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Saggi
La sinistra, la cultura, la società italiana
di Fabio de Nardis
Il titolo di questo editoriale riprende volutamente quello di un’iniziativa organizzata il 23 febbraio scorso dai vertici Ds presso la Sala dello Stenditoio a Roma. L’iniziativa, gestita dal segretario dei Democratici di sinistra Piero Fassino, era finalizzata a riallacciare un rapporto con il mondo della cultura dopo la celebre ‘sparata’ del regista Nanni Moretti contro i vertici del centro-sinistra nel corso di una manifestazione a P.zza Navona. La sinistra politica si è trovata spiazzata da una contestazione di massa a una gestione politica orientata a un tatticismo esasperato, incapace di organizzare un’opposizione propositiva al governo di Silvio Berlusconi. La rissosità dei vertici politici del centro-sinistra è stata parzialmente compensata dall’unità e la coesione della sua base sociale che ha mostrato una inaspettata capacità di mobilitazione spontanea e di volontà di partecipazione politica nelle diverse iniziative per la giustizia e il pluralismo, oltre che nella imponente manifestazione contro il terrorismo e per i diritti sociali organizzata dalla CGIL lo scorso 26 marzo a Roma.
Negli ultimi mesi, in Italia, si sono realizzate nuove formule di partecipazione politica, attraverso manifestazioni auto-convocate, che indicano, da un lato, una sensibile erosione della fiducia sociale nei confronti delle tradizionali autorità politiche, come confermano anche le rilevazioni della world values surveys(1); dall’altro, mostrano un rinnovato interesse per la politica, per le sue regole democratiche, da parte di una società civile più consapevole e meno disposta all’etero-direzione attraverso il medium delle leadership ufficiali.
I leader della sinistra, inizialmente, hanno mostrato di non comprendere ciò che stava accadendo, lamentando la pericolosità di un eccesso di ‘indignazione’ valutata come un pericoloso fenomeno prepolitico, anzi, antipolitico, come ha notato Deaglio(2), frutto di un dilagante quanto improduttivo ‘disperatismo’ del popolo di centro-sinistra. Essi, in ritardo e con difficoltà, hanno ammesso i limiti della politica e la possibilità di una base non più dipendente dai vertici dei partiti capace di mobilitarsi a prescindere da essi e di criticarli pur, si badi bene, senza mai pensare di sostituirsi ad essi.
Lungi dall’essere antipolitica, dunque, la nascita del nuovo movimento per la giustizia e il pluralismo, congiuntamente alla rinnovata vitalità del movimento sindacale e dei lavoratori, rappresenta un esempio incisivo di politica democratica, intesa come partecipazione, come progetto, come contestazione di un uso improprio degli strumenti della democrazia formale, per una democrazia sostanziale che alle regole del diritto borghese accosta, e non contrappone, la vincente e ultra-moderna coniugazione dei diritti sociali con quelli di libertà.
La mancata comprensione delle ragioni di questo magma sociale da parte dei dirigenti Ds è l’effetto di una lunga fase critica inaugurata dopo lo scioglimento del Pci e non ancora conclusa. Con la nascita del Partito democratico della sinistra, infatti, i dirigenti ex-comunisti hanno gestito con difficoltà la complessità della politica italiana senza effettuare una lettura critica dei radicali stravolgimenti sociali che hanno coinvolto l’Italia e il mondo negli ultimi anni, senza mostrare alcuna lungimiranza interpretativa di un processo di modernizzazione verso il quale, anzi, si è assunto un atteggiamento difensivo anziché propositivo. La piena accettazione delle regole del gioco democratico, alla costruzione delle quali tra l’altro il Pci aveva contribuito in maniera sostanziale, è stata poi interpretata come conversione strategica a uno stile politico schiacciato nel tecnicismo e nella strategia di brevissimo raggio. Questa timidezza progettuale è stata punita in occasione delle politiche del ’94, apparentemente premiata con la vittoria del ’96, raggiunta in realtà grazie a una riuscita strategia di geometria elettorale, per poi essere nuovamente e ancor più drammaticamente ammonita nelle scorse elezioni politiche del maggio 2001.
