LE TESTIMONIANZE SU SCIZIANO

di Gabriele Belmonte

Più volte nelle sue conferenze Rudolf Steiner ha richiamato l'attenzione sulla personalità e sulla funzione spirituale del misterioso bodhisattva Sciziano. Fra i vari cicli, se ne trova ampia menzione nella conferenza del 31.8.1909 contenuta in L'Oriente alla luce dell'Occidente. I Figli di Lucifero e i Fratelli di Cristo (Monaco 23-31 agosto 1909), Milano 1980, p.180 e sgg.

Ma prima che R. Steiner ne parlasse come di un bodhisattva, a trattare di Sciziano furono pochi studiosi: I. de Beausobre, autore di un testo classico, l'Histoire critique de Manichée et du Manichéisme (voll. 2, Amsterdam 1734, 1739), che vide in lui un precursore del manicheismo; successivamente, nel secolo scorso, F. Ch. Baur (Das manichäische Religionssystem, Tubinga 1831) negò che Sciziano e il suo discepolo Terbinto fossero mai esistiti; cinquant'anni dopo, K. Kessler (Mani, Forschungen über die manichäische Religion, Berlino 1889, p.80 sgg.) vide in Sciziano nient'altro che Fataq, il padre di Mani, in base al fatto che Terbinto sarebbe la trascrizione greca dell'aramaico tarbîthâ, "figlio"; dunque l'espressione "Mani Terbinto Sciziano" significherebbe "Mani figlio di Sciziano".

Nelle pagine successive presenteremo alcuni testi di tre eresiologi cristiani dei primi secoli e di uno storico bizantino relativi a Sciziano: fonti tutt'altro che positive e benevole nei confronti del singolare personaggio, che viene considerato come un turpe eretico di tendenza manichea.

 

1. Egemonio (?), Acta disputationis S. Archelai Cascharorum in Mesopotamia episcopi cum Manete haeresiarcha, PG (=Patrologia Graeca, a cura di J.-P. Migne) X, 1515-1524, Parigi 1857. Cfr. Acta Archelai, Disputa cum Manete, PG, X, 1405-1528, ed. Beeson, Lipsia 1906, GCS (=Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, Accademia di Berlino), 16; H. Zittwitz, Acta disputationis Archelai et Manetis, Zeitschrift für Theologie, Gotha 1873, pp.467-528; A. Oblasinski, Acta dispu-tationis Archelai et Manetis, Lipsia 1874; G.C. Hansen, Zu dem Evangelienzitaten in den "Acta Archelai", in "Stud. Patrist.", VII (TU 92), Berlino 1966, pp.473-485.

Secondo H. Ch. Puech (Le manichéisme, son fondateur, sa doctrine, Parigi 1949, pp.25-26), gli Acta Archelai - che narrano la disputa fra Archelao, vescovo di Cascara (o Carcara), e un eretico babilonese - erano la testa d'ariete della polemica antimanichea e sarebbero la rielaborazione di un racconto apologetico di origine manichea, compiuta fra il 325 e il 350 da un ignoto Egemonio. A questo testo si rifà la maggior parte delle fonti successive.

 

 

[LI] [...] - Questi [Mani] non è il primo autore di tale dottrina, né il solo; ma un tale della Scizia, di nome Sciziano [Scythianus], fu al tempo degli apostoli l'autore e il capo di questa setta, come lo furono anche molti altri apostati, che, desiderosi di ottenere per sé il primato, misero per iscritto cose false al posto delle vere, trascinando i più ignari a loro piacere; di essi il tempo non ci consente ora di dire i nomi e le perfidie. Dunque questo Sciziano introdusse codesta dualità in sé opposta; ciò egli attinse da Pitagora, come fecero tutti gli altri settari di questa credenza: tutti costoro difendono la dualità, deviando dalla diritta via della Scrittura, ma non fanno maggiori progressi.

