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Saggi
Il mondo multicentrico e lo Stato
di
Giuseppe Anzera
1. Il sistema internazionale nel XXI secolo
Alla fine del XX secolo, sul piano delle relazioni internazionali, crisi e crolli di tipo strategico e diplomatico hanno scardinato il cosiddetto "ordine bipolare" gettando il sistema degli Stati in una nuova era caratterizzata da una turbolenza globale (Rosenau, 1990). Instabilità, complessità e frammentazione sembrano costituire non tanto gli ingredienti propri di una fase transitoria del sistema delle relazioni internazionali, ma degli elementi con cui il moderno Stato-nazione deve imparare a convivere visto che, a breve e medio termine, è difficile ipotizzare che possa prendere forma un 'nuovo ordine' in grado di superare e sostituire l'attuale fase di 'disordine mondiale'(Statera, 1999).
Tuttavia, pur tenendo in massima considerazione gli eventi storici che hanno contraddistinto questi anni, va sottolineato che la fluidità nella sfera delle relazioni internazionali non è iniziata con il collasso del comunismo nell'Europa orientale; i primi segni di questa tendenza, infatti, risalgono all'inizio degli anni Settanta quando la crisi dei sistemi monetari, il fallimento del dialogo fra nord e sud del mondo, la crescita di nuove e vigorose entità di carattere transnazionale (sia di tipo lecito che di natura illegale), la diffusione di conflitti armati non controllati dalle grandi potenze cominciarono a determinare una complessità sempre più marcata della struttura internazionale. In questa dinamica si evidenziavano anche le prime difficoltà degli Stati nella gestione e nel controllo di un sistema che li aveva visti primeggiare come unici e indiscussi attori per oltre trecento anni.
La fine della Guerra Fredda non ha fatto altro che amplificare queste tendenze, accelerando la velocità con cui gli Stati hanno perso il tradizionale e saldo grip sul piano delle relazioni internazionali. La caduta del muro di Berlino ha segnato la rimozione definitiva degli ultimi ostacoli che impedivano la diffusione generalizzata dei due grandi fenomeni che si sono imposti alla fine del secolo: una globalizzazione senza precedenti sul piano commerciale e una crisi universale dei modelli tradizionali di identificazione politica. Esaltata o deplorata che sia, la globalizzazione ha intaccato, quasi ovunque, il delicato equilibrio e le interconnessioni esistenti nelle tre sfere (economica, politica e sociale) che caratterizzano la vita collettiva introducendo dei profondi mutamenti nelle capacità relazionali degli individui in termini di spazio e di tempo e permettendo una dispersione degli spazi decisionali in campo economico. Per queste ed altre ragioni la globalizzazione ha indebolito proprio alcuni dei concetti chiave tradizionalmente legati allo Stato-nazione come quelli di territorialità, di sovranità e di confine.
La crescita dell'economia sommersa e incontrollata, di conseguenza, non è più solo una prerogativa degli Stati in via di sviluppo. Una gran parte dei commerci elude qualsiasi verifica ufficiale, sfidando i confini, riducendo le capacità di controllo associate con i diritti di sovranità esercitati su un dato territorio. Il tempo 'globalizzato' dell'economia e delle transazioni finanziarie si sovrappone a quello 'locale' delle città e delle realtà regionali. Il risultato di questa doppia velocità genera maggiore problematicità in quelle aree che non sono consapevoli della natura di queste dinamiche e che non possono avvantaggiarsi dalle nuove regole che guidano il sistema economico planetario. Chi si trova escluso dai processi di globalizzazione, si trova completamente confuso e isolato senza punti di riferimento e senza speranza. In particolari aree, caratterizzate da una forte depressione economica e da strutture statali deboli, come nei paesi del quarto mondo, il rischio principale è quello di un collasso totale del sistema dello Stato, della fine delle capacità di esercitare sovranità territoriale e di erogare sicurezza interna. La Somalia, gli Stati nell'area dei grandi laghi africani e quelli dell'Africa nord occidentale costituiscono degli esempi evidenti del disfacimento delle autorità statuali; tali situazioni sono peraltro contraddistinte da un innegabile disinteresse da parte della comunità internazionale e da un'assenza di politiche di sostegno e di intervento con il risultato di consentire una propagazione rapida del fenomeno.
In paesi più attrezzati e sviluppati il confronto con la globalizzazione economica rischia di alimentare la tendenza a respingere un sistema che tende a sminuire l'importanza dell'autorità e che sembra privilegiare solo chi, in qualche modo, si mostra disposto ad accogliere modelli e cultura occidentali. Proprio questi scenari sembrano essere all'origine degli sforzi tesi ad allargare organizzazioni complesse ed avanzate, come la Nato e l'Ue, a Stati economicamente meno sviluppati, e sono alla base del dialogo sempre più fitto tra il G8, la Cina e i paesi con sistemi economici emergenti.
