Mariella Nocenzi - Anno II, Numero 1, 2001

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Saggi

"Società del rischio" e prospettive dopomoderne

di Mariella Nocenzi

1. Società del rischio e sociologia

    L'apparente contraddizione dei due concetti che intitolano questa raccolta di riflessioni è stata deliberatamente ricercata per sottolineare l'attuale simile condizione in cui versa la ricerca sociologica e per prospettarne possibili soluzioni. Infatti, pare oggi smentita quella metafora con cui Robert K. Merton era solito in passato blandire sé e i suoi colleghi sociologi contemporanei, in grado, a suo parere, di vedere molto più avanti perché seduti sulle spalle di giganti come i loro predecessori. La sociologia che osserva e studia la realtà dell'incipiente Terzo Millennio, invece, sembra essersi "incantata" a guardare il passato nella sua interpretazione del presente, perdendo così il suo ruolo fondamentale, quello di strumento per descrivere il mutamento sociale, con il quale si è affermata come scienza autonoma alla fine del XIX secolo, nel momento ufficiale del passaggio alla modernità.

    Eppure, sebbene il mutamento è stato quasi enfatizzato come "ideologia guida" della modernità nella lettura di Ortega y Gasset, l'estrema contemporanea appendice postmoderna l'ha privato del suo valore progressivo ed è oggi analizzato dalla sociologia come quel fattore di conservazione che pericolosamente reinterpreta il futuro come piena realizzazione o perdurante crisi della modernità. L'evidente limitatezza di idonee chiavi di lettura non ha consentito finora di leggere in questa crisi il suo significato - non solo etimologico - di transizione verso una nuova cosmologia che, anche perché frutto di quella passata, ne incarna le trasformazioni irreversibili. In questo modo si risolve l'apparente contraddizione che lega il profilarsi di prospettive inedite che possono venire dopo la modernità con quell'ormai frequente - e per ciò stesso spesso confuso - 'tòpos' della sociologia contemporanea che è la società del rischio. I suoi tratti caratteristici contraddicono al contempo sia chi ciecamente formula oggi una diagnosi di declino senza rinascita, sia chi ingenuamente prospetta una rinascita senza declino. Quanto è ora possibile scorgere oltre il muro opposto da una modernità declinante sono tracce di una rinascita che segue il declino dei suoi valori. Questa condizione ha alimentato una sempre più percepibile sensazione di incertezza e precarietà e non occorre a questo punto la verifica vichiana per riconoscere in questa fase di involuzione i prodromi per una nuova evoluzione che, anche questa volta e mai quanto prima d'ora, si fonda sugli stessi limiti del passato, assumendo il rischio come sua condizione propulsiva. In verità, questa interpretazione del rischio non è affatto sconosciuta ai sociologi e a quanti hanno tentato di leggere le cosmologie con le quali fin dall'origine della civiltà le organizzazioni sociali si sono strutturate, fornendo all'individuo una valida contropartita alla perdita della sua libertà assoluta nella creazione di condizioni di sicurezza rispetto all'innato senso di paura.

    Si deve, fra gli altri, a Guglielmo Ferrero (1947) una delle più significative definizioni di questo baratto atavico dell'uomo fra paura e libertà in quella di cultura: la costruzione di una condizione di stabilità artificiale rispetto alle tre principali paure umane riposte nella natura, nell'altro e nel futuro. Se ci si richiama sempre al pensatore italiano e a quei "geni invisibili" attraverso cui egli leggeva le forze nuove che animavano e cambiavano la cultura, sarebbe oggi possibile intravedere, oltre alla trasformazione di senso della paura, proprio quello della cultura in cui il rischio si sta riaffermando come valore nuovo per favorire il mutamento e orientare i costruendi processi sociali. A parziale giustificazione dei sociologi contemporanei, dimostratisi sommariamente ancora incapaci di una lettura dopomoderna del rischio, si può osservare che, "stando sulle spalle" di giganti come Ferrero ed altri, essi sono costretti a un compito arduo quale è quello di leggere i fermenti nuovi della società con strumenti e concetti ancora integralmente moderni e con confronti alquanto improponibili con la modernità. Più modestamente, per suffragare l'ipotesi di questo lavoro, ossia l'intima connessione fra società del rischio e dimensione dopomoderna, si possono cogliere tutti quei tratti a-storici di un concetto, quello di rischio, "così enigmatico ed elastico che è difficile che si stia assumendo un comune significato quando se ne parla" (Blaxter) e ciò perché "niente è rischio di per sé nella realtà, ma tutto potrebbe esserlo: ciò dipende da come l'individuo e le società avvertono il pericolo e considerano l'evento" (Ewald, 1991, p.159). Questa interpretazione culturale del rischio, in realtà, racchiude nella sua a-storicità significati temporalmente contestualizzati: in effetti, Mary Douglas nel proporre la sua "teoria culturale" corregge la definizione di Ferrero parlando di una concentrazione sociale su determinati pericoli, così trasformati in indicatori morali (Douglas, 1982) che riflette i primi segnali di insufficienza della modernità. Ciò che invece ha un carattere tanto a-storico quanto intimamente umano, in queste e in tutte le interpretazioni teoriche che saranno rivisitate di qui a poco, è quel duplice senso di sfida umana all'ignoto e di limite alla sua azione, alternativamente rappresentati con il verbo latino risicare e attraverso il calcolo razionale delle probabilità, che convivono negli uomini, sebbene poi l'uno prevalga sull'altro a seconda del periodo di involuzione, ovvero di evoluzione, del suo ambiente culturale. Ciò consente ad Anthony Giddens di leggere l'attuale risk society come dominata dalla percezione di "rischi ad alto tasso di conseguenze e a basso di probabilità che evocano anche un'idea di fortuna vicina alla visione premoderna (...) una vaga e generalizzata sensazione di fiducia in eventi lontani su cui non si ha controllo e che sollevano l'individuo dall'onere di dover fronteggiare eventi che generano turbamento" (1990, p. 133). Così, nonostante oggi il rischio sia "più globale, meno identificabile, più importante nei suoi effetti e meno gestibile" (Lupton), esso può ancora validamente essere definito in modo razionale come il prodotto delle probabilità che un evento si verifichi (P) per l'entità delle sue conseguenze (C), ossia R = P x C.

