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Saggi
Utilità e capacità. Un esame dell'etica sociale di Amartya Sen
di Sergio Filippo Magni
Oggetto di questo articolo è una ricostruzione della teoria etica normativa proposta in alcuni recenti saggi dall'economista e filosofo di origini indiane Amartya Sen, premio Nobel per l'economia nel 1998.
Quella di Sen è un'etica di carattere sociale o pubblico, ed in quanto tale distinta da un'etica individuale. L'interesse non è tanto rivolto a fornire criteri per valutare la giustezza delle azioni individuali, e stabilire ciò che il singolo deve fare nella propria condotta personale, quanto quello di proporre criteri per effettuare scelte di pubblico interesse, "per la formulazione dei giudizi sugli assetti sociali e le politiche pubbliche" [1992b, p. 94]: stabilire cosa si deve fare di fronte a problemi quali l'ineguaglianza, la povertà, le carestie, o di fronte alla valutazione di differenti politiche e modelli sociali.
Procederò articolando questo lavoro in cinque sezioni. La prima dedicata alla presentazione della teoria etica in opposizione alla quale Sen caratterizza la propria posizione: l'utilitarismo; uno degli aspetti teoricamente fecondi di tutta la critica è proprio l'aiuto a formulare quella che può essere definita come una versione standard dell'utilitarismo. La seconda dedicata ad esaminare le principali critiche ad essa rivolte; la terza e la quarta a delineare la pars costruens della proposta normativa seniana. Alcune brevi osservazioni sono contenute nella quinta sezione.
1. La struttura dell'utilitarismo
Sen tiene sempre distinta una generale teoria normativa consequenzialista dall'utilitarismo: l'utilitarismo è solo una delle possibili teorie consequenzialiste, sebbene la principale. Criticare l'utilitarismo non significa quindi rifiutare di per sé il consequenzialismo. Diversamente da quanto fa Bernard Williams in A Critique of Utilitarianism, il suo scopo è anzi quello "di fornire una critica dell'utilitarismo senza porre in discussione l'accettabilità del consequenzialismo" [1979, p. 179]. La stessa proposta normativa seniana può essere definita, si vedrà nel § 3, come una forma di consequenzialismo non utilitarista: la "sensibilità alle conseguenze" viene perciò ritenuta uno dei "pregi" dell'utilitarismo [1999, p. 65]. Anche se si considerano, come fanno le teorie deontologiche, alcune attività dotate di valore intrinseco, ciò non dovrebbe dispensare dall'ignorare le conseguenze, per la semplice considerazione che ogni azione ha di per sé delle conseguenze: "la necessità di un ragionamento consequenziale - dice Sen - deriva dal fatto che le attività hanno delle conseguenze [...]. Il valore intrinseco di una qualsivoglia attività non è una ragione adeguata per ignorare il suo ruolo strumentale" [1987, p. 94].
Sen è poi interessato ad individuare una sorta di "struttura utilitaristica" condivisa dalle varie forme di utilitarismo (utilitarismo dell'atto, utilitarismo della regola, utilitarismo della motivazione1), le quali si presentano perciò come possibili varianti di essa. Questa struttura è composta da due elementi: il primo elemento (a) è il consequenzialismo, per il quale la giustezza di una azione (o di una regola, o di una motivazione) dipende dalla bontà degli stati di cose ad esso conseguenti: esso è - dice Sen - un metodo per valutare le azioni, le regole, le motivazioni [1979, p. 182]. L'altro elemento (b) è il cosiddetto utilitarismo del risultato, il quale "identifica la bontà di uno stato con la somma complessiva delle utilità individuali ad esso associate" [1979, p. 179]: ed è perciò un metodo per valutare gli stati di cose.
Come appare già dalla formulazione, quest'ultimo elemento implica concettualmente altri due principi: (b1) il principio dell'ordinamento-somma, per cui il metodo di aggregazione adeguato nella valutazione delle utilità (di una azione, di una norma, di una motivazione) in una data situazione è la somma totale di tutte le utilità individuali che si hanno in quella situazione; (b2) il welfarismo, per il quale il criterio per definire la bontà di uno stato è lo star-bene individuale (well-being2), concepito come l'insieme delle utilità individuali (una volta definita l'"utilità" come "la concezione che una persona ha del proprio star-bene", e senza entrare nelle "interpretazioni alternative di tale concetto, in termini di "piacere" o di "desiderio"" [1979, p. 179]). "L'utilitarismo è la combinazione di welfarismo, ordinamento-somma e consequenzialismo" [1982, p. 9]3.