2. Lo Stato sfidato e i nuovi attori
Per oltre trecento anni, dalla pace di Westphalia ad oggi, il sistema delle relazioni internazionali si è basato su un insieme di Stati-nazione sovrani. Tale struttura, generalmente veniva definita come anarchica, nel senso che, al di là delle alleanze, delle ideologie o dei sistemi economici, gli Stati non erano chiamati a rispondere ad entità sovranazionali e dirimevano le loro discordie attraverso conflitti o accordi. Naturalmente gli Stati (allora come oggi) non erano gli unici attori a presentarsi sullo scenario internazionale, ma il loro potere e la loro capacità di dominare le collettività erano incomparabili.
Quel mondo, che possiamo definire, statocentrico era governato dalle alleanze tra Stati e, a seconda del modo in cui i poteri politici, militari ed economici erano distribuiti e concentrati, il sistema delle relazioni internazionali poteva assumere forme multipolari o bipolari. In ogni caso rispecchiava sempre il modo in cui gli Stati interagivano tra di loro. Quel mondo, non è più quello odierno, e quella gestione delle relazioni internazionali non è più quella attuale. È innegabile che anche oggi gli Stati abbiano una importanza centrale nelle relazioni globali, ma hanno perso potere nei confronti di una nuova serie di attori i quali, al di là della loro eterogeneità e delle loro differenti potenzialità, hanno l'abilità di limitare e controllare l'azione statale. Questa erosione dei poteri dello Stato, proprio per la differente caratterizzazione dei nuovi attori, avviene, per così dire, dall'alto e dal basso; l'erosione dall'alto avviene, a seguito di processi di globalizzazione economica, culturale e delle comunicazioni, della proliferazioni di organizzazioni sovranazionali e di alleanze transgovernative; l'erosione dal basso si estrinseca con l'esplosione di particolarismi etnonazionalistici e la diffusione di organizzazioni non governative e di entità economiche o subnazionali.1
Le cause che hanno portato a tali mutamenti hanno origini profonde e disparate, ma certamente la globalizzazione delle economie nazionali, la crisi dell'autorità su scala mondiale e l'impatto tecnologico hanno avuto una parte importante nell'avviare (o accelerare) questo processo.2 Da questo scenario emerge quello che, con un termine fortunato, James Rosenau (1990) ha ribattezzato mondo multicentrico, in cui convivono attori differenti, autonomi e con strutture, processi e facoltà decisionali proprie. Nella tabella 1, in modo sintetico, si trovano delineate le principali distinzioni tra il mondo multicentrico e quello statocentrico Secondo Rosenau nel mondo multicentrico confluiscono vari attori che sono liberi di operare rispetto alla sovranità statale, dalle multinazionali alle minoranze etniche, dai partiti politici transnazionali a organizzazioni non governative internazionali. Individualmente, e talvolta congiuntamente, essi competono, si scontrano, cooperano, o altrimenti interagiscono con gli attori che sono posti entro i confini della sovranità statale (Rosenau, 1994). È relativamente facile immaginare che il primo problema, sorto da questa nuova realtà, possa riguardare l'ordine gerarchico.
Per la prima volta il dominio degli Stati è in discussione, dando luogo ad una apparente confusione, ad un modello della turbolenza che non è dovuto ad altro se non al fatto che il numero degli attori che occupano un ruolo importante è cresciuto in modo significativo. In altre parole, non solo gli Stati-nazione non sono più i soli a 'fare' le relazioni internazionali, ma sono stati affiancati da entità che, da un lato hanno poteri reali di influenza, e dall'altro non seguono delle specifiche regole codificate. Tutti questi ingredienti vanno a formare un panorama certamente magmatico e turbolento, ma non per questo meno completo. Credere che quello attuale sia un periodo transitorio può comportare il rischio di attendere invano il 'nuovo ordine mondiale', poiché le dinamiche esistenti puntano alla flessibilità e alla ridefinizione continua piuttosto che alla cristallizzazione e a modelli stabili. Paradossalmente, ma per le stesse ragioni, lo Stato, pur ridimensionato, non sembra in pericolo, poiché non sono in atto dei tentativi di creare nuove entità macropolitiche capaci di sostituirlo come mezzi di organizzazione collettiva, né decollano i tentativi di realizzare delle strutture globali dotate dei poteri per scavalcarlo definitivamente. La tendenza, come detto, porta al dinamismo, all'incertezza e al mutamento e non alla ricerca di nuovi equilibri di potere concepiti, ora, più come ostacoli che come vantaggi. Questo significa anche che le previsioni sul futuro ruolo dello Stato nello scenario internazionale, che prospettano radicali modifiche, vanno considerate con cautela.
Sia che provengano da realisti e neorealisti,3 in attesa che un nuovo nemico per l'occidente riporti lo Stato al centro delle politiche di sicurezza e di potere, sia che derivino da idealisti che aspettano l'avvento del governo mondiale (Falk, 1995) sia che siano originate da transnazionalisti convinti che lo Stato vada incontro a drastici mutamenti nella sua essenza (Keohane e Nye, 1998), le versioni più radicali in tema di declino o riaffermazione dello Stato sembrano inefficaci.4 Come nota correttamente Scartezzini (2000), sembra in atto una sorta di 'feudalizzazione' della politica internazionale, derivata direttamente dal multicentrismo, che porta più attori contemporaneamente ad operare sullo scenario mondiale.