2. Il rischio premoderno

    Altrettanto attuale ed immutabile resta pure quel senso di meraviglia dell'uomo davanti all'ignoto, che si trasforma in paura quando si prospettano i lati più imprevedibili nella sua ricerca continua della verità (Severino, 1996). Dal mito prometeico e dal declino della civiltà greca e romana, all'attuale hubris dell'evoluzione tecno-scientifica e ai "lati oscuri" della modernità (Giddens, 1990), il rischio prospetta sempre all'uomo un cambiamento che, quindi, è attitudine altrettanto connaturata quanto il primo. Oggi, con un'incertezza che è divenuta intrinseca perché l'evoluzione e il benessere indotti dalla modernità profilano pure una maggiore complessità, il cambiamento cui l'individuo è chiamato non è sfidare l'ignoto, quanto la possibilità di fallire nelle scelte delle soluzioni che rendono meno incerto l'ignoto.

    Qui si può leggere una prima verifica della propensione dopomoderna dell'individuo contemporaneo: il rischio attuale più minacciosamente ne compromette le naturali capacità di adattamento a condizioni sociali e culturali sempre nuove, delegittimando le istituzioni, norme e valori che hanno forgiato quelle capacità. Non a caso una rilettura sociologica, questa volta storica, dei significati assunti dal rischio può essere condotta solo in chiave multidisciplinare, considerando elementi culturali, politici, scientifici ed economici con i quali l'immutabile propensione umana al cambiamento si è confrontata e maturata. Detto rapidamente come le prime grandi civiltà abbiano trovato nel rischio limiti e stimoli al loro progresso, in una visione meta-fisica che promuoveva soprattutto fra le paure di Ferrero quella del futuro e della natura, si deve giungere ai secoli bui del Medioevo per trovare inediti cenni di un senso del rischio più moderno e immanente. Che fosse quella dell'Altro con cui si viaggiava e contrattava o contro cui si difendeva riunendosi nei nuovi borghi in cui vigevano le libertarie leggi economiche - prima di quelle politiche (Pirenne) - la "materializzazione del rischio" segnava una nuova acquisizione dell'individuo: esso iniziava a confrontarsi senza la protezione di tanti o di un solo Dio con le asperità e gli enigmi che fino ad allora lo avevano limitato.

    La materialità, pertanto, non riduce il senso del rischio, ma anzi lo avvicina alla comprensione e alle potenzialità di superamento dell'uomo che acutamente Sennett (1998) rappresenta attraverso quel Leonardo Fibonacci da Pisa, matematico e autore nel 1212 del Liber Abaci sull'introduzione di cifre arabe che, rispetto a quelle romane, avrebbero consentito il calcolo di quantità fino ad allora imponderabili. Da questa immanenza a quella che con Weber fa del protestantesimo l'etica moderna della sicurezza per eccellenza, fondata sul rischio capitalistico, il passaggio alla nuova dimensione culturale del Rinascimento è presto fatto. Un'epoca questa - non solo per la sua definizione - di rinascita, nella quale gli esploratori colonizzatori, il principe "un po' golpe et un po' lione" machiavelliano o il fine cesellatore della volta della Cappella Sistina colgono prevalentemente il rischio nell'accezione di sfida per il miglioramento della condizione propria e della collettività. In effetti, avrebbe osservato nel 1598 Giovanni Botero "chi non risica non guadagna" e, come in tutti i periodi di espansione e sviluppo culturale, ad un primo senso di conquista si sarebbe presto affiancata la complementare paura di rischiare fino a trovare il limite o, peggio, di non rischiare per non cadere in una possibile debacle. Anche in questo caso l'immanenza della ragione, nella filosofia come nella matematica e nelle scienze naturali, avrebbe guidato l'individuo a distinguere il vero perché materiale con Vico e a dare allo stesso individuo la sua identità perché res cogitans con Descartes.

    In verità, il secolo dei lumi rischiarò ben presto quei minacciosi presagi di probabilità negative che le teorie simmetriche di un Bacone o di un Locke avevano agitato. Se l'uomo del XVIII secolo avesse seguito l'illuminante tracciato della ragione, nei suoi primi investimenti industriali o nella destituzione di sovrani ormai delegittimati, il rischio sarebbe stato foriero di risultati vantaggiosi: quelli che, infatti, furono effettivamente conseguiti dal capitalismo, dalla rivoluzione inglese e francese, dalla creatività di pensatori e artisti, fenomeni prima di tutto culturali che promossero l'individuo ad artefice della sua sorte. Ben facilmente, con il senno di poi, più di un secolo dopo John M. Keynes nel suo Trattato sulle probabilità (1921) dichiarava fallibile il calcolo economico se non avesse contemperato anche l'imprescindibile componente emozionale. In realtà, l'affermarsi di una cosmologia della certezza fondata sulla ragione umana e palesata in macrofenomeni come l'industrializzazione, l'urbanizzazione, la differenziazione funzionale e la razionalizzazione della vita sociale "sostituiva la diversità con l'uniformità e l'ambivalenza con l'ordine" (Bauman, 1993, p. 12) nell'estremo tentativo di fissare quanto di positivo il rischio aveva concesso. Tutto ciò, naturalmente, avrebbe poi "prodotto differenze e incertezze anche più numerose di quante se ne erano volute eliminare" (ibidem) riconducendo gli individui a confrontarsi con le loro ataviche sfide. Da una parte, come definita da Destutt de Tracy, la definizione della ideologia offriva costruttivamente ai governanti "uno strumento per consigliare nel loro compito di legiferare un muovo ordine razionale della società (...) essa è una scienza delle idee chiamata a sorvegliare, supervisionare, correggere e regolare ogni sforzo umano di ricostruzione integrale della società" (Bauman, 1999). Dall'altra è un pensatore di quel tempo, Adam Smith, a soffermarsi con particolare attenzione nel suo Ricerca sulla natura e le cause della ricerca delle nazioni (1776) su quell'aspetto negativo del rischio che consegna a piccoli imprenditori e investitori statali quelle inattese perdite, prova del possibile fallimento della "mano invisibile" nella regolazione della vita economica e sociale.

