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Note
Il declino del melisma e la
globalizzazione della musica:
siamo "autoterminali"?
di Federico del Sordo
1. Lo scenario tecnologico
Si dice che la fine della guerra fredda e la digitalizzazione dei sistemi di comunicazione abbiano accelerato in modo determinante il processo di globalizzazione. Su questa falsariga, i sociologi della musica appartenenti alla Wiener Schule hanno proposto più di una riflessione, tentando peraltro - come Alfred Smudits -; di offrire alcuni indicatori, quali il trend dell'educazione musicale, il commercio di strumenti musicali e di musica stampata, le esecuzioni, il "comportamento" dei media (compresa l'industria fonografica), le relazioni fra politica e musica, ecc. [1997,22-25].
La circolazione delle opere musicali non rappresenta una causa, ma un effetto o, se si preferisce, il fine della globalizzazione. Se ciò è vero, bisogna chiedersi quali siano le condizioni che abbiano consentito il consumo planetario. In primo luogo, bisogna osservare che l'idea che l'uso del computer per l'elaborazione e l'ascolto dei prodotti musicali (vale a dire produzione e consumo) abbia unidirezionalmente ampliato le facoltà dei music maker nasce perlopiù da un equivoco generalizzato proveniente dal rapporto fra informatica e altri campi (dalla biologia alla psicologia, dall'archivistica all'architettura). L'opinione, a proposito, di Dennis Lorrain è molto chiara. Sono state le esigenze della produzione e dell'editing (compreso quello "casalingo") - come velocità di elaborazione, flessibilità del software, uniformazione delle interfacce - a stimolare l'industria informatica [1999, 160] e, d'altro canto, questo punto di vista era già stato assunto, a suo tempo, da Negroponte [1995, 272]. In secondo luogo, vatenuto in considerazione che il Worldwide Web - il più potente canale di comunicazione digitale - in realtà ha assunto il suo ruolo di vettore principale solo per mezzo dell'applicazione di quei protocolli di compressione dei files audio, frutti, anch'essi, di una spinta proveniente dal mondo musicale. Infatti, grazie alla ricerca dei laboratori del Fraunhofer Institute, già alla fine degli anni Ottanta, veniva sperimentato in Germania l'mp3, un formato che, eliminando il "non udibile" (sullo stesso principio dello standard grafico jpeg (perception coding), riduceva notevolmente il volume dei files musicali consentendo loro di essere scaricati via Internet in un numero di minuti ragionevole: ridotta a 2-3 Mb di dati, una canzone poteva così richiedere solo dai tre ai cinque minuti mediamente, contro i circa 27 Mb di un file audio incompresso (come i files con estensione .wav). Nonostante la ricerca informatica abbia prodotto successivamente sistemi che offrono una migliore qualità di ascolto - il Twin-VQ (Transform-domain Weighted Interleave Vector Quantization, che dà luogo a files .vqf) [2000, 2-3] - il formato mp3 risulta attualmente il vettore più diffuso, come risulta dalle statistiche di navigazione (mp3, dopo la voce sex, è tra i termini più inseriti nei motori di ricerca).
