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Saggi

Sul ruolo sociale della scienza
Il coinvolgimento degli esperti nella politica contemporanea*

di Enrico Caniglia

1.    Introduzione

Alcune recenti ipotesi sull’attuale fase di modernizzazione sociale sostengono che la conoscenza e la prassi scientifica costituiscono fattori non trascurabili del mutamento sociale contemporaneo. È inevitabile, si sostiene, che il crescente patrimonio di informazioni, scoperte e conoscenze finisca prima o poi per incidere sui processi sociali e sulle loro stesse logiche di produzione. In altre parole, la scienza, intesa come fatto sociale, piuttosto che limitarsi a descrivere e a interpretare la società contribuisce concretamente a produrla, vuoi nel senso che l’agire scientifico appare in grado di innescare trasformazioni sociali profonde, vuoi nel senso che il suo intervento è sempre più di tipo culturale, volto cioè a elaborare concezioni normative su ciò che è giusto fare per una buona società (de Vries, 1989). La politica è uno dei principali ambiti sociali in cui la scienza esercita questo ruolo costruttivo e non solo conoscitivo. L’analisi qui sviluppata è incentrata sulla figura dell’esperto, considerato come il principale veicolo dell’ingresso dei valori e delle logiche scientifiche dentro la politica.

La concezione dell’intellettuale come consigliere del principe, oppure come guida ideologica (il cosiddetto ideologo), è stata quasi una costante della storia politica occidentale. Quello che c’è di nuovo nel contesto contemporaneo è il fatto che il coinvolgimento politico dell’intellettuale venga alimentato dal mito della superiorità della forma scientifica su qualsiasi altra forma conoscitiva. L’intellettuale che oggi appare attirato dalla politica è essenzialmente l’esperto: l’esperto è colui che non discetta sulla "società migliore", sulla morale e su come vada concepito il ruolo della politica o della storia, ma si limita a fornire conoscenza, interpretazioni e soluzioni operative alla luce di un consolidato e condiviso paradigma di scienza. L’esperto tende sempre a vedersi come un tecnico, vale a dire come un soggetto dotato di un bagaglio di competenze conoscitive superiori e specialistiche, ma che rimane esterno alla politica e privo di un ruolo effettivamente politico, anzi il suo intervento segna la depoliticizzazione della questione affrontata. Superiore ai politici rispetto alle conoscenze accumulate in certi settori, l’esperto si considera però del tutto al di fuori del mondo politico. La lingua inglese aiuta a comprendere questa sfumatura: il campo dell’esperto non è la politics, quanto invece la polity e, soprattutto, la policy. Il moderno intellettuale impersonato dall’esperto non mira a definire una certa visione della politica (politics), quanto a contribuire alla migliore definizione del sistema delle regole costituzionali (polity), come nel caso dei politologi, e alla individuazione delle migliori soluzioni per le diverse aree delle politiche pubbliche (policy), come nel caso degli economisti, dei biologi, dei fisici, dei medici ecc.. Questa definizione del proprio ruolo non è tuttavia, come vedremo meglio più avanti, del tutto sgombra di problematicità. Non è facile circoscrivere una distinzione di compiti che se funziona bene analiticamente, non si rintraccia però con altrettanta chiarezza nella realtà concreta in cui è chiamato ad operare l’esperto. Il punto è che, con buona pace delle loro intenzioni, anche la politics sembra risentire profondamente del coinvolgimento massiccio di esperti nei processi politici di polity e di policy. Detto in altri termini, "chiunque entri nella sfera governativa o se ne accosti, non può evitare di far della politica" (Meynaud, 1968, p.160).

 

2.    Esperti in politica: una tipologia

La distinzione tra politico ed esperto può essere fatta corrispondere a quella tra mondo della politica e mondo della scienza. Il primo appare dominato da un’attività discrezionale, mentre il secondo da un’attività razionale. L’espressione politica si usa infatti come sinonimo di scelta discrezionale, mentre la scienza è il campo delle procedure volte a raggiungere l’oggettività, o quanto meno un accordo intersoggettivo, tra gli attori che vi sono impegnati. La decisione, in questo caso, è il risultato di un calcolo e di previsioni conoscitive, in cui non c’è spazio per elementi discrezionali. In virtù di questa semplice distinzione, il rapporto tra scienza e politica viene comunemente espresso attraverso il rapporto mezzi/fini. I politici agiscono nel mondo dei valori e quindi sono chiamati a definire i fini di una collettività attraverso la loro interpretazione, sintesi e rappresentazione del pluralismo di fini e di valori che anima il sociale, mentre gli esperti sono volti a individuare, in base alle loro conoscenze, i mezzi più adatti per il raggiungimento dei fini che sono stati precedentemente scelti dai politici. In sostanza, esisterebbe una precisa divisione del lavoro tra politici ed esperti: ai primi il compito di definire i fini collettivi, ai secondi quello di definire i mezzi più opportuni per il loro raggiungimento. Per questa ragione l’azione dell’esperto viene interpretata come esclusivamente guidata da considerazioni tecniche e da preoccupazioni relative all’efficienza, che non incide che minimamente sulla sostanza dei processi politici.