    A dimostrazione del difficile tentativo umano di controllare a suo favore il corso degli eventi si assiste nel secolo successivo, il XIX, a molteplici prove dell'inefficacia dello strumento della ragione assoluta, ma non per questo il più infimo valore di una natura umana che per la sua stessa immanenza è chiamata a rischiare e progredire. L'affermarsi del Romanticismo sulle ideologie legittimerà, così, il fine pensatore ed eclettico letterato Giacomo Leopardi a rilevare l'intrinseca incertezza umana nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: "Nasce l'uomo a fatica/ Ed è rischio di morte il nascimento/ Prova pena e tormento/ Per prima cosa: e in sul principio stesso/ La madre e il genitore/ Il prende a consolar dell'esser nato" (vv. 39-44). Un rischio già "perso" in partenza quello dell'individuo ritratto dal pessimismo cosmico leopardiano? Non sembrerebbe così scontato se si leggono le dure reprimende di Rousseau in quegli anni e più tardi di Goethe sul pericoloso tentativo dell'uomo di forzare i cicli millenari della natura, per le quali è destinato solo a goderne esteticamente. I rischi cui l'individuo sarebbe andato sarebbero stati quelli prospettati da limiti al suo stesso sviluppo, intravisti nell'economia da Malthus e Ricardo e agitati a monito dalla teoria evoluzionista di Darwin, quando subordinava "l'evoluzione biologica, morale e sociale dell'uomo ad una rete di rapporti complessi in cui ogni organismo conduce una vita dipendente dagli altri" (1871). Gli echi di una filosofia romantica non avrebbero però a lungo privato il rischio di quel senso propulsivo che permetteva comunque agli individui, per quanto dipendenti, di lottare per migliorare la propria condizione. Come potrebbero altrimenti intendersi i conflitti fra le classi sociali, l'impoverimento progressivo di gran parte dei cittadini, uniti poi in una dittatura che avrebbe portato ad una definitiva, stabile e sicura "società senza classi"? Quella che Marx ed Engels nel Manifesto del 1848 e poi nel Capitale del 1856 definirono con pudore un'utopia, vista la sua portata rivoluzionaria, racchiudeva, in realtà, la legittima pretesa di proletari sottomessi e di capitalisti "troppo" audaci a creare condizioni sociali, economiche e politiche complessivamente migliori: anche questa volta, in un compendio comune, si dava centralità a principi come la responsabilità verso il futuro proprio e altrui (Jonas, 1984) per evitare del rischio le sue degenerazioni.

3. Modernità e rischio

    Soprattutto nella seconda parte del XIX secolo si devono registrare numerosi e diversificati tentativi di "imbrigliamento" degli effetti perversi dell'evoluzione che intanto procedeva in tutti i settori della vita sociale. Il pensiero positivista si colloca opportunamente in questa fin de siecle ispirando Auguste Comte ad ammonire gli uomini del suo tempo con la celebre frase "savoir pour prevoir, prevoir pour pouvoir" (sapere per prevedere, prevedere per potere). Molto più semplicemente il sapere avrebbe offerto all'uomo l'ambita dote di prevedere il futuro e in pratica gli avrebbe consegnato le chiavi del potere. Che subito dopo l'allievo di Comte, Emile Durkheim, traducesse questo perfetto teorema in una visione funzionale e funzionante dell'ordine sociale in cui attitudini, credenze, valori e istituzioni umane vi fossero subordinate per favorire uno sviluppo progressivo e controllato è stata considerata un'evoluzione prevedibile, altrettanto quanto il tentativo di "ordinare" anche ciò che fosse imprevedibile e irrazionale nella categoria dell'anomia: solo una "disordinata liberazione di desideri umani" (Durkheim, 1912) poteva giustificare l'aumento vertiginoso dei casi di suicidio o la progressiva strumentalizzazione delle relazioni sociali deviando dall'ordine sistematico della realtà. Quell'altra parte della verità, non conosciuta e non controllabile dall'uomo avrebbe presto rivelato la sua innaturale collocazione negli schemi della prevedibilità funzionale.

    In quegli stessi anni toccherà a Max Weber muovere il suo pamphlet contro quelle rigidità della razionalità che aveva sostituito i mezzi con i fini, ingabbiando potenzialità umane positive e negative. Il disincanto (die Entzaunbung) del mondo aveva così privato l'individuo di quella insopprimibile componente emozionale che lo avrebbe a volte avvicinato, a volte ritratto dall'ignoto con quelle naturali pulsioni che l'ideologia razionale tentava di irreggimentare. Molto più concretamente Freud in quella società della Sicherheit (sicurezza) individuava il confine del rischio nel baratto cui era stato costretto l'uomo per ottenerla in cambio del più prezioso bene: la sua libertà. Era, infatti, sufficiente a questi acuti pensatori camminare per le strade illuminate e allettanti di merci delle prime grandi città di inizio Novecento per scoprire dietro luci, vetrine ed edifici la contropartita a tanta stabilità, ordine, benessere, semplificazione. Le relazioni sociali erano condizionate dalla crescente complessità di norme e istituzioni che per la prima volta prospettavano una terza tipologia di rischio agli individui: l'inibizione ad affrontare il rischio sia come possibilità di incombere in condizioni peggiori, sia quale probabilità di ottenere un miglioramento "prometeico".

