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Recensioni
Fabio de Nardis, L’irreversibilità del moderno, SEAM, Roma, 2001.
La modernità, con le sue caratteristiche essenziali, è stata analizzata da de Nardis attraverso l’esame di coppie concettuali, indicatori esaustivi del periodo storico che stiamo vivendo, per dimostrare che l’espressione "postmoderno", non è altro che uno dei tanti slogan di cui ultimamente ogni sfera sociale è intrisa (a cominciare dalla moderna comunicazione politica) e per evidenziare la sua crisi, attribuita sostanzialmente all’etica del denaro e alle credenze fideistiche che quotidianamente si rafforzano e invadono ogni sfera (pubblica e privata) della società.
La prima coppia concettuale analizzata è quella di "moderno e postmoderno". È con Jean-François Lyotard che nel 1979 si comincia a pensare ad un superamento dell’epoca moderna. L’autore francese riconduce questa fase alla sconfitta delle grandi "meta-narrazioni" dispensatrici di certezze, causa prima della dissoluzione dei rapporti sociali tradizionali. Dopo Lyotard, altri autori hanno cercato di dimostrare questo passaggio d’epoca, attraverso altre e originali espressioni, quali: "società dell’informazione", "società dei consumi", "società postmoderna" o semplicisticamente "post-modernità", al fine di evidenziare il superamento di quei modi di vivere e di organizzare la società sviluppati nell’Europa del XVIII secolo, ai quali la modernità si riferisce. La sociologia nasce proprio per analizzare la modernità o meglio, il passaggio dalla società tradizionale a quella moderna a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. Nel XX secolo l’accelerazione dello sviluppo tecnologico, in particolare, e dei processi sociali, in generale, ha stimolato in autori come Lyotard l’idea del compiuto superamento di un’epoca. A non condividere quest’assunto è Giddens, che vede la fase attuale, semplicemente, come una "radicalizzazione" dei tratti peculiari della modernità. Ciò che ha reso possibile l’edificazione della modernità è il razionalismo della fine del XVIII secolo. In nome della ragione si anima il progresso scientifico e lo sviluppo della vita sociale. Una ragione essenzialmente al servizio della scienza, della tecnica e, soprattutto, delle identità culturali (soggettivizzazione); una ragione laica e antidogmatica al servizio del "progresso umano".
Una critica rivolta alla modernità e che de Nardis ricorda, è quella mossa da Touraine. Ora, il discorso si concentra essenzialmente sulla razionalizzazione di origine illuminista che, da espressione del dubbio critico e spirito d’osservazione scientifico, come dovrebbe conservarsi e alimentarsi, rischia di degenerare quando si fa strumento di calcolo economicista e dell’organizzazione scientifica del lavoro, così come fu proposta da Taylor e realizzata da Ford; infatti, quando quest’ultima si concretizza, accade che il lavoratore si aliena nel ripetere pedissequamente un ritmo e una sequenza di lavoro che non gli appartengono. Lo sviluppo capitalistico e il razionalismo, da basi fondanti della modernità, in questo momento storico, da alcuni definito postmoderno e dal nostro autore semplicemente tardomoderno, tendono via via ad assumere connotazioni paradossalmente e pericolosamente anti-moderne.
A sintetizzare in maniera efficace i più profondi aspetti della moderna società: dinamicità, economicità, frenesia e fenomeni di mondializzazione, eccetera, resta il Manifesto del partito comunista (1948) di Marx ed Engels. Particolarmente interessante è un’espressione tratta dal Manifesto e ripropostaci integralmente da de Nardis, al fine di comprendere l’epoca moderna, ancora in auge: "tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono costretti a guardare con occhio disincantato la propria reale condizione e i propri rapporti con i loro simili". L’irreversibilità del moderno è esplicitata dal fatto che tutto viene costruito e tutto è destinato ad essere distrutto dal continuo processo di modernizzazione.
Il graduale processo di secolarizzazione ha laicizzato il pensiero, per cui nessuna chiave interpretativa può descrivere in toto una società soggetta alla continua modernizzazione. Questo momento che, impropriamente si definisce postmoderno, "non è altro che il normale processo di superamento di una specifica fase storico-sociale anteriore in favore di una ad essa posteriore e proprio per questo specificamente moderna".
