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Recensioni
Saskia Sassen, Fuori controllo, Milano, Il Saggiatore, 1998, pp. 153
È ormai una tesi ampiamente condivisa quella per cui i fenomeni di globalizzazione economica implichino un declino dell'importanza dello Stato nazionale ed una ridefinizione delle istituzioni che stanno alla base dei processi di governo e di responsabilità politica. Ma questo significa che la sovranità e la territorialità non hanno più importanza nel contesto del sistema globale? Se il più recente insieme di diritti, quelli affermatisi con il welfare state, non sembra poter costituire la forma definitiva dell'istituzione cittadinanza, come suggeriscono la crisi dello stesso Stato del benessere, l'aumento della disoccupazione e la diseguaglianza dei redditi in tutti i paesi sviluppati, di quali nuovi strumenti analitici hanno bisogno le scienze sociali per prendere in esame la questione dei diritti? Se le prerogative dello Stato stesso, inoltre, sono condizionate in misura crescente dall'affermarsi di innovazioni legislative tipiche dei processi globali e dal perfezionarsi della teoria e della prassi in materia di diritti umani, si può continuare a dare per scontata la sua sovranità esclusiva nel controllo dei propri confini?
A questi ed altri interrogativi tenta di rispondere Saskia Sassen in Fuori controllo, (Milano, Il Saggiatore, 1998) (tit. orig. Losing Control? Sovereignty in an Age of Globalization, New York, Columbia University Press, 1996), un testo snello e di agevole lettura, compendio di una serie di lezioni che, come si legge nell'introduzione, "rappresentano la prima fase di un più ampio progetto di ricerca sull'attività di governo e sulla responsabilità politica all'interno della globalizzazione". Merito indiscusso della breve ma succosa trattazione è quello di rifuggire da facili e abusate conclusioni in merito a questioni oggi tanto all'ordine del giorno, per analizzare puntualmente la realtà dei fenomeni in oggetto, nel tentativo di delineare ipotesi di lettura tutt'altro che scontate.
Tesi centrale della Sassen è il fatto che la globalizzazione ha comportato soltanto una parziale denazionalizzazione dei territori e una altrettanto parziale dislocazione di alcune componenti della sovranità statale presso altre istituzioni, dalle entità sovranazionali fino al mercato globale dei capitali. Si vuole in tal modo porre in discussione la tendenza a definire lo Stato nazionale e i processi di globalizzazione economica come termini mutualmente esclusivi: al contrario, l'autrice afferma che "gli spazi strategici dove avvengono molti processi globali sono spesso nazionali e i meccanismi che mettono in opera le nuove forme giuridiche indispensabili alla globalizzazione sono spesso parti di istituzioni statali. Analogamente, le infrastrutture che rendono possibile l'ipermobilità del capitale finanziario su scala globale sono collocate in territori nazionali".
A suo avviso, dunque, non si può analizzare la condizione dello Stato nazionale solo in termini di declino, in quanto "sovranità e territorialità rimangono le caratteristiche chiave del sistema internazionale: esse sono state però ricostruite, e in parte spostate in altri ambiti istituzionali, al di fuori dello Stato e dei territori nazionalizzati", come nel caso dei nuovi regimi privati transnazionali, delle nuove organizzazioni sovranazionali o dei vari codici internazionali dei diritti umani. Piuttosto che di un'erosione della sovranità, l'autrice preferisce dunque parlare di una sua trasformazione, essendo semplicemente mutati i luoghi in cui la stessa si concentra.
Dopo aver evidenziato come la modernità abbia posto tale istituzione in relazione alla costituzione di territorialità esclusive all'interno degli Stati nazionali, l'autrice si sofferma ampiamente su come i fenomeni di globalizzazione economica stiano delineando quella che viene definita "una nuova geografia del potere". In primo luogo, occorre a suo avviso considerare il cosiddetto processo di offshoring, consistente nella dispersione geografica delle imprese e dei servizi, volta a creare uno spazio economico che supera l'ambito di regolazione dello Stato nazionale. Tale dispersione degli spazi non sembra però accompagnarsi aduna parallela democratizzazione della struttura delle imprese; al contrario, l'autrice nota acutamente come tutto questo stia avvenendo all'interno di strutture aziendali altamente integrate, con forti tendenze verso la concentrazione del controllo, la centralizzazione dei profitti e l'espansione in complessità delle funzioni centrali.
È un fenomeno che ricorda la tesi della crescente centralizzazione senza concentrazione del potere, evidenziata da Richard Sennett in The Corrosion of Character. Secondo l'autore, infatti, la convinzione che, nel mettere sotto accusa la rigida burocratizzazione e nell'incentivare l'assunzione del rischio, la flessibilità applicata all'organizzazione del lavoro nel nuovo capitalismo renda gli individui più liberi di controllare lepropria attività e di gestire le proprie vite risulta assolutamente fuorviante. Al contrario, il nuovo ordine capitalistico introduce inedite forme di controllo centralizzato per quanto non concentrato, altrettanto capillare ma più fluido e dunque meno agevole da decifrare, al punto da poter identificare una nuova forma illeggibile di potere.