Questa visione, sostanzialmente neutra e apolitica del proprio ruolo, risulta particolarmente diffusa tra gli esperti coinvolti all’interno dei processi politici, anche in virtù della funzione "rassicurante" e di salvaguardia del loro status e della loro etica professionale che essa svolge. In realtà, questa interpretazione del ruolo, se funziona bene sul piano teorico, non altrettanto si può dire dal punto di vista empirico. In primo luogo, la distinzione mezzi/fini ha una natura puramente verbale. Si ignora, infatti, che il fine non è mai il punto terminale di un’azione, ma implica necessariamente ulteriori conseguenze, può cioè essere sempre interpretato come un mezzo per ulteriori fini, allargando così il ruolo politico dello scienziato (Merton, 1967). In secondo luogo, va sottolineato che anche un intervento sui mezzi comporta delle sostanziali conseguenze sui valori o sugli interessi sociali ed è quindi un’azione di tipo chiaramente politico. Dato che la scelta dei mezzi da adottare non è mai di tipo obbligato, in quanto esiste sempre un raggio di possibili alternative, nasce allora il problema delle considerazioni circa le conseguenze sociali della scelta di certi mezzi piuttosto che di altri: in base a quali motivi accettare certe conseguenze (favorevoli per alcuni valori o interessi, sfavorevoli per altri) e non altre? Tali considerazioni hanno una diretta rilevanza politica e non sono facilmente giustificabili per via scientifica (Meynaud, 1968). Ma c’è anche un’altra ragione per dubitare del carattere neutro del ruolo dell’esperto. La conoscenza scientifica, ci ricorda Merton, va sempre intesa come un processo sociale. Un risultato scientifico non può essere interpretato come il prodotto esclusivo di processi cognitivi, ma anche delle interazioni di questi ultimi con il contesto sociale che li circonda. Questo vuol dire che lo scienziato, essendo un attore sociale anche lui, non può non essere influenzato dall’ambiente sociale in cui opera e pertanto sarà sempre, nelle sue scelte, condizionato da valori. La vera questione è allora relativa a quali valori il singolo scienziato porta implicitamente con sé e ne contraddistinguono l’operato e non alla sua presunta neutralità.

La peculiarità dell’esperto non consiste dunque nel carattere neutro della sua azione, ma va cercata altrove. L’espressione esperto individua un soggetto in possesso di un sapere specialistico a livello elevato, che ricopre incarichi, spesso prestigiosi, nell’accademia, ma che è del tutto privo di un training politico assimilabile a quello del politico tradizionale, al quale può contrapporre un brillante percorso di studi e di carriera nella ricerca o nell’amministrazione. Il differente percorso di socializzazione lo rende un soggetto dotato di un peculiare patrimonio di valori e di competenze, di una visione della politica e dell’azione politica assai lontana da quella rintracciabile nell’uomo politico. La sua cultura esalta il primato dell’efficienza e della competenza, l’importanza della conoscenza ad alto livello in determinati settori e la logica scientifica tout court. Opportunamente, Merton usa il più pregnante termine di intellettuale per indicare la figura dell’esperto in politica. Il termine permette meglio di cogliere la particolarità del suo ruolo sociale: la produzione di nuova conoscenza. Non a caso, il più delle volte l’esperto è un professore universitario o uno scienziato, cioè colui che per professione si occupa di conoscenza e ricerca.

Merton ha proposto una distinzione delle figure di esperti in politica a seconda del momento e del luogo in cui avviene questo coinvolgimento. La prima figura di esperto è quella dell’intellettuale libero. Si tratta dell’esperto che agisce al di fuori del processo di policy making. L’intellettuale libero gode di una maggiore libertà di pensiero, ma il costo di questa libertà appare decisamente elevato: il suo contributo rimane molte volte inascoltato da parte dei politici, che lo giudicano, spesso a ragione, del tutto astratto e incapace di tenere conto degli ostacoli concreti che si frappongono tra il momento della riflessione e quello della realizzazione. La sola speranza dell’intellettuale libero è quella di influenzare l’opinione pubblica, ed è esclusivamente ad essa che finisce per rivolgersi, grazie anche ai mass media. La creazione di un clima intellettuale al di fuori di una qualsiasi committenza politica sembra quindi essere l’obiettivo principale dell’intellettuale libero, ma l’efficacia concreta della sua riflessione creativa appare dubbia e limitata o, nell’ipotesi più felice, indiretta e destinata al lungo periodo.

La seconda figura di intellettuale è, invece, coinvolta direttamente nel processo di policy making, e per questa ragione Merton lo definisce intellettuale burocratico. Esistono, tuttavia, due tipi diversi di intellettuale burocratico, distinguibili in base al momento del processo politico decisionale in cui avviene il loro coinvolgimento. Un primo tipo di intellettuale burocratico è coinvolto a monte dei processi decisionali e per questa ragione dispone di un maggiore potere di influenza e di determinazione delle policies. È questo il caso "dei cervelli presi in prestito", che contribuiscono a stabilire gli schemi generali della policy, finendo così per influenzare la politica nazionale. Il secondo tipo è invece coinvolto a valle dei processi decisionali e in questo caso il suo potere di influenza appare più limitato. Si tratta di un esperto che è tenuto ad accettare le definizioni dei problemi e delle prospettive di intervento elaborate dai politici a monte del processo decisionale e deve limitarsi a predisporre gli strumenti utili per l’applicazione delle decisioni. Questo secondo tipo corrisponde a quello che in genere si definisce un tecnico, mentre il primo tipo abbraccia i casi di occupazione di ruoli politici (ministeriali o altro) da parte degli esperti. Se nel secondo tipo di intellettuale burocratico l’esperto è sotto lo stretto controllo dei politici, nel primo tipo, invece, si registra un vero e proprio ripiegamento dei politici a tutto vantaggio dell’esperto.

