di Francesco Merlo - Corriere della Sera
Forse
sentiva che non
l’avrebbe mai cantata, ma conoscendo il teatro della morte, certamente
prevedeva che sarebbe stata la sua canzone più ascoltata.
Giorgio Gaber ha lasciato quel che ognuno lascia, una spoglia fisica, una
successione, degli eredi. E poi un mito in crescita, alimentato anche
dalla morte; e questo disco, «Io non mi sento italiano», da oggi
nei negozi, che evidentemente gli premeva, persino più dell’uscita
riservata e discreta che stava preparando. E ancora di più il disco gli
premeva quando truccava e nascondeva la malattia perché non voleva
consegnarsi da vivo «a quei bordelli di pensiero / che chiamano giornali».
Dunque l’Italia gli premeva come preme una vendetta, come preme un
testamento: «Mi scusi Presidente / non è per colpa mia / ma questa nostra
patria / non so che cosa sia».
Anche
quando pensava di isolarsi un ultimo istante, come ci si isola per
dormire, Gaber aveva ancora l’Italia alla gola, perché se il male
gli toglieva l’avvenire, la canzone-postuma, l’epitaffio-canzone diventava
il suo aldilà, il suo cielo: «Mi scusi Presidente / dovete convenire / che
i limiti che abbiamo / ce li dobbiamo dire».
E poi lo
spiazzamento, accattivante e perfido, è stato sempre la grandezza di Gaber,
il quale non voleva certo che gli altri, quegli altri che lo avrebbero
ascoltato ma che egli non avrebbe più potuto ascoltare, si permettessero
il pensiero che, alla fine, anche il Gaber si era rammollito: «Mi scusi
Presidente / se arrivo all’impudenza / di dire che non sento / alcuna
appartenenza».
E
tuttavia ci pare di potere azzardare che anche al nostro presidente, al
caro vecchio Ciampi, «contro» il quale il disco è dedicato, questa canzone
stringerà la gola: «Mi scusi Presidente / non sento un gran bisogno
/ dell’inno nazionale / di cui un po’ mi vergogno». Anche Ciampi sa che la
poesia è, sempre, una cattiva azione contro qualcuno o qualcosa, una
coltellata al mondo. E sa che si fa poesia quando si sta male, mentre
quando si sta bene si fa la rivoluzione di piazza o, in subordine, il
corteo di protesta, il girotondo, la festa, il festival e la pubblica
pernacchia: «Mi scusi Presidente / ma questo nostro Stato / che voi
rappresentate / mi sembra un po’ sfasciato. / E’ ancora troppo chiaro /
agli occhi della gente / che tutto è calcolato / e non funziona niente».
Del
resto, il sobrio Ciampi non avrebbe trasformato la patria in una preghiera
del mattino, in un appello accorato, in un sos da naufrago, se non
avesse anch’egli quel nodo che gli serra la gola. Ciampi non avrebbe
rischiato, da una parte, la retorica nazionalista e, dalla parte opposta,
la fermentazione del localismo tellurico, il cortile, il ballatoio, lo
scoglio dell’ostrica, se non avesse già sentito, presentito, quel che
Gaber oggi gli canta: «E tranne Garibaldi / e altri eroi gloriosi / non
vedo altro motivo / per essere orgogliosi». Insomma Ciampi non si sarebbe
imbarcato nella più ambiziosa e defatigante delle sue avventure
presidenziali, se non avesse percepito anche lui l’amor patrio degli
italiani come una nebbia, un miraggio, uno stordimento. E’ come se Gaber,
qualche anno fa, avesse già cantato questa sua canzone postuma, ma solo
per Ciampi. E’ come se nelle orecchie del presidente rintronasse l’assenza
di patria, la voglia di patria di Giorgio Gaber: «Io non mi sento italiano
/ ma per fortuna o purtroppo/ per fortuna / per fortuna/ lo sono».
Poeta
degli sconfortati che non trovano mai la posizione comoda, anche il
Gaber di queste dieci canzoni, non tutte inedite, canta, come sempre, il
disagio della inadeguatezza, l’ossimoro dell’anarchia solidaristica,
l’impossibile solidarietà dell’individualista. E’ ancora il poeta dello
shampoo e dello sciacquone, lo sgraziato e affascinante mimo che introduce
la distanza cantando la vicinanza.
