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Saggi
Comunicazione e politica nei paradigmi della modernità
di Fabio de Nardis
1. La grande rivoluzione culturale
Stiamo attualmente vivendo la terza grande rivoluzione culturale dopo l'invenzione dell'alfabeto fonetico e della stampa; si tratta dell'enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione elettronica e di massa. Gli individui hanno sempre sentito bisogno di comunicare perché la comunicazione è alla base della formazione culturale e cioè della produzione e riproduzione di una rappresentazione simbolica della realtà che serve agli individui per orientarsi all'interno di un contesto sociale storicamente determinato. Ma prima che fosse inventato l'alfabeto fonetico la cultura rimaneva pressoché priva di profondità schiacciandosi spesso sotto il peso di una superficiale fissità metastorica. Con la successiva invenzione della stampa e il conseguente sviluppo di mezzi di comunicazione più specializzati, la situazione subì una trasformazione radicale; per la prima volta, nota Wendy Griswold (1997), veniva creato uno strumento tecnico di produzione e riproduzione simbolica che diede un contributo fondamentale al processo di sviluppo linguistico e al conseguente consolidamento delle identità nazionali che proprio attorno alla questione dell'unificazione della lingua si sono storicamente configurate.
Attualmente stiamo vivendo una ulteriore grande rivoluzione rappresentata dallo sviluppo e dalla diffusione repentina degli strumenti di comunicazione elettronica. Siamo immersi, insomma, nell'epoca della grande "rivoluzione digitale" (Barwise/Hammond, 1999) in cui le tradizionali tecniche di comunicazione di massa sono stravolte dalla riconversione dei vecchi dati analogici nella "perfezione" del dato digitale. Un tempo, le diverse reti di comunicazione di massa si realizzavano attraverso l'uso di tecnologie di tipo "analogico", cioè ogni suono, di una voce ad esempio, veniva riprodotto con uno strumento elettronico progettato affinché potesse elaborare una copia, la più "analoga" possibile, del suono originale. Dai primi anni Novanta in poi, la maggior parte degli strumenti di comunicazione vengono ristrutturati in forma "digitale", affinché ogni eventuale suono venga riprodotto più volte, diversamente campionato, e riconvertito in impulsi elettronici o "bit" (cifra binaria). In questo modo è possibile riprodurre un suono esattamente identico a quello originale. Grazie a tali tecnologie digitali è stato possibile inventare strumenti di comunicazione nuovi, avanzatissimi, specie nell'ambito dell'informatica, come nel caso di Internet, cd-rom, eccetera. Lo sviluppo è stato così improvviso e con la partecipazione così massiccia del mondo affaristico e finanziario che tale evoluzione della tecnica si è trovata alla base, non solo di un nuovo modo di comunicare, ma anche di un nuovo modo di fare e pensare l'economia.
Il mondo della comunicazione e della produzione culturale si è, dunque, completamente rivoluzionato; si viaggia su quelle che sono state definite le "autostrade della comunicazione" (Ferrarotti, 1997); le città sono destinate ad essere sempre più "cablate" consentendo esperienze considerate ai limiti delle possibilità umane, da ricerche bibliografiche in tempo reale a esperienze inedite di erotismo virtuale. Tutto ciò non poteva non produrre una trasformazione netta anche del modo stesso di concepire l'esistenza sociale, rivoluzionando la tradizionale visione della vita pubblica e la tradizionale struttura delle dinamiche di relazione interpersonale. Si tratta di trasformazioni troppo importanti e scientificamente rilevanti per poterle analizzare concentrandosi esclusivamente sugli aspetti tecnico-ingegneristici; occorre, come scrive Cerroni (1998), una nuova scienza sociale, una vera sociologia dei nuovi media e del computer che segua i processi di evoluzione tecnologica mettendoli in relazione con quelli di sviluppo sociale e politico.