Il welfarismo si presenta così come la teoria del bene propria della teoria etica utilitarista, nella quale "si considera l'utilità come l'unica cosa di valore intrinseco" [1987, p. 51; e 53]. Esso sostiene che uno stato di cose è da ritenersi migliore di un altro se comporta un'utilità maggiore per almeno un individuo rispetto all'altro (principio definito da Sen "principio paretiano"4 [1979, p. 180]); e, in una sua variante, che uno stato di cose è da ritenersi migliore di un altro solo se comporta un'utilità maggiore per tutti gli individui (principio definito, citando K. S. Arrow, "principio paretiano debole" [1979, p. 180]). Per il welfarismo di entrambe la varianti se due stati di cose sono identici per le utilità individuali, essi devono essere giudicati ugualmente buoni, indipendentemente dalla loro diversità per aspetti non connessi alle utilità individuali.
2. Le critiche all'utilitarismo
Accettato, come si è detto, il consequenzialismo, le critiche di Sen si rivolgono all'"utilitarismo del risultato". E poiché questa è una struttura condivisa dalle differenti versioni dell'utilitarismo, la critica ad esso è applicabile a tutte queste varianti [1979, p. 184].
L'utilitarismo del risultato presenta, secondo Sen, difficoltà, in entrambi i due principi che lo costituiscono: l'ordinamento-somma ed il welfarismo. L'ordinamento-somma si trova di fronte al problema di non considerare moralmente rilevante una distribuzione ineguale delle utilità. Per questa indifferenza alla distribuzione, esso contrasta, dice Sen, con il "nostro interesse per l'uguaglianza delle utilità" [1979, p. 185]; è cioè in conflitto con un principio morale che comunemente siamo portati ad ammettere, il principio di equità, il quale prescrive un'equa distribuzione inter-personale (fra differenti persone) dell'utilità5.
Il welfarismo comporta invece nella procedura di valutazione l'assunzione di un "vincolo informativo" troppo stretto. Esso ritiene, infatti, l'informazione concernente l'utilità personale una condizione sufficiente per la valutazione degli stati di cose, senza richiedere altri tipi di informazione. "L'uso di informazioni non concernenti l'utilità viene confinato all'analisi strumentale o al ruolo di surrogato delle informazioni sull'utilità, quando queste ultime sono incomplete" [1979, p. 194]. L'assunzione di questo vincolo conduce a conseguenze paradossali. In base ad esso due coppie di situazioni differenti (x-y, a-b) che hanno le stesse informazioni di utilità ma diverse informazioni alternative andrebbero ordinate esattamente nello stesso modo: se in base ad informazioni di utilità la situazione y che prevede una tassazione redistributiva è migliore della situazione x che non la prevede allora, in base alla stessa informazione di utilità, anche la situazione b che prevede la presenza di tortura sarebbe migliore della situazione a che non la prevede [1979, pp. 189 s]. Tuttavia, osserva Sen, comunemente non si è disposti a ritenere il caso con tortura migliore di quello senza: "per poter discriminare fra le due coppie di situazioni è necessario introdurre informazioni non afferenti l'utilità" [1979, p. 190]. La presenza della tortura fa, cioè, considerare diversamente il valore di due stati di cose. La valutazione di una situazione in termini della sola utilità o del solo star-bene individuale non appare in grado di rendere conto del modo in cui si articolano i nostri giudizi morali: essa sembra andare contro la comune concezione della moralità. L'utilità non andrebbe perciò considerata l'unico criterio sufficiente per determinarne il valore. Occorre così rifiutare il welfarismo.
