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Note

La crisi culturale della politica italiana

di Michele Prospero

Da tempo quello italiano non e più un laboratorio politico scrutato con interesse dagli osservatori stranieri. Come se la fine della questione comunista, che tante pubblicazioni ha richiesto per alcuni decenni, avesse spento ogni interesse per un paese cui si torna a guardare come a un marginale sistema attraversato da umoristiche tendenze regressive. Fino agli anni Ottanta il caso italiano era un grande affare politico con profondi riflessi internazionali. Ora tutt'al più è diventato un caso da operetta, con un grande capitalista che fa della sua azienda un partito e contro il teatrino della politica concentra tutti i media(Tv, giornali, case editrici, calcio) per ripetere la scalata al potere. Tutte le culture politiche sono spente e non lanciano alcun segnale di originalità.

        La proposta originaria di Berlusconi si muoveva entro un ardito tentativo di rilancio della cultura liberale. Ma dal liberalismo delle origini, condito con abbondanti dosi di aziendalismo, si è passati senza scomporsi a continue professioni di misticismo e clericalismo. Niente a che fare ovviamente con un rispettabile cattolicesimo liberale, corrente minoritaria della cultura italiana con Manzoni e Fogazzaro, che anzi oggi viene soffocato da tendenze neoguelfe che con Formigoni rimpiangono i briganti alle porte dello Stato pontificio ed evocano gli staterelli preunitari. Non solo Fazio (governatore della Banca d'Italia, non dell'Ambrosiano) ma persino esponenti di Alleanza Nazionale, quelli cioè che del tricolore fanno un simbolo identitario, partecipano a celebrazioni in memoria delle vittime di Porta Pia. Lo slogan della Lega "tricolore nel cesso" svela una evidente denazionalizzazione della destra italiana. Ma non erano i comunisti, con le loro doppie lealtà, i responsabili della "morte della patria"?

Se la destra ha smarrito i suoi tradizionali punti di riferimento (patria, Stato), la sinistra ha perso un suo vecchio punto di forza: l'autonomia culturale. Come se il tramonto dell'ideologia avesse richiesto il più amaro dei pedaggi: il rifiuto di ogni investimento culturale. Nel suo tragitto dall'appartenenza pesante alla leggerezza della contaminazione, la sinistra ha smantellato i suoi luoghi identitari diventando in breve tempo una succursale del gruppo editoriale l'Espresso. Imbarazzanti sono poi gli inviti di Amato o Rutelli a scimmiottare con il papa alla ricerca dei valori perduti. Come può una "sinistra dei valori" e dei diritti umani sopportare l'allarme della chiesa contro i matrimoni misti, contro la equiparazione di tutti i credi e accettare il condizionamento religioso della ricerca? Persino una diva americana a Venezia ha ricordato che la presenza della chiesa in Italia rende estremamente difficili certe battaglie politiche per i diritti. Senza laicità è però impossibile un trattamento paritario dei soggetti e difatti si arriva a ritenere che "purtroppo "esistono alcune garanzie del costituzionalismo liberale ree di consentire certe manifestazioni "inopportune" durante il giubileo.

Una destra che non ha un senso dello Stato e una sinistra che non ha un senso della sua identità parziale, di movimento critico verso certe manifestazioni della modernità, sono entrambe un grosso ostacolo alla rinascita della politica in Italia. Nel corso degli anni Novanta si è verificata una eclisse della dimensione politica in quanto tale. Colpa certo dell'impiego di armi improprie (prevalentemente giudiziarie) a fini di lotta politica. Ma responsabilità anche delle scelte poco oculate operate dalla classe politica di riserva emersa dopo il terremoto di tangentopoli. Dopo dieci anni di transizione, ancora è evanescente il contorno di un sistema di partito stabile e strutturato. Ciò significa che nel decennio è mancata nel complesso una efficace risposta ricostruttiva alla crisi strutturale che ha investito i vecchi partiti. La grande crisi avviata nel '92 non è stata in alcun modo risolta con gli accorgimenti organizzativi e istituzionali richiesti. La destrutturazione (dalla vecchia Dc sono emersi almeno 5 spezzoni di partito, dal Pci sono scaturiti 3 partiti; 44 sono le sigle parlamentari) rischia di diventare un dato strutturale della politica italiana.