È vero comunque che i politici in genere agiscono come gatekeepers dell’ingresso degli esperti nel processo politico e vagliano attentamente il personale tecnico di cui si servono. I criteri attraverso cui i politici scelgono gli esperti non si esauriscono soltanto nella competenza da loro posseduta, ma comprendono anche l’affidabilità e l’indifferenza (March e Olsen, 1992, p.62). L’affidabilità indica il fatto che l’esperto deve dimostrare di condividere la cultura, lo stile personale e il mondo sociale del politico, poiché solo a queste condizioni è possibile che i due soggetti si comprendano facilmente e riescano a lavorare assieme. L’indifferenza indica invece l’importanza che l’esperto non nutra ambizioni personali di carriera politica. Ma è la fiducia la componente fondamentale del processo di scelta dell’esperto. I politici non sono in grado di valutare la competenza tecnica di un esperto ed è quindi naturale che ricorrano a quegli esperti che conoscono direttamente e con cui abbiano una certa familiarità. In assenza di rapporti diretti, i politici fanno riferimento ad organizzazioni sociali – come un’università o un’associazione professionale – in grado di fornire una garanzia che la fiducia posta in certi esperti sia generalmente meritata (Merton, 1967). In questo modo, un’organizzazione come l’università finisce per svolgere la funzione di riduzione dell’incertezza nel processo di scelta degli esperti da coinvolgere nei processi decisionali, caricandosi quindi di importanti compiti simbolici.

I criteri individuati sopra servono a garantire un minimo di produttività nella collaborazione tra politici ed esperti e ad evitare un diretta concorrenza per le carriere e il potere, ma tuttavia, come vedremo meglio più avanti, non impediscono lo scontro tra logiche e modi di operare diametralmente differenti come quelli che contraddistinguono la politica e la scienza.

 

3.    Le cause del coinvolgimento crescente degli esperti

Il coinvolgimento degli esperti in politica è diventato in questi anni una solida realtà. I politici mantengono dei contatti informali con degli esperti, siano essi professori universitari, membri di istituti di ricerca, tecnici dell’ufficio studi delle Banche Centrali. Spesso chiedono loro di tenere una relazione in un convegno, di scrivere un articolo, di fornire dati e proiezioni, di dare un "parere volante" (Regonini, 1993). Si tratta di forme di coinvolgimento puntuali ed episodiche, che fungono da contorno alle diverse posizioni che caratterizzano il dibattito politico. Effettivamente, è ormai un dato pacifico che dell’ambiente politico facciano ormai parte anche le idee circolanti nel dibattito accademico e scientifico. Principi nuovi e strumenti inediti emergono in quella sede e da lì vengono resi disponibili per i progetti di riforma dei vari schieramenti politici.

Sempre più spesso però questo coinvolgimento assume le forme più intense della partecipazione a organi consultivi o addirittura dell’assunzione di veri e propri ruoli politico-istituzionali, segnando il prevalere della figura dell’intellettuale burocratico sull’intellettuale libero. È possibile individuare tre diverse interpretazioni del crescente ricorso agli esperti nel processo politico. La prima ipotesi insiste sulla crescente centralità delle politiche pubbliche nella politica contemporanea che può essere ricondotta alla crisi della dimensione ideologica e alla cosiddetta subpoliticizzazione della politica (Beck, 2000). La seconda ipotesi prende in considerazione le implicazioni simboliche, legittimanti, connesse al ruolo politico degli esperti. La terza, infine, che riprende elementi delle precedenti ipotesi, è quella del passaggio alla democrazia postpolitica.

Politica postideologica e subpolitica. Una nota ipotesi spiega il crescente ricorso agli esperti in politica come conseguenza della radicale ridefinizione di quest’ultima in corso negli ultimi anni. La politica contemporanea, si sostiene, ha ormai del tutto perso il suo carattere di luogo del conflitto ideologico per diventare sempre più un problema di gestione operativa della società. Detto in altri termini, la politics conta sempre meno, mentre diventano centrali le policies (Parisi, 1988). La politica si va trasformando nel terreno in cui si affrontano, attraverso progetti scientificamente elaborati, le questioni relative alla gestione del mercato e dell’economia, della medicina e della qualità della vita sociale, tutte questioni concrete e ben lontane dai conflitti incentrati sulla definizioni del bene ultimo e sul confronto tra progetti ideologici e utopici di società. È inevitabile che in questo nuovo panorama politico il vecchio politico di professione, ancora legato alla gestione del conflitto ideologico, sia destinato a cedere il passo all’esperto, ovvero a colui che è privo di zavorra ideologica e ricco di quella competenza e professionalità necessaria per affrontare le questioni legate alla policy e per trovare le soluzioni migliori. Una delle ragioni che stanno alla base dello sviluppo di una politica postideologica viene individuata nell’internazionalizzazione dell’economia capitalistica contemporanea alla nascita di un mercato globale le cui interdipendenze impongono una lunga serie di vincoli alla politica dei singoli Stati. Questi processi hanno prodotto una riduzione dei margini di discrezionalità e dunque un ridimensionamento del ruolo dell’ideologia in politica. In un certo senso, le problematiche economiche contemporanee fissano rigidamente le questioni al centro dell’agenda politico-governativa e così facendo definiscono le priorità, nonché le soluzioni adottabili, del governo indipendentemente dalla collocazione ideologica dei partiti che lo esprimono. Che cosa può avvalorare questa interpretazione più dell’attuazione di politiche di bilancio "rigorose" da parte dei partiti eredi della tradizione della sinistra europea o americana? L’inaspettata austerità che caratterizza a partire dagli anni Ottanta i governi di sinistra può essere vista cioè come la prova di quanto gli imperativi contestuali, economici e internazionali, pesano sui decision makers (Pappalardo, 1992, p.148). In breve, dopo aver delegato la scelta dei mezzi agli esperti, ai politici non resterebbe nemmeno il controllo dei fini, in quanto questi ultimi appaiono, in un certo senso, già dati, oppure spetta sempre ai tecnici individuarli attraverso l’analisi scientifica della situazione.