Questa difficoltà vale anche per l'altra versione del welfarismo nel quale è l'utilità di ciascun individuo il criterio per decidere il valore della situazione (principio paretiano debole): difficoltà espressa da Sen nella impossibilità teorica di un paretiano liberale, di chi cioè intende assumere il criterio di valutazione paretiano ed insieme attribuire valore intrinseco ad alcuni diritti come il rispetto della libertà di scelta e dei desideri personali (informazioni di per sé non concernenti l'utilità) [1979, pp. 196 s; 1983, pp. 5 ss; Sen-Williams 1982, p. 12]. Viene così evidenziato un fattore di debolezza dell'utilitarismo: esso non riesce a rendere conto dell'importanza intrinseca del rispetto delle libertà personali e dei diritti, riservando ad essi un ruolo meramente strumentale rispetto all'utilità [1999, p. 67].
Questa ristrettezza del vincolo informativo presente nell'utilitarismo, con la conseguente sottovalutazione dei diritti e delle libertà, dipende da altre assunzioni teoriche che devono, per Sen, essere ugualmente rifiutate. Più in generale, infatti, non è sostenibile: (a) l'identificazione dello star-bene di una persona con l'utilità; secondariamente, (b) lo star-bene non può essere considerato l'unica cosa dotata di valore; infine (c) non appare convincente la concezione della persona presente nelle teorie utilitariste.
Riguardo ad (a), dice Sen, nella letteratura utilitarista il termine utilità è stato assunto come sinonimo di due diverse condizioni soggettive: della felicità (o del piacere), e dell'appagamento dei desideri (o delle preferenze), per cui l'utilità si identifica con uno stato mentale individuale. Entrambe le caratterizzazioni dell'utilità sembrano però fallire come criteri per identificare lo star-bene, il quale viene concepito come uno stato non solo mentale ma anche fisico dell'individuo [1985, pp. 188 ss]. Oltre alle difficoltà generali riguardanti la misurazione dell'utilità (come ottenere una misura oggettiva per stati mentali soggettivi come la felicità o la soddisfazione dei desideri o delle preferenze?) e la possibilità di confronti interpersonali di utilità, l'identificazione dello star-bene con l'utilità non è in grado di cogliere il fenomeno dell'adattamento mentale a situazioni di estrema povertà, con il conseguente adattamento al ribasso dei desideri e della felicità. Sulla misurazione della felicità o di ciò che si desidera possono infatti riflettersi circostanze contingenti: "sia ciò che ci si aspetta che la vita possa dare, sia ciò che correlativamente si pensa di aver ricevuto" [1987, p. 59], ed occorre quindi tenere presenti "le distorsioni che si generano quando le condizioni soggettive del piacere e del desiderio si adeguano a situazioni di persistente diseguaglianza" [1990, p. 29; 1992b, p. 83]. "La misura dell'utilità può isolare l'etica sociale dalla valutazione dell'intensità della privazione del lavoratore precario, del disoccupato cronico [...], i quali hanno imparato a tenere sotto controllo i loro desideri e a trarre il massimo piacere da minime gratificazioni" [1990, p. 30]: "il calcolo utilitaristico può essere profondamente iniquo verso chi è deprivato in modo permanente" [1999, p. 67]. In questi casi si vorrebbe invece parlare di una diminuzione dello star-bene della persona, sebbene non si abbia una diminuzione dell'utilità6.
Il punto (b), il fatto cioè che lo star-bene sia considerato l'unica cosa di valore intrinseco, si presenta strettamente collegato al punto (c), alla concezione della persona dell'utilitarismo. E' l'eccessiva ristrettezza del concetto utilitaristico della persona che comporta l'adozione di un modello di motivazione basata esclusivamente sull'interesse personale e la ricerca dello star-bene come unica cosa dotata di valore. L'utilitarismo vede le persone solo come "localizzazioni delle loro rispettive utilità", e non ha alcun interesse ad altre informazioni su di esse [Sen-Williams 1982, p. 9]. Ma, obietta Sen, "una persona può assegnare valore alla rimozione di certe cause e al verificarsi di certe cose, anche se l'importanza riconosciuta ai successi in queste materie non si riflette nell'avanzamento del suo star-bene personale" [1987, p. 54]. Una volta ammesse altre motivazioni oltre quella dell'interesse personale, pare plausibile sostenere che l'azione di una persona possa indirizzarsi a scopi che non riguardano il suo star-bene. La persona va infatti considerata per Sen non solo in termini di interesse personale e raggiungimento dello star-bene, ma anche di attività (agency), nella sua capacità, cioè "di dar forma a obiettivi, impegni, valori" [1987, p. 54].
