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SAGGI

I sindaci italiani degli anni Novanta*

di Carlo Colloca

I sindaci italiani per circa un secolo e mezzo sono sottoposti ad una legislazione che sembra destinata a restare immutabile e, poi, quasi improvvisamente, si trovano protagonisti di una vicenda normativa fatta di accelerazioni tanto improvvise da modificare nel giro di pochi anni gli elementi fondamentali del governo locale (Bobbio 2002). I primi cittadini, ed in realtà i consigli comunali nel loro complesso, si limitano per decenni ad essere le proiezioni della politica nazionale attraverso i comportamenti, gli atteggiamenti e le prese di posizione che costituivano l'automatica trasposizione in ambito locale di quanto determinato in contesti più ampi.

Alla vigilia delle riforme degli anni Novanta la preminenza dei partiti condiziona il ruolo del sindaco. Questi, infatti, scelto nella contrattazione tra le varie forze politiche, specie nei grandi comuni, è soltanto un "primo tra eguali" (Sartori 1996, p. 116) garante di un equilibrio di coalizione instabile e poco definito sul piano programmatico, titolare di un ruolo meramente arbitrale nei confronti degli assessori, impossibilitato a coordinare una squadra di governo con obiettivi comuni (Vesperini 1999, p. 220). Il rapporto, con una certa repentinità, si inverte e l'evoluzione dell'ordinamento locale nel corso degli anni Novanta comporta che il sindaco divenga, soprattutto in seguito alla crisi dei partiti politici, l'istituto attraverso cui porre le basi per un radicale ripensamento della rappresentanza. Il passaggio centrale di questi mutamenti è nella riforma del 1993 che crea una figura istituzionale e politica completamente nuova tale da invertire la precedente tendenza politico-amministrativa (Vandelli 1997). L'elezione diretta da parte dei cittadini e la forte personalizzazione del ruolo del sindaco (Cavalli L. 1992, 1994, 2001; Legnante 1999, pp. 438-487; Baldini e Legnante 2000, pp. 191-237) in tutti i momenti amministrativi e politici del governo della comunità è per il sistema politico italiano una novità assoluta. Il primo cittadino svolge tre funzioni tra loro indipendenti, che riunite nella stessa persona gli conferiscono un potere che non ha precedenti nella storia delle autonomie locali del Paese (Italia 1997; Italia et al. 1999). É allo stesso tempo ufficiale del governo, vertice dell'amministrazione locale e capo di una maggioranza politica (Vaciago 1999, p. 95).

La figura del sindaco, che sino alla riforma suscita l'interesse degli studiosi di potere locale perché inserito nel complesso delle problematiche dell'ente comunale, diviene nel corso degli anni Novanta un argomento ricorrente di dibattito e di approfondimento (Colloca 2001; in stampa).

 

1. Strumenti, obiettivi e limiti dell'indagine

Questa ricerca può essere inclusa probabilmente nel filone degli studi sociografici (Gallino 1993, pp. 608-610) sulla classe politica locale (Bettin 1987, pp. 433-463). I dati analizzati riguardano la classe di sindaci eletti negli oltre ottomila comuni italiani tra il 1988 ed il 2001 (21.113 amministratori) e sono stati studiati a partire da un lavoro ricognitivo delle rilevazioni periodicamente condotte dal Servizio elettorale del Ministero degli Interni (Barberis 1973-1993; Melis e Martinotti 1988a e 1988b; Bettin e Magnier 1989; 1991; Girotti et al. 1983; Feltrin 1985; Isas 1987; Girotti e Mastropaolo 1990; La Rosa e Aymone 1995; Brunazzo 2000).

Un elemento di distinzione dagli studi precedenti sta nel promuovere, nella stessa sede, un'analisi longitudinale degli eletti di circa tre lustri: quelli ante 1993 (a partire dal 1988) e quelli post 1993 (fino al 2001)1 proponendo, inoltre, un'analisi diversa della fonte ministeriale, tradizionalmente utilizzata più per studi sul reclutamento degli amministratori locali che per un'analisi sul ricambio. L'idea è quella di descrivere il rappresentante di vertice della classe politica municipale, che adempie ad una funzione di governo e ad un ruolo politico complesso (Recchi 1999), lungo un periodo che probabilmente sarà ricordato come il più intenso di avvenimenti nella storia delle autonomie locali dell'Italia repubblicana. Il processo di delegittimazione della classe politica partitocratica che segna la storia politica italiana degli anni Novanta espone anche il sistema politico periferico al vento del mutamento. Per le amministrazioni comunali, il dato realmente nuovo è rappresentato da un tipo di partecipazione elettorale che cerca di emanciparsi da uno stretto controllo partitico. La legge 81 del 25 marzo 1993, che introduce l'elezione diretta dei sindaci (e la l.120/99 che predispone alcune modifiche), sembra completi formalmente un processo di ridefinizione del ruolo del primo cittadino che aveva subito un'accelerazione proprio nel 1988 nel corso della X legislatura (Pinto e Staiano 1998, pp. 39-40), dando al contempo espressione ad un'esigenza di innovazione istituzionale più generale che trova nella periferia del sistema politico il suo terreno di prima sperimentazione (Bettin e Magnier 1995).

Nel contempo una ricostruzione dei caratteri sociologici che qualificano questo tipo di personale politico potrebbe introdurre elementi previsivi sulla capacità di incidenza e di durata di una componente vitale del sistema politico italiano, che contribuisce da sempre ad una diffusione capillare dei principi costitutivi della cultura politica democratica sull'intero territorio nazionale (Segatori 2001). Ciò significa poter ragionare, quanto meno in termini indiziari, sui meccanismi della rappresentanza sociale, ovvero sugli interessi e le solidarietà che trovano o ottengono rappresentanza attraverso le procedure elettorali (Tarrow 1979). Non meno essenziali sono le informazioni che si possono trarre sulla rappresentanza politica, ovvero sulle funzioni di gate-keeping e di filtraggio svolte (e non svolte) dai partiti nei riguardi della società civile e delle sue molteplici articolazioni, con informazioni apprezzabili, ad esempio, sulla qualità del ricambio lungo il periodo considerato. Naturalmente quello che può offrire una rassegna sociografica è un'indicazione generale relativa a questioni più complesse. Per analizzare debitamente, ad esempio, la consistenza e gli effetti del radicamento territoriale sulle trasformazioni del governo locale occorrerebbero anche altre informazioni. Basti pensare che non si dispone di notizie relative agli ascendenti, per valutare la prossimità di un'eventuale esperienza di immigrazione, né si conosce da quanti anni quel sindaco risiede nel comune che amministra o se abbia contatti con associazioni di carattere civico su base più o meno localistica. È auspicabile che la sociologia del potere locale possa ricevere impulsi, ad esempio, da approcci che facciano più largo uso di materiali biografici (Cavalli L. 1985; Turi 1987; 1996a; 1996b).

