Alessandro Orsini - Anno II, Numero 1, 2001

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Saggi

L'identità italiana e i suoi interpreti

di Alessandro Orsini

1. Una democrazia bloccata

    Perché gli italiani, se confrontati con altri popoli, dimostrano un debole legame verso le istituzioni e i doveri indispensabili al buon funzionamento di una comunità politica? Perché il "bene comune", il desiderio di offrire il proprio contributo in favore di una società "migliore", è finora soprattutto un problema che riguarda le scienze sociali e non un'esigenza da tutti avvertita con eguale partecipazione e coinvolgimento? Perché, a dispetto di una grande tradizione culturale, gli italiani evidenziano una scarsa conoscenza della storia patria e dei suoi momenti cruciali? Sono soltanto alcune delle domande cui cerca di dare risposta il recente dibattito in Italia sul sentimento d'identità nazionale. Per anni il sistema politico dell'Italia, pedina di grande importanza nel sistema bipolare per la sua posizione strategica nel Mediterraneo, trova buona parte della propria legittimazione al di fuori dei propri confini.

    All'indomani della seconda guerra mondiale, la Democrazia Cristiana, vinte le elezioni politiche, si impegna a garantire la fedeltà all'alleato americano e la presenza del Paese nella Nato. Il voto politico del 1948 non decide soltanto la formazione di un governo, ma anche la posizione dell'Italia nello scacchiere internazionale. Per quarant'anni e più, il nostro Paese è costretto a rinunciare a una sana democrazia dell'alternanza. Al secondo partito in termini elettorali, il Partito comunista, viene infatti precluso l'accesso al governo. Un'organizzazione segreta, "Gladio", è addestrata a contrastarne anche militarmente l'eventuale conquista del potere. L'Italia è, quindi, un Paese a democrazia bloccata, ma lo scenario fin qui descritto s'interrompe alla fine degli anni Ottanta. Il 1989 è un anno di svolta. L'Unione Sovietica si avvia alla disgregazione e a una lacerante crisi economica. Il muro di Berlino crolla insieme al sistema bipolare. Il Patto Atlantico continua ad avere importanza, ma il nemico che per anni ne aveva giustificato l'esistenza è sconfitto. Il sistema politico italiano, con le sue istituzioni e la sua classe dirigente, è costretto a trovare nuove ragioni per legittimare la propria sopravvivenza. La corruzione dilaga. L'egemonia democristiana nella formazione del governo nazionale ha contribuito, con la piena partecipazione del Partito socialista, alla sua degenerazione. La Lega Lombarda imperversa nel Nord-est, pronunciando parole che ora fanno più paura perché rimbombano tra le montagne dei Balcani. L'eco diventa assordante. Si aggiunge il rischio di una secessione. Una parte del Nord ricco e industrializzato vuole il divorzio da un partner percepito come soffocante. Il Meridione d'Italia è sempre più depresso e bisognoso d'aiuto: la disoccupazione colpisce il 50% circa dei suoi giovani. La crisi economica sembra destinata a far arretrare la posizione dell'Italia nella graduatoria dei Paesi a più alto reddito.

    Inizia una transizione piena di contraddizioni e di difficoltà. A Franco Ferrarotti, uno dei più noti sociologi italiani, la nostra classe dirigente appare come un "cadavere riluttante": "La prima repubblica è morta, ma la seconda stenta a nascere. Il cadavere rifiuta la sepoltura. Dov'è il forcipe? Ci vorrà forse un taglio cesareo? O dovremo rassegnarci a morire tutti di cancrena?". Quando l'interesse dei singoli membri di una comunità cede, è necessario ricorrere a un comune senso di appartenenza e solidarietà, a un ideale superiore ai piccoli egoismi di parte. I motivi dello stare insieme politico vanno rifondati su basi più solide dell'utile personale. Ha inizio il dibattito sulla nazione: il suo sviluppo non è più rinviabile. Il presente articolo si divide in due parti. La prima è dedicata al confronto tra le tesi sviluppate da Ernesto Galli della Loggia e Pietro Scoppola. Entrambi assumono come momento centrale della loro indagine i drammatici avvenimenti che durante la seconda guerra mondiale funestarono il nostro Paese. Si tratta di una riflessione che costringe il lettore a una drastica scelta tutta incentrata sulla dicotomia fascismo/antifascismo e che risulta oggi prevalente non soltanto nel mondo accademico, ma anche nell'arena politica. A una simile alternativa, che rischia di ridurre il problema dell'identità italiana alla storia dei suoi ultimi cinquant'anni, cercheremo di sottrarci nella seconda parte dell'articolo attraverso l'opera che Umberto Cerroni ha dedicato all'argomento e che, come vedremo, individua il nodo fondamentale dell'intero dibattito nel tentativo fallito da parte di Federico II di Svevia di abbattere lo Stato della Chiesa e unificare politicamente la penisola italiana. Cerroni amplierà di molto l'orizzonte storico del dibattito spingendone la riflessione ai confini della modernità, fino al XIII secolo.

