esseri difficili da convertire Śâkyamuni rivolge discorsi propri a
convertire esseri ribelli e difficili da convertire". […] I Bodhisattva dissero: "La
grandezza di Śâkyamuni è stabilita e il modo in cui converte gli umili, i
poveri e gli esseri ribelli è meraviglioso. E i Bodhisattva che si sono
stabiliti in questo miserabile campo di Buddha hanno una compassione
inconcepibile". Allora Vimalakīrti disse: "Signori, è
esattamente come voi dite. I Bodhisattva qui nati hanno una saldissima
compassione. In questo universo essi fanno, in una sola esistenza, assai più di
bene di quanto voi non ne facciate nell'universo Sarvagandasugandhâ durante
centomila kalpa"»[xv].
Alla luce di
queste verità, l'ecumene buddhista, dall'India al Giappone, ha visto nel Picco
dell'Avvoltoio il luogo eterno, la dimora per eccellenza del Tathâgata
circondato dai Bodhisattva, il luogo in cui si compie l'agire cosmico di quel
particolare Corpo buddhico – il Corpo di Beatitudine (sambhogakâya)
– che abbraccia Tathâgata e Bodhisattva in un'unica comunità ideale, un
Sangha spirituale. Ma con la metafora di questo luogo mistico si è inteso
esprimere anche l'eternità della Dottrina quale si preserva pur nelle asperità
del nostro triste mondo Sahâ, la continuità dei Buddha e dei Bodhisattva e la
certezza della futura venuta del Buddha Maitreya, destinato a rivelarsi su una
cima contigua al Picco dell'Avvoltoio. Un detto zen racchiude in una breve
immagine il senso delle nostre parole: «L'assemblea dei Bodhisattva che
ascolta le parole del Buddha sul sacro Picco dell'Avvoltoio non si è mai
sciolta: è sempre riunita e le parole riecheggiano ancora sulla montagna»[xvi].
L'Arhat
theravâda. Prima
che il Mahâyâna, sulla scia della cosmicizzazione del Buddha, elaborasse il
complesso percorso cosmico e spirituale dei Bodhisattva, quale è descritto in
molti sūtra e trattati del Grande Veicolo, uno solo era l'ideale di
santità del buddhismo del Piccolo Veicolo: l'arhat, il grado di «santo»
cui aspirava l'uditore (śrâvaka).
Giungeva alla condizione di arhat il monaco theravâda che perseguiva
l'Ottuplice Sentiero e viveva nella vigilante attenzione meditativa. Memore dei
sermoni sull'impermanenza del mondo raccolti dalla viva voce del Beato, il
monaco meditava per ottenere la consapevolezza (smrti): il suo codice morale era non nuocere ad alcuno, la sua
disciplina era purificare la mente con la concentrazione, la sua saggezza era
comprendere che la realtà è caduca, dolorosa e impersonale.
Le scuole theravâda avevano ripartito
in sette gradi il cammino dell'asceta buddhista verso la santità:
1) Ârya è l'asceta che ha
raggiunto la determinazione (niyâma)
verso il nirvâna in quanto ha concepito il primo pensiero del Sentiero
di visione (darśanamârga);
2)
«Colui che ha visto le Quattro Nobili Verità» è l'asceta che ha raggiunto il
15° pensiero del Sentiero di visione;
3)
Srotaâpanna, «entrato nella corrente», è l'asceta che, avendo
concepito il 16° pensiero del Sentiero di visione, ha ottenuto il primo frutto
della vita religiosa, nel senso che è divenuto
monaco. È pertanto destinato a ottenere l'Illuminazione dopo sette
rinascite;
4)
Sakrdâgâmin, «legato a una sola nascita», è l'asceta che, giunto al
12° momento del successivo Sentiero della meditazione (bhâvanamârga),
entra in possesso del secondo frutto della vita religiosa. È destinato a
rinascere una sola volta nella Sfera del desiderio (Kâmadhâtu), cui appartiene
l'umanità.
5)
Anâgâmin, «non soggetto a rinascita», è colui che, avendo raggiunto
il 18° momento del Sentiero di meditazione e avendo ottenuto il terzo frutto,
è destinato a non rinascere più nella Sfera del desiderio, ma fra gli dèi
della Sfera della forma (Rupadhâtu) e della non forma (Arupyadhâtu);
6) «Colui che ha ottenuto la
concentrazione simile al diamante» (vajropamasamâdhi)
è l'asceta che ha raggiunto il 161° momento del Sentiero di meditazione,
durante il quale abbandona la nona e ultima categoria di passioni[xvii];
7)
Arhat è infine il santo che, entrando nel 162° momento e acquisendo il
quarto frutto della vita religiosa, si assicura il possesso del nirvâna.
L'orizzonte ultimo di questo gradino è il raccoglimento nella cessazione di
idee e sensazioni (samjñâveditanirodhasamapâtti).