 

2. Alcune indicazioni sulla matrice dei dati

L'analisi dell'insieme dei dati è realizzata con il pacchetto applicativo di statistica offerto da Spss (Statistical Package for Social Sciences) (Fideli, in stampa). Partendo dai dati estratti dal data-base ministeriale2 sono state costruite due variabili che tenessero conto dell'elezione prima e/o dopo la riforma e della permanenza in carica degli eletti direttamente dai cittadini. Successivamente si è pensato ad una variabile che aggregasse le oltre duecento categorie professionali previste nella classificazione ministeriale ed altre due variabili che potessero distinguere le classi sociali di appartenenza degli eletti in base alla professione. Infine sono state definite altre tre variabili: la prima distingue gli eletti secondo una tipologia di comuni costruita in base alla modalità di elezione (ossia turno unico o doppio turno); la seconda tiene conto della diversa composizione dei consigli comunali (in base all'art.1 l.81/93); la terza distingue il territorio nazionale per aree politicamente omogenee costruite su base provinciale (Marradi 1974; Bartolini 1976; Tuzzi 1997), ma non vincolate dai confini amministrativi delle Regioni o dalla perfetta contiguità geografica, quanto dall'esistenza di un'omogeneità nel comportamento elettorale (Cartocci 1987). Si suggerisce, pertanto, un'ideale suddivisione dell'Italia in cinque aree3 alle quali sono stati assegnati i nomi di "Nord-Ovest"; "Zona bianca";4 "Zona rossa"; "Centro" e "Sud"5. Un precedente, fra gli studi classici che si interessano al ceto politico locale ripartendo il territorio nazionale per aree, è rappresentato dalla ricerca di Bettin e Magnier sulla figura del consigliere comunale (1989, pp. 31-35), dove si utilizza una tipologia dei comuni su base provinciale6, secondo una mappa politico-territoriale elaborata dall'Istituto Cattaneo di Bologna (Galli 1968).

Fra i dati dell'archivio ministeriale due variabili necessitano di alcune precisazioni. Innanzitutto la variabile "professione". Il confronto negli anni delle varie categorie induce ad una certa prudenza in fase di interpretazione dei dati, in quanto le categorie usate nell'input ministeriale presentano molte difficoltà di lettura specie per i sistemi di aggregazione. Già Barberis (1993, pp. 7-9) avvertiva sulla difficoltà di comparare i dati relativi alla distribuzione per attività professionale di consiglieri, assessori e sindaci del 1992 con le serie precedenti, a causa del mutamento dei criteri di classificazione adottati dal Ministero degli Interni. In passato, infatti, la classificazione evidenziava il settore di attività, distinguendo, all'interno di ciascun settore, la specifica posizione assunta dal soggetto autonomo e/o dipendente. L'attuale sistema di classificazione si fonda, invece, sul tipo di professionalità, perciò conosciuta la funzione lavorativa di un sindaco, non vi è modo di sapere né il settore in cui la esercita, né se la svolge in proprio o meno. È stato possibile, però, rileggere, i dati sulle professioni così come trasmessi dalle singole prefetture e ricavare - dopo un imponente lavoro di confronto con le professioni definite in base ai nuovi criteri - la posizione nella professione. L'operazione ha consentito così di poter distinguere i primi cittadini sia secondo il criterio della professionalità sia, secondo un criterio utilizzato dall'Istat (1991), per livello di autonomia-responsabilità e quindi di funzioni espletate da ciascuno nell'attività svolta7. Questo ha permesso di riflettere sulla collocazione sociale degli eletti costruite a partire dal settore di professione (dipendente/indipendente), anche se è necessaria, comunque, una certa prudenza nella lettura dei dati, specialmente se in chiave diacronica. La variabile "professione", una volta ricodificata quella ministeriale poiché molto articolata, prevede complessivamente quindici modalità: 'medici', 'avvocati', 'notai', 'altri professionisti', 'insegnanti', 'impiegati', 'commercianti', 'imprenditori', 'operai', 'agricoltori', 'casalinghe', 'studenti', 'disoccupati', 'persone in cerca di prima occupazione', 'persone ritirate dal lavoro'8.

L'altra variabile in questione è quella relativa al partito di appartenenza. Il Ministero registra per il periodo compreso, fra il 1988 ed il 2001, 93 etichette di partiti politici talvolta limitandosi ad indicare la coalizione, ma non i partiti che la compongono. L'appartenenza politica dei sindaci risulta pertanto molto sfumata da categorie talvolta ampie. Si aggiunge il problema di tentare comparazioni diacroniche visti i fattori di grande rivolgimento politico degli anni Novanta, che hanno determinato mutamenti in termini di destrutturazione, riaggregazione e riposizionamento dei partiti politici italiani. Inoltre la tendenza al bipolarismo introdotta dal nuovo sistema elettorale interviene a mutare i criteri di autocollocazione sul continuum sinistra-destra e, in particolare, configura diversamente il centro. Ciò rende quanto mai diversificata la dichiarazione di appartenenza politica dei sindaci eletti ante e post 1993 (Dato Giurickovic 1996, pp. 56-61). Si è tentata, comunque, una riduzione a dieci modalità, ed esattamente si tratta: dei "Partiti autonomisti (Lega Nord9; Lega Lombarda; Liga Veneta; Lega Alpina Piemontese; Union Valdotaine; Sud-Tirolen Volks Partei; Partito Sardo d'Azione)10"; delle "Liste di Centro"; delle "Liste di Centrosinistra"; della "Democrazia Cristiana"; di "Forza Italia-Polo/Casa delle Libertà"; dei "Partiti Laici (Psi; Psdi; Pri; Pli)"; delle "Liste civiche e indipendenti"; del "Movimento Sociale-Destra Nazionale/Alleanza Nazionale"; del "Partito Popolare Italiano"; della "Sinistra (Pci; Pds; Ds; Rc; Pdci)".

 

3. I sindaci eletti "ante e post" 1993: uno sguardo d'insieme

L'analisi dell'appartenenza di genere degli eletti fa emergere come l'introduzione dell'elezione diretta abbia dato un nuovo impulso ad un processo di lungo periodo che, a partire dagli anni Settanta, progressivamente rimodella il profilo della classe politica municipale italiana: l'incremento della rappresentanza femminile (Olivetti Manoukian 1994, p. 32). Negli ultimi quattro lustri si registra un incremento della percentuale di donne sindaco. Esse, infatti, passano da un 1,2% nel 1970 ad un 7% nel 2001, anche se, considerando la presenza complessiva di sindaci uomini (93%), la prospettiva di un bilanciamento delle cariche tra i sessi sembra ancora lontana (Magnier 1994). É dopo il 1993 che le donne sindaco si fanno largo assai più che in passato. La distribuzione dei sindaci per appartenenza di genere e per periodo di elezione/permanenza in carica, distinta per zone politicamente omogenee, attesta in tutto il Paese una percentuale di incremento delle donne sindaco maggiore di quella dei colleghi uomini. L'ascesa è più marcata fra coloro che sono elette post riforma, che sembra favorire, pertanto, una tendenza alla leadership. Nelle tornate amministrative che si avvicendano fra il 1993 ed il 2001 riescono a farsi eleggere per due mandati consecutivi nel "Centro" il 44,8% delle donne contro il 27,2% degli uomini; nel "Nord-Ovest" sono il 41,7% contro il 27,5%; nella "Zona bianca" sono il 45,4% contro il 30,4%; nella "Zona rossa" il 45,3% contro il 32,8%; chiude il "Sud" (Mirone 1997; Cnel 1999) dove le donne confermano questa maggiore tendenza alla rielezione, seppur con uno scarto minimo rispetto alle altra aree (25% contro 22,3%). La distribuzione dei sindaci per tipologie di comuni distinti in base ai turni elettorali conferma, fra il 1993 ed il 2001, la tendenza delle donne ad essere più longeve politicamente dei colleghi. Nei comuni in cui si vota con turno unico, (il 91% circa dei municipi italiani), il tasso di rielezione, fra le donne, è pari al 68,8% mentre fra gli uomini è il 64,4%.