2. Comunicazione e modernità
Non è possibile comprendere a fondo la grande rivoluzione dei nuovi media se prima non ci si sofferma, anche brevemente, sul contesto sociologico entro cui tale rivoluzione sembra essersi realizzata. Sono ormai parecchi anni che la comunità scientifico-sociale è divisa da un acceso dibattito che vede contrapposti i sostenitori dell'epoca moderna "old style" a coloro che invece giurerebbero su un suo sopravvenuto superamento nel nome di una presunta postmodernità. Uno degli autori più illustri che tra i primi si è fatto portavoce di questa seconda prospettiva è senza dubbio Jean-François Lyotard che, nel 1979, scriveva un importantissimo panphlet intitolato La condition postmoderne, all'interno del quale si denunciava la fine delle grandi meta-narrazioni che avevano dominato la cultura moderna. La società senza classi, il primato della razionalità scientifica, tutte le grandi concezioni storico-filosofiche di tipo deterministico non sarebbero state più sufficienti a veicolare il consenso sociale. Prevaleva dunque una situazione di caos transitorio dove, per dirla con Marx, "tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria" (1948), nel senso che i vecchi valori (tutto ciò che è solido) sono ormai obsoleti (si dissolve nell'aria), ma nello stesso tempo i valori guida di una nuova modernità tardano ad affermarsi. Si tratta di una condizione postmoderna, dunque.
Senza le antiche certezze ecumeniche che orientavano i gusti e i comportamenti sociali si piomba in una "società dell'incertezza", per dirla con Baumann, dove, fatta "tabula rasa" delle antiche convinzioni, l'individuo sarebbe crollato in uno stato di sostanziale confusione esistenziale dominato da sentimenti di paura e disorientamento. L'individuo vaga nel confuso magma postmoderno, o "tardomoderno", come preferisce Antony Giddens, a mo' di pellegrino, o meglio, di flañer, per usare un'altra espressione di Baumann, di bighellone, appunto, che recita la realtà in un presente senza tempo. Lo spazio si separa dal luogo, scrive Giddens (1994), e il tempo si dilata, o si comprime, come preferisce David Harvey (1997). La cultura perde la sua tradizionale profondità facendo prevalere un sentimento di precarietà in cui l'individuo, ma anche il politico, non può fare altro che schiacciarsi nella gestione del contingente. Ma che ruolo assumono le nuove tecniche di comunicazione di massa all'interno di un simile quadro sociale, un quadro tanto confuso e disorientante quanto affascinante per l'occhio clinico dell'analista sociale?
3. Per una teoria sociale dei media
Tradizionalmente, gli studiosi che hanno cercato di analizzare il fenomeno dei new media, si sono soffermati essenzialmente sugli aspetti tecnici della comunicazione di massa, piuttosto che sulle dinamiche di mutamento socio-culturale che essa può aver attivato. Uno dei pochi autori che si è invece preoccupato di impostare una teoria sociale dei media è John B. Thompson che, con il suo Mezzi di comunicazione e modernità (1998), ha messo in relazione l'evoluzione tecnica dei mezzi di produzione simbolica con gli sviluppi della cultura e della società moderna. L'autore parte dal presupposto che gli individui si siano sempre preoccupati di produrre simboli finalizzati ad intrecciare relazioni sociali. D'altra parte, anche il compianto Norbert Elias, nel suo ultimo saggio pubblicato postumo (1998), sostiene che l'elemento che più di tutti distingue l'uomo dalla bestia è proprio la capacità di produzione e trasmissione simbolica abbinata a una capacità biologica di apprendimento. In breve, il genere umano, si distinguerebbe dagli animali per la tendenza alla socializzazione realizzata attraverso la trasmissione di simboli, primo fra tutti il "linguaggio".
