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Note

Antonio Negri

Le sinistre e la guerra.

Intervista a cura di Carlo Cavaglià

 

Un'indicazione illuminante di riflessione ci è offerta dal panorama librario internazionale. Vogliamo riferirci a due bestseller presentati con grande rilievo soprattutto dalla stampa americana, inglese e francese: Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione di Michael Hardt e Antonio Negri (Cambridge, The President and Fellow of Harvard College, 2000; traduzione italiana: Milano,Rizzoli,2001) e 11 settembre. Le ragioni di chi? di Noam Chomsky (New York, Seven Stories Press, 2001; traduzione italiana: Milano, Tropea, 2001). Due opere che rompono clamorosamente la cortina di conformismo che incombe sulla visione del mondo di una larga parte dell'opinione pubblica, annullando ogni salutare spirito critico.

Noti i profili di questi due studiosi.

Nato a Filadelfia negli Stati Uniti nel 1928, Noam Chomsky è uno dei più autorevoli linguisti contemporanei. Fondatore e caposcuola del trasformazionismo, insegna dal 1955 al Massachusetts Institute of Technology di Boston. Tra i suoi scritti: Le strutture della sintassi (1957), Aspetti della teoria della sintassi (1965), Linguistica cartesiana (1966), Le strutture fonologiche dell'inglese (1968, in collaborazione con M. Halle), La conoscenza del linguaggio (1985). Ininterrotto il suo impegno politico. Come pacifista radicale ha combattuto contro l'imperialismo americano, criticando tra l'altro l'intervento nel Vietnam, di cui è testimonianza il volume I nuovi mandarini (1969).

Nato a Padova nel 1933, Antonio Negri si è laureato in Filosofia. E' stato professore ordinario di Dottrina dello Stato nell'Università di Padova. Nel 1978 è stato invitato da Louis Althusser a tenere un corso su Marx all'Ecole Normale Supérieure di Parigi. Sempre nella capitale francese ha insegnato successivamente nell'Università Paris VIII. E' stato uno dei leader del '68, al vertice del Movimento di Potere Operaio. A causa della sua militanza politica nell'opposizione extraparlamentare ha subìto processi e il carcere. Tra le sue opere: La forma Stato. Per la critica dell'economia politica della Costituzione (1978), Marx oltre Marx (1979), Il lavoro di Dioniso (1995, in collaborazione con Michael Hardt), Spinoza (1999), Lenta Ginestra. L'ontologia di Giacomo Leopardi (2001), Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno (2002).

Con il volume 11 settembre Noam Chomsky in opposizione alle facili e semplificate interpretazioni correnti ha espresso un giudizio spregiudicato e rigoroso a proposito della drammatica azione terroristica che ha colpito New York, ponendosi due interrogativi: gli Stati Uniti sono veramente innocenti? Sono solo delle vittime o anche autori di terrorismo? La risposta è questa: non si possono cancellare dalla memoria alcune pagine inquietanti della storia recente che vanno dal Vietnam (1965) a Kabul (1979), da Beirut (1985) a Bagdad (1991), da Al Shifa (1998) fino alla ex Iugoslavia e all'Afghanistan. In altri termini il concetto di guerra è intrinseco al capitalismo e alla sua inarrestabile dinamica espansionistica.

Nel libro Impero di Michael Hardt e Antonio Negri troviamo un ampio approfondimento delle vicende storiche passate e presenti che dominano lo sviluppo sociale, con precise incidenze a livello individuale, dalla formazione dello Stato-nazione e dei vari imperialismi alla nascita di un Impero di dimensioni globali. Di fronte al potere di pochi privilegiati si oppone la moltitudine degli espropriati che rappresentano una vera e propria svolta rivoluzionaria con un volto nuovo.

Con questa intervista ci rivolgiamo ad Antonio Negri per una risposta a tre domande riguardanti le Sinistre e la guerra, tema collegato alle differenze esistenti nella stessa Sinistra e all'importanza che gioca in questo contesto il patrimonio culturale acquisito.