La conseguenza è che in questo modo per Sen viene meno la plausibilità della teoria monistica del bene propria dell'etica utilitarista: non appare possibile considerare il bene etico sommabile e misurabile, né appare possibile ridurre tutti i beni ad una grandezza descrittiva omogenea come l'utilità. Ci si deve invece spingere, per Sen, al riconoscimento "della pluralità e diversità dei beni" [1987, p. 80].
3. Star-bene, attività e libertà.
Come si è osservato, Sen non intende criticare l'aspetto consequenzialista dell'etica utilitarista. Esso anzi viene accettato come caratterizzante la concezione normativa da lui avanzata, la quale in opposizione alle teorie deontologiche è essa stessa una teoria di carattere consequenzialista, cioè basata su una valutazione di carattere consequenziale (consequential evaluation [2000 pp. 477 ss]), sebbene non di carattere welfaristico come l'utilitarismo.
Lo star-bene della persona non si presenta nell'etica sociale a cui Sen è interessato come l'unica informazione rilevante per la valutazione. Esso deve essere ritenuto una informazione rilevante (ed è questo un "pregio" dell'utilitarismo [1999, p. 65]), ma non esclusiva. Alle acquisizioni, cioè ai risultati, ai successi conseguiti, in termini di star-bene Sen aggiunge infatti le acquisizioni, i risultati, i successi conseguiti, in termini di attività della persona, agency. L'attività di una persona può essere diretta ai più disparati obiettivi (basta che siano obiettivi e fini motivati anziché "ispirati da un impulso o una fantasia" [1992b, p. 86]), indipendentemente dal fatto che essi siano in relazione diretta con lo star-bene. "Una persona in quanto agente non è necessariamente guidata solamente dal proprio star-bene e le acquisizioni dell'attività si riferiscono ai successi conseguiti nel perseguire la totalità degli obiettivi e fini che essa prende in considerazione" [1992b, p. 85]. Le due variabili sono ovviamente collegate (il successo dell'attività della persona può influire sul suo livello di star-bene, e "il perseguimento dello star-bene può essere uno degli obiettivi importanti della persona"); ma cogliere questo collegamento non deve far dimenticare la loro indipendenza [1992b, p. 86]. "Nella misura in cui il calcolo dello star-bene basato sull'utilità si sofferma solo sullo star-bene della persona, ignorando l'aspetto dell'attività, o addirittura non distingue fra l'aspetto dell'attività e l'aspetto del star-bene, va perduto qualcosa di veramente importante" [1987, pp. 57 s].
Tuttavia per Sen non ci si può limitare ad una valutazione dei successi conseguiti, delle acquisizioni, dei risultati raggiunti, sia in termini di star-bene sia di attività. Accanto ai risultati effettivamente raggiunti va infatti considerata anche la libertà della persona di aquisirli, la libertà di conseguire il proprio star-bene, libertà di star-bene, così come di conseguire gli altri obiettivi dell'agire, libertà di attività [1985, pp. 203 ss; 1987, pp. 61 s; 1991, pp. 103 s; 1992b, p. 86], la quale "rappresenta una libertà di tipo più generale - la libertà di acquisire qualsiasi obiettivo una persona abbia (presumibilmente ben al di là del perseguimento del proprio star-bene" [1992b, p. 65]). Sen individua così "quattro categorie distinte di informazioni rilevanti" in ogni valutazione sociale (e quindi quattro possibili tipi di valutazione): "1) le acquisizioni in termini di star-bene (well-being achievement), 2) le acquisizioni in termini di attività (agency achievement), 3) la libertà in termini di star-bene (well-being freedom), 4) la libertà in termini di attività (agency freedom)" [1991, p. 104; 1987, p. 78].