Inutile negare che la vera vincitrice di quelle elezioni sia stata Forza Italia che con 10.923.431 voti (il 29,4%) è diventata il primo partito italiano, distaccandosi nettamente dal partito dei Democratici di sinistra che con 6.151.154 voti è sceso al 16,6% perdendo un quinto della propria forza relativa e raggiungendo il minimo storico della sua appena decennale esperienza elettorale (il confronto con il Pci sarebbe improprio), quasi surclassato da un non-partito come la Margherita, che si presenta come semplice aggregato di partiti ‘parlamentari’ e, solo in queste settimane, si trasforma in partito.
Da ciò si deduce che, se le dinamiche interne al partito di Silvio Berlusconi hanno portato a buon fine, la ormai nota crisi identitaria dei Democratici di sinistra è stata invece fortemente penalizzata dal confronto elettorale. Questi ultimi, per quanto si sforzino di ridefinire una propria cultura politica e organizzativa a dieci anni dallo scioglimento del Partito comunista, sembrano ancora galleggiare su un lago di incertezza e confusione assiologica. La contaminazione culturale tentata nel ’98 con l’ingresso nel partito di alcune personalità provenienti da culture estranee al vecchio Pci, come i laburisti, i cristiano-sociali e alcuni esponenti della sinistra repubblicana, si è rivelata un fallimento sia sotto il profilo elettorale sia sotto quello politico e culturale.
I Ds non sono riusciti a ridefinire una propria strategia culturale e un progetto politico credibile e questa grave mancanza di fondo è stata accompagnata da una graduale destrutturazione della forma-partito erosa un po’ per via dello ‘spirito del tempo’ ostile ai tradizionali partiti burocratici di massa, un po’ per scelta della leadership evidentemente convinta che un partito riformista 'moderno' non debba necessariamente puntare sull’appoggio della base e su una organizzazione capillare. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un partito di nuovo all’opposizione e ridotto ai minimi termini, vittima di un sorprendente calo di iscritti (circa 400.000 in meno di un decennio) e di consensi elettorali; un partito diviso in correnti e contestato dalla sua stessa base sociale, quel 'ceto medio riflessivo', per dirla con lo storico Paul Ginsborg, che nelle manifestazioni autoconvocate in tutta Italia dimostra vitalità e un forte desiderio di ritrovare nella sinistra parlamentare dei referenti politici credibili, in un partito organizzato e non ridotto alla formula sbiadita e postmoderna del cach-all-party (partito-piglia-tutti).
Forza italia, al contrario, dalla fondazione ad oggi ha compiuto diversi passi avanti verso una ridefinizione della sua base socio-culturale e del suo assetto organizzativo soprattutto per via delle forti spinte ambientali ricevute in questo senso. Nel '94, pur presentandosi agli elettori come un movimento liberale, essa riuscì a far confluire al suo interno consensi variegati, in buona parte provenienti da coloro che si erano riconosciuti nel vecchio socialismo craxiano (circa il 35%) e in parte ancor più significativa (circa il 40%) da ex-elettori democristiani; la sua forza, all'epoca, risiedeva proprio nella vaghezza dei contenuti ideologici. Vitali mostra come solo il 10% dei sostenitori del nuovo movimento si riconoscessero nei valori del liberalismo classico(3). Berlusconi, attraverso un’intelligente operazione propagandistica, riuscì a captare una parte consistente di quel voto moderato che dopo le vicende di tangentopoli e la crisi radicale del vecchio pentapartito si era ritrovato senza precisi referenti politici.
Ma già dal '96, per la scossa della dura sconfitta elettorale, la leadership di Forza Italia rivaluta l'opportunità di una maggiore strutturazione del partito, impreparato a gestire cinque anni di opposizione. In primo luogo, la riconferma di molti parlamentari uscenti contribuisce ad abbassare il tasso di dilettantismo politico assoluto che lo aveva caratterizzato alle precedenti elezioni. Inoltre, viene intrapreso un processo di organizzazione interna che lo transita dalla forma movimentista a una forma più strutturata di tipo partitico, aprendo agli iscritti, predisponendo uno Statuto che prevedesse un certo radicamento territoriale e la costituzione di una burocrazia interna.
