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Intervista n. 3 a cura di Mariella Nocenzi
Ricercatore Istituto Superiore di Sanità
Roma, 28 settembre 2000
Domanda: Parliamo dell’inquinamento elettromagnetico configurato come un problema sociale. Ecco, vorrei conoscere la sua idea a tal proposito. Quando è venuto a contatto con questa problematica sociale che definisce le radiazioni e la loro propagazione come un rischio per la salute dei cittadini? Quando ha avuto il suo primo approccio professionale con questo problema?
Risposta: In questi termini credo che lei abbia scelto la persona sbagliata, perché io sono venuto a contatto, con l’Istituto per cui lavoro, molto prima che questo diventasse un problema sociale. Noi ce ne occupiamo direi da trent’anni. Forse come istituto siamo stati quelli che, forse hanno contribuito a creare l’allarme sociale che c’è adesso, ma sicuramente abbiamo sollevato questo problema tanti anni fa.
Domanda: Voi avete condotto delle ricerche perché entravano nel vostro ambito di ricerca. Per voi non c’era un motivo legato alla possibilità di rischi di questo tipo di indagine sull’argomento?
Risposta:
No, era motivato da possibili rischi. Noi ce ne siamo sempre occupati. Da un
lato noi siamo un istituto di ricerca che fornisce anche consulenza allo Stato e
agli organismi pubblici, e, quindi, svolgiamo da sempre un doppio lavoro.
Facciamo ricerca di base, sempre a carattere sanitario, e poi contribuiamo
all’elaborazione di leggi, alla definizione di misure di precauzione e altre
misure di questo genere. Quindi noi eravamo consapevoli del fatto che la
possibilità di rischi per esposizione a campi elettromagnetici elevati, in
particolare in ambiente di lavoro, esisteva fin dal dopoguerra, dagli anni ’50.
Era un problema, quindi, noto, normato già in altri Paesi, che sicuramente è
andato crescendo molto prima che se ne parlasse in Italia. Quindi abbiamo
lavorato a partire dagli anni ’70 su questo, cercando di individuare situazioni
che, in base alle conoscenze scientifiche, potevano essere, se non a rischio,
almeno meritevoli di qualche misura di attenzione.
Domanda: Il fatto che sia diventato un problema sociale ha inciso sulla vostra ricerca in intensità, interesse, o in qualsiasi altro modo?
Risposta: Sì, drammaticamente, sulla nostra come in qualunque altra
ricerca. Le ricerche sono aumentate vertiginosamente, sono aumentati i
finanziamenti, sono aumentate anche le pressioni per concludere queste ricerche
in modo rapido. Anche l’indirizzo delle ricerche, effettivamente. Qualche tempo
fa, almeno fino alla metà degli anni ’80, forse alla fine degli anni ’80, la
nostra ricerca, come quella di tutto il mondo, era molto più di tipo
speculativo. Lavoravamo su sistemi ideologici, cercando di capire da fisici e da
biologi i meccanismi fondamentali di base. Anche perché non è escluso, anzi è
noto, che questi campi elettromagnetici hanno anche effetti benefici. Vengono
utilizzati anche in terapia medica, radioterapia, o ipertermia per la cura dei
tumori. Allora, noi come ricercatori cercavamo di capire che cosa fanno i campi
elettromagnetici su singoli componenti del sistema biologico del corpo umano.
Adesso, invece, c'è una pressione forte per andare subito al nocciolo del
problema e vedere se succede qualche cosa all'uomo. Si chiede continuamente di
mettere sotto osservazione la popolazione, di vedere se ci sono aumenti di casi
di tumore vicino a certe sorgenti, oppure in determinate aree. E’ cambiata
decisamente la qualità e la quantità della nostra ricerca.
Domanda:
Che tipo di rapporti avete intessuto con altri attori sociali, che possono
essere il mondo politico, la società, il mondo economico. Ci sono rapporti di
pressione, come lei ha un po’ accennato, ma anche di collaborazione?