Alla
corrente mahâyânica – sorta contemporaneamente al cristianesimo – parve
che il Santo theravâda coltivasse esclusivamente il troncamento delle passioni
e la fuga dalla successione delle rinascite, come riassume E. Lamotte: «Il
monaco (bhikshu) è santo, ma un santo senz'altra preoccupazione che la
sua santificazione personale, […] coltiva le virtù passive
della rinuncia, dell'atarassia, che sole conducono quaggiù alla santità e, al
di là, alla soppressione del dolore, alla cessazione del samsâra, al nirvâna.
Il bhikshu è un solitario»[xviii].
Questo è in fondo il senso stesso della critica che muoveranno al percorso
theravâda di santità i testi della letteratura mahâyânica sulla Prajñâpâramitâ,
che precisano: «Essi [gli
Uditori] decidono che "un solo essere ammansiremo, [...] un
solo unico essere condurremo fino al nirvâna". Un
Bodhisattva non deve certamente addestrarsi in questo modo. Al contrario, così
egli deve addestrarsi: "Il mio sé disporrò nella tathatâ[xix]
e, affinché il mondo intero possa essere aiutato, tutti gli esseri avvierò
alla tathatâ; al nirvâna condurrò l'intero incommensurabile
mondo di tutti gli esseri»[xx].
Con parole
meno filosofiche, ma non certo poco convincenti l'asceta e poeta tibetano
Milarepa (XII secolo) dirà: «Ma se, dopo un sedimento, ci si è
risollevati; se si desidera liberare dalla trasmigrazione tutte le creature,
contrariamente al Piccolo Veicolo che ha la preoccupazione della tranquillità
personale, si diventa Bodhisattva. Ho capito che il Grande Veicolo è
sacrificarsi, a forza di pietà e di commiserazione, alla causa di tutte le
altre creature»[xxi].
Secondo il
Mahâyâna è vana dunque la pretesa del Santo theravâda di raggiungere il nirvâna:
egli infatti si limita a sradicare soltanto gli ostacoli passionali (kleśâvarana),
ma lascia intatti gli ostacoli conoscitivi (jñeyâvarana)
– che il Bodhisattva invece realmente rimuoverà nel suo cammino verso
l'onniscienza (sarvajñatva), animato
dall'intento di donare la felicità a tutti gli esseri[xxii].
Per questo i sūtra mahâyânici dichiareranno che, più che il Santo
che medita la sua personale liberazione, gli dèi amano il giovane Bodhisattva
che si è appena votato al suo cammino di liberazione, perché sarà lui che darà
nuova vita al gotra, ovvero alla stirpe dei Buddha[xxiii].
Il
Bodhisattva
mahâyânico.
L'ideale del Bodhisattva[xxiv]
non appartiene al buddhismo originario, ma è un apporto successivo, che data al
I secolo della nostra era, quando una nuova corrente si presentò con l'insegna
di Grande Veicolo e i suoi seguaci come «potenziali Bodhisattva»:
l'Illuminazione, che secondo il buddhismo primitivo era un privilegio di pochi,
ora diveniva alla portata di tutti i fedeli. Da ciò l'altro nome dato a questa
corrente: Bodhisattvayâna o Veicolo
dei Bodhisattva.
Ripercorriamo in breve la storia di
questo nome. Nel buddhismo originario il termine bodhisattva era
riservato solamente alle innumerevoli rinascite trascorse dal futuro Buddha,
prima che abbracciasse la missione storica di Śâkyamuni. Nei sūtra
canonici, nella letteratura dei Jâtaka e nelle principali biografie
dell'Illuminato il termine bodhisattva qualificava pertanto solo le vite
precedenti del Buddha storico e dei Buddha leggendari che lo avevano preceduto.
Nel canonico Buddhavamsa
(«Stirpe di Buddha») si trovano così enunciate le otto condizioni grazie alle
quali il Bodhisattva può divenire Buddha: 1. deve nascere nella specie umana;
2. essere di sesso maschile; 3. essere capace di ottenere la santità; 4. aver
pronunciato, in presenza di un Buddha (quale fu in una vita passata il Buddha
Dipamkara per il futuro Gotamo), il voto di dedicarsi all'Illuminazione; 5. aver
abbandonato il mondo; 6. possedere i cinque supersaperi[xxv];
voler sacrificare la propria vita per i Buddha; 8. nutrire l'energica decisione
di divenire un Buddha[xxvi].
Nell'ottica theravâda tali condizioni non si presentavano pertanto come
propensioni ottenibili da ogni essere umano, ma erano esclusivo patrimonio del
Buddha storico. Analogamente la «predizione» che un Buddha rivolge a un futuro
Illuminato, così come veniva esposta nel canonico Kathâvatthu («Testo relativo ai punti di controversia»), non
affermava affatto l'innata vocazione di ogni essere all'Illuminazione[xxvii],
bensì altro non era che la specifica predizione rivolta dal Buddha storico al
Bodhisattva Maitreya[xxviii].
Per sentire per la prima volta lungo le
vie battute dal buddhismo un messaggio di santità universale, accessibile a
ogni essere umano, bisognerà attendere che si diffonda l'eco delle parole
rivolte dall'Illuminato ai monaci sul Picco dell'Avvoltoio: «Voi diverrete
Buddha»[xxix].