3. Le problematiche legate al multicentrismo
L'importanza di un concetto come il multicentrismo è fuori discussione, anche se, apparentemente, non c'è nulla di nuovo nell'idea di un sistema delle relazioni internazionali diviso in più centri di potere. La portata rivoluzionaria del modello che prefigura, è dovuta al fatto che non si riferisce ad un sistema che comprende solo Stati centrali e periferici, comunque 'detentori del potere nell'età moderna' (Giddens, 1985), ma ad un insieme di attori estremamente eterogenei.
Certamente i problemi di predicibilità degli eventi e di analisi delle dinamiche internazionali si sono straordinariamente moltiplicati, specialmente se relazionati con il periodo della Guerra Fredda in cui la gran parte dei problemi ruotava attorno all'assetto bipolare e alle esigenze delle due uniche superpotenze. Questo sistema, non è Stato sostituito da un nuovo assetto con nuovi 'poli' di potere, ma da un insieme di 'centri' di influenza che sembra generare una biforcazione nel panorama delle relazioni internazionali: da un lato, gli Stati conformi alle loro specifiche peculiarità come la sovranità, la sicurezza e il territorio e, dall'altro, industrie multinazionali, gruppi etnici, enti burocratici, società transnazionali, partiti politici, organizzazioni internazionali non governative, movimenti etnici e sociali subnazionali che hanno la possibilità di prosperare solo se svincolati proprio dalla sovranità statale.
Il fatto che l'erosione dei poteri statali sia in atto è confermata dal proliferare di questi nuovi attori, dalle reali e innegabili capacità che essi hanno di intraprendere azioni su scala mondiale di propria iniziativa, e dal sufficiente potere, da essi guadagnato, per influenzare lo sviluppo delle dinamiche mondiali. Inoltre, pur mantenendo, un ruolo di primaria importanza nelle relazioni internazionali, secondo Rosenau (1994) gli Stati sono sempre più ostacolati, nella loro gestione delle questioni globali, anche da tre tendenze a lungo termine. La prima riguarda il calo di potere della coercizione, sia messa in atto che come minaccia, per controllare i problemi di politica internazionale; in altre parole, uno sviluppo tecnologico delle armi non ha portato ad uno sviluppo del potere politico.5 In secondo luogo l'aumento e la diffusione della cultura hanno portato i soggetti dei paesi avanzati ad adottare un comportamento disincantato e critico verso l'autorità tradizionale, specie se paragonati alle generazioni precedenti e ad essere più esigenti nei confronti della condotta delle autorità.
La terza tendenza, infine, è legata ad uno sviluppo tecnologico, specialmente nei settori dei trasporti e delle comunicazioni, che sta causando una perdita di significato dei concetti di territorio e di confine (elementi importanti per lo Stato-nazione tradizionale) i quali, anzi, diventano di ostacolo alle dinamiche dello sviluppo. In definitiva possiamo affermare che se l'identificazione del multicentrismo con il crollo dello Stato-nazione è decisamente azzardata, l'accostamento con l'erosione parziale dei poteri dello Stato è incontestabile. Le nuove dinamiche che hanno travolto l'ordine statocentrico, non necessariamente sembrano condannare lo Stato all'estinzione. Anzi, per meglio dire hanno stimolato una serie di paradossi di cui non si può non tenere conto. Da un lato, riscontriamo la crisi dei concetti e dei significati di sovranità e territorialità che sono in qualche modo messi a repentaglio dalle nuove dinamiche globalizzanti.
Se la globalizzazione è trasgressione delle barriere e dei confini (Habermas, 1996) è evidente come la sovranità, applicata ad un territorio, costituisca un ostacolo per tutti quegli attori non statali e trans-territoriali6 che continuano ad aumentare di influenza e di importanza, e se la politica internazionale non equivale più ad una lotta per il potere e la sicurezza, ma implica, specialmente in chiave etnica, una sfida per la conquista della lealtà, 'per decidere chi ha diritto di rappresentare chi' (Scartezzini, 2000, p.20) è chiaro che elementi come i confini territoriali stiano mutando di significato e che i tentativi di ridefinire in questa chiave l'efficacia dello Stato siano più che fondati.7 D'altro canto, nonostante declinismi e nichilismi, è corretto rilevare che lo Stato è tutt'altro che in estinzione, se è vero che fino al 1989 la mortalità degli Stati è stata bassissima a fronte di una natalità elevata che è proseguita negli anni Novanta. Come nota Gritti (1998) tra i paradossi che l'età contemporanea ci propone dobbiamo annoverare anche quello secondo cui maggiormente lo Stato perde di autorità reale nello scenario internazionale, più aumentano società, gruppi etnici o subnazionali, desiderosi di costituire un proprio Stato indipendente e autonomo.