2. Ernesto Galli della Loggia: l'ingombro antifascista

    Azzerare il riferimento all'antifascismo come valore fondante della Repubblica italiana è lo scopo di Ernesto Galli della Loggia. Nato a Roma nel 1942 e docente di Storia dei partiti e dei movimenti politici all'Università di Perugia, Ernesto Galli della Loggia si è posto al centro del dibattito sulla nazione italiana con un'opera intitolata La morte della patria. Il suo discorso è costruito con estrema abilità. La morte della patria si apre con un'impietosa descrizione degli insuccessi militari generati dall'incapacità dei nostri comandi durante la seconda guerra mondiale. L'immagine che un popolo ha di se stesso, argomenta l'autore, trova una base fondamentale nelle imprese di guerra. Ciò che conta non è la sconfitta, ma il modo in cui si perde. Si può uscire sconfitti da una guerra e persino distrutti, ma la dignità e l'onore possono albergare anche tra le macerie. La nostra classe dirigente ha perso nel modo peggiore. Essa ha voltato le spalle ai propri soldati, lasciando un esercito allo sbando, facile preda del nemico. L'8 settembre 1943, data della resa agli anglo-americani, sarebbe stato il giorno più buio della storia dell'Italia unita. Menzogne, inganni, incapacità e vigliaccheria dominano le pagine della prima parte del saggio. I rappresentanti dello Stato italiano, proprio nel momento in cui se ne rendeva più urgente la presenza e la guida, hanno pensato soltanto a porsi in salvo facendosi scudo di un esercito stanco e confuso, per raggiungere il più vile dei fini: portarsi al riparo dalla catastrofe imminente, sottraendosi alle proprie responsabilità. Evitare il nemico in una fuga goffa e meschina è stato il primo pensiero, la sola preoccupazione.

    Di fronte a tanta meschinità, assicurarsi il consenso dei cittadini italiani sarebbe stata impresa fin troppo facile per i partiti fondatori della Repubblica italiana, prosegue Galli della Loggia, se questi non avessero commesso l'errore di ricercare la fonte della propria legittimazione laddove non avrebbero mai potuto trovarla, ovvero nell'antifascismo. Sarebbe stato proprio l'antifascismo ad avere impedito di rifondare la coscienza italiana su basi nuove e solide. La Resistenza, prosegue Galli della Loggia, non ha rappresentato per gli italiani un'esperienza condivisa e, pertanto, non ha potuto fungere da elemento unificante della coscienza nazionale. Per di più, non sarebbe stata la Resistenza a sconfiggere il fascismo poiché essa era priva dei mezzi necessari per raggiungere tale scopo. Non che facessero difetto la volontà, l'impegno o il coraggio; semplicemente mancavano le risorse. Il solo, vero protagonista sarebbe stato l'esercito alleato. La Resistenza, dunque, si è appropriata di un riconoscimento che non le spetta, attribuendosi indebitamente il ruolo di liberatrice dell'Italia dai nazi-fascisti, quando in realtà avrebbe svolto un ruolo di semplice comparsa. Ma non è soltanto un motivo "militare" ad averle impedito di rifondare la coscienza nazionale degli italiani. Essa non avrebbe potuto essere protagonista di una simile impresa anche per le laceranti divisioni, ideologiche e programmatiche, che al suo interno vedevano contrapposti comunisti e cattolici. I primi si battevano contro il nemico con l'obiettivo di instaurare in Italia, una volta vinta la guerra, un regime socialista di stampo sovietico. I secondi, invece, contrastavano tale progetto, scorgendo poca differenza tra il regime di Hitler e quello di Stalin, e si battevano con la stessa determinazione contro entrambi i rischi.