L’ipotesi della subpoliticizzazione della politica, elaborata dal sociologo tedesco Ulrich Beck, concorda con l’idea della centralità delle policies ma, a differenza dell’ipotesi precedente, offre della politica una visione meno pacificata. L’ipotesi di Beck (2000) sottolinea come le imprese economiche e la ricerca scientifica nei diversi campi, come l’informatica, la biogenetica o le tecniche di fecondazione artificiale, producono incessantemente innovazioni che modificano in maniera rivoluzionaria i processi e le istituzioni sociali. In passato, la loro influenza non veniva vista come politica perché legittimata dall’idea del progresso e del miglioramento delle condizioni sociali – aumento delle possibilità di vita, piena occupazione ecc. Associare la pratica scientifica, o l’azione economica, al progresso significava garantire conseguenze positive per tutti i gruppi sociali e per questa ragione l’azione della scienza o dell’economia si poneva al di fuori dell’arena politica. Da alcuni decenni a questa parte la crescente consapevolezza sociale dei rischi che la pratica scientifica e il mercato producono ha rimesso in discussione la loro associazione con l’idea di progresso e in questo modo ha caricato di valenza politica l’azione della scienza (subpoliticizzazione della scienza) o dell’economia (subpoliticizzazione dell’economia). In altre parole, nel momento in cui le scoperte scientifiche o le innovazioni produttive causano rischi si aprono una serie di questioni: avallare o meno quelle scoperte, quale rischi accettare e quali no, come ripartire socialmente i rischi. Tutte domande a cui la scienza, ormai priva della legittimazione del progresso, non può più dare delle risposte. Questi ambiti prima sottoposti esclusivamente alle procedure e ai principi scientifici, adesso richiedono soluzioni dotate di legittimità politica, decisioni che devono essere assunte attraverso un vero e proprio processo politico. La politica tradizionale viene così ad essere chiamata in causa ogni qualvolta i rischi prodotti dalla scienza o dal mercato suscitano proteste e conflitti sociali. Il punto è che la politica istituzionale (partiti, parlamento, governo centrale) è principalmente concepita e organizzata per affrontare questioni relative ai conflitti redistributivi. Essa è tradizionalmente focalizzata sulle questioni legate al reddito e ai conflitti di classe, che ha affrontato attraverso il Welfare State e le politiche keynesiane. La politica istituzionale risulta pertanto del tutto priva di risorse e strumenti per cimentarsi con le nuove questioni create dalle applicazioni e dalle sperimentazioni della ricerca scientifica e delle imprese.

In questa prospettiva, gli esperti si offrono come il necessario anello di collegamento tra la politica istituzionale e le diverse aree di subpolitica. La loro chiamata in causa è la conseguenza della necessità che ha la politica istituzionale di fronteggiare le problematiche scaturite dall’ampliarsi progressivo dei confini della politica in aree del tutto nuove rispetto ai suoi domini tradizionali. La politica non può fare a meno dei tecnici (economisti, scienziati, medici ecc.) per rapportarsi e per dirimere le controversie relative alle implicazioni ecologiche, sociali ma anche etiche che si producono in economia o nella scienza. Gli esperti sono dunque da considerare come la componente indispensabile dell’equipaggio di ogni movimento sociale o di ogni coalizione politica, sia quando si tratta di dare battaglia su questi nuovi problemi, sia quando divampa la polemica dentro i diversi ambiti della subpolitica.

L’autorità degli esperti come legittimazione della politica. In una seconda interpretazione le cause del ricorso agli esperti sono individuate in ragioni culturali e precisamente nel ruolo legittimante che la scienza e la razionalità rivestono nell’adozione di decisioni politiche nella società contemporanea ampiamente secolarizzata.

È noto che nella società moderna la politica riflette, rafforza e diffonde una visione secolare e razionale del mondo (March e Olsen, 1992). L’organizzazione della politica contemporanea è chiamata a rassicurare la collettività dei cittadini su tre punti in particolare: a) che il decision making sia compiuto in modo intelligente, come risultato cioè di una riflessione, e dell’uso completo delle informazioni necessarie, b) che sia attento alle esigenze e interessi delle persone e dei gruppi su cui si applica e che quindi questi siano coinvolti nel processo decisionale in una qualche forma, c) che tale processo sia sotto controllo da parte dei leader che lo hanno proposto e che ne sono quindi i diretti responsabili. Se i punti b) e c) riguardano i valori della legittimità democratica e dell’intenzionalità umana, valori che vengono sanciti con le classiche procedure dei regimi democratici, come le elezioni e la trasparenza decisionale, il punto a) riguarda invece i valori della moderna cultura razionalistica e scientifica che vengono sanciti attraverso i rituali della consultazione degli esperti o il loro diretto coinvolgimento nel governo.

Il ricorso all’esperto serve dunque a dare un’ulteriore e fondamentale legittimità alle decisioni politiche, una legittimità che ha poco a che fare con la democrazia, ma che è ugualmente richiesta dalla collettività. Il coinvolgimento di scienziati fa sì che i cittadini si convincano della bontà – intesa come intelligenza – delle decisioni assunte, oppure della necessità – intesa come neutralità rispetto agli interessi – di assumere certe decisioni che comportano dei costi differenziati tra i diversi gruppi sociali. Esiste, dunque, un chiaro uso simbolico nel ricorso ai tecnici e alle tecniche da parte dei politici. Consideriamo, ad esempio, il caso dell’impiego di economisti e dei loro modelli economici nelle politiche pubbliche. L’esistenza di un metodo scientifico per definire le politiche economiche avrebbe il pregio di sollevare "i politici da alcune delle loro responsabilità di prendere decisioni", e in questo senso la scienza può essere usata come mezzo per evitare la responsabilità di decidere, ma anche il vantaggio di far "pensare che la dottrina teorica [possieda] una garanzia scientifica e che il governo [sia] guidato da un’ideologia scientifica" (Collins e Pinch, 2000, p.139).