Va aggiunto inoltre che se la gran parte dei processi multicentrici colpisce le entità statali in tutto il mondo, la profondità di tali influenze è mutevole, colpendo gravemente gli Stati africani che rischiano di sparire, coinvolgendo profondamente gli Stati occidentali, ma intaccando relativamente quelli industrializzati asiatici che sembrano, in parte discostarsi, per delle peculiarità sociali, politiche ed economiche dagli sviluppi sinora illustrati (Strange, 1996). Nei prossimi paragrafi, cercheremo di concentrare l'attenzione su alcuni degli attori non statali più importanti, su uno dei maggiori temi di dibattito, che riguarda il rapporto tra lo Stato e le etnie, per poi analizzare le tendenze al regionalismo.
4. Gli attori non statali
Per quanto la loro rilevanza cominci ad emergere in modo evidente, i sociologi e i politologi hanno dedicato poca attenzione ai nuovi attori non statali. L'assenza di una definizione precisa che comprenda le varie forme di attori non statali sul piano sociale, politico ed economico, è dovuta a queste ragioni, ma anche all'estrema eterogeneità che queste entità, come già sottolineato, presentano e che richiederebbe una classificazione e dei criteri comuni per valutarle. È facile intuire che il problema della definizione non può essere risolto semplicemente, viste le eccessive differenze che intercorrono tra la mafia e una multinazionale o tra una comunità religiosa transnazionale e una Ong ambientalista.
Un modo per valutare gli attori non statali è quello di considerarli proprio in relazione allo Stato. Supponiamo, ad esempio, che esista un continuum che veda ai suoi estremi attori non statali che, con le loro azioni, concorrono a rinforzare l'autorità dello Stato e, all'altro estremo, attori che si oppongono allo Stato o che cercano addirittura di soppiantarlo. Oggettivamente sarebbe difficile collocare i vari attori su un punto o un altro del continuum, senza considerare la percezione che lo Stato ha nei loro confronti. Diventa fondamentale se lo Stato percepisce un attore non statale come alleato e utile partner o se lo considera un nemico e un rivale per il possesso della legittimazione e del potere; quindi diviene ancora più importante se lo Stato è autoritario e accentratore, se è geloso del suo potere, o se è più tollerante. Poiché si tratta di percezioni, l'atteggiamento degli Stati non necessariamente può essere razionale nel valutare la minaccia o l'utilità degli attori non statali; per certi versi sembra riproporsi il problema del conflitto potenziale tra Stati, la cui esplosione o meno dipende spesso dalla mutua percezione che le parti hanno delle intenzioni dell'altro. Questa soggettività delle percezioni ha comunque dei punti fermi. Come nota Susan Strange (1996), sebbene le percezioni, possano cambiare,8 solitamente non mutano velocemente o radicalmente. Ciò significa che, in fondo, è possibile identificare, ai rami opposti del continuum, delle situazioni relativamente stabili in cui i rapporti tra Stati e attori non statali sono comparabili passando dalla tregua armata ad una prudente coesistenza.
Dei rappresentanti validi tra gli attori non statali, che possono costituire dei buoni esempi in quest'ottica, sono da un lato le organizzazioni criminali con connessioni e interessi transnazionali (le mafie, italiane, cinesi o russe, i cartelli colombiani) come esponenti di autorità opposte agli Stati e dall'altro le grandi compagnie assicurative o di consulenza finanziaria (Price Waterhouse and Coopers o Arthur Andersen) come entità più che tollerate e di cooperazione con le attività statali. Questi sono esempi di attori non statali di tipo subnazionale o transnazionale, ma esistono anche casi in ambito sovranazionale ben rappresentati da enti come il Fondo Monetario Internazionale o la World Bank. Queste organizzazioni hanno dei poteri tali da poter mutare radicalmente il panorama economico e sociale di un paese. Man mano che diminuisce la presa degli Stati sulle Nazioni Unite, a cui WB e FMI sono collegate, aumenta il potere di intervento che queste ultime possono esercitare nei confronti di uno Stato, tanto da portare a una loro differente percezione a seconda della forza e della debolezza degli Stati stessi. I paesi forti le considerano dei validi supporti ai sistemi economici nazionali e delle organizzazioni in grado di provvedere al sostegno delle economie dei meno abbienti, mentre gli Stati poveri le percepiscono come delle minacce, degli strumenti di un nuovo colonialismo collettivo devoluti al mantenimento delle gerarchie esistenti nel mondo industriale avanzato.