Queste percentuali sembrano indicare che le donne sindaco adempiono all'incarico di governo con la soddisfazione della comunità, controllando, con risultati di successo, le dinamiche di costruzione del consenso alla luce dei principi che ispirano la legge 81. Le donne sono, però, penalizzate da una legge di "rarefazione progressiva" (Barberis 1993, p. 26), pertanto sono meno presenti laddove lo spazio politico acquista maggiore centralità. Tuttavia, pensando al cammino percorso e alle posizioni raggiunte negli ultimi vent'anni in tutte le sfere della vita del Paese, sembra evidente che la donna ha fatto non poca fatica ad affermarsi nelle posizioni di massima responsabilità politica, non solo a livello nazionale. C'è voluta forse soprattutto la crisi del sistema dei partiti e l'implementazione della legge 81, che ha dato più spazio all'elemento personale, perché questa tendenza prendesse piede, almeno per il momento, con rinnovato slancio. I dati testimoniano di una trasformazione culturale che sta imponendosi, ma con lentezza (Bettin et al., in stampa)

Sotto il profilo anagrafico la punta massima di presenze di primi cittadini è tra i 40 ed i 49 anni d'età, dove si concentrano il 39,9% delle donne ed il 40,8% degli uomini. Tale posizionamento, per entrambi i sessi, indica l'importanza di tale fase della vita per l'assunzione di responsabilità pubbliche, nonché l'onda lunga dell'intensa partecipazione politica che contraddistingue le giovani generazioni degli anni Settanta. A riprova dell'importanza di tale periodo, e dell'impegno politico che lo caratterizza, va tenuto presente il fatto che, confrontando la generazione dei quarantenni con quella dei cinquantenni, tra questi ultimi la presenza dei sindaci si dimezza per entrambi i sessi. Tuttavia è anche vero che il divario di rappresentatività tra i due sessi è minore quanto più bassa è la fascia di età dei sindaci. Al momento di scegliere un politico giovane, le differenze di genere appaiono dunque meno discriminanti, al punto che tra le donne i primi cittadini under 30 sono il 6,8% mentre tra i loro colleghi i giovanissimi sono soltanto il 2,8%. Il tasso di discriminazione (o di autoesclusione) femminile aumenta con l'aumentare dell'età del sindaco, per stabilizzarsi dopo i 45 anni, seppure su livelli ancora lontani dalla parità. Diversa è la situazione se si paragonano i percorsi individuali della carriera politica delle donne sindaco con quelli dei loro colleghi. Si scopre che le discriminazioni tra i due sessi non sono diminuite, ma trasformate: alle donne si chiede di investire di più per raggiungere l'obiettivo. Occorrono diverse qualità (ascritte ed acquisite) per avere le carte in regola con le proprie ambizioni politiche. Un'alta scolarizzazione è il primo requisito richiesto alle donne che aspirano a guidare il comune. Così come fra i loro predecessori si riscontra salendo nei gradi di istruzione, un aumento della presenza femminile ed un decremento di quella maschile. Alla fine si contano, tra le donne sindaco, il 46,4% di laureate rispetto al 39,1% degli uomini.

Quanto alla condizione sociale, anche tra le donne, come per gli uomini, sono maggiori le possibilità di impegnarsi nell'amministrazione locale della cosa pubblica per quelle che appartengono ai ceti impiegatizi. Questa appartenenza permette, probabilmente, di svolgere il compito di sindaco con maggior competenza e disponibilità di tempo. Tra le donne sindaco sono presenti il 29% di impiegati contro il 24% degli uomini. Tale differenza, a vantaggio delle donne, può spiegarsi tenendo conto che nella categoria degli impiegati rientrano gli insegnanti, e lo sono il 28,6% delle donne sindaco rispetto al 14,5% uomini. Un elemento interessante è la forbice tra i due sessi in relazione alle due classi posizionate agli estremi della stratificazione sociale: ovvero la classe superiore autonoma e gli operai. Per le donne sembra valere una legge di "rarefazione progressiva" sia verso il "basso" - tra le donne sindaco, infatti, si contano l'1,5% di operaie, contro il 6% degli operai tra i sindaci uomini - sia verso l'"alto" dove tra le prime cittadine si registra soltanto il 13,4% di appartenenti alle classi superiori (dipendenti ed indipendenti) contro il 23,7% che si registra fra gli eletti uomini. A tutt'oggi risultano numerose invece le donne sindaco che non svolgono una professione (il 20,4% dell'intera presenza femminile contro il 9,7% maschile). Questo dato conferma come, in generale, la disponibilità di tempo libero funga da fattore incentivante l'assunzione di impegni politici. Ciò sembra essere tanto più vero per le donne. Non a caso sono i settori occupazionali privati, come l'agricoltura, l'industria e il commercio a fornire la quota più bassa di donne sindaco, mentre è nutrita la presenza delle occupate nei servizi e nel settore pubblico o di chi non svolge più, o non ha mai svolto, un lavoro stipendiato11.

Infine dall'atteggiamento dei principali attori politici, ovvero i partiti, nel promuovere l'ascesa alla poltrona di primo cittadino, viene un altro dato che può dare la misura di quanto possa rivelarsi impegnativo per una donna, in termini di scelta fra ruoli privati e pubblici, assumersi incarichi di rappresentanza. É interessante notare come, alla vigilia della riforma del 1993, l'incremento della presenza femminile fosse diffuso in tutti i partiti, tranne che nel Pli e nel Msi-dn. Il partito che maggiormente apre alle donne a livello locale è il Pri, che quadruplica la componente femminile tra i suoi sindaci, dando corpo anche in questo senso ad un tentativo di rinnovamento. Nel Psdi nonostante si dimezzi la sua presenza tra i primi cittadini, raddoppia le sue rappresentanti nella carica. I partiti maggiori, invece, incontrano serie difficoltà nell'abbracciare la causa della partecipazione politica femminile. In particolare, la sinistra nel suo complesso non esce a testa alta dal confronto con altre forze politiche. Concretamente, il suo ruolo di alfiere della partecipazione femminile si trasferisce ad altri schieramenti politici probabilmente perché, impegnato nella difesa del proprio patrimonio ideologico sul finire degli anni Ottanta, vede nella donna in lista un punto di debolezza. In termini relativi, la presenza femminile si sente di più in soggetti politici collettivi tipo, ad esempio, le liste civiche. Gli anni Novanta si sono caratterizzati per un quasi esasperato processo di frammentazione delle formazioni politiche tradizionali da un lato e, dall'altro, per l'emergere di una pluralità di aggregazioni di matrice localistica oppure di nuova proposta politica, entrambe più o meno radicate. Di fatto pare che il quadro organizzativo dei grandi partiti si sia dissolto lasciando sempre più spazio ai processi di personalizzazione consentendo agli attori titolari di qualità come la competenza, l'impegno sistematico, lo spirito di servizio, di conquistare rapidamente posizioni d'influenza. I dati sembrano confermare che questa congiuntura di disorientamento favorisce l'espansione dello spazio di potere femminile (Bettin et al., in stampa). É per l'appunto in forze eterogenee e spesso in coalizioni estemporanee che le donne sindaco si fanno largo assai più che in passato: già tra i sindaci eletti ante 1993 il 16,5% delle donne ascendono alla carica di primo cittadino in una lista civica o indipendente. Tra i nuovi sindaci eletti fra il 1993 ed il 1998 hanno successo, grazie al supporto di una formazione senza un riferimento di carattere nazionale, ben il 41,4% delle donne, che diventano il 57,7% nelle tornate amministrative tra il 1999 ed il 2001. Nel decennio 1988-1998 all'interno di formazioni di partito tradizionali, la quota più significativa di donne sindaco, pari al 35%, resta nelle fila della sinistra e del centrosinistra, ma tale presenza si impoverisce alla fine degli anni Novanta, tanto che fra il 1999 ed il 2001 si riduce al 27,2%. C'è poi la crisi della Democrazia Cristiana (nonché dei partiti laici) che interrompe un processo di femminilizzazione che raggiungeva in quest'area di centro livelli piuttosto elevati, se si pensa che ante 1993 il 49,5% delle donne sindaco era nelle fila del partito dello scudo crociato. Il Ppi odierno sembra attirare sindaci donna, ma tra il 1993 ed il 2001 non va oltre il 10,1% delle elette. Forza Italia, e le liste che ne evocano il simbolo contano nel 1994 il 4,8% di donne sindaco, che passano al 6,4% nel 2001, dimostrandosi ancora tendenzialmente maschiliste nel reclutamento dei propri sindaci. Alleanza Nazionale e la Lega Nord (e le liste autonomiste) sembrano piuttosto legate alla tradizione, in termini di caratterizzazione di genere del proprio personale politico rappresentativo al livello delle municipalità, dimostrando di essere più restii nel selezionare fra le donne il personale politico da candidare alla poltrona di sindaco. Il primo raccoglie fra i suoi eletti un 4,8% di donne nel 1994 (erano il 2,7% nelle fila del Msi-dn nel 1988) che diventano il 5,1% nel 2001. La Lega Nord e le liste autonomiste dallo 0,1% del 1994 si attestano all'1,5% nel 2001.

