PINK FLOYD |
THE WALL |
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Lo
confesso, soffro sempre di una certa sudditanza psicologica quando mi
trovo a dover parlare di lavori così importanti, e questo,inutile
dirlo,lo è decisamente.Non intendo da un punto di vista musicale,dal
momento che questi Pink Floyd sembrano i meno sperimentali della loro
storia,bensì mi riferisco al piano concettuale : di tutta la storia del
rock,questo sembra essere uno dei progetti più riusciti di sempre dal
punto di vista dei contenuti o della costruzione psicologica del
personaggio.A dire la verità,The Wall più che dei Pink Floyd, sembra
essere il capolavoro di Waters, e questa ipotesi sembra trovare conferma
sia nel come sia nata quest’idea sia nei particolari autobiografici
presenti nei testi,che ovviamente si riferiscono alla vita del bassista/cantante.La
genesi di questo progetto sembra doversi attribuire a dieci anni di
concerti e ad uno in particolare (la tappa finale di Montreal) che
nell’estate del 1977 vide Waters sputare in faccia ad uno spettatore,
colpevole di voler fare solo casino mentre la band cercava di suonare
rock’n’roll.Ovviamente tutto ciò era sintomatico della distanza
creatasi tra la band ed il pubblico,anche se in realtà il primo ad
accusare questa barriera fu proprio Roger Waters. Il progetto richiese due
anni per essere composto e registrato, anni in cui aumentò la centralità
della figura del bassista.L’album è quello che si potrebbe
tranquillamente definire un concept-album, e attraverso la narrazione
della vita di un certo Pink , si propone di portare alla luce
problematiche come l’alienazione,l’isolamento,tutto ciò insomma che
contribuisce alla costruzione del muro, simbolo dell’incomunicabilità
sempre presente tra gli individui.Vengono messe in discussione istituzioni
e figure sociali che potremmo definire quasi sacre, quali la scuola,il
matrimonio,la figura della madre, attraverso il monologo del protagonista
che costituisce la maggior parte della narrazione. Il disco si apre con un
flashback (“in the flash”) che ci riporta alla nascita di Pink (“the
thin ice”), metafora di come siano sottili la certezze sulle quali
fondiamo la nostra esistenza; segue “Another brick in the wall part 1”
,ricca di spunti autobiografici di Waters (“ papà è volato attraverso
l’oceano/lasciando solo un ricordo/una istantanea nell’album di
famiglia…dopo tutto era solo un altro mattone nel muro…”). La
scomparsa della figura paterna sembra apporre il primo mattone al muro, e
a questo seguono quello della scuola con “The happiest days of our lives”
(“quando crescemmo e andammo a scuola/c’erano certi insegnanti
che avrebbero/fatto del male a noi bambini in tutti i modi/riversando il
loro scherno/su qualunque cosa facessimo/e smascherando ogni nostra
debolezza…”) e della madre : “mother” è il ritratto di una mamma
iperprotettiva,volta a proiettare l’ombra della propria esistenza sui
propri figli, i quali poi non sapranno colmare il vuoto creatosi dalla
scomparsa di queste figure oppressive (è il tema di “empty spaces”).Il
primo disco (dei due) dunque sembra voler mostrare le tappe lungo le quali
il muro va via via costruendosi, ed il suo interporsi tra l’individuo e
la società.Non va trascurata l’esperienza della guerra, presente in
“goodbye blue skies”, o quella dell’incapacità di rapportarsi
all’amore anche come sentimento (“young lust” e “one of my turns”).La
prima parte si chiude con “goodbye cruel world” , ossia col
protagonista che ha toccato il fondo della solitudine e del’abbattimento
: sembra essere una minaccia di suicidio,ma l’accusa espressa nel brano
contro un generico prossimo fa pensare che il dramma sia più psicologico
che fisico. All’inizio della seconda parte si notano i primi segni di
una risalita,una richiesta d’aiuto a chiunque sia dall’altra parte del
muro (“hey you”), che diviene angoscia nella traccia successiva (“is
anybody outhere”), sottoforma di domanda ossessiva e ripetuta.In questo
personaggio non manca la volontà di ammettere i propri errori, ma come
sottolineato in “nobody home”, allorquando chiama , a casa non c’è
nessuno.”Vera” è solo la conferma di questo senso di smarrimento che
pink cerca di annegare nei ricordi,mentre decisiva è “comfortably numb”
: Pink non si sente bene, ma lo spettacolo deve continuare; un dottore
simboleggia il connubio tra scienza e potere e fa si che il protagonista
stia bene fino alla fine dello show, rendendolo come “piacevolmente
insensibile”.Un ideale cerchio si chiude con “in the flash” : la
scena è quella di un concerto, e la trasposizione della figura del
pubblico urlante viene resa attraverso versi di memoria nazi-fascista
(“ci sono delle checche in teatro stasera?/mettetele al muro…quello là
sembra ebreo/e quello è un negro/chi ha fatto entrare tutta questa
marmaglia?…), secondo l’impressione che le folle suggerivano a Waters.