Le peculiarità e le gravi contraddizioni della modernità vengono evidenziate dall’autore attraverso l’analisi di altre coppie concettuali: "locale e globale", "industriale e postindustriale", "tempo e spazio", "informazione e informatizzazione", "identità e valori", "modernità e secolarizzazione", "economia e ideologia", "democrazia e politica", per concludere con "cultura e società". La modernità ha, in primis, modificato la concezione e il livello di distanziazione spazio-temporale. Oggi, non hanno più senso espressioni del tipo: "è troppo lontano!" e questo sia spazialmente sia temporalmente. Spazio e tempo si comprimono e il passato diventa presente mentre il futuro rimane profondamente incerto e indefinito. Un tempo, non ci si poneva il problema di una divisione tra il tempo individuale e quello sociale. Oggi la maggior parte della gente è costretta a cercare delle vie di fuga dalla ansiosa rincorsa del tempo, vissuto come frammentato e accelerato, di cui ci si avverte vittime. Questo nuovo tempo e nuovo spazio determinano fenomeni di globalizzazione che riguardano, da una parte, essenzialmente, i circuiti dell’economia, della tecnica e della comunicazione di massa (per cui la stessa moda è seguita da individui diversi dislocati nelle parti più disparate del globo); dall’altra, assistiamo ad un ritorno localistico, alla comunità di matrice religiosa, politica o etnica. E queste due dimensioni, globale e locale, viaggiano in maniera direttamente proporzionale; infatti, più siamo coinvolti nella vita pubblica globale, più avvertiamo la necessità di costruirci forme stabili e più vicine d’identità culturale, realizzando così improbabili coesioni culturali di gruppi primari.
In tutto questo, l’istituzione dello Stato, è minata da due fronti: dall’internazionalizzazione dell’economia e dal localismo culturale. La cultura si autonomizza dal contesto nazionale e la società si fa multiculturale. Giunge a questo punto la denuncia dell’autore: le scienze sociali non possono sottovalutare la complessità sistemica, limitandosi a descriverla attraverso slogan "pressappochisti", adoperati solo per nascondere una preoccupante incapacità interpretativa. Anche la politica deve cambiare prospettiva. Innanzitutto, deve ritrovare una forza che ha perduto, indispensabile alla riedificazione di una nuova morale laica capace di dare valori, certezze e sicurezza nell’avvenire. Una politica in grado d’incentivare una pacifica convivenza tra i diversi localismi, nel profondo rispetto dell’alterità.
Nel mondo lavorativo tardomoderno, l’obsoleta dicotomia tra lotta di classe e gestione razionalistica d’impresa sembra essere sostituita dall’impresa "a tutto tondo". L’impresa di oggi, inserita in un sistema economico particolarmente malleabile e flessibile, è vigile sui bisogni individuali, sempre più esigenti e particolari. Un’impresa alla quale si chiede una produzione di natura non più materiale, in quanto il consumatore medio è interessato maggiormente alla cultura, all’arte, alla bellezza e ai prodotti simbolici in genere e, soprattutto, un’impresa che si fonda su una "cultura del presente", con alla base un esasperato economicismo, all’insegna del calcolo razionale di breve periodo; per una società "usa e getta" come dice Toffler.
Da quanto detto si evince chiaramente la distanza sempre più radicale tra "tempo naturale", "tempo soggettivo" e "tempo sociale". "L’individuo, schiacciato nel presente continuo, vive in balia del caduco e del casuale di fronte a una ricchezza di alternative stereotipate in una fissità temporale che ne impedisce il rinnovamento". A questo punto l’autore si chiede in che modo una cultura priva di storia e di identità possa rappresentare il terreno su cui mantenere e edificare un sistema sociale. Pericolosa è poi l’inflazione pubblicitaria, a cui stiamo assistendo, finalizzata al commercio delle immagini. Ogni cosa, nell’epoca tardomoderna, prima di "essere" deve "apparire": detersivi, vestiti, uomini politici, eccetera (il corpo viene privatizzato e il suo possessore lo cura separandosi da esso). Così slogan, frammenti di mode, divi dello spettacolo e della politica, creano il mondo sociale odierno. Come denuncia Sartori siamo dominati dal "tele-vedere", per cui si rischia di passare, nel prossimo futuro, attraverso una graduale metamorfosi, dall’homo sapiens a una versione più mediatica intravista nell’homo videns.