Dopo la prima implementazione della legge 81, l'ascesa della donna alla poltrona di primo cittadino si può inquadrare nel più ampio processo di dissoluzione organizzativa delle formazioni di partito e nella proliferazione di aggregazioni indipendenti. Si tratta di movimenti che ruotano attorno alle figure di leader locali in grado di rappresentare, anche senza un'appartenenza partitica stabilizzata, gli interessi tipici dei vari ambienti che strutturano in concreto le odierne municipalità dai confini ideologici sempre meno netti. Le donne in politica sembrano interpretare a pieno questo stile emergente di leadership municipale (Bettin 1981; Pasquino 2001) ed anche trovandosi in inferiorità numerica rispetto ai colleghi, sembrano saper utilizzare con efficacia la legge 81 dilatando lo spazio di genere nelle posizioni apicali dei municipi, sia a Nord che a Sud.

Una lettura dei dati sulla distribuzione dei sindaci per classi di età rivela, lungo i tredici anni considerati, che le poltrone di sindaco sono monopolio della fascia compresa fra i 39 ed i 59 anni con l'85,5% degli eletti. Questa sovrarappresentazione sembra legittimare il ruolo attivo e trainante di queste fasce di età nella società contemporanea. In particolare la distribuzione per età privilegia i quarantenni: in questa coorte si trova il 40% degli eletti, con un incremento delle presenze del 10% rispetto agli anni Settanta. Il dato fa pensare all'importanza di alcune risorse come la maturità professionale, l'ampiezza del network di relazioni sociali associata alla capacità di lavoro tipiche del livello di età e ben spendibili in una carriera politica che si va sempre più configurando come una carriera personalizzata (Recchi 1993).

Una rarefazione progressiva per la carica di vertice si verifica, invece, per gli under 30 e gli over 60. I primi, però, sono il 2,2% ante riforma e successivamente si attestano al 3,3%; i secondi, invece, dal 12,2% si contraggono all'8,3%. Il dato su queste due coorti dimostra che, con l'accentramento delle responsabilità, la strada per diventare sindaco è più difficile e il mestiere di primo cittadino si complica rendendosi meno attraente principalmente per un personale politico più anziano. Tra i rieletti post 1993 gli over 60 sono il 9% nei comuni con più di 15.000 abitanti, ossia quei centri che hanno una modalità di elezione che prevede il doppio turno, mentre i giovanissimi contano soltanto l'1,7%. Più ampie concessioni hanno, invece, gli under 30, nei comuni con una popolazione inferiore ai 15.000 abitanti (e quindi con turno unico di elezione) anche se, comunque, sono presenti con una percentuale del 4,3% contro il 6,8% degli ultrasessantenni. Tali dati sono, forse, sintomatici di un inizio di correlazione tra la composizione della popolazione12 ed il peso assunto dagli anziani nelle posizioni di pubblica rappresentanza. In un mondo che invecchia e che innalza l'età d'ingresso dei giovani nell'età adulta, potrebbe pure affermarsi una tendenza ad un maggiore apprezzamento della risorsa "esperienza". Avere "i capelli bianchi" potrebbe imporsi come un punto a favore per chi ambisca ad incarichi di responsabilità pubblica. Si aggiunga che la disponibilità di tempo che caratterizza la terza età può facilitare l'autoselezione per l'accesso a tali incarichi. Per un impegno politico locale servono anzitutto delle risorse personali di natura elementare, quali il tempo libero e la sicurezza economica, un'accoppiata di disponibilità tipicamente maggiori fra i pensionati (e i dipendenti pubblici), come si vedrà oltre (Bettin et al., in stampa). L'altra indicazione interessante ricavabile dai dati di queste due coorti è che le comunità locali di dimensioni medio-piccole dopo il 1993 non sono, come in passato, la sede privilegiata per l'ascesa alla poltrona di sindaco soltanto per gli ultrasessantenni. Tali comunità sono concentrate per il 52% nelle aree geopolitiche del "Nord-Ovest" e della "Zona bianca", ossia le aree del Paese che detengono il primato del saldo negativo del ricambio naturale della popolazione e che hanno visto, anche, l'affermarsi dei partiti autonomisti ed in particolare tra il 1992 ed il 1996 della Lega Nord. Quest'ultima ha alimentato l'ingresso nei governi municipali dei ventenni promuovendo un personale politico più simile sociologicamente al corpo elettorale (Belotti 1992), e ciò potrebbe rappresentare la spiegazione della maggiore presenza di giovanissimi post riforma ai vertici del governo di comunità medio-piccole. La Lega conferma questo primato nel reclutamento dei più giovani anche alla fine degli anni Novanta. Nonostante le variazioni negative fatte registrare nel 2001, che le fanno perdere oltre il 20% dei consensi nei distretti industriali veneti e friulani (Diamanti 2001b, p. 647), il 17,3% dei sindaci leghisti nella "Zona bianca" è di età inferiore ai 30 anni13 contro il 15,6% degli eletti nelle Liste civiche, il 9,6% di Forza Italia e l'8,4% del centrosinistra. È lecito supporre, comunque, che la presenza di giovani amministratori locali fra le fila della Lega è il risultato di una campagna di reclutamento sostenuta prevalentemente per la necessità di arruolare del personale politico più che per promuovere un reale rinnovamento del governo della comunità. Ancora una considerazione a partire dalle distribuzioni territoriali. I sindaci in età compresa fra i 30 ed i 39 anni hanno nella "Zona bianca" la loro maggiore concentrazione di rieletti post 1993. Per tentare una spiegazione di questo dato potrebbe rivelarsi utile riflettere, oltre che sulle prassi di reclutamento delle forze politiche, sull'assetto socio-economico del Nord-Est geografico del Paese. In quest'area i giovani (che hanno una minore propensione a concludere gli studi, come si vedrà oltre) probabilmente entrano in politica e conseguono posizione di potere a livello locale, perché, già in possesso di un soddisfacente status socio-economico, fruiscono di una visibilità e di un prestigio sociale, che dopo la riforma del 1993 sembrano fattori determinanti per l'ascesa a primo cittadino.