2. Lo scenario istituzionale
La circolazione di audio-on-demand è così giunta, in breve tempo, alla sinergia fra rete e terminali specifici, come l'Mpman, un agile dispositivo simile al Walkman, che anziché dotarsi di una cassetta musicale, si "carica" con files mp3,permettendo in questo modo di dislocare i downloads di Internet e di ascoltarli comodamente passeggiando nel parco o viaggiando in auto. Le controversie legali che un tale scenario ha scatenato sono facilmente immaginabili. Alcune star del mondo della canzone si sono schierate apertamente a favore della diffusione libera delle loro opere attraverso la rete. David Bowie, per nulla preoccupato delle eventuali ripercussioni sulle sue Royalties, e il gruppo australiano Beastie Boys sono fra questi [1999, 1-2]. Non mancano però le polemiche: negli USA le case discografiche si sono armate fino ai denti. Dalle nostre parti se ne sta occupando il Parlamento Europeo. L'eurodeputato Roberto Barsanti, già nel 1999, aveva distinto due tipi di approccio: uno per la libera circolazione di prodotti dell'intelletto umano, e l'altro più propenso verso il diritto dell'oggetto che viene commercializzato, verso un plesso normativo "della merce in quanto tale" [1999,2]. Tutto ciò conferma che la spinta verso la circolazione dei prodotti massimizzata in termini di profitto è il fine delle strategie di globalizzazione. Infatti, malgrado il concetto di copyright sia stato fatto invecchiare nel giro di pochi anni e reso incapace di garantire la giusta mercede ai produttori di musica, viene da chiedersi se questo fatto giochi attualmente in realtà un ruolo così negativo. Tanto per fare un esempio, si pensi alla pirateria informatica. Tutti hanno ormai capito che la vendita e lo scambio amicale di tasks copiati - o crackati - anziché nuocere alla diffusione dei Personal Computers, ne ha favorito le vendite. Certo, è necessario fare una distinzione fra produttori e venditori di "terminali" e produttori e venditori di "supporti". Nella presunta strenua guerra all'illegalità che riguarda la circolazione di software copiati, chi ne è veramente uscito vincitore sono i primi, così come la facile duplicazione di supporti audio-video che ha incentivato l'acquisto di terminali, ha favorito industria e dettaglio di media players. La questione però è ben più complessa di queste povere considerazioni. Dirimere il nodo che lega la creazione e la vendita dei prodotti musicali e il mercato dei terminali somiglia al dilemma dell'uovo e della gallina. Qui però vorrei mettere in luce che la questione è ben più remota rispetto allo scenario tecnologico e istituzionale che ha caratterizzato gli ultimi decenni e che ho brevemente descritto.
3. Lo scenario analitico-musicale: melismatico/sillabico
Oggi siamo lontani da quell'aspetto "nazionale e razzista dell'arte" con cui Paul Honigseim descriveva la "meccanicizzazione" della vita, dovuta - dopo la Rivoluzione Francese - all'imposizione e al rifiuto di ordinamenti universali, compreso quello musicale [1965, 334-343]. L'idea di repertorio, la Gleichschaltung di pezzi "eseguibili" in sede di concerto è ormai cosa del passato. Gli stessi effetti della normalizzazione imposta dai media hanno un arco di vita brevissimo: gli oggetti sonici implodono nel giro di un'estate. L'avvicendamento delle top-hits non fa più notizia.
I terminali di consumo si sono rimpiccioliti e resi a buonissimo mercato. Nel '600 solo determinate classi sociali potevano accedere alle rappresentazioni musicali commissionate dal patronage aristocratico e mercantilista [1998]. Solo fino a pochi decenni fa il concerto sinfonico era "roba per signori". Nella nostra società, oggi può sembrare impossibile che ci sia qualcuno che non possa consumare musica. Ma, ancor prima della miniaturizzazione dei terminali, del loro abbassamento di costo e della loro dislocabilità, le strategie di diffusione musicale (a prescindere dagli intenti globalizzanti della "industriaculturale") erano già molto raffinate. Uno dei metodi adottati per rendere più accessibile il consumo musicale consisteva, da tempo immemorabile, nel rendere accessibile l'eseguibilità degli oggetti sonici. Per certi aspetti, l'artifex che opera nell'ambito della musica colta del bacino occidentale, aveva adottato un procedimento inverso, rendendo inaccessibili (e quindi ineffabili) oggetti sonici che erano ugualmente facilmente riproducibili. Il tema popolare L'homme armé passato attraverso tutte le elaborazioni polifoniche di epoca umanistico-rinascimentale, ne è testimonianza.