Indebolitesi le vecchie istituzioni di socializzazione (scuola e famiglia), l’unicità assiologica e le ideologie, l’uomo si trova a non saper gestire la libertà conquistata e ricerca febbrilmente qualcosa o qualcuno che lo aiuti in questo arduo "lavoro". In questo contesto la politica asseconda l’emancipazione individuale attraverso tagli al Welfare e la promozione di politiche liberiste, incrementando l’emarginazione sociale. Così, di fronte al consumismo mondiale e ai suoi perversi effetti, non c’è nessuna classe politica in grado d’avviare politiche intese a far rispettare il principio di egualitarismo retributivo e sociale.
Il singolo individuo così è costretto a tutelarsi e gestirsi autonomamente e questo da vita a nuove forme di localismo (comunità pseudo-religiose e neo-tribali) che generano paradossalmente nuove intolleranze e xenofobie. Si diffida dall’alterità, perché concorrenziale per il soddisfacimento degli interessi particolari. Va detto anche che più diminuisce il potere di controllo sulla propria esistenza più è facile avere paura del diverso. A tal proposito l’autore afferma che, "la società moderna è dunque una società che non azzarda previsioni sul futuro, è una società del presente, fondata sul rischio della contingenza politica, unico tentativo di determinare ciò che sarà, o tutt’al più, ciò che si vorrebbe che fosse". Nella realtà la politica appare incapace di provvedere a soluzioni efficienti ed è per questo, con molta probabilità, che gli individui si riferiscono a nuove e antiche forme di religiosità, per ritrovare la certezza perduta.
Come suggerito dall’autore, occorre una nuova politica portavoce di un’etica laica capace di strutturare e delineare interessi laici, da rappresentare nelle sedi istituzionali, in grado di ridare credibilità alla democrazia e alla politica. Un’etica che permetta di vivere il presente nel rispetto degli insegnamenti provenienti dal passato e che consenta la costruzione di una rappresentazione simbolica del futuro. Purtroppo però la politica della tarda modernità è subordinata alla sfera economica. La situazione attuale è caratterizzata dal dominio su scala planetaria di molte unità proprie del sistema capitalistico e la permanenza in una dimensione strettamente locale del potere politico. È chiara, a questo punto, la necessità di una riemersione della politica, in quanto l’economia, da sola, con il suo individualismo privo di regole e l’egoismo utilitaristico, può solo provocare il dissolvimento di qualsiasi legame comunitario. La politica ha creato le condizioni del proprio fallimento, ora deve recuperare credibilità, procedendo, in primis, alla riallocazione dell’economia nel contesto sociale che gli appartiene e alla propria reimmissione in una dimensione progettuale. La crisi politica è essenzialmente culturale ed è per questo che nell’ultimo decennio si è acceso un forte dibattito nel mondo accademico e politico sulla validità ontologica della dicotomia politica destra-sinistra.
A tal proposito, alcuni eminenti studiosi ritengono che il conflitto politico dicotomico tra destra e sinistra non abbia più motivo di esistere. In realtà, come suggerito dall’autore, sia la destra sia la sinistra esistono ancora, oggi come ieri, ma sono naturalmente cambiate. La nuova destra è quella che vede alla guida dello Stato un bravo imprenditore, sottovalutando la componente del rischio propria del capitale che insegue un profitto sempre più alto. La sinistra di oggi, invece, sembra "vestire i panni dei suoi tradizionali nemici" e per ciò non è più capace di rappresentare una valida alternativa politica. Il più grave errore politico, a detta dell’autore, è ravvisabile nella tendenza da parte dei partiti a ridurre la democrazia a mere procedure istituzionali e nel fatto di essere succubi di un’opinione pubblica condizionata enormemente dai media e perciò superficiale e incredula di fronte al principio di rappresentanza.
È questo il momento per le scienze sociali, al pari della politica, di abbandonare le discussioni sterili sui nuovi slogan o etichette migliori da assegnare ai fatti sociali, per valutare criticamente gli aspetti peculiari di quest’epoca senza storia e senza progresso culturale e suggerirne eventuali "correzioni"; perché la tarda modernità si è fatta cultura dell’anti-cultura. L’autore conclude affermando, che solo nel momento in cui sia la classe politica sia le scienze sociali prenderanno coscienza del peso determinante che rivestono le nostre radici storico-sociali, saranno in grado di ricreare certezze, valori e speranza per il futuro.
Barbara Sabella
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