Da quel momento – un momento ontologico più che temporale – crebbe nei
seguaci del Mahâyâna la certezza che ciascuno di essi, in quanto candidato al nirvâna,
era incamminato sulla via dei Bodhisattva: era un potenziale «essere
d'Illuminazione».
La tipologia di santità del Grande
Veicolo si annuncia già al suo esordio come un ideale «dinamico» o, se si
vuole, «evolutivo», che si svolge su uno scenario insieme umano e metastorico:
tutt'altro che immutabilmente circoscritto a una «santità statica», acquisita
una volta per tutte, il Bodhisattva è coinvolto in una crescita continua[xxx],
che lo porta, di vita in vita, di gradino in gradino, a redimere se stesso
redimendo i suoi fratelli, a ritornare in nuove e spesso volutamente infelici
rinascite per prodigarsi nell'esercizio della compassione e del sacrificio come
fossero vie parallele all'Illuminazione[xxxi].
Le vie maestre del sentiero bodhisattvico sono la saggezza e la compassione, che
conducono da un lato all'onniscienza e dall'altro a quel supremo moto di carità
che si concretizza nel continuo rinvio dell'entrata nel nirvâna completo,
finché l'ultimo degli esseri viventi non sia stato salvato: ecco come la karunâ,
la compassione, viene a coincidere con la saggezza dei santi.
Nella loro infinita opera di salvezza i
Bodhisattva si rivelano pazienti, pronti ad attendere eoni su eoni prima di
raggiungere il nirvâna. Sopprimendo negli esseri le contrapposte e false
visioni dell'eternalismo e del nichilismo, essi li conducono al «Cammino di
mezzo», quale si definisce la stessa Dottrina buddhista, spingendoli a produrre
a loro volta il «pensiero
d'Illuminazione» (bodhicitta), l'atto con cui ha inizio il sentiero mahâyânico della santità.
Si legge infatti nei sūtra: «Costoro [i Bodhisattva], il
cui seme è l'adesione (adhimukti) al più alto Veicolo, la cui madre è
la Perfezione della Saggezza che genera il Dharma del Buddha, la cui matrice è
il beato samâdhi, la cui nutrice si chiama Compassione, costoro sono i
figli, i fratelli minori dei Buddha»[xxxii].
Ma vediamo
come i testi mahâyânici descrivono le caratteristiche dei Bodhisattva e
leggiamo la ricapitolazione che il Mahâyânasamgraha[xxxiii]
fa delle dieci superiorità del Bodhisattva rispetto all'arhat:
1.
Il Bodhisattva opera sulle verità (dharma) del Grande Veicolo;
2.
Agisce in base a grandi cumuli di meriti e di saggezza;
3.
Percepisce l'insostanzialità (anâtman)
del Sé e delle categorie mentali (dharma);
4.
Ottiene il nirvâna «instabile», che gli consente di non rifiutare la
catena delle rinascite;
5.
Ascende lungo le dieci Terre spirituali (bhūmi), dove coltiva le sei
perfezioni eroiche (pâramitâ), ovvero
dono (dânâ), moralità (śīla), pazienza (kshânti),
energia (vīrya), meditazione (dhyâna), saggezza (prajñâ).
6.
Sopprime le contaminazioni passionali e purifica i campi buddhici (buddhakshetra),
ovvero le regioni del cosmo in cui predica e agisce un Buddha;
7.
Non desiste dallo spingere gli esseri a maggiore evoluzione, in quanto ha
acquisito il pensiero equanime (samacitta),
che gli impedisce di fare differenze fra sé e gli altri;
8.
Nasce sempre nel lignaggio (gotra) del
Tathâgata;
9.
È continuamente presente nelle assemblee che circondano il Buddha;
10.
Apporta incalcolabili frutti a beneficio di tutti gli esseri.
Con una
semplicistica definizione si potrebbe dire che il Bodhisattva è cittadino di
due mondi, quello terreno e quello cosmico o celeste: santo e angelo insieme. In
base a questa distinzione la tradizione buddhista del Grande Veicolo ha
concepito due tipi di Bodhisattva:
1.
I Bodhisattva che si incarnano in un corpo fisico e vivono come santi asceti.
Tali furono i filosofi Nâgârjuna, Asanga, Vasubandhu, il poeta Śântideva
(detto Bodhisattva Vinaya), Vimuktisena, il patriarca cinese Xuanzang.
Appartiene potenzialmente a questa schiera ogni seguace del Mahâyâna, in
particolare, il Bodhisattva novizio, ovvero colui che, concependo il primo
pensiero d'Illuminazione, fa offerta di sé al Buddha, affinché l'Illuminazione
riecheggi ininterrottamente sul piano terreno come felicità degli esseri.
Questo primo tipo di Bodhisattva (fino alla sesta Terra spirituale) viene anche
detto «a regressione» (vaivartika), nel senso che può regredire lungo il sentiero.
2.