Risposta: Si … Sì, generalmente parlando ci sono rapporti di pressione e
di collaborazione. Soprattutto, chiaramente, con l’industria, con i gestori di
impianti irradianti campi elettromagnetici abbiamo rapporti più distaccati. Non
spetta a noi fare i controlli e chiaramente abbiamo una certa esigenza di
indipendenza dall’industria nel condurre le ricerche. In effetti, poi,
collaboriamo con loro, nel senso che abbiamo bisogno, ad esempio, dei loro dati,
di informazioni tecniche. Quindi non li demonizziamo e non li teniamo a distanza
per non contaminarci. Con i politici, invece, e con le autorità, abbiamo - o
dovremmo avere - un rapporto più costruttivo. Normalmente questo avviene sempre,
perché, ripeto, noi come ente siamo un istituto di consulenza allo Stato, quindi
siamo noi che dovremmo fornire il quadro delle conoscenze scientifiche. Per una
serie di circostanze, che sarebbe lungo e anche un po’ antipatico spiegare, in
Italia si sono create molte fratture per questo, anche tra istituti pubblici.
Quindi, in altre parole e in termini molto semplici, c’è chi dice una cosa e chi
un’altra, chi ha autorità per parlare e chi non ne ha e ci sono rapporti anche
conflittuali, specialmente con i politici. Ci sono forti pressioni, a volte, per
farci dire quello che piacerebbe che venisse detto, da una parte e dall’altra.
C’è chi ha interesse ad accentuare la pericolosità di questi campi e chi invece,
le industrie in primo luogo, a minimizzarla. Quindi noi viviamo in un equilibrio
difficile. Cerchiamo di mantenere l’indipendenza che dovrebbe essere della
scienza, ma magari non è facile, è anche un’utopia.
Domanda: Quindi ritiene non proprio fondata questa preoccupazione sociale che si è andata costruendo sul problema?
Risposta: Dire non proprio fondata, forse è esagerato. Quello che si può
dire sicuramente, e lo diciamo noi, lo dice l’Organizzazione Mondiale della
Sanità e lo dicono altri enti internazionali, è che è sicuramente sproporzionata
alle dimensioni del problema. Si sta parlando di rischi che intanto non sono gli
stessi per i diversi tipi di sorgente. Questo benedetto termine "inquinamento
elettromagnetico" o "elettrosmog" è doppiamente infelice. Primo, perché
dà una connotazione già di per sé negativa al problema. Secondo, perché fa di
tutta un’erba un fascio. Infatti, questi campi magnetici sono diversissimi per
natura, per origine e soprattutto per meccanismi di interazione col corpo umano
e con gli effetti che possono produrre. Con questo non voglio dire a priori che
le linee ad alta tensione sono pericolose e i telefoni cellulari sono innocui, o
viceversa. Sono entrambi da studiare, ma qualunque cosa si possa trovare è
diversissima. Se poi si va nel dettaglio, le preoccupazioni sono fondate, perché
soprattutto negli anni ’70 e ’80 ci sono state delle indagini molto
preoccupanti, o perlomeno meritevoli di attenzione, relativamente alle linee ad
alta tensione e solo relativamente a quello che diciamo è inerente
all’elettricità. Si parlava, e si parla tuttora, di leucemie infantili.