Partendo da questo presupposto, Thompson critica l'idea della sociologia classica secondo cui la modernità sarebbe il frutto dello spirito razionalistico di matrice illuminista e propone una tesi alternativa interessante, e proprio per questo profondamente opinabile, secondo la quale la modernità sarebbe invece il prodotto dello sviluppo mediatico a cominciare dalla nascita delle prime stamperie nel corso del XV secolo. La stampa è stata in effetti un mezzo fondamentale di trasmissione simbolica che contribuì alla diffusione di un certo spirito libertario e democratico di stampo anti-feudale; per la prima volta, un prodotto culturale, sebbene la maggior parte della popolazione, in quanto analfabeta, non potesse ancora parteciparvi, si diffondeva, a volte anche oltrepassando i tradizionali confini nazionali. Senza contare poi l'importante funzione di emancipazione umana assunta dalle prime riviste di critica sociale, spesso messe al bando dal potere costituito. Con la stampa, nasce, secondo Thompson, un quarto potere alternativo ai tradizionali poteri, quello economico, quello politico e quello coercitivo: nasceva il cosiddetto "potere simbolico". La comunicazione si fa potere autonomo nel momento in cui viene mercificata, acquistando un valore di mercato. Con il tempo, si sviluppano mezzi di produzione simbolica capaci di raggiungere un pubblico ben più vasto di quanto non fossero capaci i giornali o i libri: si tratta della televisione o del cinema, che producono forme di "quasi interazione mediata", così definita per la particolare struttura unidirezionale della trasmissione del messaggio, che si contrappongono alle tradizionali forme di comunicazione come quelle "mediate", sul tipo del telefono, o quelle "faccia a faccia", che implicano invece una situazione di compresenza. La "quasi interazione mediata" si struttura sotto la forma di un monologo da parte del produttore del messaggio che sfrutta un medium tecnico per trasmettere un certo numero di simboli, nello stesso istante, a persone diverse, collocate in luoghi diversi e che possiedono diversi strumenti d'interpretazione simbolica. In questo modo, la cultura tende a globalizzarsi, senza uccidere la tradizione, ma dislocandola territorialmente. L'analisi di Thompson è chiaramente interessante anche se non ci si sente di condividere la sua critica alla sociologia classica relativamente all'interpretazione sulla nascita storico-culturale dell'età moderna. Pur accettando l'eventualità che i primi scampoli di modernità siano ravvisabili nel XV secolo, non si crede sia possibile condividere a pieno l'idea che essi siano il prodotto unicamente di un mezzo di trasmissione simbolica, come la stampa. Essa, infatti, rimane uno strumento tecnico sfruttato affinché potessero essere diffuse idee di emancipazione sociale e di apertura culturale, che non possono essere ridotte a un mezzo tecnico di produzione simbolica, tra l'altro ancora piuttosto marginale, nel XV secolo. Per usare una terminologia struttural-funzionalista potremmo dire che ogni mezzo di produzione simbolica diventa "funzione" della "struttura culturale" per la quale agisce da veicolo primario ma, essendo più facilmente osservabile, spesso viene confusa con la struttura stessa.
4. I critici dei media
Generalmente gli studiosi tendono ad assumere un atteggiamento piuttosto apologetico nei confronti dei nuovi media anche se non sono mancate voci critiche sull'argomento, tanto che Umberto Eco, fin dal 1964, poteva classificare la comunità scientifica attraverso la contrapposizione tra "apocalittici" e "integrati". Tra gli apocalittici è possibile trovare studiosi legati a tradizioni culturali profondamente diverse: se da parte conservatrice troviamo autori come Burchardt e Le Bon, è possibile rintracciare diversi autori apocalittici anche da tutt'altre sponde culturali; basti pensare agli autori della scuola di Francoforte, legati a impostazioni freudiane e marxiste, come Horkheimer, Adorno, Marcuse, quest'ultimo convinto che la tendenza dei new media sia quella di provocare una sorta di desertificazione intellettuale, determinata dalla riduzione unidimensionale della condizione umana.
