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Gli incontri della Machiavelli
di Fabio de Nardis
È da circa un ventennio che in Italia si ragiona sull'eventualità di procedere a una riforma della seconda parte della Costituzione, con particolare riferimento alla forma di Stato e di governo. Gli esiti sono stati, come è noto, fallimentari. L'errore compiuto dalla classe politica e accademica è stato quello di considerare una simile operazione come una questione di semplici technicalities istituzionali, senza parimenti considerare le dinamiche storico-sociali del paese di riferimento. Eppure già Montesqueiu, introducendo un principio di elevata rilevanza sociologica, affermò che la legge si deve adeguare, al tipo di società per cui è creata, la quale, oltre ad essere vista nei suoi condizionamenti naturali, è strutturata in base a specifici condizionamenti di tipo culturale. D'altro canto, la classe politica ha dimostrato una sostanziale immaturità culturale, considerando la riforma delle istituzioni nazionali come una semplice materia propagandistica da immettere all'interno dell'anomalo conflitto politico italiano.
La politica dei nostro paese è stata incapace di giungere a un compromesso vero, come avvenne nel '48, perché è mancato quel senso di responsabilità istituzionale effetto di una reale legittimazione democratica dell'avversario politico. La politica italiana è ancora eccessivamente legata a una concezione schmittiana del conflitto, secondo cui l'avversario politico, non è un semplice interlocutore, ma un nemico da odiare e abbattere. Eppure non è possibile giungere a un compromesso democratico se manca la cultura del riconoscimento democratico dell'avversario politico. Le regole di un paese non possono essere generate dall'odio di parte ma, al contrario, dalla ferma volontà di rinnovare quella specifica cultura nazionale che precede i comportamenti. Una simile impostazione del conflitto politico ha creato una paralisi decisionale che ha consentito l'emergere, di tendenze neoplebiscitarie concretizzate nella forma referendaria. Il referendum, come manifestazione parziale di un'improbabile democrazia diretta, invece di allargare gli spazi della democrazia, contribuisce a un loro marcato restringimento. La sua configurazione sul tipo aut aut produce un'indebita semplificazione del reale che limita la possibilità del compromesso democratico, lasciando la decisione politica in balia di un'emotività di massa strumentalizzata e disinformata. Non è un caso che, storicamente, il referendum sia stato utilizzato come strumento politico, più per delegittimare un sistema democratico che per rafforzarne le fondamenta.
Occorre dunque un ripensamento della cultura politica italiana che si radichi all'interno degli spazi previsti da una matura democrazia rappresentativa, fondata sul principio di cittadinanza. Allo stesso tempo occorrerebbe una maggiore attenzione per le dinamiche storiche del paese di riferimento, evitando di schiacciarsi su un formalismo giuridico privo di sostanza. L'esperienza storica è alla base dell'assetto istituzionale di un sistema politico, non perché le istituzioni siano emanazione della storia, ma perché ogni fenomeno socio-politico è, in primo luogo, un fenomeno storico.
Solo con un'adeguata coscienza storica della propria cultura è possibile comprendere quella complessità sociale che è inscindibile dalla modernità. La cultura di un popolo e i suoi valori, che sono alla base di una democrazia, rappresentano essenziali strumenti metodologici per comprendere gli umori, i comportamenti e la percezione stessa della politica. È dunque necessario individuare un metodo della relatività storica che serva ad evitare inutili generalizzazioni e assolutismi disciplinari, costruendo concetti funzionari a una specifica tipologia storica. Non è possibile negare l'importanza della memoria storica durante un processo di riformulazione normativa; perché noi siamo la nostra storia, o meglio, ciò che ricordiamo della nostra storia, essa va solo studiata e interiorizzata, e da romanzo di una vita, si oggettivizza e si fa strumento.
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