[LII] - Nessuno tuttavia fu così sfrontato come questo Sciziano. Egli introdusse infatti l'opposizione fra due [realtà] non create e tutto ciò che consegue a tale affermazione. Tale Sciziano era di stirpe saracena e si prese per moglie una schiava della Tebaide settentrionale, che lo persuase a traferirsi in Egitto, più che nelle regioni deserte. E avesse voluto il cielo che mai quella provincia lo abbia accolto quando vi si trasferì dedicandosi alla saggezza degli Egizi; infatti egli era - a dire il vero - assai dotato d'ingegno e di ricchezze, come per tradizione ci è stato attestato da quelli che lo conoscevano. Ebbe anche un discepolo di nome Terebinto (Terebinthus), che scrisse quattro libri, dei quali chiamò l'uno Libro dei Misteri, l'altro Libro dei Capitoli, il terzo Vangelo; l'ultimo lo chiamò Tesoro: erano questi i quattro libri e vi era un solo discepolo di nome Terebinto. Dopo che per un certo tempo questi due avevano deciso di abitare da soli, piacque a Sciziano di recarsi in Giudea, per incontrarsi lì con tutti coloro che vi erano considerati dottori; e capitò che subito dopo morisse, senza aver potuto realizzare nulla. Quel discepolo che era stato in rapporto con lui si diede alla fuga e raggiunse Babilonia, che ora viene considerata provincia dai Persiani e che è lontana dalla nostra regione circa sei giorni e sei notti di viaggio; quando giunse lì, lo stesso Terebinto si procurò grande fama dicendo a tutti di possedere la saggezza degli Egizi e di chiamarsi non già Terebinto ma Budda, e questo nome si impose; (dicendo che) era nato da una vergine, come se fosse un angelo, e che era stato allattato sui monti. Un certo profeta Parco, e Labdaco figlio di Mithra, lo accusava di menzogna: e fra essi ogni giorno si accendevano gli animi a proposito di tale faccenda. Che cosa dire di più? Quand'anche venisse frequentemente biasimato, rivelava ad essi tutte le cose che erano all'inizio dei tempi (ante saeculum), cioè la sfera e i due luminari, ma anche perché e come le anime si allontanino e in che modo ritornino nuovamente nei corpi e molte altre cose di tal genere e ancor più inutili di queste, come il fatto che in principio fosse stata mossa guerra a Dio, affinché egli stesso venisse ritenuto profeta. Mentre si faceva conoscere grazie a queste argomentazioni, si ritirò presso una vedova con i suoi quattro libri, senza aver fatto là nessun discepolo, tranne quella vecchia che era divenuta sua complice. Allora, dunque, di primo mattino salì su un alto terrazzo, dove cominciò a invocare certi nomi che, come ci riferì Turbone, soltanto sette eletti avevano appreso. Ignoro come si fosse innalzato in aria, se grazie a un rito o a un trucco; però si elevò da solo, senza che da qualcuno potesse essere dimostrato se avesse finto o se non avesse concluso nulla; credeva infatti che lui era sottomesso ai castighi dei veri prìncipi. Mentre lui pensava queste cose, Dio giustissimo ordinò che lui precipitasse a terra attraverso l'aria; scaraventato rapidamente in basso, il copro precipitò in basso esanime e quella vecchia, impietosita, lo raccolse e lo seppellì nei consueti luoghi.

[LIII] - Allora tutte quelle cose che lui aveva portao con sé dall'Egitto rimasero presso di lui; e fu molto contenta della sua morte per un duplice motivo: 1) che non vedeva di buon occhio le sue arti, 2) per la cospicua eredità che le era venuta. essendo rimasta sola, volle avere qualcuno a servizio (ministerium) e si prese un ragazzo di quasi sette anni di nome Corbicio, che subito affrancò e avviò alle lettere. Quando questi raggiunse l'età di dodici anni, la vecchia morì, lasciando a lui tutti i suoi beni e, fra le altre cose, anche quei quattro libri che Sciziano aveva scritto, costituiti singolarmente da non molti versi.