Per questo l'ingresso nell'Europa monetaria, assicurato da alcuni anni di buon governo da parte della sinistra, non è coinciso con l'entrata nelle condizioni basilari dell'Europa politica. La sinistra ha operato più come forza esperta nelle tecniche del risanamento che non come soggetto di innovazione capace di rimotivare su scala di massa le ragioni dell'agire politico. Il peso politico dell'Italia è destinato a diminuire, quale che sia il colore delle coalizioni dominanti, proprio perché il male della frantumazione e dell'assenza di grandi partiti strutturati non ha trovato terapie efficaci. Le vie che sono state intraprese per governare la transizione si sono rivelate tutte infruttuose. La prima strategia è stata quella referendaria che però non è riuscita a istituzionalizzare il passaggio rapido da una decadente democrazia dei partiti a una effervescente democrazia plebiscitaria. Il virus del plebiscitarismo diffuso dal movimento referendario, rilanciato dal sondaggismo magico di Berlusconi, ha poi contagiato anche la sinistra che nella selezione del candidato premier si affida anch'essa solo ai ritrovati del campionamento statistico. Il silenzioso cittadino ipotetico di un universo statistico chiamato a misurare l'indice di gradimento di un leader ha ormai inghiottito il cittadino reale che discute programmi, valuta l'esperienza politica dei candidati. La retorica del nuovo, la rilevazione del gradimento televisivo, soppiantano ogni ponderata disamina dei programmi, delle capacità di governo e di mediazione politica entro coalizioni così eterogenee.

Neanche la strada della personalizzazione estrema della responsabilità politica ha dato esiti soddisfacenti. L'elezione popolare di una carica monocratica (sindaco, presidente regionale) più che il rendimento democratico del sistema pare abbia incentivato la deriva verso una personalizzazione all'italiana che presenta risvolti caricaturali. La caricatura della personalizzazione della leadership è ben visibile quando accanto al partito azienda proprietario del suo leader compaiono tanti altri soggetti politici che persino nel nome si richiamano a un individuo fisico. Quando il partito è una persona fisica è evidente l'esaurimento della funzione pubblica, simbolica, rappresentativa della politica. Persino in America il leader è una funzione del partito che seleziona le candidature attraverso un meccanismo collaudato come le primarie. In Italia invece il partito è una funzione del candidato. Sorgono cosi partiti personali nati da innumerevoli discese in campo, e ogni sindaco è indotto a fare il partito di se stesso (persino Bassolino, come già Rutelli o Bianco ha avvertito il fascino di un sua succursale personale). Accanto a una politica senza partiti, debole e intermittente esposta al calendario imposto dai media, compaiono ormai partiti senza politica, semplici proiezioni di un leader attratto dalla visibilità mediatica e incurante dei profili organizzativi dell'azione politica.

La personalizzazione all'italiana più che fina risposta alla crisi della politica sembra essere anch'essa un ulteriore anello della crisi e destrutturazione della vita pubblica. Il partito dei sindaci è stato così poco un momento di rinascita della dimensione politica che sembra un'impresa disperata persino quella di gestire il normale ricambio di sindaci giunti al secondo mandato. Perla successione di sindaci in carriera o a fine mandato, a Torino come a Roma, sono affiorati nomi di grandi industriali. Se persino la selezione delle classi dirigenti sfugge a quelle confederazioni deboli che sono ormai i partiti, allora è evidente che la politica è destinata a occupare un ruolo sempre più residuale. Forte è il rischio di un impoverimento strategico di una sfera politica che non ha più capacità di esprimere identità, non ha più la forza e l'autorevolezza per formare classi dirigenti, non stimola la partecipazione, non apre momenti pubblici di discussione. Il primato della tecnica sulla politica, da eccezione legato alla gestione degli anni terribili della transizione, non è stato ribaltato. La politica non è tornata al posto di comando e non è visibile un sistema stabile con una vita politica partecipata. Dopo dieci anni di desertificazione organizzativa non è affatto riscontrabile una ripresa della politica. La mancata rinascita dipartiti veri conduce alla sovraesposizione politica dell'impresa o della Banca d'Italia (che esprime il capo dello Stato, il ministro degli esteri e una figura dipinta da entrambi gli schieramenti come ideale candidato premier). Mai come in questi anni di elezione diretta alla carica monocratica e di democrazia senza partiti è stato cosi forte il dominio di media e denaro.