    L'apice della modernità trovava nella città che ci consegnano le parole di Simmel il luogo emblematico di un progresso ormai irreversibile, altrettanto quanto i suoi rischi: "la città è uno stato d'animo, un prodotto della natura umana" (Park et al., 1925) in cui gli individui, attratti dal sovraccarico di possibilità, trovano una "regione dell'avventura e del pericolo in cui il brivido e l'entusiasmo raggiungono l'apice" (ibidem) attraendo e respingendo da essa un individuo scosso dalla paura e al contempo dal desiderio di soddisfare bisogni soffocati nei cicli secolari e ripetitivi delle gemeinschaften rurali. Sarebbero bastati negli anni che seguirono una lunga instabilità politica ed economica e i primi evidenti effetti di un eccessivo scientismo - dai regimi totalitari all'esplosione degli ordigni atomici - per "trasformare quelle ideologie in credenze" (Bauman, 1999). Tale era la corruttibilità delle cose umane che Ungaretti trovava solo nella parola uno strumento per tradurre in realtà un'idea. Ortega y Gasset gli avrebbe fatto presto eco cancellando la certezza rispetto alle tante realtà quanti sono gli individui e, alle disfunzioni dei sistemi perfetti, evidenziate da Merton, un'implacabile Hannah Arendt avrebbe risposto definendo una "legge di nessuno", priva ormai di certezze e di funzionalità, quella imposta dalla conoscenza tecnico-scientifica (1958). Il passo è breve alla definizione postmoderna del rischio che avrebbe presentato meglio di altri percorsi teorici l'esaurimento della funzione costruttiva e innovativa della modernità. Come interpretare altrimenti il ripensamento sulle ideologie universalistiche che vide dapprima impegnati proprio i philosophes, quindi György Lukács che ne tentò un'estrema difesa separandole dall'utopia proletaria e poi Karl Mannheim che giunse alla loro definitiva omologazione in una pluralità di tante uguali weltanschaungen (Bauman, 1999)? Declinate le ideologie portanti, ciò che mobilita l'individuo contemporaneo "a parte la paura della morte non sono più le grandi paure del passato - i briganti o le persecuzioni razziali - ma un insieme di paure che vanno dall'ecologico all'alimentare, che rappresentano tutte le paure ipotetiche e trasformano in paure ciò che rendeva tranquilli (...) Dall'epoca delle poche, grandi paure, si è passati a quella delle molte e spesso inattendibili paure che vede ancora l'uomo subordinato e bisognoso di esse" (Bocca, 2000). Non a caso François Lyotard, coniando per primo nel 1979 la definizione di condition postmodern, ne individuava la principale differenza da quella moderna in una maggiore libertà di scelta per le molteplici opzioni offerte dal progresso, ma anche in un altrettanto profondo senso di incertezza dovuto alla mancanza dei criteri con cui scegliere. Questa "modernità senza illusioni" racchiude così nel suo post il rifiuto di accettare la propria verità, ossia che il caos umano non possa essere dominato dalla sola ragione e si predispone pure a riacquistare la dimensione emozionale "reincantando" il mondo (Bauman, 1993). Infatti, essa è costituita "da una serie di fenomeni della cultura non pensabili unitariamente (...) in cui il sapere generale non si identifica più con la scienza né con la conoscenza, quanto in esso convergono le idee del saper fare, del saper vivere, del saper ascoltare" (Lyotard, 1979). Una caratteristica, quest'ultima, determinante non soltanto per superare gli stereotipi moderni dell'uomo blasé simmelliano o dell'uomo "a una dimensione" di Marcuse. L'homo sentiens come ultima evoluzione dell'homo sapiens premoderno e dell'homo faber moderno, è un individuo in grado di percepire il rischio come limite alla sua condizione attuale, ma anche come "frontiera" per un suo superamento: non più exit, come direbbe Hirschman, ma voice in un contesto in cui "il benessere è diventato una pretesa, la cultura un accessorio, l'informazione un dato, la democrazia una possibilità, il patriottismo una partita di calcio" (Eurispes, 2001).

4. Il rischio nella modernità avanzata

    Il duplice, se non triplice, significato del rischio, emerge in tutte le differenti interpretazioni delle dinamiche sociali di fine Novecento: quella che con Giddens rifiuta la connotazione di postmodernità per quella di modernità radicale, poiché l'incertezza è condizione specifica della conoscenza moderna; quella che con Beck e Lash disegna ugualmente un processo di modernizzazione riflessiva, in cui la società si sottopone ad un processo critico, individuando le condizioni di rischio indotte dall'innovazione che eludono progressivamente il controllo delle istituzioni; quella alternativa di Latour per il quale "we have never been modern" (non siamo mai stati moderni) come prova il perdurare di una condizione di rischio che è tipica della premodernità; quella oltre-moderna di connotazione politico-morale (Haraway, Bauman, Sennett), attenta a fenomeni innovativi come globalizzazione o "glocalizzazione" (Lash, Urry, Featherstone, Robertson, Albrow) e all'instaurarsi di una società del sapere e dell'informazione (Castell, Drucker).

    È in questo composito impianto teorico che il concetto sociologico di società del rischio viene forgiato e più volte ritoccato fino ad arrivare alla sua attuale denotazione. Si sono avviate queste riflessioni sottolineando come il suo significato orienti oggi una prospettiva conservatrice che ha offuscato la sua predisposizione al cambiamento. Ciò, fra l'altro, è dovuto al prevalere della pars destruens nella definizione del rischio, inaugurata sostanzialmente nei primi anni Settanta con l'osservazione di quei processi sociali più visibili in cui la complessità crescente acuiva un senso di incertezza. In realtà, è stato Alain Touraine ad utilizzare per primo il prefisso post, anche se per differenziare dalla precedente una nuova società industriale, in cui i processi economici e occupazionali minacciavano con l'incipiente crisi petrolifera e inusuali tagli ai posti di lavoro i consolidati, ma logorati, equilibri moderni. "Il pensiero tipico della società industriale ha considerato i fenomeni sociali da un punto di vista tecnico ed economico, mentre oggi non si pensa più in questi termini e le lotte antinucleari hanno svolto un ruolo determinante in tal senso" (Touraine, 1987, p.81) osservava il sociologo francese commentando il clima di instabilità e di protesta che segnava, a suo parere, "il fallimento delle utopie della modernità", specie di quelle a sostegno del potere statuale e tecnologico per il controllo degli individui.