Chiaramente dal punto di vista della percezione del rischio ciò ha avuto un
impatto chiaramente enorme. Pensi alla leucemia infantile, pensi a una mamma… è
una cosa che traumatizza già in sé. Tutto questo, fortunatamente, negli ultimi
anni si è molto ridimensionato dal punto di vista scientifico. Le evidenze sono
sempre minori, gli ultimi studi sembrano essere negativi, nel senso che non
indicano questi effetti. Gli studi animali, biologici, non forniscono nessun
elemento a sostegno. Quindi, adesso c’è molto meno, non allarme, ma convinzione,
sospetto nella comunità scientifica. Questo non è stato percepito, non è stato
trasmesso alla popolazione. Questo è stato un errore di informazione nostro,
tanto più della stampa. C’è più in generale bisogno di un acculturamento di
fondo della popolazione per spiegare che la scienza non dà mai certezze e che
comunque il dato non solo è incerto, ma è anche provvisorio. La ricerca non
finisce mai, è continua. I risultati sono sempre dinamici. Quella che oggi
sembra essere un’indicazione convincente, domani può essere smentita, o
viceversa può essere rafforzata. Il quadro è molto cambiato e di questo il
cittadino non ha alcuna nozione. La cosa ancora più grave è il fatto che, in
nome di questa convinzione che le dicevo prima, si è estrapolata, del tutto
arbitrariamente, la preoccupazione per i cosiddetti campi ad alta frequenza,
delle telecomunicazioni, dei telefoni cellulari. Se vuole maggiori informazioni,
ci sono dei documenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, anche in lingua
italiana, che affermano in modo categorico che non c’è nessuna evidenza
convincente, né neurologica, o biologica, che questi campi siano nocivi. Il che,
naturalmente, non vuol dire che siano innocui, perché la prova di innocuità non
esiste nella scienza. E’ qualcosa di assolutamente non dimostrabile. Io posso
dimostrare che esiste un pericolo. Non posso dimostrare per certo che non
esiste. Posso solo dire che non è stato riscontrato e che non ci sono motivi di
sospetto. Questa è assolutamente la situazione delle alte frequenze, in
particolare della telefonia cellulare, e ancor più in particolare delle tanto
famose antenne, che sono quelle che oggi destano la maggior preoccupazione, le
maggiori ansie e su cui intervengono dei fattori di percezione del rischio che
sono ovviamente legati alla visibilità delle antenne, alle loro dimensioni,
all’alterazione del paesaggio, e poi a tanti aspetti generali, come
l’impercettibilità dei campi, il nome di radiazioni ed altro.
Domanda: E’ vero che la scienza non può dare certezze. Però dinanzi a rischi, tra cui quello dell’inquinamento elettromagnetico, che richiedono maggior certezza e la competenza di esperti, lei come giudica che queste controversie scientifiche incidano sul pubblico? Possono effettivamente le controversie scientifiche presentate a un pubblico che ha bisogno di certezza dare alla scienza la giusta funzione? Non sono diminuenti, invece, il vero ruolo della scienza?
Risposta:
Assolutamente sì. Mi dispiace dirlo, ma è così. In Italia il confronto
scientifico è diventato addirittura incivile. Siamo proprio alla rissa aperta,
in cui poi non si capisce più chi ha titolo a parlare. I comitati di cittadini,
che fanno il loro lavoro, rispettabilissimo, sono diventati, a volte, dei veri e
propri referenti scientifici. Ci sono vere e proprie leggi regionali e forse
anche nazionali che sono fatte dichiaratamente in collaborazione con questi
comitati e non con gli istituti dove c’è gente pagata dallo Stato, come me, per
fare questo lavoro. Questo crea sicuramente confusione nei cittadini. Dall’altra
parte, ciò non toglie che di nuovo andrebbe fatto – questo lo predichiamo da
tantissimo tempo – un lavoro in profondità di informazione ai cittadini, ma non
su come funziona il telefonino, quanto emette l’antenna, o altro. Quello
dovrebbe essere il fatto finale. Il cittadino, invece, dovrebbe imparare tutto
quello che la scienza può dare e non può dare, che cos’è la ricerca, che cos’è
il rischio, il fatto che il "rischio zero" non esiste, il fatto che esiste un
rischio accettabile, che esiste una disponibilità a pagare. Una volta che si
acquisisse questo, si capirebbe che la scienza, come qualunque altra cosa, ma
ancor di più perché legata a incertezze, a singoli lavori frammentari, è
dibattito, è confronto. Dare l’impressione del coro, in cui tutti gli scienziati
sono perfettamente d’accordo, innanzi tutto è far torto alla scienza
professionalmente e poi è controproducente, perché la gente se ne accorge.