In effetti, l'epoca della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, è incominciata molto prima di quanto Walter Benjamin non abbia pensato. Il suo ragionamento sulla "perdita dell'aura" - vale a dire la sottrazione dell'opera d'arte dal suo contesto hic et nunc (Benjamin si concentra soprattutto sulle arti visive. Cinema e fotografia) [1991, 17-56] - non è applicabile metastoricamente e universalmente a tutte le arti. Nelle civiltà del passato, così come in quelle del presente - e non certo limitatamente al bacino europeo - esiste un livello di eseguibilità raggiungibile anche dai non specialisti.
Ciò avviene soprattutto a livello di organo vocale, ed è in questo senso che proseguirò la mia riflessione, dato che la globalizzazione della musica si concentra al giorno d'oggi soprattutto su oggetti sonici in cui la vocalità (di quale genere sia, poco importa) ha assunto un ruolo preminente. L'assunzione dei termini "canzone" (da cantus) o song (da sing) - entrambi indicanti un'esecuzione "vocale" - quali denotazioni formali nella musica massmediatica, è emblematica in questo senso. Una simile limitazione terminologica - che ha desertificato il vocabolario particolaristico delle forme musicali - non trova assolutamente riscontro, tanto nell'ambito della musica folklorica quanto in quello della musica hi-brow. Da questo punto di vista le affermazioni di Jonathan Eisen sulla "totalità" della musica rock non sono poi così paradossali: "Nell'insieme gli anni Cinquanta furono veramente l'età della pietra; la musica si ascoltava soltanto; non si era 'catturati'. Non era un'esperienza 'totale'. Verso il 1969, questa realtà era stata sostituita dal trionfale avvento del rock" [1969, XI; cfr. 1996, 110]. La totalità però qui non si presenta come offerta ad ampio range estetico di forme musicali (si pensi, solo per fare un esempio, alle danze della suite settecentesca), ma è impoverita da un prodotto mono-formale, quello, appunto, della "canzone", come meta-morfosi dagli scostamenti architettonici solo apparentemente complessi, ma in realtà estremamente semplificati.
Torniamo ora all'accesso all'esecuzione di un'opera musicale. La presenza costante di uno stile vocale sillabico e la scomparsa pressoché totale dello stile melismatico è un fatto di assoluto rilievo.
Qualche annotazione esplicativa. Lo stile melismatico si contrappone usualmente allo stile sillabico nel canto. Per quest'ultimo si intende una particolare distribuzione di un testo (poetico o prosastico) in modo tale che alle singole note della melodia corrisponda mediamente l'unità di una sillaba. Nello stile melismatico, al contrario, una singola sillaba di testo viene distribuita su più note contigue, in modo tale che, normalmente, il cantante si trovi ad emettere una vocale prolungata. Queste due "tecniche" prosodiche hanno prodotto letterature e forme contrapposte nel passato. La distinzione è netta nel canto liturgico medievale della Chiesa cattolica, al punto che uno dei perni ideologici su cui ruotava la riforma luterana fu l'introduzione di un repertorio rigorosamente sillabico e isoritmico (cioè di canti sillabici composti note dal valore omogeneo e costante). Anche in seno alla musica polifonica la distinzione melismatico-sillabico è di fondamentale importanza: in quel caso le coordinate analitiche sono molteplici. Lo stile sillabico si sposa facilmente con l'omoritmia e fa sì che tutte le parti di un'ensemble vocale cantino con lo stesso ritmo: si capisce che tale tecnica è applicata soprattutto nell'ambito della musica secolare, anche se, nondimeno possiamo ritrovarla nella musica liturgica quando il compositore vuole sottolineare l'importanza di un momento particolare nel testo evitando di sovrapporre linee melismatiche con contorni ritmici diversi tali da confondere il senso della percezione delle parole.