    Delle due anime della Resistenza, quella cattolica e quella comunista, Galli della Loggia sembra disposto a condannare la seconda a favore della prima. La sua critica contro i filo-sovietici che militavano nel movimento partigiano si trasforma in un'impietosa invettiva. Di tutto si può discutere, ma di una cosa si può essere certi: che i comunisti si siano macchiati di un crimine enorme nei confronti della nazione italiana che pure pretendevano di rappresentare. Essi hanno attentato all'integrità del suo territorio, trattando sottobanco con il movimento di Tito la cessione dell'Istria e del Friuli Venezia-Giulia, in cambio di un aiuto in armi, una volta conclusa la guerra, per instaurare anche in Italia come in Jugoslavia, un regime socialista. Galli della Loggia esprime tutto il suo disappunto, citando un documento del Clnai influenzato dal Pci, nel quale i partigiani della Venezia Giulia venivano sollecitati a riconoscere l'autorità di Tito e a obbedire ai suoi ordini. Una simile condotta non può che essere definita come "antitaliana", così come "antitaliane" sarebbero state le istruzioni inviate da Togliatti il 19 ottobre 1944 al rappresentante del Pci presso il Partito comunista jugoslavo, Vincenzo Bianco in cui si invitava a considerare come "un fatto positivo" l'occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del Maresciallo Tito e a collaborare con entusiasmo in favore di un simile progetto, ma è nella parte centrale dell'opera che viene vibrato il colpo più duro. Galli della Loggia conduce i suoi interlocutori fino a Porzus, nell'autunno del 1944, quando la brigata partigiana Osoppo, composta da militanti cattolici, fu costretta ad allontanarsi dal proprio campo d'azione e a spingersi nei pressi di Udine, in una località chiamata Porzus, per sottrarsi a un'offensiva nazi-fascista. Nel Friuli - Venezia Giulia, l'antifascismo armato era diretto dagli uomini del maresciallo Tito, il quale ambiva da tempo all'annessione della regione italiana. La brigata Osoppo si trovò a gestire sin dall'inizio rapporti di grande tensione con gli uomini della brigata Natisone. La prima esibiva il tricolore e i fazzoletti verdi propri delle formazioni cattoliche; la seconda, composta di militanti comunisti, faceva uso di fazzoletti e stelle rosse. La rottura tra le due formazioni giunse in seguito a un comunicato di Palmiro Togliatti che informava circa l'adesione entusiastica dei partigiani comunisti che operavano nella zona di confine con la ex-Jugoslavia a "dipendere apertamente dal nono corpo sloveno" con la speranza di rendere più aggressiva la lotta contro i nazifascisti e accelerare, nello stesso tempo, il processo rivoluzionario in favore di una società comunista da costruirsi al più presto anche in Italia. Dai cattolici della Osoppo giunse un rifiuto indignato. Se Tito avesse voluto strappare Trieste e il Friuli-Venezia Giulia all'Italia, non soltanto non avrebbe trovato aiuto nei cattolici, ma anzi avrebbe trovato in loro una fiera opposizione. Il 2 febbraio 1945 giunsero al comando della Osoppo un centinaio di uomini e, dichiarando di essere sfuggiti a un rastrellamento, chiesero di essere arruolati. Quegli uomini erano partigiani inviati per assassinare altri partigiani. Più precisamente, erano partigiani comunisti inviati per uccidere partigiani cattolici. Non appena il comandante cattolico Francesco de Gregori, detto "Giacca", si fece avanti per ascoltare i visitatori, iniziò il massacro. Gli uomini della brigata Natisone, impugnati i fucili, dichiararono la loro vera identità. Alcuni militanti della Osoppo vennero uccisi a sangue freddo, altri furono trucidati dopo cinque giorni di inseguimenti e ricerche. I cadaveri furono oggetto di sputi e di orrende mutilazioni. Tra le vittime, vi fu anche il fratello di Pier Paolo Pasolini. Si salvarono soltanto coloro che riuscirono a nascondersi nei boschi. A questo punto, la tesi di Galli della Loggia irrompe in tutta la sua chiarezza: la Resistenza non è stato un fenomeno unitario come vorrebbero i manuali di storia, ma fu un movimento dominato da due culture contrapposte, una contro l'altra armata, che mai avrebbero potuto fondersi in un sol corpo per generare una coscienza nazionale coesa. Cinquant'anni di storiografia italiana vengono brutalmente aggredite. La Resistenza, quel movimento politico che avrebbe salvato gli italiani da un futuro di morte e di sopraffazione, dominato da svastiche e campi di concentramento, sarebbe stato un bluff, un imbroglio colossale. Con la fine della guerra fredda, è finalmente possibile raccontare ciò che tutti sapevano e che fingevano di ignorare. Il re è nudo! La Resistenza non può più rappresentare una valida risorsa per l'identità civile degli italiani. Ciò che non ha funzionato ieri, non può funzionare oggi. Ma, allora, su che cosa si può fondare la coscienza nazionale? In quale direzione cercare un elemento di identificazione collettiva in grado di svolgere una robusta funzione unificante? Nessuna risposta proviene dalle pagine del nostro autore, ed è questo il suo limite più evidente. Egli è abilissimo nell'indicare la meta, ma è incapace di suggerire il percorso, che, invece, Pietro Scoppola si incaricherà di individuare in un ritorno ai valori della Costituzione.