 

4. Lo 'status' sociale degli eletti

La variabile età sembra far premio sulla classe sociale, nel senso che in ogni strato sociale le maggiori chances di accesso alla carica di sindaco sembrano riservate a chi abbia tra i quaranta ed i quarantanove anni. L'unica anomalia si registra all'interno dei ceti superiori indipendenti, che sono sovra-rappresentati fra i trentenni, mentre calano di rappresentatività dopo i cinquant'anni. Forse il sindaco proveniente dagli strati più alti è avvantaggiato nel raggiungere anticipatamente un incarico che per la gran parte degli eletti è riservato ad un'età più matura; al contempo, non è attratto da una posizione di pubblica responsabilità nel periodo in cui il prestigio professionale privato tende ad essere massimo, cioè dopo i cinquant'anni. Rimane confermata la salda predominanza dei ceti medi dipendenti, che con il 52,2% di primi cittadini costituiscono il serbatoio di reclutamento più produttivo di politici municipali, anche di vertice. Confluiscono in questo risultato risorse oggettive, quali la competenza giuridico-amministrativa di chi lavora negli enti pubblici, la maggiore disponibilità in termini di tempo, la sicurezza del posto fisso, e determinanti soggettive, quali una certa volontà di riscatto di capacità e di ambizioni troppo spesso depresse nel pubblico impiego.

L'introduzione della legge 81 apre ampi spazi ai sindaci con un livello socio-economico medio-alto. La borghesia nel suo insieme cresce dal 16% del 1988 al 22,7% del 1998 per concentrasi intorno al 24,6% nel 2001 a detrimento dei ceti impiegatizi. A sostenere questo balzo in avanti sono soprattutto gli esponenti dell'impresa privata e delle libere professioni. Gli imprenditori-sindaci, che sono in lieve calo fra la fine degli anni Ottanta (3,2%) ed il decennio successivo (2,9%), fra il 1999 ed il 2001, rappresentano il 5% dei primi cittadini a riprova di un andamento altalenante da imputare, forse, alle difficoltà di esportazione in periferia di formule di delega politica fondata su competenze sperimentate nell'agone economico. Tra i professionisti, invece, i maggiori depositari della crescita di fiducia nei rappresentanti municipali di estrazione borghese sono i medici, che dal 5,6% del 1988 diventano il 7,1% nel 1998, stabilizzandosi al 7,8% fra il 1999 ed il 2001. Seppure in scala minore, aumentano decisamente anche gli avvocati-sindaci14 (dal 2,3% del 1988 al 3,9% del 2001), ed in generale tutti gli altri liberi professionisti (dal 4,7% al 9,3%, con un incremento del 3,8% fra il 1998 ed il 2001) mentre resta esiguo il numero di notai (fermo da tre lustri allo 0,1%). Le professioni ad alta specializzazione giuridica, insomma, se svolte nel settore privato, non riscuotono il successo nell'arena politica che è invece tributato, nel sentire comune, ai detentori di ruoli caratterizzati da una vocazione di servizio (i medici) o rivestiti di una sorta di patina di imparzialità e di autorità. Gli insegnanti, ad esempio, passano, nell'arco degli anni Novanta, dall'8,6% all'11,1% degli eletti, e nel 2001 sono al 13,6% (sono compresi in questa categoria anche i professori universitari che passano dallo 0,5% del 1988 all'1,7% del 2001). Vale la pena parimenti di sottolineare anche il rinnovato potere attrattivo dei candidati sindaci operai. I primi cittadini espressi da questa categoria quasi raddoppiano tra il 1988 ed il 1998 (dal 3,3% al 5,4%) e al 2001 sono il 7,2%. Anche se il fenomeno riguarda quasi completamente i centri minori, merita certamente attenzione. É un indizio, forse, di una ripresa di vitalità e di interesse per la politica diffuso in tutti gli strati sociali e, anche, un freno ulteriore - proveniente dal basso in questo caso - al tanto paventato (ed enfatizzato) processo di burocratizzazione della classe politica periferica. Minori vie di accesso alla poltrona di sindaco sembrano trovare, invece, gli agricoltori che scivolano dal 7% di fine anni Settanta al 2,7% nel 1998, complice probabilmente un sistema elettorale che premia le categorie professionali che hanno un impianto decisamente urbano (Bettin et al., in stampa).

Un dato significativo è quello espresso dalle persone ritirate dal lavoro. Costoro selezionano il 7,5% dei sindaci eletti negli anni Novanta registrando una crescita di circa un punto rispetto alla fine degli anni Settanta, ma è il risultato delle amministrative fra il 1999 ed il 2001 che gli consegna uno spazio politico di vertice sul quale si dovrebbe riflettere: sono, infatti, ad oggi il 16,7% dei primi cittadini. La maggior parte di costoro si compone di pensionati, ma anche di casalinghe e studenti tutte categorie accomunate da una risorsa personale di natura elementare quale il tempo libero e da una tendenza alla partecipazione politica come forma di riscatto della propria condizione sociale. Occorre tenere presente anche le trasformazioni sociologiche che hanno interessato la società italiana ripercuotendosi inevitabilmente sulla classe politica, anche a livello locale. Si pensi, ad esempio, agli effetti dell'invecchiamento della popolazione e di conseguenza allo spazio anche politico maggiormente occupato dai non attivi. C'è anche una non attività che interessa i più giovani, ormai sempre più giovani-adulti, se si considera che, negli anni Novanta, in età compresa fra i 25 ed i 29 anni, il 44% non è ancora inserito nel mondo del lavoro ed il 30% è ancora inserito nel circuito formativo (Cavalli A. e de Lillo 1993; Cavalli A., Buzzi, de Lillo 1997; Istat 2001).

Ancora qualche considerazione può farsi sulla composizione sociale di questa generazione di sindaci a partire dalle diverse aree geopolitiche del Paese. La prima osservazione è che nelle cinque aree considerate la maggioranza dei primi cittadini capaci di adempiere al primo incarico post 1993 e di essere riconfermati successivamente appartengono alla classe superiore indipendente. Soltanto nella "Zona bianca" la percentuale di questa classe sembra insidiata da quella degli inattivi rintracciabili probabilmente nelle categorie generazionali marginali, ossia gli under 30 e gli over 60. I sindaci provenienti dallo strato sociale operaio, che conquistano la carica in epoca proporzionale (ante 1993) e che si ripropongono con successo nelle elezioni post 1993, secondo il principio maggioritario, sono presenti prevalentemente (circa il 36%) nel "Nord-Ovest", nella "Zona bianca" e nella "Zona rossa". É interessante notare come fra gli eletti ante e post nella "Zona rossa" si registri, diversamente da altre aree del Paese, una divisione netta di primi cittadini fra la classe media (23%) e quella superiore (10%) prescindendo dalla distinzione fra dipendenti ed indipendenti. Infine il "Sud" che, fermo restando il primato dei ceti medi dipendenti (che in questa area rappresentano il 55% dei sindaci), continua a prediligere il primo cittadino notabile. Il 29,4% degli eletti in questa area è appartenente alla classe superiore indipendente contro il valore minimo del 7,9% registrato nel "Nord-Ovest".    