Al di là delle considerazioni morali su supposti neocolonialismi o meno è un fatto incontestabile che i duri criteri liberisti di WB e FMI, finalizzati al prestito quasi sempre puntano a soluzioni in cui la prima voce da tagliare è quella dell'assistenza statale e degli impieghi statali. Provvedimenti del genere possono creare dei gravi problemi di instabilità politica che vanno dal forte scontento sociale al rischio di gettare un paese nella guerra civile. I casi recenti di Egitto ed Algeria rappresentano proprio due situazioni di crisi sociale (di gravità differente) in buona parte determinata dai tagli imposti allo Stato dal Fondo Monetario Internazionale e dalla World Bank. Queste ultime situazioni ci fanno anche comprendere quale sia la capacità di intervento, sul piano delle relazioni internazionali di tali organizzazioni e naturalmente è solo un caso che i paesi citati facciano parte dell'area mediterranea. Tra i due estremi di attori non statali tollerati o avversati dagli Stati, troviamo altri enti la cui relazione con gli Stati è variabile o ambigua. Un esempio interessante, in tal senso è costituito dalle multinazionali e dai cartelli transnazionali che stilano delle loro specifiche regole operative e di intervento ed esercitano un'effettiva autorità sui mercati e, in qualche maniera sugli Stati stessi. Il comportamento di questi gruppi è spesso poco conosciuto e il loro ruolo può talvolta essere ambiguo. In alcuni settori, come quello del controllo dei mezzi della produzione elettrica, l'esistenza di tali gruppi è nota ai governi i quali accettano di buon grado l'esistenza di certi cartelli.9
In altri settori vitali dell'economia, come nei trasporti navali, queste organizzazioni sono tollerate, sebbene ufficialmente contraddicano dei principi dichiarati di libero mercato. Infine alcuni cartelli di multinazionali, specialmente quelli operanti nel campo dell'acciaio, dell'uranio e dell'alluminio, hanno ottenuto addirittura una legittimazione formale mediante accordi intergovernativi. Un altro esempio importante di attore non statale e transnazionale è dato dalle organizzazioni non governative. Alcune di queste hanno ricevuto un riconoscimento formale e istituzionale da parte delle Nazioni Unite potendo usufruire del diritto di presentare i propri punti di vista all'Onu e di essere consultate dalle agenzie Onu con cui condividono gli stessi interessi. Sia il numero delle Ong che quello dei loro affiliati è cresciuto enormemente negli ultimi decenni. Alla fine degli anni Ottanta l'annuario delle organizzazioni internazionali dell'Onu ne elencava oltre 4.500. Tanto per fare due esempi molto ben conosciuti, il WWF (World Wildlife Fund) ha aumentato clamorosamente i suoi iscritti passando dai 100.000 scarsi del 1983 a oltre un milione nel 1991, mentre i suoi introiti sono cresciuti a dismisura salendo, nello stesso periodo da 9 a 100 milioni di dollari annui;10 dal canto suo Greenpeace ha visto aumentare i propri affiliati tra il 1980 e il 1990 da un milione e mezzo a quasi sette milioni e più che quadruplicato i propri proventi passando da 24 milioni a circa 100 milioni di dollari annui. Per il numero degli affiliati, per le capacità di influenza sui governi, per il sostegno popolare unito a esperienza tecnica e fonti di informazione, queste Ong costituiscono degli attori di primaria importanza sul piano delle relazioni internazionali avendo indubbia autorità e legittimazione.
Con tali caratteristiche esse possono costituire, in certi casi dei preziosi alleati per gli Stati, ma in altre situazioni hanno rappresentato una irritante fonte di imbarazzo per quei politici che non volevano agire con la rapidità e l'intensità pretesa da queste organizzazioni non governative. Un altro esempio molto importante di Ong è rappresentato da Amnesty International, la quale si oppone attivamente e pubblicamente a molti dei governi autoritari e che non tralascia di accusare anche gli Stati democratici quando questi non seguono le normali procedure giuridiche. Forse per la loro stretta sintonia con alcune associazioni sovranazionali come l'Onu, le Organizzazioni non Governative più importanti e influenti sono tra i pochi attori non statali, che operano sullo scenario internazionale, a essere stati studiati e ad aver interessato gli ambienti accademici, anche se più per fenomeni sociali quali la spinta all'associazionismo, che non per i risvolti sul piano globale.
5. Il dilemma delle etnie tra autodeterminazione e sovranità statale
Le etnie costituiscono un attore substatale che, nell'ultimo decennio è tornato alla ribalta. Nulla più dell'esplosivo revival etnico ha attentato maggiormente all'integrità degli Stati e le guerre etnonazionalistiche che si sono succedute, e sono tuttora in corso, hanno già sancito la fine di Stati apparentemente solidi e la nascita di nuove entità statuali o aspiranti tali. Questo problema può essere riproposto anche in termini di scontro tra i due principi di autodeterminazione e di sovranità statale. Uno scontro che, come nota Hashmi (1997), è pericoloso per la stabilità dell'intero pianeta e che è alla base della gran parte dei conflitti etnici se è vero che dietro questi scontri si cela il problema di chi ha il diritto di esercitare l'autodeterminazione e come, oppure su chi ha pieni diritti di sovranità su un territorio o meno. Questi eventi stanno rapidamente mutando le tradizionali concezioni sulla sovranità statale.