Tra i critici contemporanei è comunque possibile intravedere l'opera di studiosi provenienti da tradizioni accademiche diverse. Giovanni Sartori (1999), ad esempio, è tra i sostenitori dell'idea che i nuovi media abbiano un particolare potere "antropogenetico" per il quale si starebbe assistendo al graduale passaggio dalla condizione di Homo sapiens a quella di Homo videns. Poco distante è l'idea di Ferrarotti (1997), secondo cui, la stessa transizione ci starebbe portando nella direzione di un Homo sentiens, che preferisce alla scrittura il carattere simbolico dell'immagine sintetica, rinunciando al vincolo logico e alla sequenza ragionata. Anche Marshall McLuhan, uno dei più noti studiosi di telecomunicazioni, nel saggio pubblicato postumo a cura del suo allievo Powers (1998), non rinuncia a schierarsi tra quegli autori che intravedono nello sviluppo sfrenato dei new media la possibilità di trasformazione cognitiva dell'essere umano in senso irrazionalistico. Con il suo splendido stile di scrittura che alterna un arido linguaggio matematico a citazioni liriche di Sheakespeare e dei poeti greci, l'autore afferma che l'esposizione prolungata alla televisione produrrebbe una sorta di catododipendenza caratterizzata dal rilassamento dell'emisfero sinistro raziocinante del cervello umano, attivando quello destro istintuale, stimolato dal gioco di suoni e di immagini. Anche Mongardini (1997) si inserisce nella schiera di quegli autori che hanno assunto una posizione fortemente critica nei confronti di uno sviluppo sfrenato dei mezzi di comunicazione di massa. Essi sarebbero, dunque, la causa determinante di quella riduzione semplicistica del reale secondo cui il pubblico si trasformerebbe in pubblicitario e ogni possibile analisi critica del sociale si schiaccerebbe sullo slogan accademico o politico, spesso fissato in immagini e idiomi. L'individuo sarebbe ridotto ad "altro generalizzato", privo di complessità, dunque, nel nome di una cultura postmoderna scevra di profondità, schiacciata sotto il peso di un razionalismo economicistico, privo di contenuti veri e fondato sul calcolo immediato degli interessi personali.
5. Media e politica
Il rapporto tra media e politica, o forse si dovrebbe dire tra potere politico e potere simbolico, è sempre stato particolarmente stretto e intenso e lo mette in evidenza chiaramente Armand Mattelart (1998) quando ripercorre il processo di formazione storica delle comunicazioni su scala planetaria. Eppure, mentre un tempo i mezzi di produzione simbolica erano essenzialmente strumentalizzati per scopi politici e militari, e ce lo mostra Laswell quando studia gli effetti della propaganda politica durante la prima guerra mondiale, oggi la comunicazione sembra avere in parte cambiato il suo tradizionale ruolo di medium politico, trasformandosi nell'altoparlante ufficiale di una nuova ed emergente società civile, spesso in chiara contrapposizione con il sistema politico e dei partiti. I mezzi di comunicazione di massa si fanno sostenitori, e spesso sono la causa, di quello spirito antipartitico e antipolitico che da alcuni anni sembra avere invaso i principali paesi occidentali.