3. Pietro Scoppola: la patria non muore

    Prima di introdurre il pensiero di Pietro Scoppola, proviamo a riassumere la tesi di Galli della Loggia al fine di facilitare il confronto tra i due studiosi. Secondo Galli della Loggia il sentimento di identità nazionale degli italiani avrebbe subìto un duro colpo con le drammatiche vicende della seconda guerra mondiale. Un colpo così duro da decretarne addirittura la morte, compiutasi lentamente negli anni della Repubblica. Esso si sarebbe estinto per l'impossibilità di riportarne in vita il significato sulla base dell'esperienza antifascista, che mai avrebbe potuto fungere da presupposto per la coscienza nazionale a causa di contraddizioni ritenute insuperabili. Ciò che era diviso non potrà mai unire. La Resistenza era lacerata dal contrasto tra cattolici e comunisti e il suo ricordo non avrebbe mai potuto svolgere la funzione unificante desiderata dalla storiografia convenzionale e dalla classe dirigente affermatasi con il crollo del fascismo. Inoltre, senza l'intervento dell'esercito Alleato, essa non avrebbe mai vinto la II guerra mondiale perché troppo debole rispetto al nemico nazifascista. Che sia chiaro dunque: l'identità italiana deve volgere lo sguardo altrove, lontano dalla retorica della storiografia convenzionale che, ancora oggi, vorrebbe fare dell'antifascismo ciò che non potrà mai essere ovvero il nucleo centrale dell'identità civile degli italiani. Pietro Scoppola, docente di Storia contemporanea all'Università di Roma "La Sapienza", propone, invece, una tesi differente. Egli rivendica l'esigenza di una prospettiva storica più ampia.

    La debolezza della nostra coscienza nazionale è un dato certamente evidente, tuttavia tale debolezza era già presente prima della seconda guerra mondiale. Il regime di Mussolini aveva bruscamente interrotto il legame esistente tra il concetto di nazione e il concetto di libertà, calpestando il secondo per sostituirlo con il riferimento al partito. L'8 settembre 1943 è il momento più buio nella storia dell'Italia unita, ma rappresenta anche un momento di svolta per il recupero della coscienza nazionale e di un comune senso di appartenenza ispirato alle ragioni originarie. Nazione e libertà si ripropongono con forza per affermare un connubio finalmente ritrovato dopo vent'anni di separazione forzata. Se per Galli della Loggia l'entusiasmo che accoglie l'esercito anglo-americano indica un elemento significativo della dissoluzione del sentimento nazionale, per Scoppola la gioia delle piazze in festa segna il ritorno dell'idea liberale di nazione e, quindi, il primo passo verso una coscienza nazionale rinnovata. Sin dalla sua nascita, lo Stato unitario ha incontrato grandi difficoltà. Il progetto ambizioso, sintetizzato nella famosa frase attribuita a Massimo d'Azeglio, secondo cui fatta l'Italia bisognava fare gli italiani, era destinato a scontrarsi con due fieri oppositori: la Chiesa cattolica e il movimento operaio. La Chiesa cattolica, con la sua chiusura intransigente nei confronti della vita politica del nuovo Stato liberale, ha determinato una frattura profonda nella coscienza delle masse, inducendo una parte significativa della popolazione a rifiutare i valori e gli elementi di identificazione collettiva proposti dalla nuova classe dirigente. D'altra parte, il movimento socialista negando ogni legittimità allo Stato liberale considerato come uno strumento al servizio dei nemici del proletariato, assolveva una funzione analoga. Il progetto di rendere l'Italia non soltanto un'entità amministrativa e burocratica, ma anche un soggetto politico con una specifica identità culturale, si dimostrò, così, sin dagli inizi, un'impresa assai difficile, che resta tale fino ai nostri giorni. È per questo motivo, conclude Scoppola, che "non si possono valutare gli eventi che culminano nell'8 settembre e nell'innegabile crisi del sentimento dell'identità nazionale con il metro di un obiettivo mai realizzato dall'Italia liberale e poi gravemente compromesso dal fascismo".

4. Il valore dell'antifascismo

    Per dimostrare l'infondatezza della tesi di Galli della Loggia, Scoppola non ha bisogno di negare che la Resistenza sia stata caratterizzata da orientamenti politici differenti e a volte contrapposti, ma ciò non permette di sbarazzarsene con tanta disinvoltura. Ciò che conta sono i sentimenti, le esigenze, le opinioni del popolo più che quelle delle classi dirigenti. La sua è una proposta metodologica ben precisa. La cosiddetta "storia dal basso", quasi sempre assente nelle analisi degli storici, rappresenta il migliore strumento per una rappresentazione adeguata degli eventi in discussione. Scoppola non ha alcun timore di confrontarsi con le contraddizioni del movimento partigiano, né a riconoscerne i limiti e muove la propria indagine da una critica circa la distinzione tra la Resistenza armata e la Resistenza passiva. Non è corretto definire passivi tutti quegli italiani che non hanno impugnato le armi. La Resistenza non è stato un fenomeno che ha impegnato soltanto i partigiani e i militanti di Salò. Tutti sono stati coinvolti in una tragica spirale di violenza, nessuno escluso. Tutti sono stati partecipi delle disperate condizioni di un Paese spaccato in due. Ed è questo fatto che accomuna nella sofferenza tutti gli italiani, al di là delle appartenenze ideologiche e delle scelte del momento, che Scoppola ritiene che si possa fondare un rinnovato sentimento d'identità nazionale. Gli italiani trovano, nel ricordo di una tragica esperienza da tutti condivisa, un nuovo e solido legame, capace di superare le divisioni ideologiche che hanno caratterizzato i primi anni della Repubblica e se le tensioni che avvolgevano l'Italia, all'indomani della seconda guerra mondiale, non sono esplose in una guerra civile, è merito di un comune substrato culturale che affonda le radici nel cristianesimo. I valori della dottrina cristiana hanno rappresentato un baluardo alla violenza e al desiderio di sopraffazione di una parte politica sull'altra. C'è un momento, però, nella storia d'Italia, in cui anche le emozioni più profonde devono trovare una chiara fisionomia in grado di ispirare il comportamento delle generazioni future.