A prima vista la separazione fra i due tipi di acquisizioni e di libertà potrebbe apparire superflua, Sen è tuttavia convinto della sua utilità. Innanzitutto fra le due libertà possono sorgere conflitti: un accrescimento della libertà di attività può condurre ad una riduzione della libertà di star-bene [1992b, p. 90], e tutto ciò rischia di non essere colto se non si opera la distinzione. Secondariamente, è vero che l'acquisizione dello star-bene rientra all'interno delle varie acquisizioni dell'attività, e che la ricerca dello star-bene è solo uno fra i tanti obiettivi dell'attività, tuttavia la distinzione è importante per il ruolo che allo star-bene è riconosciuto nella definizione dei compiti di un'etica sociale, cioè per "l'analisi della disuguaglianza sociale e la valutazione delle politiche pubbliche" [1992b, p. 105]. "I problemi di ingiustizia sociale e di iniquità fra classi e gruppi sono strettamente legati a profonde differenze di star-bene", e verrebbero persi da una attenzione rivolta indifferentemente ai vari obiettivi dell'attività [1992b, p. 105].
4. L'approccio delle capacità.
La proposta normativa seniana intende invece dar conto sia della "libertà di acquisire", sia delle "effettive acquisizioni" [1992b, p. 53]. Rispetto all'utilitarismo essa propone una diversa identificazione di quello che Sen definisce lo "spazio di valutazione", cioè l'insieme dei possibili oggetti di valore [1991, p. 98; 1992b p. 68]. A partire da un saggio del 1980 (Equality of what?), nel quale per la prima volta viene esplicitamente avanzato il cosiddetto "approccio delle capacità" (capabilities approach) [1980, pp. 357 ss]), esso viene identificato nella capacità (capability) di una persona di realizzare le "combinazioni alternative di cose che [...] è in grado di fare o di essere", chiamate da Sen funzionamenti (functionings) [1991, p. 94; 1992b, pp. 67 ss]7. "L'approccio della capacità è fondamentalmente attento all'identificazione degli oggetti di valore e concepisce lo spazio di valutazione in termini di funzionamenti e di capacità di funzionare" [1992b, p. 68; 1991, p. 98].
Questo approccio riesce per Sen a rendere conto di ciascuna delle quattro categorie di informazioni che devono essere tenute presenti nell'esercizio di valutazione: lo star-bene può infatti essere interpretato come il possesso da parte della persona di determinati funzionamenti e delle corrispettive capacità ("i funzionamenti rilevanti per lo star-bene variano da quelli più elementari, quali l'evitare gli stati di morbilità e di mortalità, essere adeguatamente nutriti, avere mobilità, e così via, a numerosi altri funzionamenti più complessi, quali l'essere felici, raggiungere il rispetto di sé, prendere parte alla vita della comunità", ecc. [1991, p. 106]); e lo stesso si può dire per caratterizzare i vari obiettivi dell'attività, i quali possono essere definiti come i vari funzionamenti a cui la persona decide di attribuire valore.
Per le libertà poi il discorso si fa ancora più semplice, finendo esse per coincidere con le capacità della persona: "dall'insieme delle capacità di una persona si riflette la sua libertà di condurre differenti tipi di vita" [1991, p. 100; 1992b, p. 64]. La capacità di una persona è, dice Sen, la sua "libertà sostanziale" [1999, p. 78]: si è, in questa prospettiva, liberi di fare una certa cosa solo in quanto si è dotati della capacità di farla, dotati del "potere effettivo di acquisire ciò che si sceglierebbe" [1992b, p. 101]. Riprendendo la ripartizione proposta da Isaiah Berlin, Sen distingue fra due concezioni della libertà: la nozione di libertà può essere usata "in senso negativo", come "libertà da", la quale "si concentra precisamente sull'assenza di una serie di limitazioni che una persona può imporre ad un'altra (o che lo stato o altre istituzioni possono imporre agli individui" [1990, p. 24]; ed "in senso positivo", come "libertà di", la quale "riguarda ciò che, tenuto conto di tutto, una persona può o meno conseguire" [1990, p. 24]8. Nell'approccio delle capacità la nozione di libertà viene adoperata principalmente in senso positivo: una persona è libera in quanto è dotata della capacità. "Le capacità sono nozioni di libertà, nel senso positivo del termine: quali opportunità reali si hanno per quanto riguarda la vita che si può condurre" [1992a, p. 87].