Berlusconi ha fatto uscire Forza Italia dallo stato di eccezionalità originario lanciando una nuova formazione politica che, spinta da pressioni esogene, transita dalla forma di ‘partito degli eletti’ a quella meno fluida di 'partito degli eletti e degli elettori' che si distacca dalla semplice formula elettoralistica delle origini(4). Forza Italia, quindi, da maxi-comitato elettorale si trasforma in partito con contorni organizzativi definiti anche se ancora fortemente condizionato dalla leadership carismatica di Berlusconi. E’ di certo un ‘partito personale’ ma non privo di consolidamento; è una forza politica che dallo stato di precarietà iniziale ha avviato con successo un processo di normalizzazione pur conservando i tratti di originalità che lo distaccano radicalmente dai modelli di partito tradizionali.
Ma si badi bene, questa svolta organizzativa 'parziale' è il frutto di una scelta meditata determinata dal fatto che la forza del partito sta anche nella sua diversità rispetto ai tradizionali partiti di massa. I dati elettorali dimostrano che c’è una generazione decisamente più impolitica, meno informata e meno istruita delle altre, quella degli anziani pensionati e delle casalinghe ultra-cinquantenni, che continua a votare in maggioranza per Forza Italia. Al momento sembrerebbe quindi prematuro da parte del partito ‘azzurro’ un eccessivo sbilanciamento verso la costruzione di un apparato pesante. Il rischio sarebbe quello di allentare un legame solido con una parte consistente dell’elettorato ancora perlopiù attratta dall’immagine del suo leader e dalla rappresentazione simbolica che esso offre.
E’ in sostanza questo settore dell’elettorato che continua ad essere sensibile al cosiddetto ‘effetto leader’. Le ricerche hanno dimostrato che l’immagine della leadership seduce in particolare quei cittadini meno interessati alle questioni politiche e senza particolari legami di partito, per intenderci, l’elettorato tradizionale del centro-destra. Al contrario, gli elettori di centro-sinistra, in parte consistente, dichiarano di aver scelto la coalizione dell’Ulivo per senso di appartenenza a un partito politico; in particolare oltre il 50% degli elettori dei Ds, che pur hanno subito un duro trauma elettorale, affermano di essersi riferiti a quel partito nella scelta di voto coalizionale(5). Si tratta di un segnale evidente del fatto che a sinistra, più che a destra, sono ancora i partiti a fare la differenza piuttosto che i leader. Ed è dunque a sinistra che lo sforzo di ridefinizione strutturale diventa necessario, così come necessario è il recupero di alcuni paradigmi culturali del socialismo classico che, in buona parte abbandonati dai Ds, sembrano essere tra le cause principali del loro calo elettorale.
Andando ad esaminare le scelte di voto distribuite per gruppi sociali si propone un quadro nettamente polarizzato con dinamiche di correlazione che stupiscono. Il lavoro autonomo e imprenditoriale è comprensibilmente schierato a destra così come alla Casa delle libertà si rivolgono, però, i quadri medio-bassi del lavoro dipendente nelle aziende private, soprattutto per via di una forte impennata del voto operaio che si schiera con Forza Italia. Il partito di Berlusconi è votato da un terzo della popolazione operaia quasi il doppio dei Ds a cui si rivolgono invece i quadri medio-alti delle aziende private oltre che il lavoro dipendente nel settore pubblico.
Sembrerebbe che la stratificazione sociale del voto corrisponda, per grandi linee, all’offerta elettorale delle coalizioni. Il lavoro autonomo opta per un’offerta che lo valorizzi mentre il lavoro dipendente pubblico opta per un’offerta che lo difenda. Nel settore privato i dirigenti sembrano poco inclini ad assecondare ipotesi ultraliberiste, al contrario degli operai che, pur dividendosi, votano a maggioranza per Forza Italia, tradizionalmente schierata su posizioni di politica economica di stampo neoliberale orientate su una più marcata deregolazione del mercato del lavoro. Berlusconi è stato capace di trasmettere un messaggio di fiducia e di speranza tra gli elettori sensibili a valori ‘materialisti’, per usare la celebre dizione del sociologo Ronald Inglehart, cioè quei valori mossi dal bisogno di soddisfare interessi materiali di natura economica; ecco perché operai, pensionati e giovani disoccupati si sono rivolti al centro-destra da cui provenivano promesse (rimaste perlopiù disattese) di lavoro e di pensioni più dignitose. Il centro-sinistra e i Ds hanno invece raccolto il consenso, peraltro minoritario, di quei cittadini orientati a valori ‘post-materialisti’, slegati dalla natura pragmatica e materiale degli interessi economici e più inclini a questioni ideali di ampio respiro, come la qualità della vita e dell’ambiente, le questioni europee e di politica internazionale.