I Bodhisattva celesti che, durante l'ascesa della settima Terra spirituale,
abbandonano il corpo di carne e, per poter aiutare le creature, rivestono il
corpo eterico della Legge e quindi vengono dotati della possibilità di assumere
«corpi di metamorfosi» con cui possono giungere al piano fisico. Liberi da
debiti karmici che li legano al corpo di trasmigrazione, questi Bodhisattva
divengono esseri angelici disincarnati e sono denominati «Grandi Esseri» (mahâsattva). Questo secondo tipo di Bodhisattva è detto «senza
regressione» (avaivartika): «I
Bodhisattva senza ritorno sono detti "i veri Bodhisattva", perché lo
sono veramente»[xxxiv]
.
A questo
secondo tipo di Bodhisattva la tradizione buddhista ha talora dato il nome di kalyânamitra,
«amico spirituale»: sotto questa veste di benevolo protettore appare in sogno
al principe Śântideva il Bodhisattva della Saggezza Mañjuśrī
che lo esorta ad abdicare al trono e a votarsi allo spirito. In seguito a ciò
Śântideva diverrà il più grande poeta e mistico indiano del Grande
Veicolo. A proposito di questi Bodhisattva celesti si legge nella MPPS:
«Non sono Bodhisattva dal corpo di carne (mâmsakâya), legati agli
atti e situati nel triplice mondo (traidhâtuka). Essi hanno ottenuto la
sovranità del Corpo della Legge e oltrepassato la vecchiaia, la malattia e la
morte; per pietà verso gli esseri, essi risiedono negli universi, percorrono e
adornano i campi buddhici e convertono gli esseri. Avendo ottenuto la sovranità,
vogliono divenire Buddha e vi pervengono»[xxxv].
La tradizione
del Grande Veicolo racchiude l'iter cosmico di santità del Bodhisattva fra due
confini, quasi fossero l'alfa e l'omega della sua evoluzione: «Il
Bodhisattva è così nominato per tre ragioni: possiede il grande voto[xxxvi],
il suo pensiero è incrollabile e la sua energia è senza ritorno (avaivartika).
[…] Egli è detto Bodhisattva nell'intervallo di tempo che va dalla prima
produzione di pensiero [d'Illuminazione]
fino al nono abbandono [di passioni], quando entra nella
concentrazione di diamante»[xxxvii].
La
durata dell'iter bodhisattvico (caryâ) di santità.
I
testi più antichi, tra cui il Cariyâpiṭaka,
l'Anguttaranikâya, il Milindapañha,
cui si aggiunge la Jâtakamâlâ di Ârya
Śūra, avevano dichiarato che al discepolo buddhista occorrevano
quattro «periodi incalcolabili» (asamkhyeyakalpa) e centomila kalpa
per ascendere lungo le tappe della santità theravâda, fino all'Illuminazione.
Ma la letteratura buddhista svaluta la lunghezza apparentemente interminabile di
questi eoni, precisando che un kalpa vissuto nell'infelice mondo Sahâ
equivale a un giorno e una notte del paradiso Sukhâvatī, dove regna e
predica il Buddha della Luce, Amitâbha[xxxviii].
Secondo
il Grande Veicolo[xxxix]
i «periodi incalcolabili» durante
i quali il Bodhisattva completa la propria evoluzione spirituale sono invece per
lo più tre. Secondo l'Abhidharmakośa di Vasubandhu[xl]
l'iter bodhisattvico comporta tre periodi incalcolabili, seguiti da cento kalpa
supplementari. Nel primo periodo (che comprende gli stadi propedeutici alle
Terre spirituali) il Bodhisattva non sa con certezza se diverrà Buddha; alla
fine del secondo periodo (che comprende le Terre dalla prima alla settima) sa
che lo diverrà, ma non osa proclamarlo; lo proclama nel terzo periodo (che va
dall'ottava alla decima Terra), allorché emette il «ruggito di leone» del
Bodhisattva e dichiara: «Io diverrò Buddha». Nei cento kalpa
successivi compie gli atti che imprimono su di lui i segni fisici del Grande
Essere[xli].
Secondo
la corrente theravâda dei Mahâsanghika all'inizio del terzo periodo il
Bodhisattva riceve, da parte di un Buddha, la «predizione» che egli raggiungerà
il nirvâna, come successe a Śâkyamuni, quando in una vita
precedente incontrò il suo 24° predecessore, il Buddha Dipamkara, e da lui
ricevette l'assicurazione che sarebbe divenuto un Illuminato; stando invece al Sūtra
del Diamante mahâyânico la
predizione segna l'inizio di tutto l'iter bodhisattvico[xlii].
Le
dieci Terre spirituali secondo il Mahâyâna. Secondo la
classificazione più diffusa (attestata dal Daśabhūmikasūtra)
il cammino dei Bodhisattva procede lungo dieci Terre Spirituali, in cui vengono
praticate le sei, o talora dieci Perfezioni, (o Virtù):
1. Gioiosa:
è la Terra in cui il Bodhisattva concepisce il pensiero d'Illuminazione,
formula i voti di consacrazione e realizza la Perfezione del dono.
2. Immacolata:
il Bodhisattva conquista la Perfezione della moralità e rinasce talora nei
purgatori buddhisti per convertire i peccatori.