    Né Touraine, né Claus Offe negli stessi anni erano però in grado di prospettare per quell'insoddisfazione sociale i prodromi della ricerca di un paradigma alternativo. Nell'acuta analisi del sociologo tedesco la crescita dell'efficienza moderna, con l'aumento delle opzioni per l'individuo, si accompagnava ad un'inefficiente coordinazione fra i vari sottosistemi: anche la risposta neoromantica dei nascenti movimenti di protesta era destinata a fallire per la sua scarsa vena rivoluzionaria che invece aveva guidato gli omologhi moti innovatori di XIX e XX secolo, enfatizzando quell'ideologia della produzione materiale contestata dai nuovi movimenti (Offe, 1987). Per alcuni studiosi, soprattutto di scuola francese, questa condizione avrebbe immeritatamente favorito le spinte conservatrici dei poteri consolidati che, alimentando l'angoisse de l'incontrôlable (Duclos) - ossia la paura di fallire nella scelta delle soluzioni che rendono meno incerto l'ignoto - avevano facile gioco nel dominare su "una società ossessionata dalla scienza e preoccupata di garantire la prevenzione delle avversità e delle sventure che attengono alle condizioni umane" (Le Breton). Salvo poi, secondo la teoria della gubernmentality di Michel Foucault (1991), lasciare agli individui l'autogestione delle propria condizione dominata dall'incertezza sotto la sorveglianza di regimi di tipo liberale. Questa internalizzazione dei rischi, un tempo obiettivi dei programmi politici, risponde perfettamente allo scenario allestito con un complesso impianto teorico da Niklas Luhmann (1991) nell'indagare le cause dell'attuale centralità della categoria "rischio" rispetto a quella precedentemente attribuita alla categoria "pericolo". Non sono più, infatti, eventi esterni che minacciano l'incolumità dell'individuo, quanto un rischio da lui stesso costruito (manufactured risk) nella distanza interposta fra il complessivo "sistema ambiente" e l'autosistema della tecnica: è questo gap che rende inevitabile il rischio e con esso l'insicurezza (unsicherheit) e l'incertezza (ungewißheit); è questo gap il più evidente "latent side effect" (effetto latente correlato) indotto dal progresso delle scienze che "quanto più calcolano razionalmente, tanto più rendono complessa la costruzione del calcolo e incerto il futuro" (1991, p. 39). Da qui i "tempi oscuri" della modernità presagiti dalla Arendt e rappresentati da Norberto Bobbio con il profilo dell'uomo contemporaneo quale apprendista stregone che ha perso il controllo della straordinaria forza innovativa della tecnica, sottoponendosi ad una nuova forma di tirannia, la "sindrome tecnologica" (Jonas, 1984). Così, il tentativo innato di conoscere il proprio futuro attraverso la mappatura del corredo genetico è vicina a trasformarsi in "una nuova e virulenta forma di discriminazione basata sui geni, quindi sulla forma di violazione più intima e imprevedibile" (Rifkin, 1998, p. 28). Anche quella che proprio Rifkin definisce l'unica possibilità di vivere con l'incertezza, ossia la sua comunicazione, si trasforma essa stessa nel rischio di isolare l'individuo escludendolo dall'accesso alle reti globali in cui oggi si è insediato il vero potere, quello culturale. Alle stesse conclusioni - e ciò ne è motivo di validazione - giunge anche Esping Andersen (1999 che pure legge il rischio di esclusione degli individui dai processi sociali come dovuto al "cattivo funzionamento" delle istituzioni tradizionali, quali lo Stato, il mondo economico e la famiglia e non ne preclude un'azione "curativa" in un sistema economico e sociale postindustriale in cui si comprende che "la struttura dei rischi sta mutando radicalmente" (1999, p. 17). Gli spiragli per un recupero della dimensione propulsiva del rischio prospettati dal sociologo scandinavo ben dimostrano come non sia affatto paradossale scoprire che la pars costruens delle teorie sociologiche sul rischio faccia leva sugli stessi elementi finora addotti dalla pars destruens, rilevando come esso possa costituire anche "un modo sistematico di far fronte ai pericoli e alle insicurezze indotte dalla modernizzazione" (Beck, 1992, p. 20). Nella composita risikogesellschaft proposta e successivamente riformulata dal sociologo di Monaco di Baviera negli ultimi quindici anni, accanto agli elementi fin qui accennati, compaiono significativi tratti di un superamento della modernità, almeno di quella "fase del rischio residuale" in cui l'incertezza che condizionava istituzioni e processi sociali non era né distintamente percepita, né temuta dagli individui.

    La fine delle grandi metanarrazioni del passato, dispensatrici della certezza moderna, coincide con una nuova fase che Beck, concordando sostanzialmente con Giddens e Lash (Beck et al., 1994) definisce modernità riflessiva proprio in considerazione del fatto che vi è una diffusa, maggiore consapevolezza della società sulla trasformazione in atto che assume il rischio come paradigma di riferimento. Se Scott Lash (1990), però, ritiene che, come per il passaggio dalla premodernità (gemeinschaft) alla modernità (gesellschaft) si possa parlare dell'azione di un movimento sociale complessivo, anche per la transizione dalla modernità alla postmodernità (risikogesellschaft), sia Ulrich Beck che Anthony Giddens sottolineano il ruolo propulsivo delle istituzioni. L'impianto teorico che entrambi contribuiscono ad allestire da diverse angolazioni si trova a doversi giustificare non soltanto con l'interpretazione "culturale" di Lash, ma anche con la folta schiera di studiosi impegnati, dopo Robertson, a tracciare con il fenomeno della crescente globalizzazione gli scenari più tipici del rischio. Il ruolo delle tradizionali istituzioni pare nei loro schemi esautorato a fronte della sempre più evidente interdipendenza fra luoghi e attori che in passato regolavano in modo autonomo i fattori caratterizzanti le loro strutture sociali, politiche, economiche, culturali. Beck (2000) non ha esitato a dare una dimensione globale ai suoi scenari di rischio parlando di una world risk society in cui l'interdipendenza fra gli individui accresce la percezione del rischio, nella quale alle "relazioni di produzione" di Marx oggi si sostituiscono le "relazioni di definizione del rischio" (2000, p.3) e, quindi, l'affermazione di incipienti forme istituzionali come le subpolitics. Dal momento che "oggi si vive proiettati verso le frontiere dell'alta tecnologia che nessuno può completamente conoscere e per le quali alcuna istituzione può ritenersi totalmente responsabile" (Giddens) a questa organised irresponsibility (non assunzione di responsabilità organizzata, in traduzione letterale) rispondono forme di azione collettiva transnazionali che condividono percezioni, bisogni, interessi (Beck, 1997). Come è possibile, però, che "un potere economico planetario, che è privato ed è privatamente gestito, possa avere effetti politici e sociali pubblici (...) senza avere interessi e valori comuni, come quello per l'ambiente, ad esempio", si è chiesto recentemente Ferrarotti (2000), intravedendo nell'incertezza amplificata da queste dimensioni globali un'insostenibilità intrinseca che orienta ad un suo superamento. Definendo questa una modernità radicale - essa, infatti, realizza completamente la modernità assumendo l'incertezza quale condizione specifica della conoscenza - Giddens ne propone una collocazione in quelle fasi di disembedding dominate appunto da complessità sociale, da astrazione di processi e relazioni, da dimensioni spazio-temporali e da simboli che contribuiscono all'insicurezza e alla frammentazione dell'esperienza. Il sistematico susseguirsi di una fase di reembedding, però, profila l'induzione di processi di ricostruzione dell'unità in cui l'assetto istituzionale tradizionale promuoverebbe una partecipazione democratica e pluralista, l'umanizzazione della tecnologia, la demilitarizzazione, un sistema di post-scarsità. L'utopismo del post raffigurato da Beck e Giddens accentua quanto più realisticamente emerso dai processi sociali contemporanei "auscultati", ad esempio, da Ronald Inglehart con i ripetuti 'panel' della sua World Values Survey; l'affermarsi di un paradigma - anche questo post-materialista - che registra l'erosione dell'autorità tradizionale, il declino della fiducia verso le istituzioni, la crescita della soggettività, una più diffusa istruzione e benessere sociale, il rifiuto dell'eterodirezione a favore di un'autodirezione a fronte dell'aumento delle possibilità e soluzioni (overchoising) offerte all'individuo. Questa new political culture (nuova cultura politica) recupera così quel senso costruttivo del rischio che l'economista Milton Friedman riaffida all'individuo contemporaneo per compensare le pressanti misure di sicurezza, assistenzialistiche, razionali, imposte dalle istituzioni moderne.