Ma senza più la gestualità ironica che alleggeriva il pensiero più
pesante, qui ci rimane solo quel suo spiazzamento, che è il nostro
spiazzamento. Sentire, con Gaber, l’Italia come un artificio da rimettere
in piedi ogni mattina è infatti lo spiazzamento di tutti gli italiani. Ci
sono solo due modi di essere italiano. O assumendo su di sé tutti i vizi e
i difetti d’Italia, o sentendosi sempre altrove, sempre contro, sempre
fuori. O arcitaliano come Alberto Sordi o antiitaliano come Giorgio Gaber.
L’italiano antiitaliano è l’italiano migliore che abbiamo, dai Pirandello
ai Montanelli. E’ lui il genio stravagante, con la biochimica degli
umori più sorprendente del mondo, un italiano che riesce tuttavia a stare
bene, «bene come uno quando sogna», bene «anche se tutto va in rovina»,
bene «anche se non gli conviene». Gli può infatti «bastare un niente /
forse un piccolo bagliore / un’aria già vissuta/ un paesaggio o che ne
so». E l’Italia è come lui, come il titolo della canzone, come la più
bella di queste canzoni.
L’Italia è «L’illogica allegria».
24 gennaio 2003
Esce oggi, postumo, "Io non mi sento italiano".
Sette pezzi nuovi e tre riproposti dal passato. Un testamento in dieci brani.
Ecco l'ultimo disco di Gaber. Nell'ultima canzone la speranza di un "uomo nuovo"
di MARCO BRACCONI - La repubblica
E COSI', con l'uscita postuma delle sue ultime canzoni, Giorgio Gaber esce
davvero di scena. Restando quello che è sempre stato: l'indignato, sarcastico,
spiazzante e triste signor G. del teatro-canzone. La sua morte, il primo gennaio
di quest'anno, ha intrisitito quelli che ne amavano le parole e la musica. Ma
per tutti questi è stata una morte sospesa, e tale è rimasta fino ad oggi. Fino
all'arrivo del suo nuovo disco: Io non mi sento italiano.
Sei canzoni inedite, una nuova canzone-monologo e tre pezzi (L'illogica
allegria, Il dilemma, C'è un'aria) riproposti da vecchi spettacoli. Un disco
finito solo due mesi prima di morire. Ma dove la morte non c'è, o almeno, non la
sua. Ci sono l'amarezza, a tratti la disperazione, e ancora una volta ci sono il
gioco del sarcasmo, il gusto dell'ironia, la lievità della beffa. Ma la morte
no, quella non si sente.
Anzi, l'undicesima traccia di Io non mi sento italiano è un inno alla speranza.
Addirittura alla certezza che prima o poi, l'uomo tornerà ad essere al centro
della vita. E' la canzone-monologo conclusiva, Se ci fosse un uomo, il vero
testamento di Giorgio Gaber. Perché è un inno ad un nuovo uomo possibile, dopo
che, anche in questo disco, il signor G. ha cantato la fine della speranza e la
vittoria della tecnologia senza vita, dell'io senza gli altri, della ferinità
sulla convivenza.
Del resto, come poteva cominciare dopo aver detto, due anni prima, che la sua
"generazione aveva perso"? Il tutto è falso, dice Gaber nella prima canzone, ed
ecco ricomparire, sopra una melodia vagamente anni 70 (ma con il contrappunto di
percussioni modernissime), i temi che gli sono più cari: dalla solidarietà di
mestiere all'ipocrisia di un mercato globale che dà l'illusione di poter
"salvare" il mondo dalle sue miserie. In mezzo, come sempre, sta l'uomo, sempre
più in crisi, perché questo mondo "ti logora di dentro".
Il mondo, per il Gaber di Io non mi sento italiano, è malato, anzi forse è già
morto. Ma la malattia non è solo fuori, è anche dentro di noi. Lo canta ne I
mostri che abbiamo dentro, sopra una musica che inizia in cupa elegia e diventa
subito un angosciato allarme sulle ombre che ogni uomo si porta dentro. Si sente
la eco dell'11 settembre ("...col mitico bisogno di Allah e di Gesù Cristo"), ma
il mostro che alberga in noi diventa condizione esistenziale - e inesorabile -
di tutti: "I mostri che vivono in ogni mente, che nascono in ogni terra e
inevitabilmente ci portano alla guerra".
I mostri, o mostriciattoli, che ci separano da noi stessi, come ne Il corrotto,
canzone esilarante che entra di diritto nella famiglia gaberiana de Lo shampoo.