    La Costituzione italiana è lo scrigno che custodisce la memoria di un vissuto collettivo drammatico, ma rigenerante. Essa può rappresentare, ancor oggi, la fonte della vita democratica e fungere da centro propulsivo per l'identità italiana. È vero che nella Resistenza militava anche una componente anti-democratica, ma è altrettanto vero che tale componente ha operato una significativa trasformazione al momento della stesura e della votazione della Costituzione, spogliandosi dei tratti più autoritari per lasciare spazio a una visione democratica del confronto politico. La Costituzione è la sintesi dei più nobili valori del movimento operaio e del movimento cattolico. La cultura della guerra, che aveva rappresentato uno degli elementi chiave della politica fascista, viene ripudiata. Ciò che prima costituiva motivo di orgoglio diventa oggetto di sdegno nell'articolo undici, dove si legge che "l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". Inoltre, se il fascismo aveva fatto dello Stato nazionale un feticcio da venerare, la Costituzione prevede addirittura una limitazione della sua sovranità in favore della cooperazione tra i popoli. Essa, infatti, "consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni". L'antifascismo presente nella Costituzione non è un elemento di cui si possa fare a meno, un anacronismo da cancellare con un tratto di penna. L'antifascismo è l'anima della Costituzione, poiché proprio dall'antifascismo essa ha tratto origine. Sradicarne il riferimento in nome di riforme istituzionali più adeguate alle nuove esigenze della democrazia italiana avrebbe l'effetto di piombare la Costituzione stessa in un vuoto apolitico e metastorico, con uno svilimento del suo significato più profondo: "L'antifascismo perciò, ma declinato in senso positivo, è parte integrante della Costituzione italiana e non può essere abbandonato senza sradicare la Costituzione dal suo humus storico". Eppure le giovani generazioni hanno una debole consapevolezza del valore della Costituzione e delle vicende drammatiche che ne hanno reso possibile l'esistenza. Le ragioni, anche in questo caso, sono da ricercarsi nella contrapposizione ideologica tra comunisti e cattolici, entrambi interessati a fornire una versione differente del ruolo svolto nella vicenda resistenziale. I primi accusano i cattolici di attendismo, ossia di non aver combattuto i nazi-fascisti, aspettando che la situazione avesse un'evoluzione indipendente dal loro intervento. I cattolici, dal canto loro, accusano i comunisti di aver asservito gli interessi dell'Italia a quelli di un'altra nazione, cioè l'Unione sovietica. L'assenza di una visione comune circa le finalità della lotta contro il nazi-fascismo ha finito per avere un effetto paralizzante sulla diffusione di una storia pacificata e per questo incapace di entusiasmare e coinvolgere. Gli stessi programmi scolastici, a causa di una precisa volontà politica, hanno sempre subito drastiche censure al momento di raccontare le pagine più dolorose e importanti della nascita della Repubblica. Si tratta di un bavaglio che avrebbe contribuito a rendere ancora più impervia la strada verso la formazione di un sano sentimento di identità nazionale.

5. Fascismo/antifascismo: una dicotomia da superare

    La patria nasce o muore l'8 settembre 1943? Muore la patria fascista o fa il suo ritorno il concetto di patria così come era stato teorizzato dai protagonisti del Risorgimento? Secondo Galli della Loggia, se gli italiani sono oggi privi di una forte coscienza nazionale, ciò sarebbe da ricondursi alla condotta vile e irresponsabile dei nostri comandi politici e militari al momento del disastro che portò all'occupazione del nostro Paese da parte di due eserciti stranieri tra loro nemici, nonché alle divisioni ideologiche che hanno segnato gli anni della guerra fredda. Cattolici e comunisti, incapaci di offrire una versione condivisa della vicenda resistenziale, avrebbero finito per imbavagliarsi a vicenda, sottraendo agli italiani un indispensabile elemento di identificazione collettiva. Da qui la proposta di superare l'antifascismo quale elemento costitutivo dell'identità civile degli italiani. Con Scoppola, invece, l'8 settembre 1943 assume addirittura un significato positivo, decretando "la morte della patria" fascista e, nel contempo, il ritorno di una concezione democratica della stessa.