La politica, dal suo canto, non potendo più contare su un consenso di appartenenza appare disorientata e incapace di fornire una nuova rappresentazione simbolica del reale. I partiti, un tempo guida assiologica della società civile, si trovano oggi nella condizione opposta di dipendere dagli umori di un'opinione pubblica sempre più irrequieta e frammentata, che non è più quella "borghese" formatasi nei caffè inglesi, come aveva rilevato Jurgen Habermas (1971), ma è un'opinione pubblica meno colta e informata, amplificata dai new media e strumentalizzata attraverso i sondaggi d'opinione. Eppure, questa sorta di sondocrazia o sondaggio-dipendenza, ha notato Statera (1998), determina non pochi problemi di carattere metodologico, dal momento che il pressapochismo, che caratterizza regolarmente la fase di campionamento, senza contare la marcata strumentalizzazione politica dei risultati dei sondaggi, tende a determinare un'accentuata distorsione interpretativa della condizione reale. Inoltre, una politica che si affida completamente ai sondaggi non è altro che una politica in balìa del contingente, di umori istantanei; una politica, dunque, schiacciata sul culto di un presente che al massimo può dilatarsi verso un presente prossimo, esaurendo qualsiasi carica progettuale. Occorre dunque ripensare la politica e l'intera sfera pubblica tenendo conto degli sviluppi della società tardomoderna. Thompson cerca di dare una risposta al problema della sfera pubblica, e il suo merito sta proprio nell'avere posto l'attenzione su una questione ancora poco indagata, anche se la risposta che dà rimane eccessivamente astratta, parlando di un'improbabile "democrazia deliberativa" dai caratteri piuttosto indefiniti e di una società mediata dai mezzi di comunicazione di massa che emerge dai confini nazionali, senza però, o almeno l'autore pare non ne faccia menzione, un sistema di vincoli e di una seria regolazione pubblica. Occorre ripensare una politica che, pur non trascurando le nuove dinamiche delle comunicazioni e della globalizzazione, si soffermi sui contenuti e non sul freddo confronto personalistico dei leader politici che rischia di scadere nella retorica, cioè in un discorso svuotato di contenuti e rattrappito nelle forme verbali. Una politica, quindi, che sia sovra-nazionale, in modo da contenere lo sviluppo indisturbato di un'economia sfrenata che nota Ulrich Beck (1999), determina la creazione di un capitalismo senza lavoro, fatto di contribuenti virtuali che snobbano le regole degli Stati-nazione nel nome di un arido razionalismo ecumenico ed astratto. Occorre una politica che ricucia la ferita aperta e la drammatica dissociazione tra economia e cultura, tra tecnica e morale. Una politica che usufruisca del bagaglio di ricchezze e opportunità prodotte da un sistema mediatico meno schiacciato sotto la logica razionalistica del calcolo immediato e degli indici d'ascolto e che dia modo a una società civile nuova di emergere laicamente e di formarsi correttamente. Perché non può esserci democrazia senza politica, ma non può esservi politica democratica senza una società civile forte e un sistema di comunicazione laico e libero da strumentalizzazioni.
6. "Democrazia deliberativa" ovvero la metafisica di Thompson
Il titolo del paragrafo è volutamente provocatorio e si riferisce criticamente alla terapia proposta dall'ormai noto John B. Thompson per sciogliere l'intricata matassa rappresentata dal rapporto tra media e politica. L'autore cerca di dare una risposta alla questione, senza dubbio fondamentale, relativa al tipo di organizzazione istituzionale da dare alla politica nella società dell'informazione, entrando direttamente nel merito del dibattito internazionale sulla crisi della politica e dell'idea democratico-liberale; a questo fine l'autore propone un new deal da imprimere nel complesso sviluppo degli ordinamenti democratici, riferendosi alla necessità di reinventare la sfera pubblica pensando a nuove forme di vita sociale da collocare al di fuori dello Stato nazionale, in un ambiente simbolico che si estende oltre i tradizionali confini che la politica ha voluto dare alle nazioni di tutto il mondo. Thompson si pone su una scia critica del tradizionale modo di concepire l'agorà di derivazione greca, intesa come sfera pubblica dialogica legata a uno spazio specifico.