Sia per i capitalisti sia per le classi subalterne fino a quelle più povere e affamate del Terzo Mondo, la guerra sembra un concetto 'ineludibile'. C'è guerra a difesa del profitto e ci sono rivoluzioni e guerriglie per combattere i soprusi del profitto ora globalizzato. I bizantinismi giuridici (bellum justum, jus ad bellum, jus in bello, jus contra bellum) hanno risolto poco o nulla. La pace nel nostro mondo è soltanto un utopia o rappresenta una possibile alternativa alle feroci carneficine della guerra?

E' una domanda, si dice, da quanti milioni? Non so. Non so bene. E' difficile rispondere. Non so bene da che punto prenderlo, il problema. Credo che comunque lo si prenda non ci sia una risposta lineare. La guerra è lì davanti a noi con il peso di cose orribili che conduce con sé e sembra che sia impossibile toglierla da questa prospettiva storica breve. In effetti la guerra, nella crisi dello sviluppo capitalistico medio, nella crisi di quelle che sono le stesse ragioni dell'esistere e del perpetuarsi del sistema capitalistico, diventa sempre di più elemento fondamentale, ordinativo del mondo. Se assumiamo il fatto che gli ordinamenti del diritto, sia quelli del diritto internazionale sia quelli del diritto pubblico interno, vengono meno nella misura in cui la sovranità si trasferisce verso un apice imperiale, ecco in questi termini noi dobbiamo considerare che si presenta una specie di caos giuridico o meglio una situazione in cui tutto diventa estremamente confuso, quali che siano le regole non più semplicemente tra Stati, tra Stati-nazione, non più semplicemente tra cittadini, Stato-nazione e il complesso di Stati-nazione, ma sullo stesso terreno dell'economia politica e quindi dello sviluppo degli ordinamenti multinazionali delle imprese, sullo sviluppo di quelle che sono tutte le norme, le regole che riguardano l'ambiente, la gestione della vita. Viviamo in una situazione che è di transizione. E' una situazione di transizione nella quale una nuova determinazione di regole è esigita. Da dove arriveranno queste regole? E' chiaro. Oggi c'è un capitale multinazionale che comanda sul mondo, ma senza avere più gli strumenti di trasmissione delle proprie regole, della propria volontà che esso ha avuto dal 1600 a oggi. Questo significa che lo Stato moderno è finito.

Le regole del diritto internazionale sono esaurite. Le regole del diritto pubblico interno si sono, come minimo, affievolite e comunque siamo anche in questo caso nel caos. Nella situazione di caos la guerra diventa un elemento decisivo, esprime il comando, esprime una potenza. La guerra diventa ordinativa. Siamo di fronte a quello che è un fenomeno molto strano: le guerre non sono più risse tra nazioni che si mettevano l'una contro l'altra per massacrarsi. Non siamo neppure più nella situazione molto meno antropologicamente semplice che è quella degli scontri tra imperialismi che hanno portato a distruzioni catastrofiche in Europa, ma non solo in Europa, lungo il XIX e il XX secolo. Insomma le trincee di Verdun, le stragi nelle guerre cino-giapponesi o le follie dei bombardamenti e dei campi di concentramento sembrano appartenere a un lontano passato. Ma la guerra diventa sempre più importante e diventa importante in quanto espressione del potere di gruppi dirigenti, all'interno del capitalismo mondiale.