    La Resistenza, riconosce lo stesso Scoppola, è stata ideologicamente divisa, ma tali divisioni sarebbero state poi armonizzate al momento della stesura e dell'approvazione della Costituzione, che avrebbe impegnato i costituenti in favore di un nobile compromesso animato da una visione comune dell'interesse nazionale. Le divisioni continueranno a esistere, ma verranno disciplinate anche durante gli anni più duri della guerra fredda grazie al rispetto dei valori fondamentali presenti nella carta costituzionale. A questo punto occorre domandarsi se gli autori fin qui considerati abbiano centrato il problema. L'identità italiana si può esaurire nel dibattito sulla Resistenza e sul significato attuale dell'antifascismo? Davvero una rinnovata coscienza nazionale dovrebbe fondarsi esclusivamente su una simile riflessione? Il dibattito sembra arrestarsi qui, incapace di spingersi oltre. Inoltrarsi in un passato più lontano, sembra quasi proibito. Eppure la storia d'Italia non inizia di certo alle 19 e 45 di quello sciagurato 8 settembre, quando Badoglio decise finalmente di comunicare attraverso la radio la resa incondizionata firmata cinque giorni prima a Cassibile, in Sicilia. La storia del nostro Paese è troppo ricca per poterne selezionare una porzione così piccola nel complicato processo di costruzione dell'identità nazionale. Qui non si vuole sostenere che il dibattito sulla Resistenza e sull'antifascismo non sia meritevole della visibilità di cui oggi sembra godere. Non è questo il punto. Il punto è capire se un simile dibattito si pone come un contributo in favore di una più solida identità nazionale o se ha la pretesa di esaurire un simile argomento che, per la sua complessità, richiede probabilmente una riflessione più ampia di quella sin qui incontrata. Umberto Cerroni è l'autore che meglio d'ogni altro rappresenta una simile prospettiva. Le opere da lui dedicate all'identità civile degli italiani, risultano centrali ai fini del nostro breve itinerario.

6. Umberto Cerroni: contro il "dogmatismo modernista"

    "La mia impressione è che in Italia esista un dogmatismo modernista, secondo cui l'Italia sarebbe nata nel 1870 e morta l'8 settembre 1943". È con queste parole, tratte da una recente intervista, che Cerroni esprime tutta la sua perplessità verso un dibattito che rifiuta con ostinazione di interrogarsi sulla continuità esistente tra medioevo e mondo moderno.

    Egli respinge l'idea che la nazione italiana sia nata con l'affermazione dello Stato unitario ottenuta sotto la guida di casa Savoia e ancor meno condivide l'idea che i mali che ne indeboliscono oggi la vita politica siano il semplice frutto della sua storia recente. Si tratta di una tesi che appare spregiudicata se confrontata con le posizioni oggi prevalenti nel mondo delle scienze sociali e che vorrebbero le nazioni come un tipico prodotto della modernità, riconducibile all'avvento dello Stato burocratico e accentratore. Per Cerroni l'Italia si sottrae a una simile esemplificazione da ricondurre al perdurante influsso di Benedetto Croce che faceva iniziare la storia d'Italia con l'unificazione territoriale, relegando a un ruolo marginale la realtà geopolitica precedente al 1861: "In realtà questi modernisti sono abbagliati dalla loro professione. Si occupano di storia contemporanea o, tutt'al più, moderna o risorgimentale e credono che tutto quello che c'era prima era un po' una premessa e basta, anzi, neanche una premessa causante, piuttosto un antefatto che non pesa sull'identità della nazione". È nel potere temporale della Chiesa cattolica, che si impegnerà a stroncare ogni possibile tentativo di unificazione politica della penisola, che Cerroni individua il principale responsabile della fragilità che oggi affligge l'identità nazionale degli italiani. Egli assume come momento centrale dell'indagine il periodo compreso tra il 1220 e il 1350, che ha coinciso non soltanto con una straordinaria produzione in campo artistico e letterario, ma ciò che più conta, con il tentativo fallito da parte di Federico II di Svevia di abbattere lo Stato pontificio e unificare la penisola italiana. Si tratterebbe di un insuccesso carico di conseguenze negative. Patria di Dante Alighieri e di Niccolò Machiavelli, all'Italia sarebbe toccato il triste destino di aver dato i natali al pensiero laico e, nello stesso tempo, di non averne potuto beneficiare tempestivamente. Altri Paesi sapranno sfruttare la separazione tra potere politico e potere religioso ben prima dell'Italia che dovrà aspettare oltre cinque secoli per raccogliere il frutto prezioso della sua propria terra inaridito dalla presenza ingombrante della Chiesa. Questa, pur di conservare il potere temporale, avrebbe costretto l'Italia allo strazio delle dominazioni straniere obbligandola a una secolare condizione di schiavitù. A fronte di una precoce cultura nazionale, l'Italia ha conosciuto l'unificazione politica con un ritardo plurisecolare che avrebbe impedito la formazione di un solido legame tra politica e cultura, considerato come il cemento indispensabile di ogni comunità nazionale. Una simile condizione avrebbe inoltre contribuito a produrre una classe di letterati tutta assorta in formalismi di maniera e totalmente estranea alla realtà popolare e alle sue esigenze. Si tratta, dunque, di un'operazione che richiede una riflessione ben più ampia di quella sin qui svolta sul significato dell'antifascismo.