Questo modo di inquadrare la funzione legittimante della scienza in politica deriva dall’ipotesi che va riconosciuta autorità a chi detiene una competenza, come è il caso appunto dell’esperto. L’idea di una specifica autorità della competenza presente nell’azione dell’esperto è al centro dell’originale contributo di Talcott Parsons (1968) al problema della competenza professionale nella società contemporanea. Il sociologo americano riteneva che la competenza potesse essere assunta come base per una quarta forma di potere assente nella classica tipologia weberiana. La competenza professionale può cioè rappresentare la legittimità e la risorsa per una forma di potere del tutto differente dal potere carismatico, tradizionale e razionale-legale. La sua ipotesi è che certe decisioni sono viste dai destinatari come legittime proprio perché fondate sulla competenza professionale del decisore. Per Parsons, in breve, chi ha competenza, ovvero una conoscenza superiore in certi campi specialistici, ha potere su chi non ne ha e questo potere viene riconosciuto e ritenuto legittimo ed è quindi in grado di promuovere obbedienza presso coloro che ne sono i destinatari.

L’autorità professionale, intesa come forma di potere fondata sulla competenza, si distingue dal potere razionale-legale poiché quest’ultimo si basa sul rispetto della legalità, ovvero delle regole formali. Tuttavia, l’ipotesi parsonsiana è in perfetta continuità con la riflessione weberiana sulla modernità come sviluppo del principio della razionalità. L’autorità professionale appare a Parsons destinata a svolgere un ruolo sempre maggiore nella società moderna sempre più razionale e weberianamente disincatata. Il problema è che se il potere razionale-legale weberiano è in piena sintonia con la democrazia liberale, anzi ne è il portato necessario, costitutivo, non altrettanto si può sostenere dell’autorità professionale di cui parla Parsons. In campo politico le sue implicazioni portano chiaramente verso la tecnocrazia e non verso la democrazia. Una società razionale moderna, in senso weberiano, quale è quella contemporanea sembra quindi mostrare una pericolosa ambivalenza, riconosciuta peraltro dallo stesso Weber, quando si manifesta democratica e nello stesso tempo dà spazio e legittimità al sapere razionale e scientifico come fonte decisionale. I principi della razionalità scientifica e quelli della democrazia convivono senza che sia ben chiaro i confini reciproci della loro applicazione e della loro funzione sociale. Per dirla in parole semplici, nella soluzione dei problemi sociali, o meglio, nella determinazione delle policy, ha ragione l’esperto che ha dalla sua parte la competenza e la conoscenza scientifica dei problemi, oppure il politico che ha invece dalla sua il consenso della maggioranza e una comune identità di vedute con un ampia quota di cittadini? È possibile che, come ipotizzava Parsons, la tendenza alla razionalità propria della modernità vada oltre la razionalità legale di cui parlava Weber e porti, in politica, al superamento della regola della maggioranza e del pronunciamento elettorale universale?

La democrazia postpolitica. Alcune riflessioni preannunciano sviluppi di questo tipo. Da più parti si sostiene che la democrazia territoriale con i suoi circuiti di rappresentanza incentrati sul momento elettorale, sul parlamento e/o su un governo o premier eletto direttamente sono destinati al declino. L’ipotesi è che la politica come la intendiamo adesso sia strettamente legata al fenomeno storico dello Stato nazionale. I problemi posti dalla nascita di comunità sovranazionali come l’Unione Europea, stanno sempre più mostrando l’inadeguatezza della democrazia territoriale e delle forme politiche che ad essa si ispirano. Innanzitutto, le comunità sovranazionali hanno accresciuto la complessità degli odierni processi di policy. A causa della nascita e sviluppo delle sovranità sovranazionali "i processi decisionali contemporanei si riferiscono a così tanti ambiti e sono così tecnicamente diversificati e proceduralmente articolati che neppure i più preparati dei politici riescono ad orientarsi. Ne consegue che i controlli, le indagini, le deliberazioni e i processi decisionali trascendano le capacità di un parlamento (e dei suoi membri), per quanto esso sia grande, competente, ben organizzato o specializzato" (Burns e Andersen, 1998, p.428). Ma il vero problema non è tanto la difficoltà logistica e organizzativa, quanto un altro: la politica contemporanea a dimensione internazionale manca della necessaria base di legittimità, anche se misurata con i criteri tradizionali della democrazia territoriale. I parlamenti nazionali "non sono in grado di rappresentare efficacemente gli interessi (e la loro rispettiva intensità)" dei diversi soggetti sociali toccati dalle policies.