5. La dimensione dopomoderna del rischio

    Si prospetta, così, all'individuo una sfida continua sulla scelta della migliore soluzione da assumere nella molteplicità di possibilità e di rischi che caratterizzano i massimi sistemi e le contingenze quotidiane. La sociologia, da parte sua, non può non registrare e riflettere questa condizione al punto che Beck ha rispolverato il dimenticato concetto weberiano di moglickheitsurteile (valutazione sulle probabilità) per definire la sociologia del rischio una scienza dei giudizi sociali su potenzialità e probabilità. Se lo studioso tedesco si serve di strumenti teorici classici per cercare di orientare verso prospettive inedite l'indagine sociologica, la comune accusa cui giungono per diversi percorsi Strassoldo (1993) e Dickens (1996) di un fuorviante taglio umanistico e antropocentrico della sociologia contemporanea riconduce al tentativo iniziale di queste riflessioni: sollecitare un'osservazione più attenta alle trasformazioni in atto con metodi di ricerca che più adeguatamente interpretino "fatti incerti, valori in discussione, poste in gioco alte e decisioni urgenti" (De Marchi).

    Una fra le sempre più evidenti prospettive dopomoderne che un simile scenario configura è - richiamandosi a Lash - il passaggio che oggi si profila dalla società del rischio ad una comunità del rischio (risikogemeinschaft) in cui diagnosi scientifiche, conseguenze politiche e valutazioni culturali sono sempre più intimamente connesse, riflettendo la condivisione di percezioni, bisogni e interessi degli individui indotta da questo stimolo ambientale. Molti ne sono i segnali indicativi, altrettanto quanto quelli della conflittualità delle razionalità, degli interessi, dei bisogni espressi dai vari attori sociali su cui la sociologia contemporanea pare essersi "arenata" nella descrizione di una crisi insolubile ed irreversibile. Fra i più significativi, si può dar conto delle dinamiche che attualmente caratterizzano la politica, l'economia, la scienza, i mezzi di informazione, la società quali categorie di riferimento per individuare i principali e più emblematici attori sociali, gli stessi additati dagli studiosi come artefici della crisi. Ecco che la lettura di Beck del rischio come "bacchetta magica della politica con la quale la società opulenta, adagiatasi nello status quo, insegna a sé stessa ad avere paura, venendo così attuata e politicizzata" (1997, p. 124) viene facilmente archiviata come utopica, quanto la sua previsione di istituzioni che oggi si mettono in moto aprendo la "gabbia di ferro" della razionalità di weberiana memoria, liberandosi così delle ultime rigidità moderne.

    In realtà, l'interpretazione di Beck si presenta meno controversiale di quella di quanti hanno finora letto il rischio in chiave politica come strumento per catalizzare almeno un consenso conformità presso una società frammentata in assenza di ideologie portanti, da parte di rappresentanti ormai sprovvisti di ogni altro elemento di legittimazione. Altrettanti sono gli studiosi che, in un contesto di incertezza, parlano per la politica di "governo che si limita a regolare le autonome scelte dei vari attori sociali - industriali, scienziati, comunicatori - svincolandosi dalle responsabilità verso i cittadini di gestire un rischio ormai intrinseco. Come non concordare allora con Bobbio che trova nell'attuale polis globale il contesto più idoneo ad una democrazia sociale in cui tutti gli attori siano al contempo coinvolti e decisori? Come non riconoscere a Jane Franklin la validità di un modello di high trust democracy (democrazia ad alta fiducia) in cui la politica è chiamata a più strette forme di cooperazione - e non subordinazione - con il mercato, la scienza, la cittadinanza? Sono ormai numerosi e rilevanti gli esempi di un di un ripensamento della politica in una nuova prospettiva. Presentando recentemente il provocatorio Manifesto dei sentimenti alla Camera dei Comuni, il New Labour Party di Tony Blair e del suo guru, Anthony Giddens, ha inteso fornire una guida rispetto al "passo del cambiamento che è oggi così frenetico che la gente ha bisogno di comprendere le proprie emozioni se vuole compiere ogni giorno le scelte giuste, che il governo non può fare al loro posto". Dal canto suo, riflettendo sul futuro della dimensione politica europea, Beck ha parlato del tanto vituperato euro come strumento di agevolazione per incitare un'Europa politica che, infatti, sarà chiamata a risolvere la crisi monetaria che si sta per determinare. Gli ha fatto eco Habermas individuando nella lebensform (stile di vita) europea una priorità della politica che è l'unico mezzo per ottenere l'azione consapevole da parte dei cittadini nei confronti del loro destino collettivo.