    È la storia d'Italia, disciplina colpevolmente ignorata nelle scuole italiane, a dover essere rivalutata insieme con i pensatori che hanno reso grande il nostro Paese e che, con le loro opere, hanno saputo contaminare in modo significativo il pensiero politico europeo. È lungo l'elenco degli autori che Cerroni rivendica con orgoglio alla cultura italiana: Dante Alighieri, Marsilio da Padova, Bartolo da Sassoferrato, Niccolò Machiavelli, per limitarci a quelli più citati nell'ambito del pensiero politico, ma non mancano le personalità che hanno reso grande la pittura, l'architettura e la scultura italiana. A ben vedere, la sua tesi centrale pare svilupparsi proprio da un'intuizione dello stesso Machiavelli che considerava il processo di unificazione politica come il presupposto del progresso materiale e culturale del popolo italiano, rimproverando alla Chiesa non soltanto di aver ostacolato chiunque si fosse battuto contro la frammentazione politica e il particolarismo in nome di uno Stato unitario, ma di non essersi mai direttamente candidata a una simile impresa. Insomma, Machiavelli, pur avendo teorizzato la separazione del potere politico da quello religioso, considerava a tal punto importante l'unificazione politica dell'Italia che avrebbe accolto con entusiasmo finanche l'ipotesi di una sua realizzazione sotto l'autorità del Papa. Ma attenzione: trovare le ragioni in favore di un più solido legame tra la cultura e la comunità politica del nostro Paese non è un'operazione da condurre con lo sguardo unicamente rivolto al passato, bensì una necessità che coinvolge direttamente il futuro delle nuove generazioni. Le trasformazioni nel mondo del lavoro, introdotte dalle tecnologie informatiche, richiedono competenze non più manuali, ma intellettuali. La forza del corpo lascia il posto alla duttilità delle menti. Elevare il livello culturale degli italiani diventa allora indispensabile per sostenere il confronto con una realtà produttiva sempre più esigente e bisognosa di risorse intellettuali. Se un tempo dalla crescita economica si attendeva la crescita culturale, oggi il rapporto è invertito. La crescita economica esige e presuppone un patrimonio sempre più ricco di conoscenze e informazioni. La cultura si trasforma nel volano dell'economia, ma legare la cultura alla comunità politica resta, oggi più che mai, l'obiettivo da raggiungere perché gli italiani acquisiscano un'identità civile all'altezza di un passato ricco di storia e civiltà.