E' la ballata blues del solito io diviso, di chi argomenta saggiamente sulla
volgarità dei corpi esposti e sulla pseudosessualità dilagante e puntualmente
tracolla: "...son d'accordo col Papa, però quella lì mi arrapa."
E' al tempo stesso l'io strabordante, incontrollabile e pericoloso cantato ne La
parola Io, uno dei pezzi musicalmente più forti, e più pessimisti del disco. "E'
fatale che l'io diventi dilagante", intona Gaber in quella che più di tutte, in
questo disco, somiglia alle sue celebri invettive. Ma è un io senza l'uomo, e
per questo, forse, è "l'ultimo peccato originale".
Forse solo i bambini la possono dire con innocenza, quella parola Io. E proprio
ai bambini, o ai padri e alle madri, è dedicata la ballata Non insegnate ai
bambini, quella che accompagnò il funerale dell'artista a Milano e che risuona
come un monito talmente poco presuntuoso da somigliare a un gesto d'amore. Se
quella di Gaber è la "generazione che ha perso", ma soprattutto se la Storia non
può fermarsi, allora è inutile insegnare ai piccoli la nostra cultura. Meglio,
molto meglio, "tenerli lontani da essa", e invece, consapevoli che sempre cambia
il mondo, "raccontargli il sogno di una antica speranza".
Certo, è difficile che questa possa essere l'identità nazionale o la patria,
come dice la canzone che dà il titolo all'intero disco. Ma attenzione, Gaber non
va mai preso alla lettera. Sulle note di una marcetta sarcastica e fanfarona,
l'attacco al patriottismo "senza appartenenza" e a una democrazia italiana che
"a farle i complimenti ci vuole fantasia" è limpido e cristallino; ma poche
strofe dopo il singor G. rivendica, e senza ironia, il Rinascimento. E infine,
sbeffeggiando un po' anche Ciampi, a cui si rivolge per tutta la canzone Io non
mi sento italiano, svicola come sempre dal facile qualunquismo: "...ma se fossi
nato in altri luoghi poteva andarmi anche peggio".
Si arriva così all'ultima canzone, al nuovo umanesimo di Se ci fosse un uomo,
che dovrebbe sostituire questo presente medioevo. E al congedo nel nome di un
futuro possibile, senza gioia, è vero, ma senza nichilismo. Nessuno può sapere
se Gaber, incidendo questa canzone-monologo, sentisse vicina la morte. Verrebbe
da dire che sì, se non altro perché è più giusto, e più umano, andarsene con "la
certezza che in un futuro non lontano al centro della vita ci sia ancora
l'uomo".
(24 gennaio 2003)
DOMANI MARATONA-TRIBUTO
SU RADIO INBLU E SU GIORGIOGABER.ORG
Gaber: esce il disco postumo
«Io non mi sento italiano»
23 GENNAIO 2003
Roma. In occasione dell'uscita dell'album postumo
«Io non mi sento italiano», cinque ore di diretta, pezzi inediti, interviste,
testimonianze e un incontro-concerto in esclusiva.
Domani, a partire dalle 22, su Radio InBlu, andrà in onda la «Gaber
Night», un'intera serata dedicata al grande artista recentemente scomparso per
festeggiare il suo compleanno che sarebbe caduto sabato 25 gennaio.
Da «Ciò ti dirò» a «Io non mi sento italiano», tutta la carriera e il percorso
artistico di Giorgio Gaber, per una serata-tributo realizzata da Radio Tau-InBlu
(Bologna) e grazie alla collaborazione di amici e fan del cantante milanese. E
InBlu offre a tutti la possibilità di intervenire in diretta telefonica o su
internet, sul sito www.giorgiogaber.org
«Gaber è stato un artista controcorrente - commenta Paolo Prato,
responsabile dei programmi di InBlu -, sensibile ai gusti di chi non accetta l'
omologazione. La sua sincerità, sostenuta da un grande senso per il teatro e la
melodia, lo ha premiato anche con le vendite. Vederlo ai primi posti delle
classifiche dopo anni di silenzio sul piano discografico è stata una sorpresa
per tutti, e anche per lui.
Nell'intervista-concerto che andrà in onda alla fine dello speciale, Gaber dice
che sì, la sua generazione ha perso ma, riferendosi a Mina, Celentano e a se
stesso, vende i dischi».