 

2. Epifanio, Panarion, PG XLII a. 66, GCS 37; cfr. la traduzione di C. Riggi, Epifanio contro Mani (Panarion, Haer. LXVI), Roma 1967, pp.5-25. Epifanio attinge per gran parte dagli Acta Archelai, ma arricchisce l'affresco con nuovi particolari, come i dettagli sulla schiava di Sciziano e sul viaggio di lui in Palestina.

 

 

[§ 1] [...] Mani proveniva dalla Persia; prima si chiamava Cubrico, ma volle prendersi quest'altro nome, e credo ci si possa vedere una disposizione della Divina Provvidenza, perché il nome cui si legò significa pazzia (maniôdes). Egli se l'era voluto dare perché la parola in lingua babilonese significa vaso, e infatti traducendo dal babilonese in greco, il nome significa questo; ma la verità è che egli si prese quel soprannome che significa la mania da cui era stato disgraziatamente colpito di andare disseminando per il mondo una perversa dottrina quale era la sua. Ora questo Cubrico era schiavo d'una vedova, la quale essendo morta senza figli, gli aveva lasciata un'immensa fortuna, oro argento aromi, ecc. Ed essa a sua volta l'aveva avuta in eredità da un certo Terbinto, che era stato anche lui schiavo ed aveva mutato il suo nome in un altro di lingua assira, Budda. Suo padrone era stato un tal Sciziano, oriundo della regione dei Saraceni e cresciuto ai confini della Palestina, precisamente in Arabia. Sciziano adunque, essendo stato formato in detta regione alla lingua e alle lettere greche, divenne valente nella vana cultura del mondo. Si dedicò quindi al gran commercio, recandosi continuamente per gli affari nell'India. Ne ricavò ingenti guadagni, girando per il mondo e spingendosi fino a battere le contrade della Tebaide. [...]

[§ 2] [...] Prima di tutto Sciziano, inorgoglitosi per le sue immense ricchezze, spezie e tutto il resto che aveva acquistato in India, trovò nella regione della Tebaide e precisamente nella città di Ipsela, dove si era recato, una donnina più che perduta. Le sue belle forme davano subito nell'occhio e colpirono subito quello stolido, che la tolse dal lupanare (poiché una creatura siffatta era andata a prostituirsi in un indegno bordello), prima se la prese come amante e poi, datale la libertà, se la sposò. Passò così molto tempo e lo sciagurato non ne poté più, tanti erano i piaceri a sua disposizione; ma siccome non si occupava più di affari ed era ormai abituato al vizio, spinto dallo stimolo sempre più prepotente del piacere, in cuor suo escogitava ancora come portare all'umanità un'esperienza di nuovo genere. Fu così che si mise a meditare e a costruire un tale sproloquio (quello che diceva non lo trovò certo nella Sacra Scrittura e tra le parole dello Spirito Santo, ma fu frutto dei miseri ragionamenti della mente umana). Perché tanta diversità in tutto l'orbe creato che ci circonda, tra il nero ed il bianco, tra il rosso ed il verde, tra l'umido ed il secco, tra il cielo e la terra, tra la notte ed il giorno, tra il bene ed il male, tra il giusto e l'ingiusto, se non perché assolutamente provengono da due principi? Ma era stato il diavolo, quando scatenò più terribile la lotta contro il genere umano, ad unirsi alla sua mente ed a farle concepire la mostruosa idea di considerare l'inesistente come anch'esso esistente, misconoscendo quello che realmente esiste; il diavolo aveva voluto portare così una opposizione di guerra dentro le anime dei traviati, a chi cioè giungesse a credere che oltre la persona realmente esistente ci sia ancora qualcosa e che tutte le cose siano prodotte come da due radici o da due princìpiù Cosa quanto mai empia e penosa! Ma ne parlerò in seguito. Il suddetto Sciziano quindi, accecato nello spirito per tutto questo e per gli argomenti che prendeva da Pitagora, se n'era così esaltato: ed eccolo a comporre per la sua libidine quattro libri, che intitolava, il primo Misteri, il secondo Capitoli, il terzo Vangelo, il quarto Tesoro. Poiché in essi qualunque fosse il tema trattato, aveva messo insieme sulla scena i personaggi dei due princìpi, l'uno accanto e in corrispondenza con l'altro, come lo sciagurato se li figurava, la sua immaginazione gli faveva credere di avere così, anche per questa parte, fatta una grande scoperta a beneficio dell'umanità. Ma all'umanità quell'invenzione fu davvero dannosa, a lui e a quelli che sono stati messi da lui fuori strada.