Questo è un equilibrio molto, molto difficile. A me, tantissime volte, quando
parlo alla popolazione, accade di non essere compreso se parlo in un linguaggio
troppo scientifico, quindi pieno di dubbi, usando il condizionale e mai
l’indicativo, e dicendo – anche se è sbagliato dirlo, e lo si legge sempre sui
giornali – "Il ricercatore Smith in America ha dimostrato che..", perché nessun
singolo lavoro ha dimostrato mai niente, ma "indica" qualcosa. Bisogna invece
confrontarsi con il lavoro di qualche altro ricercatore, che a volte indica
proprio il contrario, o che ha certe differenze; bisogna fare i congressi, avere
continui dibattiti, confrontarsi in pubblicazioni scientifiche… Sono tutte sedi
di confronto, in cui le opinioni si dibattono, i risultati si confrontano l’uno
con l’altro, si vede non chi ha torto e chi ha ragione, ma se ha da proporre una
tesi più chiara, più coerente. Tutto questo, effettivamente, al cittadino dà un
forte senso di insicurezza, e, tantissime volte, non solo ai cittadini, ma anche
ai giornalisti. Quando abbiamo cercato di spiegare le cose, la risposta che ho
sentito non so quante volte è stata: "Ecco, l’unica cosa certa che abbiamo
sentito è che non c’è certezza". Questo è il massimo dell’insulto, dal loro
punto di vista, per noi è quasi un onore… Però proprio vuol dire che non ci
capiamo. Per non parlare, poi, dei magistrati, la cui giurisprudenza è fondata
sul diritto romano, che è la certezza del diritto. Essi vogliono risposte certe.
Come bilanciare queste cose è molto difficile, se non capiamo il linguaggio gli
uni degli altri. Quindi io sono d’accordo con lei. E’ sicuramente
controproducente, nuoce all’immagine della scienza qualunque forma di
contrapposizione. E’ sicuramente disastrosa la rissa tra gli scienziati. E’
pericoloso, se non nocivo, anche il confronto, purtroppo. Ma ritengo che questo
sia fondamentale, anche a partire dalle nostre scuole: mio figlio ha fatto il
Liceo Scientifico, gli hanno insegnato tanta analisi, tante cose in dettaglio
della matematica, a fare tanti problemi, ma non gli hanno trasmesso nulla del
pensiero scientifico.
Domanda: Possiamo anche configurare un nuovo ruolo della scienza nell’individuare rischi che spesso si manifestano solo a lungo termine nei loro effetti, come anche quello delle radiazioni, o, in tanti altri ambiti, come quello della "mucca pazza", dove si è visto che gli effetti si sono rivelati dopo tanti anni: la scienza, in questo, può avere un nuovo ruolo o mantiene la sua missione di ricerca e di confronto tra ricerche e rilevazioni?