Al termine della lunga maratona in diretta, la «Gaber Night» prosegue con
l'incontro-concerto che Giorgio Gaber aveva tenuto nella primavera del 2001 al
Teatro Puccini di Firenze, insieme al chitarrista Gianni Martini e al
giornalista Marco Mangiarotti. Una performance curata, in esclusiva per InBlu,
da Radio Toscana Network.
Nell’ultimo disco che
esce oggi l’artista scomparso comunica tutto il suo pessimismo e il disagio
solitario
Gaber postumo, urla nel silenzio
«Signor Presidente, io non mi sento italiano», canta in un brano
di MARCO MOLENDINI
ROMA - Così parlò il Signor G nel suo lascito musicale definitivo («morire -
ricorda la sua canzone Il dilemma - è un’antica usanza che suole avere la
gente»). Estremo gesto di riconciliazione con la forma canzone a lungo
abbandonata e ripresa (con inatteso successo) due anni fa con un album di
appartenenza (al senso di smarrimento) intitolato La mia generazione ha perso.
Ora, Gaber torna coi tutti i suoi dubbi, i paradossi, il pessimismo cosmico, i
no, l’ironia. La vede nera il cantautore, almeno quanto la vedeva l’attore e
autore di teatro. Accompagnato dall’inseparabile Sandro Luporini, ha messo
insieme sei pezzi nuovi, una canzone monologo (quasi uno spiritual: Se ci
fosse un uomo) e tre ripescaggi dal repertorio. Ha realizzato tutto fra
aprile e ottobre, ha anche curato la raccolta su undici cd del materiale
musicale degli spettacoli teatrali, ha fissato la data di uscita (cioè oggi) e,
il primo giorno dell’anno, ha chiuso gli occhi per sempre, sapendo di avere
ancora qualcosa da dire.
L’effetto di questo qualcosa è come una carta vetrata che raschia sul comune
sentire. È difficile affrontare le canzoni di Gaber di questo cd postumo, Io
non sono italiano), perchè il rito dell’ascolto è scompaginato. La musica
c’è, è gradevole, ben costruita (dal solito Beppe Quirici), seducente, ma fa da
cornice. A contare, si sente dall’impegno della dizione, con le parole scandite
una a una nella loro pienezza è soprattutto il bisogno di comunicare il disagio
solitario, che si spera sia di tanti (solo così ci può essere la speranza di
poter cambiare).
Il risultato, ancora una volta, è di una voce che grida nel vuoto, che ha la
consapevolezza di un percorso vicino al capolinea, che si agita nel nero
dell’angoscia, ma conserva ancora una fiammella di speranza. Per esempio, quando
chiede "non insegnate ai bambini la vostra morale così stanca e malata" e,
perfino, quando accusa che Il tutto è falso (titolo del primo brano),
subito dopo, dichiara "non mi arrendo" perché "l’importante è insegnare quei
valori che sembrano perduti". E, quando proclama Io non mi sento italiano
(frase troppo provocatoria e ironica per non diventare il titolo di tutto il
disco, oltreché del brano) e si appella al Presidente (Ciampi, ovviamente), da
una parte confessa "questa nostra Patria non so cosa sia" e se la prende (dando
voce al sentire popolare) col Parlamento dove "si scannano su tutto e poi non
cambia niente", dall’altra, però, ripete "io non mi sento italiano, ma per
fortuna o purtroppo lo sono".
No, non salva nulla, Gaber perché "tutto va in rovina" (canta Illogica
allegria) in questo mondo animato da mostri "insaziabili e funesti" e che
"inevitabilmente ci portano alla guerra" (nella canzone I mostri che abbiamo
dentro). Un mondo popolato di ipocriti (Il corrotto), di narcisisti
(in La parola io dichiara: "sono disposto a qualsiasi bassezza per
sentirmi importante"), di media vittima di un "gusto morboso" (in C’è un’aria
prendono corpo a celebri mezzibusti, "un signore un po’ eccitato o una rossa
decisa con il gomito appoggiato"). Poi, nel testo finale (di grande effetto
teatrale) chiude con un canto-monologo che quasi inneggia all’avvento di un
Messia: "Se ci fosse un uomo nuovo e forte, allora si potrebbe immaginare un
umanesimo nuovo con la speranza di veder morire questo nostro medioevo». Non si
tratta proprio di ottimismo, ma almeno si può parlare di lontana parentela con
la speranza.
24.01.2003