3. Luminosa:
ottiene la Perfezione della pazienza e ottiene i cinque «supersaperi».
4. Sfolgorante:
ottiene la Perfezione dell'eroismo o dell'energia.
5. Difficile
da conquistare: ottiene la Perfezione della meditazione e diviene
predicatore.
6. Faccia
a faccia: si chiama così perché il Bodhisattva si pone qui di fronte al nirvâna
e al samsâra (ciclo delle rinascite); penetra la legge della
coproduzione condizionata (pratityasamutpâda) e ottiene la Perfezione
della saggezza.
7. Che
va lontano: ottiene la Perfezione dell'abilità nei mezzi salvifici (upâya),
ovvero dell'amore operante, e raggiunge il «nirvâna instabile».
8.
Inamovibile: ottiene la Perfezione del potere che lo porta ad acquisire i
dieci poteri buddhici e a raggiungere una particolare forma di atarassia
grazie alla quale il mondo gli appare come già illuminato; purifica i campi
buddhici.
9. Terra
del bene: il Bodhisattva ottiene la Perfezione del voto e diventa un
grande maestro spirituale.
10. Nuvola
della Dottrina: è la Terra più alta, in cui il Bodhisattva raggiunge la
Perfezione della conoscenza e rinasce nel cielo dei Tushita, dove si prepara
alla sua ultima incarnazione terrena. Il cielo dei Tushita è una regione
celeste del Nord, appartenente, come la nostra Terra, alla Sfera del Desiderio
(Kamadhâtu); a essa i fedeli possono accedere soltanto con la meditazione.
Conclusione.
Un grande maestro spirituale del '900, Shrī
Aurobindo, evoca con queste belle parole lo spirito di amore operativo, tipico
del Bodhisattva:
«La
vita spirituale – e questa è realmente la sua missione – può in realtà
trasformare la vita materiale a sua immagine, cioè secondo l'immagine del
Divino. Per questo motivo, accanto ai grandi solitari che hanno cercato e
raggiunto la liberazione personale, si incontrano i grandi maestri spirituali
che hanno voluto liberare anche gli altri, e, più in alto di tutti, le grandi
anime dinamiche che, sentendosi per la potenza dello Spirito più forti di tutte
le forze della vita materiale congiunte, si son gettate sul mondo abbracciandolo
in una lotta d'amore per costringerlo a consentire alla sua trasfigurazione»[xliii].
Sul piano dell'escatologia buddhista
questa «lotta d'amore» assume tutta la sua rilevanza in un ben preciso momento
storico, che la tradizione mahâyânica ha chiamato gli «ultimi tempi», i
quali corrispondono ai quinti 500 anni della Dottrina, dunque all'epoca attuale.
Nel Sūtra del Diamante il discepolo Subhūti pone un quesito al
Buddha: «Ci saranno esseri nel periodo futuro, nell'ultimo tempo,
nell'ultima epoca, negli ultimi 500 anni, al tempo del crollo della Buona
Dottrina, i quali, una volta che saranno state insegnate queste parole del Sūtra,
comprenderanno la verità?». Il Buddha rispose: «Sì, persino allora
tali esseri ci saranno. Poiché persino in quel tempo, o Subhūti, ci
saranno Bodhisattva dotati di buona condotta, dotati di qualità virtuose,
dotati di sapienza e che, una volta che saranno state insegnate queste parole
del Sūtra, ne comprenderanno la verità. […] Essi saranno
tali da aver onorato molte centinaia di migliaia di Buddha. […] E tutti
loro genereranno un incommensurabile e incalcolabile cumulo di merito»[xliv].
Caratteristica prima di tali
Bodhisattva attivi negli «ultimi tempi» sarà l'«essere cresciuti come alberi»,
dissetandosi tanto nelle acque della conoscenza quanto in quelle della
compassione. Che è poi il senso ultimo del duplice cammino evolutivo dell'iter
bodhisattvico: coltivare l'educazione della mente come il buddhismo la insegna,
attraverso la pratica meditativa dello śamatha (calma concentrata) e
della vipaśyanâ (visione profonda), ma anche coltivare tutte le
forme di compassione, fino all'upâya, la virtù dell'abilità nei mezzi
salvifici di conversione ovvero la forza trasfiguratrice dell'amore, che il
Bodhisattva acquisisce nella settima Terra spirituale. Perciò è detto nell'Insegnamento
di Vimalakīrti: «Dei puri Bodhisattva la madre è la Perfezione
della Saggezza e il padre è l'Abilità nei mezzi salvifici: le Guide del mondo
crescono da tali genitori»[xlv].
Fino all'inizio dell'era volgare
l'umanità aveva prevalentemente concepito due tipologie di santità e di
perfezionamento spirituale[xlvi].
Le civiltà semitiche avevano prodotto
l'ideale del nabi, del profeta, o dello shaddiq ebreo, dell'uomo
giusto[xlvii],
che vive della sua fede, secondo l'espressione di Abacuc (2,4), ma
anche del «giusto che soffre», secondo la composizione Ludlul bēl
nemēqi, una lamentazione spesso presentata come «il Giobbe
babilonese». Il profeta è per antonomasia colui che ascolta la voce di
Dio, colui che è chiamato ad agire secondo il nomos, la Legge, a operare
in ubbidienza della Rivelazione per amore del Dio unico, creatore e salvatore.