Il dramma del muro si conclude in seguito ad un surreale processo (“the
trial”), durante il quale Pink/Waters è
accusato in successione dalla sua insegnante(“…ho sempre detto
che sarebbe diventato un poco di buono/vostro onore/se mi avessero
lasciato fare l’avrei raddrizzato…”),dalla moglie (“…avresti
dovuto parlare con me più spesso di quanto hai fatto-ma no, tu dovevi
fare a modo tuo…”) e dalla madre la quale però conosce alcuni trucchi
psicologici (“…bambino mio,vieni dalla mamma/lascia che ti
stringa/vostro onore/non ho mai desiderato che si cacciasse nei guai/perché
mai avrebbe dovuto lasciarmi?…”);la conclusione di questo processo
risolve il dramma attraverso una geniale invenzione letteraria (“…non
ho mai visto nessuno/più meritevole della massima pena…ma, amico mio,
tu hai rivelato la tua più profonda paura/io sentenzio che tu venga
messo/di fronte ai tuoi simili/abbattete il muro…”).Il riconoscimento
e l’espiazione dei propri sensi di colpa dunque riescono ad abbattere il
muro, oltre il quale, va detto, vi sono sì le persone che amiamo, ma
persiste il rischio di finire al di qua del muro, soprattutto quando ci
riteniamo tranquillamente felici senza interrogarci sull’ingannevolezza
della realtà. Dunque, a questa complicata vicenda il gruppo decise di
affiancare un accompagnamento molto semplice, all’insegna
dell’efficacia : non ci si azzarda mai con i suoni, tranne che quando
non si tratti di effetti, e il basso di Waters disegna linee originali
nella loro semplicità , col solo scopo di adattare il suono alle immagini
suggerite dalla storia.Ecco dunque come nascono assoli tipo quello della
mitica “another brick in the wall part 2”, o la splendida melodia
della chitarra solista in “is anybody outhere”. Se proprio si può
imputare qualcosa a questo lavoro, è in primis il carattere a volte
troppo autobiografico dei testi, con l’effetto di rendere la storia
troppo legata alle vicende particolari di Waters ; altre parti sembrano
soffrire di facile retorica, mentre le musiche, come già detto,
semplicemente non aggiungono nulla di nuovo al percorso creativo di questo
gruppo.Questo disco, se ancora non lo avete capito, è fondamentale, se
non altro perché forse nella sua storia il rock non ha mai tentato di
gridarvi qualcosa con la stessa forza e convinzione, e quando i temi sono
quelli appena descritti, scusate se è poco!.