Risposta: Guardi, questo è un tema dibattutissimo, esattamente in questo momento. Io stesso ho pubblicato un lavoro proprio sul cosiddetto "principio di precauzione", che adesso, ormai, è veramente all’ordine del giorno e su cui ci sono documenti e prese di posizione dell’Unione Europea, originate proprio dal caso della "mucca pazza" e degli organismi geneticamente modificati, ma che si estendono subito ai campi elettromagnetici. Dovrei dirle che per un "arroccamento" della scienza, sarebbe nostro compito dire: "A noi spetta fare la ricerca, noi vi diamo soltanto i dati. Per quanto riguarda gli effetti a lungo termine - sviluppo del cancro, patologie degenerative in genere – allora, possiamo solo affermare che queste sono le conoscenze scientifiche al momento attuale: gli studi neurologici dicono questo, gli studi biologici dicono questo altro. Possiamo avviare oggi un altro studio. Dati i tempi di latenza ci vediamo fra cinque anni. Per la politica, fate voi". Cioè, noi diamo un input, un dato, e poi i politici lo combinano insieme ad altri dati, naturalmente economici, sociali. Chiaramente io posso fare qualunque ipotesi: la si fa di fronte a una tecnologia e un prodotto nuovo – che siano gli organismi geneticamente modificati o i telefoni cellulari. Quando esplode una nuova tecnologia, si nota come i tempi della tecnologia stiano diventando sempre più rapidi di fronte ai tempi di risposta della scienza. Quindi, prima che si arrivi ad un esperimento, si trovino i soldi per condurlo, lo si conduca, se ne analizzino i risultati, lo si pubblichi – e lei sa che la pubblicazione scientifica ha tempi di controllo notevoli – e lo si veda pubblicato, nel frattempo la tecnologia ha già progredito. Per non parlare dei tempi di latenza. Per i telefoni cellulari, se si parla di tumori celebrali, il cui tempo di latenza è di cinque-otto anni prima che un malaugurato effetto si manifesti, in questo periodo la loro evoluzione ha già invaso il mondo. Come bilanciare queste cose? Qui il problema ci rimbalza addosso. E’ per questo che non possiamo più fare questa divisione a "compartimenti stagno". Ci stiamo chiedendo, noi in particolare come Istituto Superiore di Sanità, ma il mondo scientifico in genere, quale sia il nostro ruolo. Se non si debba andare avanti insieme, non ci debba essere un continuo trasferimento nei due sensi. Quindi ci vorrebbe da un lato che le misure di precauzione, le scelte politiche fossero più adattabili alle conoscenze della scienza, e dall’altra parte un mondo scientifico sempre più coinvolto nei processi politici. Sono idee che vengono discusse adesso, lontanissime dalla realtà italiana, dove abbiamo tante rigidità. Per una legge ci vogliono dieci anni per farla e cinquanta per cambiarla.
Domanda: Ha poca fiducia in un possibile cambiamento?
Risposta: Per un cambiamento di mentalità di questo genere confesso di sì. Per delle ragioni ovvie. Adesso sto parlando di ragioni strutturali, legate al nostro stesso modo di fare, di approvare le leggi. Anche atteggiamenti democratici che hanno il loro vantaggio, come la discussione, conducono a poco decisionismo. A questo aggiungiamo sicuramente tutti i conflitti politici, le lotte di interessi. Stiamo parlando di radio e televisioni, oltre che di telefonia cellulare. Non ci vuole la palla di cristallo per capire che la politica che stanno facendo i Verdi oggi, se domani cambierà il colore del governo, cambierà radicalmente. Sarà molto meno "restrittiva" nei confronti di radio e televisione, per ovvie ragioni. Però penso che ci siano anche delle difficoltà di fondo che non sono soltanto italiane.
Domanda: Per concludere, ampliando la visione dal rischio da inquinamento elettromagnetico, oggi si fa un gran parlare di società dell’incertezza. Lei ha fatto spesso riferimento a questo tema. Come cittadino e scienziato ritiene che oggi, più che in altri tempi storici, davvero si viva di più nel rischio, nell’incertezza?