Le civiltà di origine indeuropea, da
quella greca a quella indiana, avevano invece prodotto un ideale di santità
fortemente connesso al cammino speculativo, fatto di saggezza e di intuizione:
erano nati così il sòphos (saggio) greco e lo rshi (veggente)
vedico, o in senso lato l'ideale dell'iniziato (mystes) che si attiene
all'aurea regola «Conosci te stesso»: «L'uomo saggio è l'iniziato,
chiamato a contemplare i misteri del vero», riassumeva Werner Jaeger[xlviii].
Potremmo perciò dire che il saggio è soprattutto colui che vede i
misteri dei mondi spirituali.
Dall'inizio dell'era volgare la civiltà
umana ha intrapreso un secolare cammino di integrazione e di convergenza fra i
due ideali di santità appena ricordati, a favore di un nuovo ideale di
salvezza, che nel bacino del Mediterraneo si espresse in singolar modo nel theòlogos
greco-bizantino (da Origene a Massimo il Confessore), il quale fonde in sé sophia
e agape, la saggezza e l'amore, mentre sulle rive del Gange e poi sulla
Via della Seta, fino al Giappone prese il nome di Bodhisattva.
Sarebbe difficile trovare una
motivazione metastorica di un tale parallelismo. Di certo, in questo ambito, le
filosofie buddhiste non ci soccorrono, parche come sono di una filosofia della
storia, benché favorevoli a riconoscere che «anche il Cristo era un
Bodhisattva», come ha più volte dichiarato l'attuale Dalai Lama.
Proviamo allora a considerare le cose
dalla prospettiva cristologica: il Cristo, Signore del tempo, ha diviso in due
il corso della storia, aprendo all'umanità una nuova via di salvezza, la via
dell'amore come più alta forma di conoscenza. Quando l'eco del Logos è
risuonata in Oriente, la si è sentita sul Picco dell'Avvoltoio, dove ha parlato
per bocca del Tathâgata, o meglio del suo Corpo bodhisattvico, quel corpo
mistico del Buddha cosmico che la corrente idealistica yogâcâra chiamò sambhogakâya,
Corpo di Beatitudine.
Da allora le convergenze fra buddhismo
e cristianesimo hanno di secolo in secolo trovato ulteriori conferme proprio
nella cerchia delle filosofie mahâyâniche che maggiormente hanno teorizzato la
dottrina dei Bodhisattva.
1.
La scuola Madhyamaka fondata da Nâgârjuna (II secolo d.C.) è parallela - per
contenuti, anche se non proprio per cronologia - alla scuola cristiana orientale
di Dionigi l'Areopagita, il fondatore della teologia negativa o apofatica e
precursore del misticismo cristiano[xlix].
Nâgârjuna negò, oltre alla realtà del Sé (âtman), anche quella dei dharma,
per affermare che la natura del pensare è impersonale, vuota (śūnya)
e che il pensiero è «vuoto di sé», non ha una propria realtà sostanziale.
Non diversamente, Dionigi affermava il carattere sovressenziale del pensiero (noûs)
e la natura prettamente noetica delle Intelligenze angeliche. La leggenda vuole
che Nâgârjuna fosse ispirato da Mañjuśrī, il Bodhisattva celeste
della conoscenza, fortemente affine sul piano simbologico e iconografico
all'arcangelo Michele.
2. La scuola idealistica Yogâcâra,
fondata nel IV secolo d.C. dai fratelli Asanga e Vasubandhu, ispirati, secondo
la tradizione, dal Bodhisattva Maitreya, è assimilabile invece alla coeva
Patristica greca dei grandi Cappadoci. Come lo Yogâcâra speculò infatti sulla
natura dei tre Corpi buddhici (trikâya), così la Patristica dell'età
dell'oro speculò sulle due nature del Cristo[l].
[i]
L’antica Rājagrha si identifica oggi con il villaggio di Rājgir,
nel distretto di Patnā, sito nel Bihar meridionale.
[ii]
Aśvaghosha,
Le gesta del Buddha, trad. di A.
Passi, Milano 1979, p.121.
[iii] Cfr. A. Foucher,
La vie du Bouddha, Paris 1949,
p.257.
[iv]
S. Beal (a cura di), Si-Yu-Ki:
Buddhist Records of the Western World, New York 1968, p. 100; Hoëli
et Yen-thsong, Histoire de la vie de Hiuoen-thsang et de ses
voyages dans l'Inde, trad. di S. Julien, Paris 1853, vol. I,
pp. 160 sgg.
[v] Cfr. Le Traité de la Grande Vertu de Sagesse de Nāgārjuna
– Mahāprajñāpāramitāśāstra (abbreviato
MPPS), trad. di E. Lamotte, Louvain 1981, vol. I,
cap. XV.
[vi]
Fra questi, i primi cinque discepoli, poi Mahākāśyapa,
Śāriputra, Maudgalyāyana, Subhūti, Ānanda e Rāhula,
figlio del Buddha.