[§ 3] Il nostro eroe si era da poco imbarcato in tale avventura, quando, venuto a conoscenza di quanto i Profeti e la Legge avevano detto sull'origine del mondo e sul Padre, unico principio sempiterno e indefettibile, sul suo Figliolo, e sullo Spirito Santo, fu trascinato da una libidine di voluttà che oltrepassava le precedenti. Si rideva di essi con quell'atteggiamento che gli era proprio ed agitava in cuor suo i disegni per soddisfare le voglie che profondamente l'agitavano. Decise quindi di recarsi a Gerusalemme - erano allora i tempi apostolici - per intavolare direttamente le sue discussioni con i predicatori dell'Unico Principio e di Dio creatore di tutte le cose. Arrivato là il disgraziato cominciò a discutere con i presbiteri del luogo che vivevano secondo la Legge da Dio data a Mosè e affidata all'insegnamento di tutti quanti i Profeti. Diceva: "Come potete affermare che un solo Dio abbia fatto la notte e il giorno, la carne e lo spirito, il secco e l'umido, il cielo e la terra, le tenebre e la luce?". I presbiteri glielo dimistravano all'evidenza, poiché la verità non ha mai cercato di nascondersi, ma egli aveva la sfacciataggine di obiettare, e, non riuscendo a provare nulla, pure rimaneva come trascinato dalla sua posizione insolente di ostilità. Poiché infine non solo non riusciva a cocncludere cosa alcuna, ma anzi riportava la peggio, ricorse ai libri magici che teneva con sé (ed infatti esercitava anche la magia, dacché aveva acquistata quest'arte tremenda e funesta da quei dell'India e dell'Egitto e a contatto con la falsa sapienza dei pagani), salì sulla sommità di una casa e cominciò quindi a dare uno spettacolo di magia, pur senza esserne affatto capace, ma cadde giù dall'edificio e finì così i suoi giorni. Era vissuto lì parecchi anni, ed aveva alla sua sequela un solo discepolo, Terbinto di cui ho parlato, al quale aveva anche affidato come a persona fidatissima ed a servo affezionato i suoi averi. Questi poi, morto Sciziano, gli rese con molta devozione gli onori funebri, ma, datagli sepoltura, si guardò bene dal tornare da quella donnina che Sciziano da prostituta e da schiava aveva fata sua moglie. Invece se ne fuggì in Persia con tutto l'oro, l'argento, ecc. che teneva con sé, e, quanto al suo nome, per non farsi prendere in flagrante delitto, invece di Terbinto, come ho già detto sopra, si diede quello di Budda. Venne così ad avere in eredità, funesta successione, i quattro libri di Sciziano e l'occorrente per le pratiche della magia: anche lui infatti era stato formato con grande amore agli studi della letteratura magica. Ma quando anche lui in Persia dove aveva preso alloggio in casa di una vecchia vedova, si mise a disputare, venendo anche a dibattito con i custodi del tempio di Mitra ed i sacerdoti di questa divinità, soprattutto con un tal profeta Parco e con Labdaco, sui due princìpi; quando poi non riuscì a sostenere i suoi argomenti neanche con i capi dell'idolatria che anzi lo batterono in breccia e gli fecero subire uno scacco vergognoso, allora prese una determinazione simile a quella di Sciziano: salì sul tetto di una casetta e per chiudere la bocca a tutti ricorse alla magia, ma fu abbattuto da un angelo e precipitò giù morendo così in conseguenza di quell'opera magica che voleva eseguire. La vecchia allora ne seppellì il cadavere e veniva quindi in possesso delle sue ricchezze; non aveva alcun figlio o parente e rimase in tale condizione per molto tempo. Fu in seguito che comprò Cubrico cioè Mani, e lo prese al suo servizio. Quando essa morì lasciò perciò a lui quella trista eredità, che sarebbe stata di rovina e di morte per molti, come del veleno lasciato da un aspide.