Quello che sta succedendo adesso negli Stati Uniti è una cosa particolarmente pericolosa. Il bilancio di guerra stabilito dal presidente Bush è tre volte quello che tutti i Paesi europei spendono per la guerra. E tutto questo si innesta, con fenomeni di effetti di moltiplicazione, su una base già terribilmente consistente. A questo si aggiunge il fatto che questa forza estrema, messa in piedi da Bush e dal suo stato maggiore, è qualche cosa che ormai salta tutte le limitazioni di diritto precedenti. E' stato denunciato il Trattato ABM, sono stati praticamente rifiutati tutti i trattati riguardanti la tutela dell'ambiente che sono strettamente legati alla gestione dell'energia nucleare. Che cosa vuol dire che la guerra è presentata come qualcosa di costituente? Significa che in questa situazione imperiale di un mondo unito in cui la sovranità è stata ormai unificata rispetto a un punto che non si sa precisamente dove sia, ma che è spesso legato al potere americano, la guerra viene usata per stabilire dove devono correre le linee del petrolio, le linee dell'energia, come si deve garantire il flusso dei mercati, quali sono le nazioni o meglio i territori che saranno implicati nello sviluppo alto della promozione delle merci o dei servizi e quali saranno invece quei Paesi, quei territori verso i quali andranno semplicemente i residui della produzione, l'outsourcing finale. C'è una gerarchia di funzioni, che sono funzioni di produzione e funzioni di sicurezza, che vengono messe in piedi attraverso la minaccia della guerra o l'effettività della guerra. La guerra dunque diventa quello che è stata in tutti i grandi periodi di crisi quando il diritto internazionale cade, quando il diritto internazionale non c'è più, e ora viviamo in uno di questi periodi, cioè esattamente come era tra il Cinquecento e il Seicento. Io dico spesso che siamo nella situazione prodotta dalla guerra dei Trent'anni, trent'anni che durano appunto dal 1618 al 1648, ed è una guerra coperta da uno scontro tra cattolici e protestanti in Germania, ma che ha tutt'altre ragioni e tutt'altri effetti. E' praticamente il tentativo di dissolvere la cultura, la resistenza, la libertà che si erano imposte con l'Umanesimo, con il Rinascimento all'interno dell'Europa. E' il tentativo di riordinare in maniera gerarchica, in maniera forte, attraverso la guerra, il mondo. Clausewitz diceva che la guerra è la fine di un processo politico. Adesso noi siamo in una situazione che rovescia l'affermazione di Clausewitz, perché siamo in una fase in cui la guerra inizia il processo politico e giuridico. Tutto questo è terribilmente pericoloso e soprattutto è folle che la Sinistra italiana non l'abbia percepito. La Sinistra italiana ha parlato di questo problema della guerra come se si trattasse della sua legittimazione, legittimazione di forze ex comuniste nel consesso delle nazioni. E' vergognoso che le cose siano state poste in questi termini.

Quale argine ci può essere a questa guerra capitalistica?

L'unico argine, io credo, sono i corpi (non i kamikaze della guerra, coloro che assumono in maniera omologa la violenza che il potere capitalistico esercita), i corpi come opposizione, come resistenza a questa aggressione metafisica, perché ormai non si tratta più di politica, si tratta veramente di formazione, di costituzione del mondo in funzione dell'essere verso la guerra. C'è questa omologia proprio isoformica. Secondo me c'è un kamikaze della pace, che non può che essere di massa e non può che essere delle moltitudini. Può essere rifiuto della guerra spinto attraverso la disobbedienza, attraverso tutte quelle che sono delle iniziative pacifiche ma forti che attraversano tutte le attività. La grande contraddizione del capitalismo odierno è che è stato spinto alla globalizzazione e all'investimento della vita. Il capitalismo di oggi non è il capitalismo della prima metà del XX secolo. Dopo il '68, dopo gli anni '70 tutto cambia. Il capitalismo comprende perfettamente che ormai non può più rispondere a quella che è la rivolta delle masse popolari. Se guardiamo bene le cose ci accorgiamo che questo capitalismo è dentro una contraddizione profonda, perché proprio questa sua nuova fase, nella quale ha investito la vita, nella quale si è affidato al lavoro intellettuale, immateriale per la produzione é particolarmente dipendente dal rapporto produttivo in generale. Rapporto produttivo significa che si è come minimo in due per produrre. In realtà sono sicuro che c'è una forza per opporsi a questo meccanismo di guerra, e sta nella capacità di lottare contro la guerra in ogni momento della vita. La vita è fatta di produzione, di riproduzione, di produzione di merci, di riproduzione di se stessi, quindi consumo delle merci prodotte, di costruzione di cooperazione tra tutti quanti quelli che sono implicati in questo processo. Mai come oggi il capitalismo è stato dipendente dal consumo e da un consumo che non è semplicemente la parte cattiva, caduca della vita sociale, della mercificazione della vita sociale, è anche quella parte nella quale in rapporto alle merci si creano nuovi desideri, nuove capacità produttive e comunicative, nuovi piaceri della vita. E' qui, su questo terreno, che bisogna cercare la resistenza. La resistenza deve essere sul punto nel quale il capitalismo è più sensibile, nel quale la forma politica che il capitalismo ha assunto e cioè la forma imperiale diventa più fragile. Ma la Sinistra questo non lo immagina neppure. La Sinistra balbetta di fronte a questa serie di fenomeni e di fronte alle strategie che sarebbe necessario sviluppare per mettere in crisi il capitale a questo livello. Io penso che mai come oggi alla guerra si può rispondere con la vita.