    Le dispute costituzionali che hanno animato il vertice di Nizza lo scorso dicembre, al di là degli interessi campanilistici e dei preminenti obiettivi economici, ripropongono il difficile ma costruttivo cammino di una progettualità che torna ad usare le cifre come strumento e che riqualifica la politica come öffentlickheit (pubblica). Due esempi europei a rappresentare i tratti essenziali delle società sviluppate contemporanee che parlano dei primi, importanti stimoli ad orientare la politica secondo i principi della sussidiarietà e di un'economia - ma non di una società - di mercato per ovviare alla crisi di sistema che caratterizza la politica di fine modernità. Essa ha assunto i tratti abilmente riassunti da Habermas nella concomitanza delle quattro tipologie di crisi: 1) quella di legittimazione per la mancata funzione di integrazione sociale; 2) quella di razionalità, ossia la mancata funzione di un governo politico; 3) quella di motivazione per l'insufficiente funzione di mantenimento delle identità, 4) quella economica per la mancata funzione di adattamento all'ambiente. Le articolazioni di questa crisi, meglio di qualunque altro riscontro oggettivo, dimostrano le chances che prospetta quella new political culture modellata dalle nuove istanze sociali, un tempo depoliticizzate nella tradizionale dicotomia pubblico/privato e oggi prementi life politics, (Giddens). Istanze queste che riguardano tutte quelle dinamiche individuali e collettive minacciate dal rischio e promosse significativamente da gruppi e associazioni più o meno istituzionalizzati, denominati self help dal sociologo inglese e non lontani dalle forme di subpolitics di Beck che si propongono come "lo strumento ottimale per gestire la diversità, per costruire uno spazio pubblico di discussione e confronto fra valori, credenze, interessi" (Bettin, 2000). In esse, pertanto, si recupera la funzione di integrazione sociale, si instaura una forma di governo politico senza investitura che richiama le teorie di Rosenau, si rafforza il senso di identità individuale e collettiva. Nonostante il carattere di soft law di molti degli accordi internazionali che vedono come protagonisti questi nuovi attori, la "trasversalità" delle nuove politiche sul rischio configura inedite connessioni fra tematiche sociali ed attori decisori e coinvolti che segnano il definitivo passaggio ad una dimensione altra da quella moderna. Lo stesso può dirsi anche per il sistema economico che pure la modernità ha insignito di una funzione ideologica che ne ha compromesso il ruolo originario di strumento per favorire il progresso. Ne è derivata un'economia politica dell'incertezza che deve affrontare esternalità negative come i crescenti livelli di povertà e disoccupazione, l'uno e l'altro direttamente proporzionali; come l'esautorazione delle capacità umane ad opera delle tecnologie; come l'effetto domino delle esternalità positive che, in una fase di crisi, si trasformano nel loro opposto.

    Il nuovo capitalismo, però, impermeato da questa logica del rischio, non soltanto subisce l'effetto di ritorno del controllo cui è sottoposto dalla democrazia d'opinione che ha favorito, ma è oggi impegnato a promuovere lo start up di iniziative imprenditoriali che si servono delle nuove tecnologie e di una sempre maggiore quantità e qualità di capitale umano. La crisi del sistema capitalistico di affermazione moderna (Sen) con i suoi obiettivi quantitativi e a breve termine, è evidenziata principalmente dall'inefficacia del senso attribuito al rischio come "condizione che ben lubrifica i meccanismi del consumismo e aiuta l'economia a svilupparsi" (Beck, 1996, p. 38), cui si è ricorsi frequentemente perché, affinché un mercato funzioni a pieno ritmo, è necessario un rifornimento costante di nuovi pericoli ben pubblicizzati" (Bauman, 1993, p. 207). Ma appena l'economia è stata sfidata nel suo campo preferito, ossia quello della scienza, secondo Bourdieu, contrapponendo al sapere utile e rudimentale, quello più rispettoso delle capacità umane, l'economia ha iniziato ad assumere progetti qualitativi a lungo termine, responsabili, basati sul social trust (fiducia sociale). La scienza, appena chiamata in causa, pertanto, torna ad essere strumento di conoscenza in simili contesti di incertezza che mettono in luce quanto, celato, aveva finora sorretto lo scientismo come ideologia, ossia il suo fondamento metafisico, irrazionale. Come osservava Popper, infatti, "la scienza non produce prove e non può che approssimarsi alla verità" Se, come denunciato già alcuni anni fa dal Premio Nobel Segrè, la scienza "specializzatasi e popolarizzatasi si è incorporata nel sistema sociale come istituzione funzionale allo sviluppo economico, senza dotarsi di strumenti per valutare le responsabilità connesse a questo nuovo ruolo" (Gallino), oggi questa sua assidua presenza nei processi sociali ne implica una funzione risolutiva che sopravanza la reale portata delle sue possibilità. Molto più realisticamente si trova quindi ad offrire in simili scenari il suo unico e possibile apporto, cioè quello di "fornire al pubblico una corretta e completa informazione che deve trovare il modo di bilanciare le esigenze di trasparenza e tempestiva comunicazione dei dati con quella di evitare indebiti allarmismi" (Vecchia): una scienza postnormale (Funtowicz e Ravetz), quindi, aperta al paritario apporto di tutti gli attori sociali rispetto agli allarmi che non possono essere risolti con l'esclusivo intervento scientifico. Un simile effetto positivo, sebbene "strumentalizzante", è quello che configura oggi i media in una dimensione altra da quella di ideologia della tarda modernità: quali attori più rilevanti della trasformazione culturale del rischio, i media sono utilizzati da politica ed economia per ricevere e/o conservare l'attenzione pubblica, la scienza ne contesta e utilizza l'allarmismo, la società ne fruisce adattandosi meglio a quello che altrimenti costituirebbe un trauma culturale (Sztompka), Non sembra quindi affatto eccessiva la definizione di cultura approntata da Clifford Geertz, secondo cui essa è una ragnatela di significati che gli individui tessono intorno a loro e che cercano di interpretare e riprodurre proprio attraverso la comunicazione. In realtà, simili riflessioni, a parere dei più "apocalittici", nella costituenda società dell'informazione o net society o informationgesellschaft che dir si voglia, attestano un'amplificazione o anestetizzazione dell'interesse dell'opinione pubblica, delle istituzioni, dei decisori politici sulle tematiche del rischio, che Luhmann (1986) ha spesso additato come esempio di manipolazione dei media e di un modello informativo affatto esauriente, responsabile e avalutativo. Più profondamente Bauman (1993) ha formulato contro i media l'accusa di "privatizzare" i rischi generati collettivamente, ma vissuti poi dall'individuo singolarmente poiché "essi sono preselezionati in modo tale che la consapevolezza dei pericoli si formi nello stesso momento in cui l'individuo - target audience - viene accusato di continuare ad esporsi al rischio e viene investito della responsabilità di evitarlo" (ibidem, p. 206). Se a ciò si aggiunge che oggi il flusso dei dati non è più analogico, ma digitale (Ferrarotti, 2000), cosicché essi giungono l'uno separato dall'altro al ricevente, contribuendo alla frammentazione della sua percezione e conoscenza e se si considera che con le nuove tecnologie sui media "si mercificano, confezionano e commerciano esperienze, non solo prodotti, materiali e servizi (...) con lo scopo di vendere un accesso e stati emotivi alterati (Rifkin, 2000, p. 290), si comprende come si possa profilare un rischio della comunicazione nella comunicazione sul rischio (Nocenzi, 1999). Questa diffusa visione non rende però giustizia alle potenzialità che i media hanno sviluppato non solo grazie alle tecnologie, ma anche con la pressione agìta dal doppio vincolo (Ungaro) cui sono sottoposti da parte delle indicazioni giuridiche delle istituzioni e della semantica della società con cui ne viene interpretato il messaggio. Concordano Habermas e Rodotà nel disegnare un'agorà pubblica deliberativa che i media favorirebbero attraverso un agire comunicativo, i cui effetti sono anche quelli di una partecipazione democratica, informata e responsabile, specie nella Rete, nelle consensus conferences "quasi che lì soltanto sia possibile attingere alla vera democrazia e cittadinanza" osserva più realistico che ironico Rodotà (1997). La partecipazione intermittente indotta dai nuovi media come opportuna forma di "democrazia continua" "in cui la voce dei cittadini può levarsi in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo e divenire parte del commento politico quotidiano" (ibidem, p. 3): l'opportunità, è solo il caso di sottolinearlo, è quella suggerita da un intervento comune in condizioni di allarme sociale, oltre che dalla rivalutazione della fantasia umana come unica vera ed ecocompatibile risorsa delle nuove telecomunicazioni.