Sinora lo scenario politico internazionale ci proponeva delle situazioni in cui, al termine di un conflitto su base etnica, la sovranità statale era ristrutturata per accontentare i belligeranti (come, ad esempio è avvenuto in Nigeria e, in qualche modo, in Sudafrica), oppure le pretese di autodeterminazione venivano duramente represse da uno Stato (come nel caso dei curdi iraniani dopo la seconda guerra mondiale o di Timor est nel 1975). Questi ultimi anni ci hanno dimostrato che lo scontro tra le pretese di sovranità e le rivendicazioni di autodeterminazione possono condurre alla polverizzazione dello Stato, come nel caso della Jugoslavia, e ad una situazione di continua tensione tra le parti in causa.11 L'autodeterminazione etnica è stato anche il fattore principale di mutamento dello scenario internazionale negli anni Novanta. In qualche maniera ha accelerato il collasso dell'Unione Sovietica e ha determinato grandi alterazioni in Cecoslovacchia, Etiopia, Jugoslavia. Il revival etnico ha attizzato nuove guerre civili o risvegliato conflitti che sembravano languire in Azerbaijan, Birmania, Georgia, Moldavia, Sri Lanka, Sudan, Turchia, nelle Repubbliche meridionali della Russia (Cecenia in testa). Molti paesi rischiano di sparire e, specialmente negli ultimi cinque anni il fenomeno sembra assumere proporzioni enormi nel contesto africano, coinvolgendo una fascia sempre più ampia di Stati che va da Ruanda, Burundi e Zaire, passando per il Congo, fino alle coste atlantiche, toccando Liberia e Sierra Leone.
Il problema dei conflitti etnici sembra destinato a sfidare il sistema delle relazioni internazionali in maniera sempre più vigorosa nei prossimi decenni, specialmente se questi movimenti non vengono controllati adeguatamente e se la comunità internazionale non stabilisce una serie di regole di intervento. In tal proposito, alcuni degli eventi più recenti, in tema di peacekeeping, sembrano dare ragione a quei teorici che propongono un profilo operativo flessibile. In altre parole si tratterebbe di una sintesi tra intervento sovranazionale ad alto livello, di solito scarsamente efficace, se non correlato con organizzazioni militari dalle provate capacità operative (le differenze tra l'intervento Onu e quello Nato in Bosnia sono sotto gli occhi di tutti) e un intervento ultra-regionale gestito dai paesi confinanti, che di solito accresce i problemi invece di appianarli (come nel caso dell'intervento nigeriano in Sierra Leone). Il nuovo tipo di intervento sembra privilegiare un approccio integrato da parte di potenze militari e di potenze regionali locali, ridefinendo le modalità e le entità delle operazioni a seconda dei casi senza utilizzare modalità eccessivamente standardizzate che spesso risultano inadeguate alle peculiarità situazionali.12 Questa nuova flessibilità di intervento sembra essere la strada giusta per affrontare eventi che difficilmente si ripropongono in situazioni similari per contesto sociale, economico o geografico e danno il giusto merito a quanti hanno sostenuto la validità della flessibilità e del cosiddetto'pacifismo debole'.13 Il problema della risoluzione dei conflitti etnici, e, in definitiva, del compromesso tra sovranità statale e autodeterminazione va affrontato molto seriamente, se non si vuole andare incontro alla spiacevole situazione illustrata da Boutros-Ghali secondo cui "piuttosto che 100 o 200 paesi, potremo avere, alla fine del secolo, 400 paesi e non saremo in grado di raggiungere nessun tipo di sviluppo economico per non parlare dell'incapacità di controllare le molteplici guerre di confine" (Leopold, 1992, p.12).14
6. Il Regionalismo
Tra le visioni di nuovo ordine internazionale che stanno prendendo piede in questi ultimi anni, quella che si occupa della diffusione dei sistemi economici regionali, e della loro possibile evoluzione in entità politiche sempre più integrate, è particolarmente interessante. L'evoluzione dell'Ue, dell'Asean, del Nafta, del Mercosur, per citare alcuni organismi importanti comincia ad avere un peso rilevante, sia sul piano delle relazioni internazionali, sia sull'adeguamento delle politiche statali alle decisioni di tali enti sovranazionali. A scanso di equivoci, è bene premettere che pochi segnali indicano che tali organismi economici potranno trasformarsi in blocchi contrapposti dando luogo, parafrasando Huntington, a ipotetici 'clash of regions'. L'interdipendenza economica, garantita dalla diffusione ormai globale del libero mercato e del capitalismo, rende ancor più remota questa possibilità. Il regionalismo è un costrutto interstatale che è distinto da altri costrutti similari come quelli di tipo globale che sostengono le Nazioni Unite. I progetti regionali emergono da una serie di complicati accordi e negoziazioni tra vari Stati basati, in definitiva, sul calcolo dei costi e dei benefici che ognuno di essi può trarre da una coesione di ordine regionale. Il processo è complicato perché gli Stati sanno che dovranno realmente cedere una parte dei propri poteri decisionali ad un ente sovranazionale con doti di intervento concrete; una percezione differente accompagna invece l'adesione a enti macropolitici come l'Onu, le cui capacità di intervento su un singolo Stato, specie in termini di politica economica sono, salvo poche eccezioni, ridotte al minimo. In altre parole "l'attuale regionalismo può essere definito come un tipo di processo multilaterale, circoscritto in ambito territoriale, che trova realizzazione, attraverso accordi di scopo tra Stati sovrani" (Troiani, 2000, p.18).