[vii]
Saddharmapundarīkasūtra, incipit; cfr. Sutra del
loto, trad. di L. Meazza, Milano 2001, pp. 43 sgg. Per l'identità degli
esseri favolosi citati in questa scena rimando al glossario da me curato in Śāntideva,
Il cammino dei Bodhisattva, Edilibri, Milano 2004.
[viii]
Per una concisa rassegna delle biografie del Buddha si veda la mia
prefazione a La vita di Buddha nei testi del canone pali (a cura di
V. Cucchi), Xenia, Milano 1994.
[ix]
Si tratta del monaco del Piccolo Veicolo o Hinayāna, precedente al
Grande Veicolo o Mahāyāna.
[x]
Canone buddhistico, L'orma
della Disciplina (Dhammapada), a cura di E. Frola, Torino 1968,
strofa 182.
[xi]
A. Pezzali, Śāntideva
e il Bodhicaryāvatāra,
Bologna 1982, IV, 20, p.
90.
[xii]
Cfr. anche MPPS, I, p. 575.
[xiii]
Le «cinque corruzioni» consistono nella degenerazione dei tempi (kalpa),
delle opinioni, delle passioni, della durata della vita, degli esseri
senzienti, sempre più afflitti da difetti fisici. Cfr. P. Cornu,
Dizionario del Buddhismo, Milano 2003, p. 128.
[xiv]
Agli esseri legati al Piccolo Veicolo.
[xv]
L'insegnamento di Vimalakīrti, trad. di R. Gnoli, in La
rivelazione del Buddha, vol. II, Milano 2004, pp. 507, 511. I kalpa
sono gli eoni.
[xvi]
Cit. in D.T. Suzuki, Essais sur le Bouddhisme Zen, Paris 1972, vol. III, p. 157.
[xvii]
Cfr. MPPS, vol. I, p. 242.
[xviii]
Lo spirito del buddhismo antico, Venezia-Roma 1960, p. 36.
[xix]
Letteralmente: Realtà così com'è.
[xx]
The Perfection
of Wisdom in Eight Thousand Lines and its Verse Summary,
a cura di E. Conze, Bolinas 1973, p.163.
[xxi]
Vita di Milarepa, trad. di J. Bacot, Milano 1975, p. 96.
[xxii]
Mahāyānasamgraha – La Somme du Grand Véhicule
d'Asanga, trad. di E. Lamotte, vol. II, Louvain
1973, p. 6.
[xxiii]
Kaśyapaparivarta in A
Treasury of Mahāyāna Sūtras, Selections from the Mahāratnakūta
Sūtra, a cura di
Garma C.C. Chang, Delhi 1983, p. 398.
[xxiv]
Questo termine sanscrito, secondo la più comune etimologia, significa «essere
vivente destinato a ottenere la completa Illuminazione», oppure indica
l'essere la cui «intenzione è l'Illuminazione». Cfr. Y. Kajiyama,
«On the meanings of the words bodhisattva and mahāsattva
in Prajñāpāramitā literature» in Indological and
Buddhists Studies, Delhi 1982, pp. 253-254.
[xxv]
Le cinque abhijñā sono: poteri magici, chiaroveggenza, chiarudienza,
conoscenza del pensiero altrui, ricordo delle esistenze anteriori.
[xxvi]
Buddhavamsa, II, 59,
cit. in E. J. Thomas, The
History of Buddhist Thought, London 1963, pp, 171-172.
[xxvii]
A quest'innata vocazione alla bodhi nel corso della letteratura mahāyānica
(Ratnagotravibhāga, Mahāparinirvānasūtra, Śrīmālāsimhanādasūtra
ecc.) verrà dato il nome di tathāgatagarbha, «embrione del
Tathāgata».
[xxviii]
E. J. Thomas, op. cit., p.
172.
[xxix]
Saddharmapundarīkasūtra,
II, 50; V, 44.
[xxx]
Saddharmapundarīkasūtra, V, 40: «I numerosi Bodhisattva
che, attenti e risoluti, hanno compreso l'intero triplice mondo alla ricerca
dell'eccelso risveglio sono come alberi dalla crescita costante». Questa
scalata spirituale (indubbiamente connessa all'ascesa delle Terre
spirituali) non pare tuttavia slegata da una certa scalata sociale, visto
che in Cina dopo la dinastia Han (221-589) «le masse si sentirono molto
attratte dall'ideale del Bodhisattva che apriva ogni possibilità anche alle
categorie più basse della gerarchia sociale» (E. Conze,
Breve storia del buddhismo, Milano 1985, p. 110).
[xxxi]
In
ambito occidentale la figura più prossima a quella bodhisattvica è il «servo
sofferente» evocaato dal profeta Isaia: «Eppure egli si è caricato
delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo
giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto
per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci
dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati
guariti» (53, 3-5). La tradizione ebraica ha sempre visto in questa figura
biblica una metafora dello stesso popolo d'Israele, mentre la tradizione
cristiana vi ha visto il preannuncio del Cristo (Mt 8, 17). Quanto
poi al confronto tra l'ideale del Bodhisattva e il Cristo si rimanda agli
atti del simposio svoltosi nel college di Middlebury (N.Y.) il 27-30
settembre 1984: The Christ and the Bodhisattva, a cura di D. S. Lopez
jr e S. C. Rockefeller, New York 1987.