Risposta: Oggi, rispetto ad alcune epoche storiche, si vive certamente molto più nella paura. Lei dovrebbe recuperare La Repubblica di ieri in cui c’era un editoriale di Giorgio Bocca, che parlava proprio di paure, di interesse e significato, prevalentemente di tipo politico, e di paure che ancor sopravvivono: la paura del comunismo, del fascismo, gli spettri del passato, e, quindi, questi fantasmi che vengono evocati … La paura di Berlusconi se si guarda al futuro. Però all’inizio aveva cominciato col dire che, in questa società ormai, finiti i grandi motivi di paura - epidemie, guerre, grandi contrasti sociali – adesso, tutta quella grande parte della popolazione che è fatta di ansiosi se le deve costruire, le paure, e quindi c’è chi cerca le paure. Bocca citava i giornalisti e citava anche gli elettrodotti, diceva che adesso ci sono comitati e comitatini. Prima si pensava all’energia elettrica serenamente, anzi ci dava sicurezza, ci portava in casa la luce…e adesso è temuta, demonizzata. Questo si riflette anche nello strano binomio in cui paradossalmente, il conseguimento di standard e parametri di vita sempre migliori, e quindi la messa in atto di misure sempre più raffinate e di dettaglio, anche volte a ridurre il più piccolo dei rischi, automaticamente, in genere, aumenta la sensazione di incertezza. La legge 626 è un classico esempio di questo. Nata per l’esigenza sacrosanta di ridurre le morti bianche nei cantieri, si è tradotta adesso nel terrore di scivolare dalle scale. Io le potrei portare esempi reali di rischi ridicoli. C’è gente che ha proposto di mettere delle guarnizioni di gomma nei banchi della scuola, perché il bambino, quando gli cade il quaderno, alzandosi, può dare una capocciata e si può far male alla testa. Questo diventa alla fine un rischio esagerato. Questo sicuramente c’è, è un paradosso, ma sicuramente c’è. Chi va nei Paesi del Terzo Mondo si accorge che vivono in una spensierata incoscienza e probabilmente pagano il prezzo di incidenti, epidemie e qualcosa di più grande, però sicuramente hanno meno problemi. A questo si associano, poi, dei cambiamenti culturali che presentano un andamento altalenante, Qui si va su tempi più lunghi, su elementi ideologici e politici. Agli inizi del secolo si mitizzava la scienza. La scienza era solo progresso, era certezza, eravamo vicini alla soluzione di tutti i mali, alla guarigione di tutte le malattie, non c’erano controindicazioni. Oggi, invece, siamo nella situazione opposta. Chissà se aveva ragione Vico, forse si ritornerà ad una fase come quella … Però di questo ho la sensazione precisa. Viviamo nell’ossessione del rischio. Quest’articolo di Bocca mi ha ricordato uno del New Yorker di un paio d’anni fa, quando gli Stati Uniti introdussero un rapporto in cui, come le dicevo all’inizio, si ridimensionava molto il rischio anche degli elettrodotti. Tant’è che gli Stati Uniti hanno deciso che questo non è un problema prioritario. Rimaneva un punto interrogativo, ma in pratica hanno deciso politicamente di chiudere con questa faccenda. Non è all’ordine del giorno del problema sanitario americano, ci sono stati, purtroppo per i miei colleghi, tagli drammatici anche alla ricerca in questo settore, e si è ritenuto che rientrasse nei rischi secondari della vita pubblica. Ebbene, questo articolo parlava proprio della sensazione di sgomento del cittadino americano che si trovava orfano di una paura. Egli si ritrovava senza qualcosa contro cui fino a ieri aveva potuto lottare, con cui aveva potuto sfogare le proprie ansie…
Domanda: Quindi lei come cittadino non si è mai attivato contro qualche rischio sociale per limitarlo? Lei crede che siano un po’ parte del nostro vivere quotidiano? Non dico solo nel comitato di quartiere, ma mi riferisco a qualsiasi altra forma di protesta nei confronti dei rischi sociali.
Risposta : No. Ma questo non vuol dire che … Posso confessare, che è notevole l’esperienza che ho maturato per i campi elettromagnetici di sopravvalutazione del rischio, ma – me lo faccia dire – anche di sfruttamento di queste incertezze, di queste paure, dalle parti più svariate, dai politici agli stessi ricercatori… Un editoriale di una rivista inglese di cultura scientifica tra le più autorevoli del settore - si chiama New Scientist - dell’aprile 1999, che io ho anche tradotto, diceva in una frase: "Non vi aspettate, cittadini, che siano i ricercatori a far passare le vostre paure, perché sulle vostre paure loro ottengono i soldi per le ricerche".