Un altro fattore, che integra l'analisi della stratificazione sociale, è il grado di istruzione dei sindaci. Se si paragona il livello di istruzione dei sindaci con quello dei consiglieri e degli assessori municipali risulta confermato che la più alta carica del comune spetta, tendenzialmente, a chi è in possesso di un più alto titolo di studio. Al 1998 il 39% dei sindaci è laureato, mentre il 42% è diplomato. Quello che sorprende fra questi due dati è l'incremento dei laureati, che negli anni Settanta sono il 26%. Il dato è ancora più significativo se si considera che erano dottori nel 1993 il 33,4% dei primi cittadini. In altri termini sembrerebbe che la legge sull'elezione diretta acceleri in cinque anni il processo di selezione di sindaci qualificati, con un incremento del 5,6% circa delle lauree. Le elezioni amministrative del 1999 e del 2001 segnano, però, una battuta di arresto, tanto che oggi i sindaci laureati sono il 34,8%, mentre i titolari di un diploma di scuola media superiore raggiungono il 46,2%. L'altra dato interessante è la riduzione, rispetto agli anni Settanta, di circa il 10% fra i primi cittadini, dei titolari di un diploma di scuola media inferiore, che sono il 26% fra il 1993 ed il 1998, e si riducono al 19% nel 2001. La distribuzione dei sindaci  secondo il titolo di studio ed il periodo di elezione/permanenza in carica evidenzia nella suddivisione per aree come gli eletti ante 1993, capaci di farsi rieleggere per una volta anche post 1993, sono prevalentemente possessori di un titolo di scuola media inferiore, ad eccezione del "Sud", dove prevalgono i diplomati ed i laureati. Nel passaggio dagli eletti ante riforma ai sindaci che costruiscono la loro carriera dopo l'approvazione della legge 81, riuscendo ad essere eletti post 1993 per due volte, sono i diplomati ad avere i valori più alti. A fare eccezione è ancora il "Sud" che premia in questo passaggio soprattutto i laureati. Un dato che conferma la preferenza del Mezzogiorno per il notabilato fra i propri amministratori.

É bene tenere presente che nella popolazione di sindaci italiani il rapporto età/titolo di studio ha un andamento inversamente proporzionale, per effetto della scolarizzazione che ha investito il Paese negli ultimi trent'anni. Tuttavia al 1998 la distribuzione della laurea nelle classi di età marginali fa in qualche modo eccezione. In altre parole: la quota di laureati tra i sindaci over 70 (il 34,9% nel 1992, il 39,5% nel 1998) è sempre superiore percentualmente a quella dei laureati tra coloro che hanno tra i trentanove e i settant'anni, anche se fra il 1999 ed il 2001 i sindaci ultrasessantenni laureati non superano il 30,7%. La laurea costituisce, quindi, più che una risorsa per emergere da giovani, una prerogativa per restare sulla breccia o per tenere la scena politica in età avanzata. Nonostante la crescita complessiva del livello di istruzione della popolazione dei sindaci italiani, la quota di laureati tra i primi cittadini under 30 decresce dal 26,1% del 1992 al 23,9% del 1998 ed infine si ferma al 22,2% del 2001. Il primato negativo spetta alla "Zona bianca", ed in particolare alle regioni del Nord-Est, dove probabilmente le migliori prospettive di affermarsi nel mondo del lavoro riducono la propensione a proseguire gli studi. D'altra parte, nelle regioni meridionali ed insulari i più alti tassi di disoccupazione potrebbero costituire un incentivo a proseguire gli studi, il che spiegherebbe l'alta percentuale di sindaci laureati nel "Sud" (Istat 1997). Se ne può forse dedurre che la politica, oggi ancor più che ieri, non soltanto rallenta un regolare sviluppo dell'esperienza di studio della maggior parte dei giovani politici locali, quanto la interrompe o la esclude, finendo per configurarsi come strumento per l'inserimento nel mondo delle professioni, alternativo all'istruzione o successivo ad un percorso formativo che concepisce questo incarico come propedeutico ad una migliore affermazione professionale nel futuro (Bettin et al., in stampa).

 

5. Sindaci e partiti

Le cifre relative alla distribuzione di primi cittadini tra i partiti alla fine del 1988 offrono un'immagine della politica italiana forse più simile a quella di vent'anni prima che a quella di qualche anno dopo. Tra il 1988 ed il 1993 la Dc si assicura il 54,2% dei sindaci italiani; di gran lunga distanziati seguono tutti gli altri partiti. I sindaci democristiani costituiscono la maggioranza in sedici regioni su venti. Sono escluse la "Zona rossa", dove le roccaforti comuniste non sembrano dare segni di crisi e la Valle d'Aosta, dove continua ad imporsi il "prodotto locale" (le liste civiche o collegate all'Union Valdotaine esprimevano il 60,8% dei sindaci, cui va aggiunto un 24% di eletti indipendenti in varie liste minori). Invece, a conferma di una tradizione di subcultura cattolica che resiste alle trasformazioni, c'è il Veneto, dove il 77,7% dei sindaci si era insediato sotto la bandiera dello scudo crociato. Mentre nel "Nord-Ovest" è il Psi, il partito con il maggior numero di sindaci dopo la Dc. La tendenza polarizzante che vede i tre partiti maggiori (Dc, Pci, Psi) fare la parte del leone nella conquista dei posti di sindaco si arresta con l'ingresso dei primi contingenti di sindaci eletti direttamente dai cittadini. I dati sui sindaci in carica nel 1993 mostrano (tab.1) che le etichette locali trovano terreno favorevole. A quella data la maggioranza relativa (27,8%) dei sindaci italiani risulta eletta grazie alle liste leghiste e alle liste civiche che popolano la scena elettorale periferica. Il tessuto periferico delle formazioni politiche tradizionali continua comunque a reggere piuttosto bene, anche se gli ex democristiani non superano, sempre al 1993, il 3,7% del totale di sindaci; mentre le formazioni che cadono in un'area frastagliata di centrosinistra producono il 15% dei sindaci e le liste imperniate esplicitamente sul Pds il 13,5%. In sostanza l'intreccio fra la nuova legge elettorale e la crisi del sistema partitocratico - in una fase di prima applicazione che vede il popolo dei sindaci soltanto parzialmente rinnovato (salvo che per la Dc che subisce pesanti perdite) - ridisegna il sistema di potere municipale nel senso di spostarlo verso sinistra con una controspinta però che proviene dall'arcipelago instabile ed in effervescenza delle liste con etichette locali (Bettin et al., in stampa).

Esaminando la popolazione dei sindaci al 1998 si coglie una visione completa del cambiamento del sistema partitico e delle preferenze dei cittadini allorché si tratta di scegliere i propri rappresentanti in municipio.

 

Tab.1. Distribuzione per partito dei sindaci in carica nel 1988, nel 1993-1994, nel 1998-1999 e nel 2000-2001

 

1988

(%)

1993-1994

(%)

1998

(%)

1999-2001

(%)

Democrazia Cristiana

54,2

3,7

-

-

Partito Popolare Italiano

-

4,9

5

1,4

Liste di Centro

-

11,8

12,4

5,9

Partiti laici (PSI, PSDI, PRI, PLI)

18

3,6

0,7

-

Liste di Centrosinistra

-

15

22,7

19,2

Sinistra (PCI, PDS, DS, RC, PDCI)

17,5

13,5

9,2

3,6

Forza Italia-Polo/ Casa delle Libertà

-

3,9

7,2

7,8

Movimento Sociale-Alleanza Nazionale

0,3

1,1

0,8

0,3

Partiti autonomisti (Lega Nord, SVP, UV, PSdAZ...)

0,5

4,5

3,9

1,6

Liste civiche ed Indipendenti

9,6

34,4

37,9

58,7

N= 21.113

 

La crisi dei partiti a livello municipale si mostra in tutta la sua profondità: la Dc e i partiti laici, incluso il Psi, si avviano alla scomparsa; mentre le formazioni di sinistra (Bellucci et al. 2000) non sono in grado di esprimere direttamente sotto i propri simboli neppure la metà dei primi cittadini su cui contavano nell'estate del 1992. Nel 1993 già si intravedeva chi si candidava ad ereditare questo patrimonio: liste civiche tendenzialmente apartitiche, coalizioni a vasto spettro (in cui il sindaco non si richiama esplicitamente ad un singolo partito), liste localistiche, e soltanto in misura assai minore, i partiti nuovi. Il risultato è che non più del 26,1% dei sindaci del 1998 si dichiara eletto nelle fila di un partito rappresentato in Parlamento (contando anche i sindaci delle Leghe, della Svp, dell'Uv e del Partito Sardo d'Azione).