Di fronte a questa serie di problemi (complessità delle politiche pubbliche internazionali, crisi di legittimità delle strutture della rappresentanza territoriale) sono in molti a vedere come possibile soluzione il ricorso a personalità extrapolitiche, gli esperti appunto. Il ricorso agli esperti nei processi politici e la creazione di istituzioni gestite da esperti a cui sono affidati compiti decisionali non è soltanto un’ipotesi suggerita teoricamente, quanto invece una prassi che si sta imponendo nei fatti, sotto la spinta della necessità e al di là di un esplicito programma da parte della classe politica. Il reclutamento degli esperti è diventata ormai una delle componenti centrali della politica a livello dell’Unione europea. La loro partecipazione, agli occhi degli stessi promotori del processo di unificazione politica europea, appare utilissima per attribuire al processo politico comunitario il giusto spessore di competenze specialistiche, ma soprattutto, in assenza di una vera e propria democrazia elettorale e parlamentare a livello europeo, la necessaria dose di autorevolezza alla regolazione degli interessi sociali. Mancando, o essendo del tutto improbabile almeno per il presente, un autentico sistema politico democratico a livello europeo, la struttura decisionale dell’Unione europea ha assunto le forme dei network corporativi. I network corporativi europei si sono organizzati sostanzialmente come processi dove i gruppi di interesse si confrontano senza che ci sia però alcuna mediazione da parte di politici e di partiti. L’idea è stata quella di garantire l’accordo e il soddisfacimento dei diversi interessi attraverso la mediazione degli esperti, coinvolgendoli nei processi di policy. In altre parole, gli esperti e la loro competenza e neutralità scientifica sono utilizzati simbolicamente per compensare l’impossibilità o la debolezza della mediazione politica. La tecnicità delle soluzioni assicurerebbe la giustezza della decisione in assenza di un criterio politico. La scienza prende il posto della politica, anche se per ragioni di forza maggiore. Si può comunque dubitare che il criterio di legittimità garantito dagli esperti sia di natura equivalente a quello garantito dalle procedure democratiche.

Un altro esempio di democrazia postpolitica è fornito dal recente sviluppo delle cosiddette autorità indipendenti, un processo che appare stimolato dalla necessità di spoliticizzare ampi settori della policy, quale condizione necessaria per evitare il conflitto partitico e la conseguente paralisi regolativa. In Italia, ad esempio, i politici, vista la loro incapacità di affrontare e risolvere i loro contrasti in determinate aree, quali appunto la gestione dell’etere e degli spazi televisivi, il rispetto delle regole di mercato o la gestione della Banca centrale decidono di fare un passo indietro e di spoliticizzare queste questioni. Per altri studiosi lo sviluppo delle autorità indipendenti è invece il risultato dell’abbandono delle politiche redistributive, interventiste e clientelari, su cui avevano costruito i loro consensi elettorali i partiti italiani del secondo dopoguerra. I partiti italiani, sempre più consapevoli dell’impossibilità di adottare massicce politiche keynesiane di distribuzione di risorse, stanno passando a politiche di tipo regolativo, cambiando il ruolo complessivo dello Stato, che si trasforma da promotore dell’interesse nazionale a semplice regolatore di segmenti circoscritti di problemi (Morisi, 1996). Il punto è che la creazione di Autorities, vista come estrema ratio all’endemica conflittualità partitica oppure come il portato di una svolta radicale nella concezione e nel ruolo dello Stato, non può non produrre automaticamente un aumento del ruolo e delle responsabilità degli esperti nella politica italiana. Una istituzione del genere, così lontana dalla tradizione di partigianeria profondamente radicata nella democrazia italiana, deve trovare altrove, oltre i partiti e i circuiti e le logiche politiche parlamentari, la propria legittimazione. Ancora una volta gli esperti possono fornire questa forma di legittimità: essi garantiscono la giustezza delle decisioni alla luce della competenza e della pretesa neutralità che fanno parte del loro status professionale di scienziati o comunque di specialisti.

 

4.    Le conseguenze della politica degli esperti

Esistono dunque una serie di trasformazioni politiche e sfide sociali ed economiche che, in un certo senso, impongono la consultazione degli esperti e la loro cooptazione nel processo di governo. E non si può non convenire che questo coinvolgimento produca anche innegabili vantaggi al processo decisionale e alla qualità delle policies. Non si tratta di un revival di ideologie tecnocratiche, quanto invece di fattori oggettivi che tendono ad ampliare l’influenza degli esperti o a favorirne il loro impiego diretto nei processi politici governativi. Ma ciò nulla toglie alla problematicità insita nel ruolo degli esperti e in particolare alle possibili ripercussioni negative per l’identità della politica.

È possibile individuare tre gruppi principali di conseguenze problematiche. Il primo gruppo di conseguenze riguarda le gravi distorsioni che si producono nel processo democratico. Attraverso l’azione politica dei tecnici, le politiche cessano di essere l’esito di una risposta alle preferenze degli elettori da parte di una maggioranza di governo che proprio dalla rappresentanza di quelle preferenze trae la propria legittimità, per venire elaborate a partire da criteri extrapolitici, come appunto gli orientamenti scientifici. Il dibattito tra i diversi orientamenti di ricerca e di teoria finisce cioè per sostituire del tutto il più convenzionale dibattito tra destra e sinistra e tra le ideologie politiche nella strutturazione delle alternative decisionali e di indirizzo politico (Regonini, 1993, p.395), con la conseguenza però che diventa difficile se non impossibile per la collettività scegliere una coalizione al posto di un’altra e anche sanzionare la coalizione di governo alla fine del suo mandato.

Questo limite è ampiamente riconosciuto ma viene giustificato dalla considerazione che il carattere tecnico e poco politico assunto dalle policies degli esperti abbassa il livello di conflittualità in politica. In realtà, la presenza degli esperti non produce affatto un aumento del consenso nel processo politico, anzi il contrario. Inevitabilmente, gli scienziati introducono le loro polemiche scientifiche dentro la politica. Tali diatribe si affiancano ai normali conflitti politici e contribuiscono ad innalzare ulteriormente il livello di conflittualità nel policy making (Panebianco, 1989) 1.