 

 

3. Cirillo di Gerusalemme, Catechesis sexta (De haeresibus), capp. XXII-XXIV, in Opera omnia, a cura di A.A. Touttée, Parigi 1720, pp.101-102.

 

 

Sciziano era di origine saracena e stava in Egitto, ma non aveva niente in comune con il cristianesimo e con il giudaismo. Vivendo ad Alessandria e imitando la vita di Aristotele, scrisse quattro libri: il Vangelo, che non contiene i fatti di Cristo, ma ne ha solo il nome, i Capitoli, i Misteri e il quarto che ora divulgano, i Tesori. Il suo discepolo si chiamava Terebintho. Quando il suddetto Sciziano si spinse in Giudea e infettò quella regione, Dio, mandandogli la morte per malattia, represse quel crescente flagello. Pertanto Terebintho, discepolo di perversità, erede dell'eresia dei libri e dell'oro, poiché era entrato in Palestina, era conosciuto in Giudea ed era stato condannato, decise di andarsene in Persia, però qui per non essere riconosciuto dal nome, si disse Buddas. Ebbe anche come avversari i sacerdoti di Mitra; ma avendo suscitato molti discorsi e dispute, venne convinto e, spinto all'estremo, si rifugiò presso una vedova. Quindi salì nella parte alta della casa e, invocati i demoni dell'aria (che i manichei invocano), colpito per volere divino, cadendo dal tetto, rese l'anima. In tal modo fu sradicata quest'altra fiera. La vedova ereditò il denaro e i libri e, non avendo nessun parente, con il denaro acquistò un ragazzo di nome Cubrico; lo adottò come figlio. Questi, alla morte della vedova, ereditò i libri e il denaro e si fece chiamare Mani.

 

 

4. Georgius Cedrenus, SunoyiV istorivn in Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, edito da J. Bekker, 2 voll., Bonn 1838-39, pp.455-456 (P.259D-260); riprodotto in PG 121-22. Giorgio Cedreno è uno storico bizantino vissuto tra l'XI e il XII secolo.

 

Quel pazzo di Manes, che è chiamato anche Sciziano, era di stirpe Brachman; ebbe come maestro Budas, che un tempo aveva nome Terebintho. Questi, avendo abbracciato le idee dei Greci, seguì gli insegnamenti di Empedocle che ammetteva due princìpi contrari. Budas, una volta venuto in Persia, si disse nato da una vergine ed educato sui monti. Scrisse quattro libri, i cui titoli sono Misteri, Evangelo, Tesori, Capitoli (Kejalaia). In verità Budas Terebintho morì logorato dal suo impuro genio. Una donna però, della cui ospitalità godeva e presso la quale teneva le sue cose, dopo aver avuto in eredità quegli empi libri, comprò un fanciullo settenne di nome Cubrico, cui insegnò le lettere e che, dato in libertà, elesse erede di tutte le sue cose. Questo Cubrico, dopo aver ottenuto il denaro e i libri di Budas, percorse la Persia e dandosi il nome di Manete e divulgando l'errore di Budas, decantò i di lui libri che lui stesso aveva rielaborato. Il re dei Persiani ordinò che fosse scorticato vivo, perché aveva cagionato la morte a suo figlio. Quando infatti il figlio del re si era ammalato e molte cure riceveva dai medici, Manete promise di restituirgli la salute e così, allontanati i medici, lo uccise con la sua incuria e le sue frottole. Per cui il re, a degna mercede, fece strappare la pelle al misero corpo. In verità quel Manes ripudiava il Vecchio Testamento e calunniava empiamente la creazione del mondo e dell'uomo, perché fatta da un dio non buono [...] insegnò la reincarnazione (docuit migrationis animarum in alia corpora).