Al contrario dell'utilitarismo attento solo alle acquisizioni in termini di star-bene, l'etica sociale delineata da Sen presta attenzione sia alle effettive acquisizioni, ai vari funzionamenti realizzati della persona (non limitati al solo star-bene ma estesi a tutti gli altri obiettivi motivati) sia alla presenza della capacità, cioè della libertà di scegliere e realizzare questi obiettivi. "La capacità di una persona nell'acquisire funzionamenti cui egli (o ella) ha motivo di attribuire valore configura un approccio generale alla valutazione degli assetti sociali" [1992b, pp. 19 s]. Un assetto sociale (o una determinata politica pubblica) è tanto migliore quanto più consente agli individui (a tutti gli individui: l'attenzione di Sen è infatti verso l'uguaglianza delle capacità) di avere maggiori capacità di conseguire funzionamenti di valore: "la scelta fra diversi assetti sociali deve venire influenzata dalla loro attitudine a promuovere le capacità umane" [1990, p. 34].
Quali funzionamenti considerare rilevanti, e quindi quali capacità cercare di incrementare resta comunque un problema di valutazione e di scelta, ed in quanto tale un problema aperto. "L'enfasi posta sullo spazio dei funzionamenti non implica che ogni funzionamento debba esser considerato di uguale valore" [1991, p. 97], dice Sen. La specificazione di quali oggetti sono di valore è poi indipendente dalla questione di quale è il valore attribuibile ai rispettivi oggetti; solo attraverso una procedura di graduale accordo si può arrivare a questa specificazione e successivamente a quella dei diversi pesi da attribuire alle capacità ed ai funzionamenti selezionati come rilevanti, e quindi a stabilire fra di essi un ordinamento di valore. Un ordinamento che, sebbene non possa essere completo, può almeno essere parziale, "ordinamento parziale di dominanza"9, in base al quale operare nell'esercizio di valutazione, fino a che non si è in grado di raggiungere un accordo su ordinamenti di valore più stringenti [1991, p. 98; 1992a pp. 76 s]. Alcuni funzionamenti e le rispettive capacità possono essere giudicate fondamentali (ad es. la capacità di non morire di fame o di malattia, nella valutazione della povertà o del tenore di vita di qualsiasi tipo di società), altri possono invece essere ritenuti rilevanti solo per la valutazione di determinati assetti sociali (ad es. il livello dei servizi sanitari e dell'istruzione nella valutazione della povertà o del tenore di vita di assetti sociali avanzati [1990, p. 35]).
E' comunque una procedura di scelta e di decisione pubblica che risente dell'insieme di conoscenze, della cultura, e dei valori presenti nella società in cui viene effettuata e che difficilmente può giungere ad un accordo definitivo. Sen rifiuta di percorrere strade di oggettivismo metaetico, in grado di individuare un insieme chiuso di funzionamenti e capacità, tali da costituire il bene morale [1991, pp. 124 ss]: è quanto replica a Martha Nussbaum, che gli rimprovera la mancata adesione ad una forma di oggettivismo etico di carattere aristotelico per il quale "vi è un solo elenco di funzionamenti [...] che nei fatti costituisce il buon vivere umano" [Nussbaum 1988, p. 152, e p. 176]. La sua proposta normativa non ha la pretesa di eliminare il disaccordo, il quale viene anzi riconosciuto all'interno dello stesso approccio delle capacità, da questo punto di vista caratterizzato da una "incompletezza" di fondo. Una "indecibilità residua [...] - dice Sen - non dovrebbe esser fonte di imbarazzo, poiché essa non fa altro che riflettere la circostanza che quando vi sono valutazioni parzialmente dissenzienti non si può raggiungere un accordo completo" [1992b, p. 74].