Rimanere su un terreno valoriale e post-materialista non è sufficiente e lo dimostrano i dati elettorali. Quando si parla di sinistra dei valori occorre fare i conti con il con il fatto che in politica (a sinistra più che a destra) la semplice dichiarazione valoriale serve a poco se quei valori non vengono ricondotti a interessi concreti di specifici referenti sociali e se non si lavora per far sì che quegli interessi si trasformino in diritti da tutelare. Spesso, a sinistra, si sente parlare di libertà (troppo), di laicità (troppo poco), valori sacrosanti peraltro propri della tradizione liberale più che socialista, assai di rado, invece, si sente parlare di giustizia sociale, come ha notato Asor Rosa, un concetto sì astratto ma fortemente connesso alla natura materiale degli interessi economici che, volenti o nolenti, rimangono la principale bussola nelle scelte elettorali dei cittadini italiani.
Una sinistra dalla cultura sbiadita e priva di un'organizzazione capillare sembra perdere il senso della sua tradizionale funzione sociale e politica e viene surclassata legittimamente da un partito senza precisi referenti culturali e con una struttura organizzativa ancora tutt'altro che definita, o sostituita, per quanto possibile in una democrazia rappresentativa, da un movimento civico diffuso come quello che sta nuovamente appassionando il popolo di sinistra negli ultimi mesi. Per recuperare consensi i Ds, è indubbio, dovrebbero attivare processi di ridefinizione culturale, da un lato, e organizzativa dall’altro, pensando a una cultura di sinistra in un partito di sinistra capace di gestire il cambiamento attraverso progetti di vita futura. Si tratta di rompere con la tradizionale e per certi aspetti ottocentesca contrapposizione tra riformisti e massimalisti, nella lucida coscienza che il riformismo democratico non possa fare a meno di un minimo di radicalismo ideale in grado di dare un fondamento culturale a una rappresentazione simbolica di quel che sarà.
Allo stesso modo la sinistra democratica dovrebbe dialogare senza troppe remore con il movimento no-global o new-global, che pur nelle tante contraddizioni e nella sostanziale frammentarietà politico-progettuale, rappresenta al momento l’unica forma di riflessione critica nei confronti di un dilagante conformismo sociale e di una mondializzazione neo-capitalistica foriera di disuguaglianze e nuove forme di subalternità e sfruttamento. Non si tratta di sciogliersi nel movimento, sarebbe assurdo e non auspicabile, ma di fornire ad esso un valido referente politico nelle sedi istituzionali, nazionali e sovra-nazionali, oltre a dare un contributo di sintesi nella attuale frammentarietà programmatica.
Cultura della legalità, cultura dei diritti sociali, cultura del cambiamento e riflessione critica dei processi di modernizzazione oltre a un partito organizzato e radicato, sono dunque gli elementi che al momento occorrerebbero alla sinistra per ritrovare una identità politica e sociale. Si è detto, spesso in maniera critica, che i movimenti di questi mesi non rappresentano altro che un caso di supplenza sociale alla politica. Forse è vero, ma allora, dove sta la politica?
(1) Si veda a questo riguardo l’ultima monografia Ronald Inglehart titolata, nella sua traduzione italiana, La società postmoderna, Roma, Editori Riuniti, 1998. (2) Ci si riferisce all’articolo intitolato Indignati e innocenti, pubblicato sul ‘Diario’ del 7 marzo 2002. (3) Si veda a tal riguardo il saggio di Ornello Vitali, Base sociale, distribuzione regionale e flussi elettorali, in Menniti D. (a cura di), Forza Italia. Radiografia di un evento, Roma, Ideazione Editrice, 1997, p.31. (4) A questo riguardo si consiglia vivamente la lettura dell’ultimo saggio di Emanuela Poli, Forza Italia. Struttura, leadership e radicamento territoriale, Bologna, Il Mulino, 2001. (5) Tutte le informazioni sui flussi elettorali delle politiche del 13 maggio sono rintracciabili nell’interessante saggio, Perché ha vinto il centro-destra, Bologna, Il Mulino, 2001, pubblicato nell’ambito del progetto di ricerca ITANES.
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