Esaminando la mappa dei sindaci eletti nei vari partiti fra 1999 e 2001 emerge come il sistema elettorale per le elezioni locali imponga di coalizzarsi, contribuendo però al tempo stesso ad incoraggiare il mantenimento delle identità di partito. Basti qui ricordare che la presenza del premio di maggioranza "eventuale" per le liste collegate al sindaco vincente rende ancora più ambita la partecipazione, e con etichetta di lista autonoma, a tale coalizione destinata a dividersi il 60% dei seggi. Questa osservazione può aiutare a spiegare la percentuale crescente di eletti nelle liste civiche (sono il 56,5%, poiché gli Indipendenti rappresentano soltanto il 2,2%), probabilmente non sempre, e non soltanto, espressione del "nuovo" ed in generale di un più incisivo protagonismo della cosiddetta "società civile". Le forze del centrosinistra, malgrado più deboli rispetto al 1998, riescono ad eleggere il 24,2% dei sindaci dimostrando di avere ancora una risorsa nel potere municipale. Quel che rimane della struttura organizzativa del vecchio Pci e di quella parte dell'ex Dc confluita nell'Ulivo, infatti, consente, soprattutto a livello locale, di contenere la crescita di Forza Italia, sempre più partito di massa. Il centrodestra dimostra di avere un impianto elettorale a livello locale abbastanza solido. Forza Italia in crescita e con un nuovo alleato nelle amministrative del 2001, la Lega Nord, contiene la leggera flessione di An e raccoglie il 9,6% dei primi cittadini. Una percentuale non trascurabile se si pensa che, a parte i centristi di provenienza democristiana, sia An che Forza Italia soltanto da pochi anni stanno costruendo una classe dirigente a livello locale.

È opportuno, probabilmente, soffermarsi sulla distribuzione per partito degli eletti nelle varie zone del Paese, per riassumere più analiticamente i mutamenti profondi intervenuti post 1993. Innanzitutto la flessione lenta che già alla fine degli anni Ottanta interessa la Democrazia Cristiana accelera a tal punto dopo la legge 81 che, il partito egemone alla periferia del sistema politico italiano, crolla al 3,7%. La Democrazia Cristiana conferma, però, la profondità del suo radicamento storico riuscendo ad esprimere sindaci anche quando il partito è praticamente scomparso a livello nazionale. Il 65% degli eletti sindaci democristiani si raccoglie nelle province del "Sud" e del "Centro"; mentre nella "Zona bianca" gli eletti sono soltanto il 17,4%, meno della metà di quanti se ne contano tra il 1988 ed il 1993 (allora erano il 40,2%). I partiti laici tradizionali (Psi, Psdi, Pri, Pli) hanno una caduta analoga e si riducono prima allo 0,7% per poi uscire definitivamente di scena tra 1999 e 2001. Vi è però da notare che circa il 40% dei vecchi sindaci di quell'area non perde il posto, ottenendo la rielezione con il sistema maggioritario sotto una diversa bandiera. Le bandiere dei laici sventolano, dopo il 1993, prevalentemente al "Sud", dove sono eletti sindaci il 66%; mentre nella tradizionale area laico-socialista del "Nord-Ovest" contano soltanto il 16% degli eletti contro il 24% di pochi anni prima. La sinistra tiene, almeno rispetto agli altri partiti storici, con quasi il 50% di sindaci di nomina consiliare che si riconfermano con l'elezione diretta. La novità piuttosto è rappresentata dalla presenza nella "Zona rossa" (ed in parte anche nel "Centro") di primi cittadini eletti nelle fila del Polo/Casa delle Libertà.

Si registra inoltre, dopo il 1993, l'emergere di un'area inedita di centrosinistra e di un'altra, più ridotta, di centro, che raccolgono l'eredità democristiana in varie fogge. Entrambe hanno, infatti, il bacino maggiore di sindaci nella "Zona bianca" (la prima conta il 25,9% di eletti al 1998, che diventano il 19,2% nel 2001; la seconda conta il 39,6% di sindaci al 1998, che si riducono al 29,7% nel 2001), seguono per il centrosinistra gli eletti nella "Zona rossa" (il 19,4% al 1998 che raggiungono il 28,5% nel 2001) e per il centro gli eletti del "Nord-Ovest" (che dal 30,1% del 1998 sono il 23% nel 2001). C'è poi il successo delle leghe, che quasi decuplicano il numero di sindaci che contano prima del 1993, inserendosi principalmente nelle zone del Nord del Paese dove sono franati i consensi per la Dc e per i partiti laici. Le leghe, in particolare la Lega Nord (Belotti 1992; Corbetta 1993; Mannheimer 1993), concentrano circa l'80% dei propri sindaci post 1993 nella "Zona bianca", dove soltanto qualche anno prima (1988-1993), con la Dc già in flessione, sono appena il 10,5%. Laddove in precedenza si affermano i laici, ossia nel "Nord-Ovest", le leghe hanno, con il 4,5%, la seconda zona di maggiore concentrazione dei propri eletti a primo cittadino. Al 2001 sebbene la Lega Nord continui ad avere il 95% degli eletti sindaci nella "Zona bianca" ed il 4% nel "Nord-Ovest" la situazione muta in valori assoluti, infatti i sindaci del "Carroccio" sono appena cento (contro i 530 del 1998). La spiegazione sta nell'affacciarsi in queste aree di Forza Italia (Paolucci 1999; Poli 2001, pp. 203-271) e delle altre formazioni che si richiamano alla formula del Polo. Esse, sebbene esprimono una quota di sindaci decisamente inferiore al loro peso parlamentare, hanno le loro roccaforti del governo municipale prevalentemente nella "Zona bianca" (erano il 18,8% nel 1998 sono il 24,3% nel 2001) ed in quelle del "Sud" (erano il 34,6% nel 1998 e sono il 48,9% nel 2001, senza contare l'esito delle amministrative siciliane del novembre scorso). Assumendo come termine di paragone la coalizione di forze politiche e di interessi sociali dominante nel sistema politico italiano fino alla fine degli anni Ottanta in queste aree, ed in particolare la Dc, che di tale coalizione fu il perno, gli eletti sindaci di Forza Italia manifestano una continuità per orientamento ideologico e per settori sociali prediletti. Ciò che muta, invece, è il modello di reclutamento, a cui finisce per corrispondere una sensibile alterazione della composizione sociologica degli eletti ed una crescita dei gruppi di interesse. Forza Italia colma il vuoto di classe dirigente venutosi a creare in queste aree in seguito alla crisi dei primi anni Novanta proponendo ai vertici cittadini la parte meno compromessa e anagraficamente più giovane della vecchi élites e nel contempo si offre come interessato recettore dell'attivismo di gruppi sociali ed economici rimasti privi di un referente politico credibile (Tonarelli 1999, pp. 114-115). Continuando nell'analisi dei mutamenti avvenuti post 1993 si registra la presenza, seppure minoritaria dei sindaci della destra eletti nelle fila di Alleanza Nazionale, che riesce comunque a produrre un proprio contingente significativo di eletti. La distribuzione per aree geopolitiche conferma il radicamento di questo partito prevalentemente al "Sud", con il 50% degli eletti. Nel complesso riguardando le percentuali degli eletti per area di Fi ed An un dato non secondario emerge dalla presenza di sindaci di destra nella "Zona rossa". Anche se la presenza di questi primi cittadini sulla percentuale di questa zona è soltanto del 5% nel 1998, e pur vero che diventa il 6,5% nel 2001, e se come tale questo dato poco scalfisce il primato di macroarea politicamente omogenea, è pur sempre un indicatore della crisi dell'identità comunista, apertasi alla fine degli anni Ottanta, in questa area (Baccetti e Caciagli 1992; Ramella 1999).