    L'accento sulla partecipazione e le potenzialità umane suggeriscono la validità dell'ipotesi di una funzionalità nuova per i ruoli degli attori sociali in scenari di rischio, ancor prima di richiamare Bobbio, secondo il quale la soluzione delle crisi che minacciano la sopravvivenza di una collettività devono essere sempre ricercate nella società civile, dove soltanto si formano nuove fonti di legittimazione e aree di consenso. Come i giusnaturalisti si appellavano al ritorno dello stato di natura nei momenti di rottura, così ora si predica il ritorno alla società civile" (Bobbio, 1983). Se si ritorna alle teorizzazioni di Touraine e Offe sui movimenti di protesta e ambientalisti di trenta anni fa, si coglie oggi la loro evoluzione - se non istituzionalizzazione - in un diffuso dinamismo privato che fa da promettente eco all'accertato disordine pubblico (Magatti, 2000) e alla crisi del welfare che ha offuscato i concetti di prestazione dell'individuo (Leistung) e di motivazione alla disponibilità o vita activa (Bereitschaft).

6. Conclusioni

    Il rischio nella sua intrinseca connotazione finisce, così, per sollecitare negli individui l'assunzione di comportamenti votati all'autodeterminazione, al declino della deferenza, a una crescente nuova partecipazione che arricchisce il "capitale sociale" in un welfare attivo in cui anche i beneficiari sono chiamati ad agire. Molti fra i rischi recentemente affermatasi all'attenzione pubblica - dal mutamento climatico globale al rischio da inquinamento elettromagnetico - peraltro, sono stati percepiti dapprima proprio in quella società civile di cui parla Bobbio, indirizzando la legiferazione politica, l'accertamento scientifico, gli investimenti economici e l'informazione mediale: una prospettiva dopomoderna può definirsi, quindi, il capovolgimento della dinamica fra input e output, la cui corrispondenza indica il grado di funzionalità e supera il frequente limite di un consenso affatto informato sui rischi. Se la si volesse definire con Hayek è questa certamente una società aperta, dominata dai grandi spazi e dall'ordine spontaneo: quello dei fenomeni apparentemente antipolitici che si organizzano contro le istituzioni pubbliche perché trascurano l'incolumità dell'ambiente, del cibo, del corpo umano; quello di un dibattito pubblico in cui si assiste sempre più ad una coproduzione di conoscenza; quello del postindividualismo moderno che rende funzionali l'autodeterminazione e la responsabilità a fronte delle critiche di oblomovismo, di accidia per la società contemporanea (Eurispes, 2001). A ragione Rifkin (2000, p. 183) rileva come tutte le grandi manifestazioni che alterano in modo radicale i processi sociali si manifestano dapprima in modo impercettibile e solo quando si sono affermate tutto ciò che era fino ad allora normale diventa obsoleto. Lo stesso può dirsi per gli attuali processi sociali in cui il rischio è il tratto culturale dominante. A confermarlo un modello teorico della stessa modernità che può definire questi compositi processi come dopomoderni perché non più classificabili per antitesi, ma per differenziazione (Donati): quella stessa che disegna le nuove prospettive per vivere con il rischio nella multiforme reticolarità sociale, in nuove forme di relazionalità, di integrazione, di sostenibilità, di solidarietà, di responsabilità.

 

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