L'autore rileva come il graduale sviluppo dei mezzi di comunicazione renda impossibile pensare la politica nei tradizionali termini della democrazia rappresentativa fondata sulla partecipazione popolare e propone una riformulazione dello stesso concetto di sfera pubblica nel nome di una improbabile "democrazia deliberativa" senza alcuna vera specificazione istituzionale. L'autore, convinto dell'impossibilità di procedere a un approccio alla politica moderna, concependola come attività dialogica fondata sulla compresenza dei diversi attori in gioco, propone la sua idea di una nuova sfera politica mediata e veicolata dai nuovi media. Su questa linea d'onda, Thompson critica anche la concezione liberale classica che avrebbe, in un primo tempo, contribuito allo sviluppo dei mezzi di comunicazione, nel nome della libertà di pensiero, sostenendo, in un secondo tempo, una crescita indisturbata della commercializzazione simbolica, nel nome della libertà di mercato, tanto da determinare la formazione di veri e propri monopoli industriali che, di fatto, insieme alla tradizionale tendenza ipertrofica degli Stati-nazione, avrebbero soffocato quella stessa libertà di espressione tanto difesa tra il XVIII e il XIX secolo. Occorrerebbe, quindi, una sfera pubblica contemporaneamente estranea allo Stato e al mercato, nel nome di un principio che Thompson definisce di "pluralismo regolato" realizzabile attraverso la creazione di una cornice istituzionale capace di far posto a una pluralità di società mediali indipendenti, che lotti, dunque, contro ogni monopolio anche pubblico o privato delle comunicazioni. Fin qui, a dire il vero, ancora non sarebbe chiaro in che senso si possa riformare la politica con un ragionamento che si riferisca ai soli media, ma Thompson ci corre in soccorso, affermando che il suo principio del pluralismo regolato si riferisce essenzialmente alla formazione di una pluralità di organizzazioni sociali all'interno dello spazio visibile creato dai media, estranee allo Stato, anche se spetterebbe proprio ad Esso garantirne e regolarne la sopravvivenza. In questo senso, occorrerebbe concentrarsi sui processi di formazione delle opinioni attraverso cui si prendono le decisioni politiche, abbracciando una concezione deliberativa di democrazia, secondo cui una decisione assume legittimità solo quando è l'effetto di una deliberazione aperta e generale. Tale processo deliberativo, secondo il sociologo inglese, non presupporrebbe il momento del confronto dialogico ma si fonderebbe sulla trasmissione di informazioni operata dai mezzi di produzione simbolica. La sfida di Thompson, sotto il profilo pratico sarebbe quella di individuare nuovi modi per allargare e istituzionalizzare il momento deliberativo, inserendo i risultati della deliberazione all'interno dei meccanismi decisionali. Per quanto affascinanti, le idee di Thompson, appaiono, agli occhi di uno scienziato sociale, piuttosto stravaganti e di improbabile realizzazione. Esse sembrano viaggiare su un livello di astrazione talmente elevato da perdere di vista ogni criterio empirico, degenerando in una sorta di filosofia sociale con forti tinte metafisiche, fondate su concetti universali indeterminati che si contrappongono cioè alle categorie universali empiriche, basate sull'osservazione.
Le scienze sociali, foriere di un sapere percettivo, non possono esimersi dall'anteporre la descrizione alla spiegazione pena lo scadimento in inevitabili filosofismi che, privi di una corretta diagnosi, difficilmente potrebbero individuare anche efficaci terapie. L'ipotesi di John B. Thompson sembra reggersi, a partire dalle premesse, su fondamenta fragili. L'autore comincia col denunciare la necessità di reinventare la sfera pubblica senza però procedere ad alcuna definizione concettuale, prerequisito minimo per qualsiasi analisi dei fenomeni sociali. Egli si limita a dichiarare la necessità di abbandonare la visione greca dell'antica polis democratica in modo che la concezione di una politica dialogica fondata su criteri di compresenza, legati a una determinata configurazione spaziale, sia sostituita da una nuova e improbabile sfera pubblica mediata dai mezzi di comunicazione. In realtà, non si capisce da quale letteratura o ricerca empirica l'autore abbia attinto l'idea che l'attuale impostazione culturale della politica moderna sia legata a una concezione spaziale definita. Sono ormai anni, infatti, che la politica si sorregge su criteri diversi calibrati sull'enorme potenzialità comunicativa dei nuovi media, ma questo non vuol dire abbandonare l'idea di una politica fondata sul dialogo dove per agorà non si intende