A ridisegnare gli equilibri intercorre poi la proliferazione di innovazioni giuridiche introdotte dalla deregulation e dall'integrazione dei mercati dei titoli, che interagiscono in vario modo con la sovranità statale. Ad esempio, le aziende che operano transnazionalmente devono assicurarsi la disponibilità di funzioni tradizionalmente esercitate dallo Stato nell'ambito economico nazionale, come la garanzia dei diritti di proprietà e dei contratti. Inoltre, si vanno affermando meccanismi di controllo, quali l'arbitrato commerciale internazionale o le agenzie di valutazione del credito, la cui autorità non si basa sullo Stato. Si assiste in tal modo a una crescente dislocazione dell'autorità che può essere pensata come un esempio di quella attività di governo senza governo formale di cui parla Rosenau.
Nella sezione dal titolo La cittadinanza economica, decisamente la più innovativa del volume, la Sassen si sofferma sull'impatto che un'economia globale esercita sulla continuità e la formazione dei diritti che normalmente associamo alla cittadinanza, chiedendosi inoltre se il relativo concetto a cui si continua a far riferimento sia ancora utile per lo studio dei problemi che nel mondo moderno hanno a che fare con l'appartenenza e l'identità. Nell'ambito delle nuove condizioni sociali create dal panorama descritto, l'autrice propone di "considerare la possibilità che esista una forma di cittadinanza economica che conferisce potere e garantisce la possibilità di pretendere responsabilità politica dai governi". Si tratta però di una forma di cittadinanza che non appartiene ai cittadini, bensì alle imprese multinazionali e ai mercati finanziari globali che, per il fatto di esistere in una dimensione globale, svolgono oggi una serie di funzioni tradizionalmente associate con la cittadinanza stessa: essi possono infatti valutare positivamente o negativamente le politiche economiche dei governi o indurre questi a prendere alcune misure piuttosto che altre, configurandosi in maniera crescente come una sorta di elettorato globale e privo di frontiere. Nota acutamente la Sassen che se "è vero che questi mercati sono il prodotto di molte decisioni da parte di molti investitori, e quindi possiedono una certa valenza democratica, è anche vero che tutti i 'votanti' devono possedere capitali… Così, buona parte dei cittadini si ritrova senza alcuna voce in capitolo". Occorre pertanto tentare di correggere le nuove diseguaglianze in termini di potere e di risorse che vengono progressivamente a crearsi tra i nuovi attori che si affacciano sullo scenario globale.
Alcune tra le riflessioni più interessanti sono quelle fatte dalla Sassen sul rapporto tra immigrazione, diritti umani e sovranità statale. La questione dell'immigrazione diviene, a suo avviso, un luogo strategico per studiare i limiti del nuovo ordine: se da un lato essa alimenta la rinazionalizzazione delle politiche, riportando all'ordine del giorno l'importanza del controllo statale dei confini, dall'altro appare radicata in una più vasta dinamica di transnazionalizzazione degli spazi economici e delle disposizioni sui diritti umani.
Come è noto, i diritti umani non dipendono dalla nazionalità, diversamente dai diritti politici, civili e sociali, che si riferiscono alla distinzione tra cittadini della nazione e stranieri. L'esigenza di ideare forme di cittadinanza che separino la questione dei diritti da quella dell'appartenenza nazionale era, peraltro, già ben espressa da Hannah Arendt quando, ne Le origini del totalitarismo, difendeva uno dei principi base della modernità politica, il riconoscimento per ciascun individuo del diritto ad avere diritti semplicemente in qualità di membro della specie umana. Esaminando le contraddizioni sorte tra il principio dei diritti umani universali e quello della sovranità nazionale, l'autrice lamentava la trasformazione dello Stato moderno da strumento di governo della legge e di protezione dei diritti umani di tutti i cittadini in strumento di perseguimento del solo interesse nazionale, cioè dei bisogni e interessi di un solo gruppo.
Oggi, sostiene la Sassen, i flussi sempre più consistenti di immigrazione fanno sì che dall'enfasi esclusiva sulla sovranità del popolo e sul suo diritto all'autodeterminazione si passi alla considerazione dei diritti dell'individuo, indipendenti dalla sua nazionalità. D'altra parte, accumulando diritti sociali, civili e a volte anche politici nei paesi di residenza, gli immigrati hanno diminuito il significato della cittadinanza: "quando si tratta dei servizi sociali, lo status di cittadino oggi è meno importante di ieri… quello che conta è la residenza e la condizione di straniero legale". Anche il concetto di nazionalità si va modificando: non si tratta più di un principio che rafforza la sovranità e l'autodeterminazione dello Stato, per mezzo dell'attribuzione del diritto e del potere di definire i propri cittadini, bensì di un concetto che sottolinea la responsabilità dello Stato di fronte a tutti coloro che risiedono sul suo territorio, sulla base dei diritti umani internazionalmente riconosciuti.
Quelli fin qui presentati sono soltanto alcuni dei molteplici spunti di riflessione offerti da questo breve saggio, le cui tesi, presentate in un linguaggio estremamente accessibile, sono supportate nel corso dell'intera trattazione dal riferimento a dati statistici, un'accuratezza metodologica degna di nota che compensa l'inevitabile asistematicità espositiva tipica dei compendi di lezioni accademiche. Si auspica che le preziose intuizioni qui soltanto abbozzate possano essere sviluppate dall'autrice in maniera più sistematica in un successivo lavoro, in cui all'impostazione analitico-descrittiva qui prevalente si affianchi il tentativo di formulare suggerimenti ed ipotesi di risoluzione delle numerose problematiche sollevate.
Erica Antonini
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