Vincenzo De Simone |
PINK FLOYD |
THE DARK SIDE OF THE MOON |
1.Speak
To Me 2.Breathe 3.On
The Run 4.Time 5.The
Great Gig In The Sky 6.Money 7.Us
And Them 8.Any
Colour You Like 9.Brain
Damage 10.Eclipse
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Quando,
per un motivo o per un altro, ci si ritrova a parlare di questo disco, ci
sono alcuni dati che non si possono trascurare , come i 24 milioni di
copie vendute e le circa 730 settimane consecutive nella classifica di
Billboard. Ovviamente al di là dell’impresa puramente commerciale
bisogna rilevare come “Dark Side of the Moon ” abbia segnato un
cambiamento nel modo di produrre e concepire un progetto musicale;oltre
alle notazioni di carattere musicale si devono infatti riconoscere in più
punti i meriti di Alan Parson , creatore di quasi tutti gli effetti sonori
sparsi per il disco, premiato per questi con un Grammy Awards per
l’album meglio prodotto del 1973. Sono proprio questi effetti a
conferire all’opera quella ciclicità così brillantemente riprodotta
anche in copertina e ad amplificare le sensazioni espresse dai brani (
orologi in “Time” , registratori di cassa in “Money”) , andandosi
ad aggiungere alla moltitudine di registrazioni vocali effettuate con
l’aiuto di persone che passavano per caso in Abbey Road (dove si
trovavano gli studi di registrazione), inserite nell’album in
sottofondo, spesso come presenze angoscianti.L’effettistica, è il caso
di dirlo, non è mai stata presente come in questo caso, e il processo che
ne ha determinato l’utilizzo è lo stesso che ha portato alla
composizione delle musiche.Analizzando il passato recente dei Floyd
infatti ci si rende conto che esso era costituito interamente dalle
sperimentazioni post-barrettiane , gli eccellenti risultati di Ummagumma
prima e Atom Heart Mother poi avevano rivelato le reali potenzialità
della band in un contetso di totale libertà di espressione,seppur in un
clima dominato dalla presenza-assenza della figura di Barrett. Con “Dark
Side of the Moon” il gruppo cerca di razionalizzare tutti i sentimenti
espressi liberamente in passato, attraverso un processo che sa di
psicanalisi , ossia portando alla luce angosce e paure,considerando cose
come tempo e denaro quali elementi di frustrazione e dipendenza sociale,
riuscendo finalmente ad esorcizzare la figura incombente del genio
folle Syd Barrett in versi come quelli di “Brain Damage” (“…e se
la tua band inizia a suonare
melodie diverse/ci vedremo sul lato oscuro della luna…”), anche se la
liberazione definitiva avverrà in “Wish You Were Here”.Scompaiono
dunque le lunghe suite strumentali a favore di composizioni più brevi ma
arricchite da un Gilmour ispirato alle chitarre e da un Wright geniale
nella creazione della superba “The Great Gig In The Sky”, impreziosita
dalla straordinaria interpretazione di Clare Torry, che qui si produce in
una serie di irripetibili vocalizzi. Bene, bellissimo, questo disco può
essere dunque definito un capolavoro? Purtroppo no, e
le cause possono essere individuate nella poca ricerca effettuata
nella creazione di questo disco,che è suonato bene,ma molto poco
sperimentale ; a questo proposito registra un fallimento il tentativo di
colmare questo vuoto con gli effetti,i quali,ripetiamo, sono unici sotto
molti punti di vista, ma anche presenti in eccessiva quantità. Gli stessi
argomenti proposti sembrano degli intellettualismi ancora lontani dalla
maturità e dalla capacità
espressiva di The Wall. Non vi sembri il mio un giudizio troppo severo, il
punto è che la fama di questo disco è da attribuirsi più al fatto che
se ne sia parlato e scritto moltissimo, che al suo effettivo
valore.Inutile dire che chi cerca i migliori Pink Floyd non li troverà
qui,bensì nelle mirabolanti escursioni psichedeliche di Ummagumma/Atom
Heart Mother e nella maturità di The Wall;in “Dark Side Of The Moon”
tutt’al più potrete trovare il punto di svolta di Waters e Co.,
finalmente consapevoli di essere dei musicisti
capaci e indipendenti da Syd Barrett, oltrechè un ottimo disco di
rock anni ’70, ricco di chitarre ben suonate e soprattutto di buoni
spunti per il futuro.In definitiva,un disco essenziale per chi vuole
ricostruire il percorso creativo del gruppo, brillante e quasi
“iniziatico” per chi vuole introdursi ai temi sia musicali che
concettuali dei futuri Pink Floyd.
Vincenzo De Simone |