Intervistatore: Si, la conosco e la cito nel mio lavoro…
Risposta: Quindi, come vede, ci siamo anche noi tra i colpevoli. Tutti hanno speculato su questa cosa. Questo, devo dire, mi ha reso così scettico per gli allarmi che, di tanto in tanto, sento per questo o quell’inquinante o pericolo, che veramente non riesco a mobilitarmi. C’è molta ignoranza e vedo che c’è sempre una componente di paura dell’ignoto. Da ricercatore, da persona che ha una mentalità scientifica, io capisco tutti i potenziali rischi che ci sono dietro ad ogni ricerca, perché so che scienza significa anche non escludere nulla a priori. Quindi, non ritengo che gli organismi geneticamente modificati siano per definizione innocui, ma sicuramente tutto quello che si sta facendo è basato sull’ignoranza, superstizione e paura cieca. Perché devo dire che la genetica è ciò in base a cui si è sviluppata l’agricoltura. Anche l’amianto viene citato dai sociologi come un caso in cui si è passati da una situazione in cui effettivamente c’erano dei casi insostenibili, dove il lavoratore che respirava a pieni polmoni in una nuvola di polvere non poteva vedere il suo vicino, ad un allarme pazzesco. Eppure se io mi trovo sotto una tettoia di amianto, che è un conglomerato talmente compatto che cade una fibra ogni dieci anni, solo se io combino la probabilità che cada la fibra, che io stia a bocca aperta lì sotto o la respiri, solo allora potrei preoccuparmi. Quindi, devo dire, che è in base a questo che non mi sento attivo su particolari problemi sociali. Il che non significa l’accettazione passiva del rischio, di cui resto perfettamente consapevole. Ma mi sembra che quasi mai io veda affrontare le cose con quell’equilibrio di cui le dicevo. Si dica pure: "Sicuramente l’inquinamento da traffico è un problema, è un agente cancerogeno serio, il piombo è un agente tossico noto", perché non penso certo che sia innocuo. Però mi sembra che le soluzioni proposte da più parti siano sempre massimaliste. Tutto o niente. Non vedo mai un tentativo, che mi troverebbe non poco consenziente, di dire: "Bene, cerchiamo delle soluzioni efficaci, realistiche, graduate nel tempo, proporzionate", che sono esercizi nel nostro Paese sconosciuti. L’OMS ha recentemente presentato un rapporto sul confronto tra il rischio tarato benzene/campi elettromagnetici in Italia, che hanno gravità decrescente, per tante ragioni. Il radon è un cancerogeno certo, riconosciuto, che introduce migliaia di morti all’anno in Italia. Ma la gente lo ignora … Il benzene è un cancerogeno certo, che produce decine e centinaia di morti all’anno. Se ne ha una certa percezione, ma … I campi elettromagnetici sono un cancerogeno molto incerto, classificati su ben diversa scala dall’agenzia internazionale della ricerca sul cancro, che, qualora lo fosse, potrebbe produrre un caso di morte per leucemia all’anno, eppure è il problema con la P maiuscola. Io mi sentirei, forse è una deformazione professionale, non convinto a scendere in piazza e fare una battaglia, una crociata che non sento essere condotta con metodi che non sono i miei, perché lavoro qua. Quindi a me piacerebbe poter condurre non una crociata contro il benzene o i campi elettromagnetici, ma un’azione ragionata in termini di sviluppo sostenibile. Io penso che il problema vero sia molto più quello di uno sviluppo sostenibile, di definizione delle priorità, di riduzione bilanciata dei rischi. La crociata, che oggi è contro i campi elettromagnetici, è tale perché va di moda. Domani sarà contro il benzene, ieri era contro il nucleare. Francamente tutto ciò non mi lascia molto perplesso.
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