[xxxii]
J. Takasaki, A Study on the
Ratnagotravibhāga (Uttaratantra), Roma 1966, p. 29, v. 34.
[xxxiii]
Mahāyānasamgraha, cit., III, pp. 171-173.
[xxxiv]
MPPS,
vol. I,
p. 243.
[xxxv]
MPPS, vol. I, p. 392. I tre mondi concepiti dalla cosmologia buddhista sono:
Sfera del desiderio, che ingloba umani, animali, anime bramose di rinascita,
deva (angeli), asura (demoni); Sfera della forma, in cui
dimorano più alte entità celesti; Sfera della non forma, che ha dimore
invisibili.
[xxxvi]
Si tratta del voto di raggiungere il nirvāna, che accompagna la
prima concezione del pensiero d'Illuminazione (bodhicitta): in
seguito a ciò il Bodhisattva accede alla prima Terra spirituale.
[xxxvii]
MPPS, vol. I, p. 242.
[xxxviii]
La speranza di rinascere nella Sukhāvatī, o Paradiso d'Occidente,
e l'altruismo incarnato dai Bodhisattva sono talmente diffusi nella
religiosità cinese che, ai tempi di Mao Zedong, essi furono utilizzati dal
Partito comunista come spinte ideali per la realizzazione del piano
quinquennale, al fine di «portare su questa terra il Paradiso d'Occidente».
«In forza di questa interpretazione i buddisti cinesi erano chiamati, come
tutti gli altri cittadini non buddisti, a dare il proprio contributo al
compimento del piano economico cinese: il lavoro produttivo altro non era se
non l'adempimento del voto del Bodhisattva […], infatti la condotta del
Bodhisattva consiste nell'essere buono con tutti gli esseri viventi […].
In tal modo, per così dire, il circolo si chiudeva, poiché nessun
Bodhisattva può raggiungere l'Illuminazione totale senza aiutare gli altri
esseri viventi. Ne conseguiva, con logica dialettica, che l'Illuminazione
non poteva essere ottenuta isolatamente dalle masse lavoratrici» (H. BrÄker, Il
buddismo in Unione Sovietica: annientamento o sopravvivenza?,
in «Russia cristiana», n. 214, p. 136).
[xxxix] Cfr. E. Lamotte,
Histoire du Bouddhisme indien, des origines à l'ère Śaka,
Louvain 1958, pp. 693-694.
[xl]
Abhidharmakośa de
Vasubandhu, a cura di L. de La Vallée Poussin,
Paris 1923-1931, IV, pp. 220 sgg. Vasubandhu
era il fratello del filosofo mahāyānico Asanga; fu dapprima un
pensatore theravāda (della corrente sautrantika), poi si convertì al
Grande Veicolo.
[xli]
MPPS, I, p. 249; Abhidharmakośa de Vasubandhu, cit., IV, 224.
[xlii]
Sūtra del Diamante, paragrafo 17b. Cfr. MPPS, I, p. 249.
[xliii]
La sintesi dello Yoga, vol. I,
Roma 1967, p.32.
[xliv]
Op. cit., paragrafo 6. Cfr. E. Conze,
I libri buddhisti della sapienza, Roma 1976, pp. 25-26. La nozione di
«ultimi tempi» ritorna nel Sūtra del Loto e di conseguenza
viene enfatizzata nella corrente buddhista giapponese della Terra Pura, che
si rifà principalmente a questo sūtra maahāyānico: Hōnen
Shōnin (1133-1212), Shinran Shōnin (1173-1262) e Nichiren
(1222-1282) si fecero alfieri della concezione dell'epoca finale (mappō-jidai)
e ritennero che essa fosse iniziata già ai loro tempi. Cfr. L. S. Kawamura
(a cura di), The Bodhisattva Doctrine in Buddhism, Calgary 1981, pp.
166-167.
[xlv]
Op. cit., VII, 6, p. 491.
[xlvi]
Ho considerato in breve queste tipologie anche nella mia antologia I
grandi temi della mistica ebraica, EDB, Bologna 2003, pp. 172-174.
[xlvii]
Su questo ideale si veda: A. Neher,
L'essenza del profetismo, Casale Monferrato 1984; J. Krašovec,
La justice (zdq) de Dieu dans la Bible hébraïque et l'intereprétation
juive et chrétienne, Göttingen 1988.
[xlviii]
Paideia. La formazione dell'uomo greco, Firenze 1936, p. 281.
[xlix]
Cfr. Dionigi l'Areopagita, Gerarchie
celesti, trad. di G. Burrini, Tilopa, Roma 1983.
[l]
Cfr. A. Gallerano Burrini, «Il
bodhicittotpāda e lo
svincolamento dal karman», in «Annali
dell'I. U.O.», 1985, 45, p.163.