Va anche sottolineato che il coinvolgimento massiccio di esperti nei processi decisionali politici fa si che le policies e il dibattito intorno ad esse assumano un contenuto e un linguaggio strettamente tecnico-scientifico, due elementi che inevitabilmente sono destinati ad elitizzare i processi politici e a renderli opachi e incomprensibili al cittadino comune e allo stesso politico di professione, con il risultato che entrambi si trovano così nell’impossibilità di vagliarli e giudicarli. Come fa il comune cittadino o il politico a controllare, partecipare e influenzare un processo decisionale di cui non comprende letteralmente i "termini della questione"? In queste condizioni il potere politico può facilmente sfuggire di mano a chi ne è il depositario per ragioni democratiche, i cittadini e i politici, per essere esclusivamente controllato da una ristretta élite intellettuale (Dahl, 1987).

In un modello politico incentrato principalmente sulla gestione delle policies da parte degli esperti, il potere della competenza, dei pochi "che sanno", diventa potere politico e trasforma la diseguaglianza culturale dei molti "che non sanno" in una diseguaglianza politica. La marginalizzazione, se non addirittura lo svuotamento dei circuiti elettorali-rappresentativi e, più in generale, del controllo dal basso dei processi decisionali, in altre parole, il nucleo fondamentale della democrazia moderna, sembra essere la conseguenza inevitabile della scientificizzazione della politica prodotta dalla presenza degli esperti.

Secondo gruppo di conseguenze. Gli esperti, via via che acquisiscono ruoli politici e riescono a far riconoscere rilevanza politica alle loro opinioni, tendono a trasformare la politica in una attività "neutra", vale a dire favoriscono il formarsi di una politica che non sostiene esplicitamente precisi valori sociali, anzi ostenta neutralità rispetto alla moltitudine dei valori sociali e dei loro conflitti. In realtà, come abbiamo visto prima, il riferimento ai valori e a precise opzioni sociali nell’operato dell’esperto appare inevitabile, soltanto che esso è implicito, poco consapevole. Le implicazioni di questo processo sono ben evidenti nella presenza di economisti nei ruoli governativi. Gli economisti sono interessati alle questioni tecnicamente e scientificamente definite e difficilmente pongono le loro proposte in relazioni a valori che non siano quelli della competenza e dell’efficienza. La loro particolare formazione professionale li spinge a privilegiare una mentalità tecnocratica e a rifiutare l’idea della politica militante. La teoria economica neoclassica, ad esempio, con le sue attenzioni ai vincoli di bilancio, agli indici di inflazione e agli automatismi del mercato favorisce una visione tecnicamente intesa della politica, quasi la cabina di comando di un sistema dove lampeggiano precisi indicatori matematico-economici. Nella visione degli economisti neoclassici la politica cessa di essere un contesto di composizione degli interessi collettivi e di formazione del consenso sociale, mentre ai politici viene soltanto riconosciuto il compito di ratificare a posteriori le decisioni tecnicamente assunte. La presenza di questi esperti conduce dunque inevitabilmente al rafforzamento di una politica sempre più tecnica ed efficientista, con due conseguenze significative. La prima conseguenza riguarda l’affermarsi di una tendenza conservatrice nella politica e nelle policies: nel momento in cui, tramite la centralità dell’azione degli esperti, viene privilegiata l’attenzione ai criteri della massimizzazione e dell’efficienza, rischia di non esserci più spazio per una discussione pubblica sui valori e sui fini che devono essere massimizzati e raggiunti. Tali valori finiscono per essere assunti implicitamente o definiti in maniera acritica, favorendo il dilagare del conformismo sociale. La seconda conseguenza riguarda il problema che concentrando l’azione politica sulla progettazione delle policies, le altre dimensioni della politica, fondamentali per la vita sociale, vengono relegate in secondo piano o addirittura gettate fuori dalla scena pubblica. La politica, ad esempio, oltre a governare l’economia, è anche chiamata a svolgere un’importante funzione di tipo culturale: l’individuazione e il sostegno dei valori che sono fondativi dell’identità stessa della comunità. La politica deve quindi comprendere tutta una serie di rituali, cerimonie e altre attività significanti, volte a soddisfare questa esigenza. Una politica appiattita nella gestione della dimensione economica e in una visione tecnologica dei suoi compiti finisce per smarrire queste componenti basilari della sua esperienza, provocando gravi ripercussioni sociali, primo tra tutti l’indebolimento del senso di appartenenza alla comunità politica (March e Olsen, 1992).

Il terzo gruppo di conseguenze pone l’accento sulle difficoltà prodotte dall’assenza delle tradizionali capacità e competenze politiche presso gli esperti assurti a ruoli politici. Sono le capacità e le competenze nel gestire una negoziazione, nel raggiungere un compromesso, nel produrre l’accordo necessario per certe politiche, per ottenere il consenso sufficiente attorno alla propria leadership e al proprio progetto. In altre parole si tratta di un patrimonio di sapere e di competenze acquisite on the job, attraverso un tirocinio lungo e defaticante all’interno delle strutture politiche, in particolare i partiti e gli organismi istituzionali, che non permette lo sviluppo di carriere e di competenze in altri campi. I politici costituiscono quindi un ceto a sé stante, specializzato nell’attività politica della conciliazione e della negoziazione tra interessi e parti politiche. L’esperto coinvolto nel gioco politico non vuole né può assimilare facilmente tale cultura di fondo, in primo luogo perché, gli esperti, in quanto accademici o scienziati, sono del tutto al di fuori di questi circuiti socializzanti e dunque privi di questa formazione. Anche se è possibile che singoli tecnici non siano del tutto sprovvisti di sensibilità politica, "è chiaro che il comportamento del tecnico chiamato ad alte responsabilità presenta molti tratti lontani dal comportamento che ci si può legittimamente aspettare da leader democratici" (Meynaud, 1968, p.52). Una certa intransigenza, e magari un certo disprezzo verso i normali attori politici e sociali che appaiono ai loro occhi dei profani e dei pressappochisti, una scarsa volontà a spiegare alla collettività le ragioni delle misure adottate, nonché un netto rifiuto per gli accomodamenti, specialmente quando questi minacciano la perfezione formale delle proprie iniziative, appaiono sovente come caratteristiche tipiche degli esperti coinvolti in ruoli governativi.