Infine il boom delle liste civiche, che esprimono oltre un terzo dei sindaci eletti direttamente dai cittadini, costituendo nella periferia del sistema politico italiano il "partito di maggioranza". Il proliferare di liste civiche è forse una delle principali novità scaturite dallo stimolo innovativo introdotto nell'arena elettorale municipale dalla legge 81. Sembrerebbe che tutte le grandi formazioni politiche risultano, quando non azzerate, quantomeno spogliate della capacità di far fruttare il loro capitale politico accumulato storicamente. Le arene politiche locali diventano di conseguenza sempre maggiormente caratterizzate da una personalizzazione del voto. In questo contesto ben si inseriscono le liste civiche che sostituendosi all'organizzazione partitica promuovono un'immagine del sindaco con la quale la città possa identificarsi ed il voto si lega sempre di più ai nomi e ai volti visti nella campagna elettorale, che ai simboli di partito. Occorrerebbe valutare, però, quante volte tali liste si sono caratterizzate realmente come espressione della "società civile" all'insegna del ricambio della classe politica locale, e quante, invece, hanno rappresentato un'operazione di marketing politico condotto dai partiti per attrarre il voto di centro e quello dell'area degli indecisi. Nelle grandi città, però, si va in controtendenza, bene lo dimostrano i casi di Firenze e di Bologna nel 1999 e di Roma, Milano, Napoli e Torino nel 2001, cioè quei contesti densi di problemi di governabilità ed oggi più che mai trasformati in arene politiche, dove il confronto di posizioni si fa sempre più intenso e conflittuale perché riflette buona parte dell'agenda politica nazionale.

 

Note

* Il presente intervento costituisce soltanto l'anteprima di un saggio attualmente in corso di elaborazione. Un ringraziamento particolare sento di dover rivolgere ai professori Gianfranco Bettin, Annick Magnier, Ettore Recchi e Paolo Turi per avermi invitato a riflettere su questo tema offrendomi importanti suggerimenti ed osservazioni.

1. Si tratta dei sindaci eletti il 13 maggio. Non è incluso nell'analisi il personale politico siciliano uscito dalle urne nel novembre dello stesso anno.

2. La fonte ministeriale registra la regione, la provincia ed il comune degli eletti, con la popolazione censita e con una distinzione, fra capoluogo di provincia o di regione. Si prevede anche una variabile che distingue per zone fra: Nord, Centro, Sud ed Isole. Le informazioni anagrafiche: il cognome, il nome, il sesso, l'età, il luogo di nascita, il titolo di studio, la professione. Infine la data di elezione, la modalità di elezione ed il partito di appartenenza.

3. La Valle d'Aosta, l'Alto Adige (ovvero la provincia di Bolzano), Trieste e Gorizia per le enclaves politiche che presentano rimangono escluse, rispetto all'insieme considerato.

4. Negli ultimi anni questa area è interessata da un mutamento profondo della subcultura politica di riferimento. É ancora presto, però, per parlare di una nuova subcultura, pertanto, dovendo procedere con un'analisi diacronica a partire dal 1988, si è preferito mantenere, comunque, l'aggettivo "bianca". Cfr. in proposito, Diamanti e Riccamboni (1992) ; Riccamboni (1999); Diamanti (2001b).

5. Il "Nord-Ovest" comprende le province di Alessandria; Biella; Torino; Novara; Verbania; Vercelli; Genova; Savona; Milano; Lodi; Pavia e Piacenza. La "Zona bianca" raccoglie le province di Trento; Venezia; Belluno; Padova; Treviso; Verona; Vicenza; Pordenone; Udine; Bergamo; Brescia; Como; Cremona; Lecco; Sondrio; Varese ed ancora le province di Cuneo; Asti; Imperia; Lucca e L'Aquila. La "Zona rossa" comprende le province di Arezzo; Firenze; Grosseto; Livorno; Massa Carrara; Pisa; Pistoia; Prato; Siena; La Spezia; Mantova; Rovigo; Bologna, Ferrara, Forlì, Modena, Parma, Ravenna, Reggio Emilia, Rimini; Perugia; Terni; Pesaro e Urbino. Il "Centro" comprende le province di Chieti, Pescara e Teramo; quelle di Macerata ed Ascoli Piceno e quelle laziali, molisane e sarde. Infine il "Sud" comprende le province delle Puglia; della Campania; della Basilicata; della Calabria e della Sicilia.

6. La medesima differenziazione per zone è usata da Baldini e Legnante (2000). Bisogna ricordare anche i già citati studi di Melis e Martinotti che analizzano la classe politica locale in base ai grandi contesti socio-economici del Paese individuati dall'Istat, ossia "Nord-Ovest"; "Nord-Est"; "Centro"; "Sud e Isole" ed inoltre quelli di Belotti e Maraffi (1994), che considerano due aree soltanto, "Nord" e "Sud". Cfr. sull'immagine del sindaco nelle aree geopolitiche del Paese, Bettin (1995, pp. 24-27).

7. Fanno eccezione le professioni di 823 sindaci che non è stato possibile identificare in modo chiaro e pertanto sono state considerate missing in sede di analisi.

8. In base alle definizioni dell'Istat (1995, p. 41), le 'persone in cerca di prima occupazione' "sono coloro che non hanno mai esercitato un'attività lavorativa o hanno cessato un'attività lavorativa in proprio e sono alla ricerca attiva di un'occupazione sempre che siano in grado di accettarla se viene loro offerta". Le 'persone ritirate dal lavoro' "sono coloro che hanno cessato un'attività lavorativa per raggiunti limiti di età o altra causa".

9. Per il 2001 si è tenuto conto che la Lega Nord, nelle amministrative (come del resto nelle politiche) si schiera con la "Casa delle libertà".

10. È importante ricordare nell'analisi diacronica che "Centro"; "Centrosinistra" e "Forza Italia-Polo/Casa delle Libertà" figurano soltanto dopo il 1993.

11. Analizzando la distribuzione dei primi cittadini per tipo di professione si registra tra le donne (il 24,6% contro il 12,7% degli uomini) una maggiore concentrazione di persone in cerca di prima occupazione, di studenti, di pensionati e di persone che si dedicano a faccende domestiche.

12. Dal censimento del 1991 la percentuale degli italiani oltre i 65 anni di età risulta pari al 14,8% del totale. Al gennaio 2000 gli over 65 sono il 17,7% della popolazione (Istat 2001, p. 139).

13. Questo dato esprime, comunque, un forte "malessere" della Lega Nord in questa area, se si pensa che fra il 1992 ed il 1996 i sindaci under 30 nelle sua fila erano il 39,2% degli eletti.

14. Il mondo forense è, fra le libere professioni, quello che garantisce maggiori possibilità di ascendere alla carica di sindaco per le donne, la cui concentrazione in questa categoria è pari al 7,7% tra il 1988 ed il 1998, con un incremento dello 0,7% tra il 1999 ed il 2001.

 

Bibliografia

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Barberis C., La classe politica municipale, Angeli, Milano, 1973-1993.

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