L'approccio delle capacità propone così quella che potrebbe essere definita una teoria generale della valutazione, l'identificazione di uno "spazio" di oggetti di valore costituito dai funzionamenti e dalle capacità, ma non ha la pretesa di fissare definitivamente quali fra i differenti funzionamenti e capacità considerare di valore e quale valore attribuire ad essi. Un accordo sull'uso dell'approccio della capacità può coesistere con un disaccordo su quali funzionamenti e capacità considerare di valore, su quale siano i loro valori relativi, così come sulla procedura per stabilire questi valori relativi [1991, pp. 128 ss]. "Teorie specifiche del valore tra loro diverse - dice Sen - possono risultare coerenti con l'approccio delle capacità e condividere la caratteristica comune di selezionare all'interno dei funzionamenti e delle capacità gli oggetti di valore" [1991, p. 128]. In questo modo l'insieme dei possibili oggetti di valore risulta amplissimo, "forse infinito" [1992a, p. 75], coincidendo con le capacità della persona di realizzare tutte le cose che essa è in grado di fare o di essere; amplissimo e indefinito fino a quando non viene raggiunto un qualche accordo parziale sulla sua identificazione.
Anziché costituire un difetto, questa caratteristica di "incompletezza" è considerata da Sen come uno degli elementi di forza della prospettiva delle capacità. Essa infatti è in grado di rendere conto della ineliminabile diversità umana dal punto di vista delle caratteristiche fisiche e mentali, delle condizioni ambientali, della proprietà di beni, ecc. Al contrario di quello che fa la teoria del valore utilitarista, che attribuisce valore "alla sola felicità" o alla "sola realizzazione dei desideri" [1991, p. 129], l'approccio delle capacità non ha la pretesa di ridurre tutta questa complessità [1992b, pp. 15 ss].
5. Osservazioni
Nasce tuttavia il dubbio se, oltre ad essere estremamente generale, questa proposta normativa non corra il rischio di essere anche generica. Pur ammesso che gli argomenti di Sen a favore di uno spazio di valutazione costituito dalle capacità e dai funzionamenti, argomenti per lo più desunti dalle critiche alle teorie alternative (l'utilitarismo, Rawls, i libertari), siano validi, rimangono aperte altre questioni. Innanzitutto l'ampiezza dello spazio di valutazione, costituito da capacità e funzionamenti senza alcuna restrizione iniziale, pone un problema ad una teoria normativa che ha la pretesa di fissare criteri guida per le politiche pubbliche. L'estensione di quello spazio è infatti tanto ampia da coprire tutto ciò che ha attinenza con l'attività e la capacità individuale, ma ciò potrebbe equivalere a dire che è troppo ampia: il problema del criterio di selezione di quali attività e capacità considerare rilevanti non viene risolto, ma solo spostato all'interno della procedura di accordo e di discussione pubblica.
Inoltre, in base a quali criteri si stabiliscono quali capacità e quali funzionamenti preferire all'interno dell'insieme capacità e funzionamenti? Non, ovviamente, facendo ricorso al criterio delle capacità e dei funzionamenti (pena un ragionamento evidentemente circolare), piuttosto facendo riferimento ad altri criteri e ad altri valori. Tuttavia l'approccio delle capacità non specifica quali valori preferire, rispetto a quali altri: l'accettazione dello spazio di valutazione costituito da capacità e funzionamenti risulta compatibile con qualsiasi impostazione assiologico-normativa. Teorie etiche in profondo disaccordo potrebbero condividere quello spazio di valutazione (ed anche il richiamo generale all'uguaglianza delle capacità) e tuttavia divergere nettamente su quali capacità e quali funzionamenti considerare rilevanti: un nazista, ad esempio, potrebbe concordare con noi su quello spazio, ma selezionare capacità e funzionamenti che noi riterremmo invece immorali.
La teoria di Sen rimane su questo punto aperta, il che può anche voler dire vaga ed indeterminata. Il rischio è allora quello di non riuscire come guida in questioni di etica pubblica, cioè proprio in quello che essa si prefigge come compito. Di fronte alla scelta di quali capacità e funzionamenti considerare rilevanti, essa si presenta, in fin dei conti, come assiologicamente neutrale: esattamente ciò che, come teoria normativa e non metaetica, dovrebbe evitare.
Note
Riferimenti
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