L’importanza di possedere competenze politiche è strettamente legata alla specificità dell’attività politica nelle democrazie e alle sue peculiari fonti di legittimazione. I giochi della politica democratica sono del tutto diversi da quelli scientifici. I giochi della scienza sono dominati dall’accettazione di un unico valore, la verità scientifica, che emerge attraverso un canone procedurale accettato da tutti i partecipanti. Nei giochi della politica democratica, invece, non esiste un valore superiore agli altri quanto una pluralità di valori, o di interessi, spesso incompatibili tra loro. Anzi la democrazia è l’ambito della società dove per definizione ha luogo una lotta tra valori inconciliabili e dove se ne cerca costantemente la composizione. Da questo punto di vista la politica incarna il weberiano conflitto tra gli dei-valori. Inoltre, la distinzione tra valori e fatti, basilare nella scienza, è assente nel processo politico normale. Più precisamente, la politica piega costantemente i fatti alle esigenze dei valori, dato che lo scopo principale dell’attore politico è quello di mobilitare e alimentare il consenso attorno a certe credenze e a certi impegni (Panebianco, 1989). Per tutte queste ragioni, la centralità delle policies nella politica contemporanea, da cui ha origine il coinvolgimento dell’esperto, non elimina affatto l’importanza della politics e le competenze che ad essa fanno capo e che sono possedute dai politici di professione. La logica della mobilitazione attorno a certi valori e della ricerca dell’accordo e della mediazione tra valori e interessi diversi costituiscono delle dimensioni del processo politico democratico altrettanto cruciali della definizione tecnicamente raffinata delle policies.

L’esperto che, nelle policies, veste i panni del politico finisce per essere significativamente coinvolto anche nella politics, con la conseguenza che se cerca di applicare la sua visione professionale delle cose fallisce miseramente, mentre se cerca di giocare con le regole della politica incontra grandissime difficoltà dovute al fatto di non essere minimamente preparato per tale compito. La politica democratica, via via che dà spazio agli esperti e alle loro logiche, rischia allora di trovarsi priva del personale e delle capacità necessarie per lo svolgimento dei suoi processi fondamentali.

 

Note

*       Desidero ringraziare il Prof. Gianfranco Bettin per i suoi commenti e i suoi suggerimenti

1.     Naturalmente avviene anche il processo contrario. Come nei processi di subpoliticizzazione di cui parla Beck, nel momento in cui la politica demanda le responsabilità decisionali agli esperti si produce una politicizzazione della scienza, nel senso che si alimentano dentro la scienza conflitti che riflettono la lotta tra partiti politici, interessi e valori sociali contrapposti, piuttosto che la normale dialettica scientifica. Come mostrano i recenti casi di mucca pazza o dei residui militari radioattivi, il governo si schiera a fianco dei suoi tecnici mentre l’opposizione e i movimenti sociali mobilitano i loro controesperti. Il problema è che la scienza, così politicizzata, viene caricata dell’onere di trovare soluzioni politicamente e socialmente accettabili, due obiettivi poco in sintonia con i suoi compiti istituzionali. Se per Beck si tratta ormai di un processo inarrestabile e anzi per certi aspetti benefico, altri studiosi sottolineano il pericolo che in questo modo la scienza perda sempre più credibilità e autorevolezza sociale (Collins e Pinch, 2000).

Riferimenti bibliografici

Beck U., La società del rischio, Roma, Carocci, 2000.

Burns T.R. e Andersen S., L’Unione europea e la politica postparlamentare, in "Il Mulino", n. 377, 1998.

Collins H. e Pinch T., Il golem tecnologico, Milano, Comunità, 2000.

Dahl R., Democrazia o tecnocrazia?, Bologna, Il Mulino, 1989.

de Vries G., La separazione di "fatti" e "valori" come fondamento e prodotto della differenziazione culturale in Cannavò L. (a cura di), Studi sociali della Scienza, Roma, Goliardica, 1989.

March J. e Olsen J., Riscoprire le istituzioni, Bologna, Il Mulino, 1992.

Merton R.K., Teoria e struttura sociale, Bologna, Il Mulino, 1967.

Meynaud J., Tecnocrazia e politica, Bologna, Cappelli, 1968.

Morisi M., Le autorità indipendenti in Italia, in "Queste Istituzioni", n. 108, 1996.

Panebianco A., Le scienze sociali e i limiti dell’illuminismo applicato, in Id. (a cura di), L’analisi della politica, Bologna, Il Mulino, 1989.

Pappalardo A., Rigore socialista: vincolo o scelta?, in Calise M. (a cura di), Come cambiano i partiti, Bologna, Il Mulino, 1992.

Parisi D., Non solo tecnologia. Scienza e problemi di policy, Bologna, Il Mulino, 1988.

Parsons T., Professions, in "International Encyclopedia of the Social Sciences", Free Press, 1968.

Regonini G., Il principe e il povero. Politiche istituzionali ed economiche negli anni ’80, in "Stato e Mercato", n. 39, 1993.

 


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