 

Proviamo ora a sfrondare le "biografie" di Sciziano dai motivi letterari e dai cliché denigratori che rientravano nel tipico apparato della polemica eresiologica.

Innanzitutto la storia della prostituta, che - come si è accennato in nota - ricalca la vicenda di Simon Mago, considerato il padre di ogni eresia e il profeta dello gnosticismo, ma forse non identificabile con l'omonimo personaggio di Atti 8,9-25. Secondo la leggenda gnostica Simone aveva preso con sé una donna di nome Elena, che, a suo dire, egli aveva trovato in un postribolo di Tiro e che veniva da lui considerata l'incarnazione ultima del "Pensiero" di Dio caduto nella Materia. Questa Elena-Pensiero, redenta da Simone, fu vista da tutti i fedeli del profeta come strumento di salvezza. Di questa Saggezza-Prostituta (Sophia Prynikos) che si è contaminata con il mondo e la materia e che quindi attende di essere "riscattata" molto si parlò nelle correnti gnostiche dei primi secoli, soprattutto nella gnosi valentiniana.

Veniamo alla controversia con gli apostoli e alla conseguente morte per levitazione. Si tratta di un cliché eresiologico attinente alla polemica contro Simon Mago, ben attestato negli "Atti degli Apostoli" apocrifi, e precisamente in Atti di San Pietro, negli Atti dei Beati Apostoli Pietro e Paolo dello Pseudo-Marcello, nelle Memorie apostoliche di Abdia, primo vescovo di Babilonia .

Nel primo testo si narra che l'eretico giunse a Roma ed entrò in rivalità con Pietro per motivi di proselitismo. Volendo dare una dimostrazione della sua potenza, spiccò il volo dalla via Sacra e si levò al di sopra dei templi e dei colli; ma per le preghiere di Pietro "cadde dall'aria spezzandosi una gamba in tre punti. Allora gli tirarono addosso delle pietre e ciascuno se ne ritornò a casa sua; e tutti credettero in Dio" (op. cit., p. 1020).

Nel secondo testo la vicenda si svolge alla presenza di Nerone, che "ordinò che fosse costruita una torre alta nel Campo Marzio". Simone dà spettacolo delle sue capacità di levitazione, ma - abbandonato dagli angeli di satana gra-zie alle preghiere dell'apostolo - "precipitò in un luogo detto via Sacra, si divise in quattro parti" (op. cit., p. 1055).

Il terzo testo racconta infine che Simone, "per dimostrare che era in suo potere raggiungere il cielo quando voleva [...] salì sul monte capitolino e, gettatosi da una rupe, cominciò a volare. [...] Alla voce di Pietro, abbandonato dai demoni, ingarbugliatosi il ritmo delle ali che aveva messo, precipitò. Né riprese più i sensi, ma tutto rotto nel corpo, senza forza, dopo poco spirò in quello stesso luogo" (op. cit., pp. 1456-1457).

Eliminando dunque i motivi letterari legati alla vicenda della prostituta, alla controversia apostolica e alla morte per volo magico, restano alcune "costanti" che si possono così riassumere: Sciziano è un ricco "saraceno" dedito ai commerci, operante in quella zona carovaniera compresa fra l'an-tica città di Petra e il Mar Rosso; ebbe fama di grande maestro di saggezza tanto da venir considerato perfino il "precursore" della grande eresia manichea e l'autore dei libri che in realtà sono ascritti a Mani; si ritirò presso una "vedova" (ed è questo il motivo simbolico sul quale si è innestato il cliché della "prostituta").

Un vero enigma rimane infine quel suo nome grecizzato, che - tutt'altro che derivante da toponimo Scizia - maschera forme semitiche SKT / SQT o SZN / SHN, tutte da verificare.

 

| Copertina | Chi siamo | Attivita' | I nostri maestri | Temi e percorsi | Altri contributi | Per crescere nell'anima |


Se riscontri dei problemi sul sito o vuoi contattarci per informazioni sulla nostra attivita' Scrivici o telefona al 3921496863.
Copyright 2001 G.Burrini Tutti i diritti riservati.