7. Conclusioni

    Siamo giunti al termine del nostro breve itinerario. Abbiamo colpevolmente tralasciato, occorre riconoscerlo, alcuni autori che hanno offerto un contributo fondamentale al recente dibattito sul sentimento d'identità nazionale degli italiani. In particolare Gian Enrico Rusconi, ma anche Maurizio Viroli e lo stesso Franco Ferrarotti per limitarci soltanto ad alcuni dei nomi più noti. Rimane, però, un'ultima domanda cui dare risposta: perché è importante che gli italiani sviluppino una coscienza nazionale più forte e coesa? Nelle democrazie occidentali, fondate sull'equilibrio dinamico di interessi contrapposti e spesso confliggenti, l'esistenza di uno "spazio comune", di un "luogo della memoria" dove ogni cittadino possa attingere da un patrimonio comune gli elementi costitutivi della propria identità politica, risulta indispensabile affinché il conflitto non travolga, nei momenti di maggior crisi, gli argini della comunità politica e della convivenza democratica. In Italia abbiamo corso questo rischio? A tale riguardo risulta difficile avere dubbi. È successo negli anni immediatamente successivi al voto politico del 1948 quando lo scontro tra cattolici e comunisti fece tremare le deboli fondamenta di una giovane democrazia. Si è ripetuto durante gli anni drammatici dello stragismo e del terrorismo, culminato nel '78 con il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro e forse c'è stato davvero un momento in cui, sul finire degli anni Ottanta, la spinta centrifuga del movimento leghista, con l'aiuto di una minacciosa crisi economica e politica, è sembrata potenzialmente in grado di mettere in crisi l'unità nazionale del nostro Paese e il suo tessuto democratico. Dopo aver rimosso per anni parole come "amor di patria", "coscienza nazionale", "tricolore", braccati dalla paura di richiamare alla memoria degli elettori l'esperienza fascista e i suoi misfatti, la nostra classe dirigente si è trovata senza validi argomenti da contrapporre alle rivendicazioni di Umberto Bossi e al suo progetto separatista. Infine, l'uccisione a Roma di Massimo D'Antona il 20 maggio '99, rivendicato dalle ricostituite, o sedicenti tali, "Brigate Rosse". E poi, ancora, l'attentato, sempre a Roma, contro la sede del quotidiano "Il Manifesto" nel dicembre scorso da parte di Andrea Insabato, estremista di destra. Ha ragione Franco Ferrarotti quando scrive che "la reazione al nazionalismo non può essere l'oblio della patria" (Ferrarotti 1997) e non può esserlo soprattutto oggi, nell'era della globalizzazione che spinge sempre più alla ricerca di nuove appartenenze identitarie che non si esauriscano nei panini di Mc Donald's e nemmeno nell'oceano telematico di internet che vorrebbe fondare i rapporti umani sul funzionamento di un buon modem e di una tastiera grigia come ogni interazione decontestualizzata.

    La globalizzazzione dei mercati finanziari è insofferente verso i vincoli della politica, ma la politica non può rinunciare a indirizzare il corso del cambiamento sociale senza smarrire il significato della propria esistenza. Una comunità politica è forte se è forte la sua identità; la sua capacità di riconoscersi in una storia comune e in un comune progetto ancora da raggiungere, capace di oltrepassare i limiti angusti del quotidiano, della politica del giorno per giorno che fagocita se stessa perché incapace di coinvolgere e di indicare nuove mete. È proprio vero: "Le democrazie, attaccate dall'esterno, resistono e alla lunga vincono. Muoiono solo per autoconsunzione. Le democrazie muoiono quando, per abulia politica e stanchezza morale, commettono suicidio" (Ferrarotti 1997). La classe politica italiana non sembra riuscire a cogliere le opportunità che la storia le ha generosamente offerto. La sconfitta del socialismo reale ha accelerato la spinta verso la socialdemocrazia da parte dell'ex Partito comunista così come ha facilitato la transizione verso un orientamento più democratico chi si riconosceva nel fascismo e oggi, seppur timidamente, inizia ad assumere un atteggiamento critico verso quell'esperienza. Eppure il passato continua a dividere e lo fa soprattutto se utilizzato in funzione strumentale. E così c'è chi riconosce il valore della democrazia ma non è disposto a riconoscere i meriti di tutti coloro che hanno lottato e hanno sacrificato la vita per essa, operando distinzioni di comodo tra Resistenza ispirata al comunismo, e per questo da respingere, e Resistenza democratica e liberale. È il caso di Gianfranco Fini che nel discorso di fiducia al governo Berlusconi, pronunciato il 20 maggio 1994 alla Camera dei Deputati, dichiara, da una parte, il rifiuto dell'antifascismo come valore in sé e dall'altra, riconosce che proprio dalla sua lotta è germogliato il frutto prezioso della democrazia: "Noi crediamo nei valori della democrazia. Qualcuno potrebbe dire che crediamo allora anche nei valori dell'antifascismo. Non penso che l'antifascismo in sé sia un valore. L'antifascismo ha avuto ragione di esistere fino a quando esisteva il fascismo. Non ho alcuna ragione per negare che l'antifascismo è stato il momento storicamente essenziale perché tornassero in Italia i valori della democrazia, ma il tentativo di promuovere l'antifascismo a valore è il tentativo della sinistra, è il tentativo di Togliatti, che parlava di ideologia dell'antifascismo". Oggi, la nostra classe politica scopre il valore dell'unità nazionale ma è divisa su tutto ciò che potrebbe contribuire a darle spessore e dignità. Incapace di accordarsi sul giorno delle elezioni per il rinnovo del Parlamento, vorrebbe poi accordarsi sulla riforma del sistema elettorale. Viene da sorridere al pensiero che riesca a raggiungere un accordo di alto profilo sulla forma di governo. La crisi della politica italiana è una crisi di legittimazione. Riscoprire il significato di una "memoria comune" è il presupposto per arrestarne gli effetti deleteri e avvicinare i cittadini alle istituzioni, colmando quella distanza che rischia di assumere i contorni inquietanti dell'abisso e che separa sempre più la sfera del pubblico da quella del privato, tallone d'Achille di ogni democrazia.

Bibliografia

 


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