altro che il luogo del conflitto dialettico finalizzato alla trasformazioni degli interessi privati in questioni pubbliche e dove queste ultime divenute "interessi sociali" si fanno diritti garantiti; si tratta del fondamentale collante democratico in cui l'oikos greco, della dimensione privata, riesce a conciliarsi con l'ecclesia, della dimensione pubblica e della politica (de Nardis F., 2000). Inoltre, seguendo il percorso logico tracciato da Giovanni Sartori (1980), ci rendiamo anche conto della scarsa attendibilità dell'idea che l'ideale occidentale di democrazia e di politica sia ancora legato al principio di polis greca. Tanto per cominciare, la distinzione tra politica e società nel pensiero greco di stampo aristotelico era pressoché inesistente; inoltre, la "socialità", come spesso ed erroneamente si sente dire, non corrispondeva alla "società", così come la "politicità" (il cosiddetto politiké di Aristotele) non era assimilabile alla "politica" nel senso moderno e occidentale del termine. Quando Aristotele parlava di zoon politikón si riferiva all'uomo vivente nella polis e vissuto da essa, esprimendo, dunque, la stessa concezione greca della vita, secondo cui era impossibile scindere la politica dal popolo. Non è un caso che le parole "sociale", "società", hanno un'etimologia latina e non greca, perché i greci non concepivano la società al di fuori della politica intesa come vita in comunità. Sono i traduttori di Aristotele, come Tommaso d'Aquino (1225-1274), che hanno tradotto la celebre formula di zoon politikón con l'espressione di "animale sociale", mentre Egidio Romano, orientativamente nel 1285, preferiva parlare di politicum animal et civile, allorché quando i greci parlano di polítes i romani parlano di cives, mentre la polis greca, diventa la civitas per i latini. È dunque dalla tradizione romana, e non greca, che al limite la cultura politica occidentale ha attinto. Il concetto di polis greca è piuttosto assunto come ideale "romantico" di democrazia partecipata, ma non per questo esso avrebbe impregnato la cultura politica moderna. Così come latina è la separazione tra società e politica, risalente, nella sua completezza solo alla fine del XVIII secolo, ma rintracciabile già nel Seneca del De Clementia (4 a.C.-65 d.C.), in cui l'uomo non è più visto come animale politico quanto come sociale animal; si tratta, dunque, dell'uomo che ha perduto l'antica polis adattandosi a vivere in una cosmopoli dalle dimensioni ben più consistenti che impongono una diversa organizzazione e concezione della politica. Piuttosto, l'idea di Thompson di una società spontanea, priva di interferenze politiche ma anche del diritto garantito dalle istituzioni statali è un'idea che può essere rintracciata nelle teorie classiche dell'economia, di Smith, Ricardo, ed è proprio sulla base di simili principi di improbabile spontaneismo sociale privato di un adeguato apparato normativo che si sarebbe costruito il mercato mondiale già acutamente preconizzato da Karl Marx un secolo e mezzo orsono, quello stesso sviluppo dei mercati che, nota lo stesso Thompson, avrebbe contribuito alla formazione di monopoli illiberali che hanno soffocato la libertà di espressione e del libero accesso alle opportunità dispiegate dalla crescita tecnologica e delle comunicazioni di massa.
Dunque, ciò che veramente sarebbe necessario per risolvere le tante ambiguità che ancora oggi regolano i rapporti tra comunicazione e politica sarebbe un rafforzamento delle istituzioni politiche anziché un loro pericoloso indebolimento, evitando di alimentare le già pressanti spinte disgreganti che puntano a dividere politica e società nel nome di indefiniti principi di libertà che sono utili solo a celare i veri interessi dei grandi potentati economici che trarrebbero ulteriori vantaggi da un processo di sostanziale anomia che solo una politica nuova, questo è vero, non più schiacciata sui tradizionali confini degli Stati-nazione ma dislocata su un livello sovranazionale, potrebbe contenere; non per opprimere le libertà espressive della società civile, ma per consentirle una crescita culturale anche attraverso l'uso dei mass-media che, prima di essere considerati pericolosi mostri tecnologici dalle potenzialità antropogenetiche, andrebbero visti essenzialmente come strumenti che esprimono il messaggio e la cultura di chi ne fa uso e che diventano tanto più pericolosi quanto più tale cultura e tali messaggi sono orientati da uno spirito razionalistico sfrenato che degenera sempre in un drammatico quanto controproducente individualismo sociale.
Bibliografia
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