Le strutture regionali che costellano il globo nascono da tali accordi di scopo, anche se spesso questi sono di natura molto differente. Tuttavia è possibile identificare dei tratti comuni a questi organismi (Gamble e Payne, 1996). Uno dei più interessanti riguarda il carattere aperto del regionalismo, che ha smaterializzato tutte le paure della creazione di organizzazioni chiuse. Idee, come quella della supposta 'Fortezza Europa', non hanno mai rispecchiato i reali obiettivi dei paesi europei, anzi è possibile ipotizzare che il regionalismo sviluppatosi negli anni Novanta costituisca più un passo verso il globalismo che non il contrario. In effetti, il regionalismo aperto causa internamente la rimozione degli ostacoli per un libero commercio, senza elevare ulteriori barriere tariffarie verso l'esterno. Piuttosto che un dibattito tra protezionismi e libero commercio i regionalismi hanno portato ad un confronto tra libero commercio e commercio strategico, laddove quest'ultimo prefigura non un atteggiamento protezionistico, ma una difesa dei settori chiave delle economie, sfruttando le possibilità garantite dal sistema regionale. Per quanto ciò possa far storcere la bocca ai partigiani del free trade la dinamica del commercio strategico ha favorito lo sviluppo e la crescita delle grandi associazioni regionali. Inoltre sembra interessante il punto di vista di chi come Albert (1993) sostiene che proprio il regionalismo abbia favorito dei modelli distinti di capitalismo. Il diffuso modello angloamericano, basato sul libero scambio, sul potere bancario e sulla politica del lassez faire da parte governativa, non rispecchia il modello giapponese, o quello renano, che privilegia il commercio strategico, gli investimenti a lungo termine, un maggiore intervento politico nelle questioni economiche. Va anche detto che si tratta di questi modelli sono delle forzature della realtà esistente, in considerazione del fatto che problematiche di commercio strategico hanno sempre dominato alcuni settori dell'economia statunitense (specie per la difesa) e che Giappone e in Europa il libero scambio muove molti settori economici. Resta il fatto che, in conclusione, lo sviluppo del regionalismo costituisce uno degli argomenti più complessi per gli analisti delle relazioni internazionali. Dal punto di vista del potere dello Stato-nazione, però, questo processo sembra destinato a causare una perdita sempre maggiore di responsabilità statali e ciò sia che il regionalismo si muova irrimediabilmente verso il globalismo politico, sia che, come più probabile, vada a porsi come punto di intermediazione tra le spinte idealistiche verso supposti governi mondiali e il realismo egoista dello Stato-nazione.
7. Le nuove sfide per lo Stato
Gli attori statuali, sul piano della politica internazionale si trovano a dover affrontare tre ordini problematici. Il primo riguarda la possibilità di creare un sistema in grado di mettere in relazione i nuovi blocchi regionali, in altre parole, Stati Uniti, Russia, Cina, Unione Europea, i paesi sviluppati del sud-est asiatico e quelli del Mercosur. Apparentemente il sistema sembrerebbe di tipo convenzionale, legata alla sfera della diplomazia e a quella riguardante la nota questione delle sfere del potere. In realtà esiste una grande differenza rispetto ai sistemi internazionali che hanno preceduto quello odierno che riguarda la straordinaria eterogeneità degli attori coinvolti.
Il problema degli equilibri mondiali non riguarda più solo i rapporti tra gli Stati, coinvolgendo una serie di entità in grado di rivaleggiare con lo Stato sul piano delle relazioni internazionali. Anche ove le tematiche riguardano direttamente gli Stati, d'altronde, il panorama attuale tende a differire dai canoni tradizionali coinvolgendo entità dalle caratteristiche diverse in cui convergono entità a carattere regionale dai confini sfumati e paesi che hanno dei problemi nella capacità di controllo del territorio. In altre parole, non deve essere organizzata tra paesi, ma anche l'esistenza stessa delle entità statuali, chiaro segnale della crisi di elementi tradizionalmente legati allo Stato come il confine, il territorio, la sovranità. Il secondo set problematico riguarda la globalizzazione, o meglio, la globalizzazione economico-finanziaria, e le possibilità di creare una regolamentazione in questo campo. La crisi delle borse asiatiche del 1997, le difficoltà finanziarie di Brasile e Russia, la bancarotta definitiva del sistema americano LTCM (Long Term Capital Management) sono dei segnali importanti dei rischi e delle disfunzioni di un sistema che, se lasciato nell'attuale deregulation, può causare gravi danni all'economia globale. Di qui le richieste sempre più pressanti di un maggiore monitoraggio del movimento dei capitali e di una migliore e più controllata gestione dei mercati nazionali. Naturalmente non è stato raggiunto alcun accordo sulla natura e la portata delle riforme da effettuare anche per le perplessità suscitate dal fatto che la creazione di un supposto "nuovo ordine finanziario internazionale", rischia di scavalcare, o di svuotare delle rispettive funzioni, alcune delle più importanti organizzazioni internazionali come FMI e OCSE. Correlato a questo ordine di problemi è quello del consolidamento delle regole del commercio internazionale e in questo caso gli intensi sforzi e le negoziazioni che hanno caratterizzato il Millennium Round iniziato a Seattle nel 1999, costituiscono un segnale di grande evidenza.