Il cittadino, la sfera pubblica, la società civile, queste mirabili creazioni del settecento riformatore, sono dei pallidi simulacri dinanzi allo strapotere di media e denaro. Quello che Manzella ha enfaticamente chiamato "movimento elettorale di liberazione nazionale" ha innescato un processo contraddittorio che, anche se ha assicurato lo sblocco del sistema, ha mantenuto ben poche delle sue promesse del marinaio. Non solo non si è garantita una maggiore governabilità (in questa legislatura ci sono stati 4 governi e 3 presidenti del consiglio), non è stata tamponata la frantumazione (la somma dei voti raccolti dal due maggiori partiti si ferma al 41,7 per cento), ma si è generata nuova apatia (l'Italia era in testa alla graduatoria europea di partecipazione elettorale ora è precipitata all'ottava posizione) e nuovo trasformismo (sono 300 i deputati erranti da una formazione politica all'altra). La scelta di indebolire i partiti, non facendo i necessari investimenti organizzativi e simbolici, ha reso oltremodo debole il sistema politico italiano. La mancanza di partiti-società, radicati nel territorio e capaci di filtrare le domande multiformi, cancella ogni mediazione e spinge ogni interesse all'autorappresentazione del proprio "particulare". Per questo accanto a partiti senza più territorio, privi di sedi, di normale vita democratica, compaiono territori senza partiti, presidiati da ceti in rivolta contro le forme della politica e della statualità. La debolezza dei partiti-istituzione rende ingestibile il governo parlamentare e blocca l'iter della decisione. Una democrazia in sofferenza sia nel versante della rappresentanza che in quello della governabilità: questa è la fotografia dell'Italia di oggi.

Nel panorama europeo due debolezze contraddistinguono la democrazia italiana. La prima è quella di un sistema politico instabile, per la mancanza di partiti capaci di esprimere ideologia anche in tempo di politica fredda e di coprire territorio reale anche in un'età della videopolitica. La mancanza di partiti significa assenza di classe dirigente, latitanza di un sentimento civico diffuso. Una politica senza partiti e priva della dimensione della statualità, sprofonda nel chiacchiericcio mediatico oscillando tra l'angoscia dinanzi ai fenomeni della globalizzazione e la custodia del particolare. Senza la massa e privi di gruppi dirigenti autentici, i partiti non sviluppano progettualità, ossia non affinano la capacità di anticipare le tendenze di più lungo periodo. È ormai chiaro che la scorciatoia della personalizzazione estrema è per i partiti postpolitici di oggi un espediente per aggirare il deficit di insediamento sociale e una scorciatoia per tamponare il deficit cognitivo che la politica registra nella condizione della complessità. A una politica senza più società, che non sprigiona una curiositas per le dinamiche della complessità postmoderna, fa riscontro una società che non lascia più spazio alla politica, la respinge come un gioco estraneo e iniziatico.

La seconda debolezza italiana, strettamente legata alla prima, non viene di solito riconosciuta come tale in quanto nella vulgata ufficiale appare come sinonimo di forza e originalità: un sistema economico fondato in maniera esorbitante sulla media e piccola impresa. Non solo per le manifestazioni di alienazione politica che sviluppa soprattutto nel nord est, la proliferazione della piccola impresa (solo il 15 per cento degli occupati nelle imprese manufatturiere lavora in imprese con più di 500 dipendenti contro una media del 50 per cento negli altri paesi europei) rappresenta un dato di debolezza strutturale. La piccola impresa, grazie alla flessibilità di cui dispone, è proprio per la sua struttura poco inclinata all'innovazione tecnologica e all'investimento in ricerca. Un sistema basato sulla piccola impresa perde competitività tecnica e diventa marginale rispetto a sistemi più solidi. Un paese debole nelle sue articolazioni istituzionali e con un apparato economico ridotto a satellite di grandi imprese straniere difficilmente può sviluppare performances positive nella difficile e molto competitiva arena europea.

Una volta l'anomalia italiana era, anche nella sua tragicità, una cosa tremendamente seria. Ora è diventata soltanto la farsa pittoresca di un paese capace solo di una piccola politica, fatta da molti piccoli partiti, e di una piccola economia, fatta da tante piccole imprese.

 


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