Con la nascita del melodramma la contrapposizione melismatico-sillabico diviene strutturale: nei momenti "lirici" (il commento interiore o esteriore a un'azione) lo stile adottato per ben due secoli, è stato prevalentemente quello melismatico. Nei "recitativi" viene invece utilizzata una pronuncia "narrativa", che quindi è di tipo sillabico. Le riforme di cui è stato oggetto il melodramma (Metastasio, Gluck, Calzabigi, Wagner, ecc.),che avevano il principale intento di superare la dicotomia aria/recitativo - ovvero stasi lirica e actio drammatica - hanno soppresso gradualmente lo stile melismetaico, fino a farlo apparire residuo di una concezione non-moderna della musica (vedi le performances di Beckmesser nei Meistersinger di RichardWagner). In effetti lo stile sillabico non scompare del tutto e lo ritroviamo - portato all'iperbole - in alcuni repertori popolari (lo jodler, tanto per rimanere in Europa) e negli sviluppi del jazz. E' anche vero che nella musica folklorica lo stile melismatico trova riscontro. Ma si tratta, in quel caso, di opere accessibili perlopiù a specialisti, come gli stornellatori o i rimatori d'ottava [1994; 1994]. A questi generi musicali però non fa riscontro un pubblico di massa, per il quale la musica diffusa soprattutto attraverso il medium discografico predilige lo stile sillabico. Quali le conseguenze, quali le cause sul piano della globalizzazione?
Innanzitutto bisogna mettere in evidenza il fatto che l'oggetto sonico mass-mediatico è nella maggior parte dei casi un composto testo-musica; il che vuol dire che la musica strumentale "pura" - con tutte le influenze che essa avrebbe potuto esercitare sullo stile vocale - risulta un'esperienza in via di estinzione, che ha lasciato qualche traccia significativa solo nell'ambito della fiction ("colonne sonore", sigle e commenti musicali nel cinema e nella tv) e alla quale ha riaperto le porte, in tempi più recenti, il concetto di musica d'uso introdotto dalle tecniche di healing presenti, per esempio, nel New Age [Del Sordo, 2000]. Da ciò ne deriva che la componente testuale ha assunto sempre maggiore importanza. La prassi del canto sillabico ha poi avuto altre due importanti ripercussioni, l'una conseguente all'altra.
La prima è di ordine "fisiologico": infatti la prassi melismatica impone l'uso di una tecnica vocale più evoluta, rispetto a quella sillabica. Ciò indubbiamente ha reso i requisiti performativi meno difficili da raggiungere, fino al punto che - nel mondo professionale della canzone - l'idea di "bella voce" è profondamente mutata nel giro di pochi decenni. L'accessibilità del requisito performativo sembra aver favorito anche la riproducibilità dei prodotti musicali, la loro facile ri-esecuzione anche per chi non è in possesso di attitudini musicali sviluppate (tutti possono canticchiare un motivetto di Ron; quanti riuscirebbero a rieseguire un passo donizzettiano o rossiniano?). Quest'ultimo è un aspetto fondamentale della musica massmediatica, se la si prende in considerazione dal punto di vista della "circolazione". La facile riproducibilità ci dice che questa ha luogo non solo grazie ai terminali (CD players, ecc.) ma anche agli stessi destinatari che ambiscono - con piacere - a essere trasformati, per così dire, in "autoterminali".
Al secondo aspetto, conseguente all'abbandono dello stile melismatico, inerisce anche l'area tematica dei testi. Non è difficile infatti - come più volte è stato proposto analiticamente [p.e. 1996; 1992] - individuare, nel magma testuale della musica massmediatica, alcuni filoni principali: quello "sentimentale", quello "ecologico-esistenziale", quello sociale e politico. Quest'ultimo ha particolarmente tratto giovamento dallo stile sillabico che, portato nella sua forma estrema, ha consentito l'inserimento di veri e proprio mini-comizi: la litanizzazione di De Gregori, di Guccini, di un Biermann. A quest'area testuale si deve aggiungere quella del rap: all'ammutolimento del melisma si aggiunge la soppressione del suono e si raggiunge, tramite un percorso a ritroso, l'origine del verso, l'accento (da ad-cantus).
Citazioni
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