L'ultima questione, non meno importante delle altre, riguarda le prospettive di crescita degli Stati più poveri; essa costituisce un ostacolo importante sul piano della gestione dell'ordine interstatale. I nuovi progetti di cooperazione, i piani di abbattimento o annullamento dei paesi dell'Africa subsahariana rappresentano dei tentativi importanti di coinvolgere le aree più depresse nel contesto internazionale. Forse costituiscono una presa di coscienza, si auspica definitiva, da parte dei paesi più ricchi che le nuove dinamiche in atto sul piano globale rischiano di tagliare fuori dalle possibilità di crescita quelle aree incapaci di connettersi ai circuiti economici e politici internazionali, condannando vaste zone del pianeta al sottosviluppo economico e al disastro che segue il crollo politico e istituzionale.
Note
1. Per fare un rapido esempio è sufficiente pensare ai
nuovi poteri di intervento, in aree precedentemente gestite dagli
Stati, che può sfruttare una struttura come l'Unione
Europea.
2. Per una analisi della crisi dei concetti di autorità e
legittimità, e del loro riflesso sulla politica
internazionale, vedi Burk (1994)
3. Per i fondamenti della teoria realista delle relazioni
internazionali vedi Morgenthau, 1948; per una versione di assoluto
rilievo del neorealismo vedi Waltz, 1987.
4. Ad onor del vero, anche nelle questioni generali sul futuro
assetto delle relazioni internazionali i tentativi di spiegazione di
carattere macropolitico, specie se accompagnati dall'ambizione di
generare modelli esplicativi cristallizzati, convincono anche meno;
per degli esempi vedi Huntington (1997) o Fukuyama (1992).
5. Basta pensare a tutti i problemi di neodeterrenza e di sviluppo
di armi di distruzione di massa che stanno incontrando i nuovi
aspiranti ad uno status di potenza nucleare; sia questi paesi che
quelli già dotati di tali strumenti, ma non facenti parte del
'nuke club' dei cinque stati del Consiglio di Sicurezza dell'Onu,
rischiano di incorrere in gravi problemi in termini di isolamento dal
contesto politico ed economico, con ripercussioni che
controbilanciano i possibili vantaggi in termini di deterrenza stessa
(vedi Carus, 1990)
6. In proposito vedi Poggi (1991)
7. Particolarmente interessanti appaiono i nuovi concetti di
'quasi-stato' di Jackson, (1990) e di 'stato permeabile' di James
(1986).
8. Ad esempio si pensi al susseguirsi di eterogenee percezioni che
lo Stato italiano ha sviluppato nei confronti della mafia,
considerata in alcuni periodi come una minaccia pericolosissima per
l'integrità dello Stato e in altri come un fenomeno eversivo
tradizionale o alla differente reazione (talora di tolleranza, talora
di repressione) dello Stato jugoslavo titino di fronte rivendicazioni
etniche portate avanti dalle varie nazionalità che lo
componevano.
9. Si pensi al caso della Iea, agenzia che controllava gli ordini
commerciali alle principali industrie di strumenti per la produzione
elettrica, salvaguardando le necessità di tutte le aziende
deviando ordini o corrompendo (come in Brasile) funzionari
governativi e militari per ottenere i risultati voluti.
10. E, quasi inutile evidenziare che stiamo parlando di cifre che,
per alcune economie rappresenterebbero già traguardi discreti
in termini di pnl. Il paragone sarebbe ancora più forte se
fatto con alcune multinazionali i cui proventi sono irraggiungibili
per buona parte degli Stati del globo.
11. Una delle principali sfide per la comunità
internazionale, in chiave di validità di peace enforcing,
è rappresentata proprio dagli avvenimenti che seguiranno il
ritiro delle forze della Nato dalla Bosnia. Al riguardo le tesi
pessimistiche, secondo cui le parti in causa riprenderanno subito la
lotta per il controllo del territorio non essendosi creata una
situazione di reale stabilità politica, non sembrano
così infondate. Lo stesso problema, naturalmente, riguarda il
Kossovo.
12. Il primo intervento degno di nota, in tal senso, è
quello realizzato recentemente a Timor est dove una potenza regionale
(l'Australia) è stata affiancata da una serie di interventi
delle principali potenze militari.
13. Per una accurata estrinsecazione del concetto di pacifismo
debole, vedi Zolo (1995).
14. Per ulteriori chiarimenti sulle problematiche etniche e per le
strategie di controllo vedi Shehadi (1993).
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