Le due Sinistre italiane si differenziano se non altro per l'adesione o meno alla guerra. Bellicista la Sinistra moderata e riformista, pacifista quella alternativa, a cui si aggiunge ora il Movimento dei no-global. Quali esiti produrrà questo scontro?

Io credo che il problema sia veramente quello di spostare il piano del discorso. Noi abbiamo una Sinistra, la Sinistra DS e la Margherita, che è una Sinistra che non esiste più, cioè non è più una Sinistra, sarebbe inutile continuare a chiamarla Sinistra. E' talmente acquisita ormai alle dimensioni amministrative del potere, che non ha più senso attribuire a questo tipo di personale politico la rappresentanza di un processo di trasformazione della realtà. Comunque è un problema legato all'idea di una Sinistra. Pur restando alla definizione anche se ristretta di Sinistra, che è quella che ha dato Norberto Bobbio in periodi indubbiamente molto tristi della storia italiana tra gli anni '80 e gli anni '90, la Sinistra doveva comunque qualificarsi sul terreno dell'uguaglianza, e dato che l'uguaglianza non brilla come potenza e configurazione generale nella società italiana, evidentemente per raggiungere l'uguaglianza bisogna fare qualcosa. La definizione data da Bobbio era molto limitata, come si è verificato in altre espressioni del suo pensiero politico. Tuttavia si può vedere in Bobbio uno sforzo di cogliere in qualche modo il problema della differenza tra le Sinistre. Ora noi siamo, per quanto riguarda la Sinistra diessina, la Sinistra Ulivo, certamente fuori anche dalla distinzione bobbiesca della Sinistra. E relativamente alla guerra siamo dentro fino in fondo non al progetto europeo ma a quello americano di guerra. Non so a che punto la consapevolezza della profondità del problema abbia sfiorato, non dico compreso, la coscienza dei dirigenti di questa Sinistra. L'urlo di Nanni Moretti è più che significativo.

E le altre Sinistre?

Il problema grosso sono le altre Sinistre. E qui si tratta di capire che cosa succederà, cioè se queste altre Sinistre, le due altre Sinistre che esistono, riusciranno a concepire un processo di chiarificazione rispetto a queste tematiche. Sono abbastanza convinto che la Sinistra no-global, che in realtà è una Sinistra new-global o antiliberale, su questo terreno sia particolarmente capace di muoversi. E capace di muoversi veramente con tutta l'intensità che bisogna avere su questo terreno. Che cosa vuol dire? Significa che non si tratta semplicemente di rifiutare la guerra in quanto è data, significa portare avanti la resistenza contro ogni possibilità di guerra. Significa portare il pacifismo dentro a una nuova strategia. Nella storia del Movimento operaio noi avevamo la resistenza, l'insurrezione (insurrezione significa in realtà un movimento armato, un movimento d'attacco) e il potere costituente, che erano considerati normalmente come tre fasi, tre elementi diversi. Prima c'era la resistenza, che andava dalla vita quotidiana del Sindacato, dell'opposizione diurna e notturna a quello che è lo sfruttamento, poi l'insurrezione, che era il momento di una volontà ormai unita, costruita, educata dall'attività di resistenza, fino alla fase del potere costituente, cioè alla formazione di un nuovo mondo, di nuove strutture pubbliche, di nuove istituzioni. La cosa fondamentale che il Movimento di Seattle ha capito, ma che d'altra parte era stato costruito da un'infinità di Movimenti che si sono succeduti a partire dal '68, è che questi tre stadi non possono più essere separati, che la resistenza, l'insurrezione e il potere costituente sono uno stesso momento o sono nella coscienza dei militanti. Lo sono in tempi non più separati, anche se i tempi sono ovviamente lunghi, ed è in ogni momento di questo tempo lungo che le tre funzioni vanno continuamente esercitate. Questo significa che di fronte alla guerra c'è, ci deve essere una capacità di resistenza, ci deve essere una capacità di risposta e una capacità di immaginare un mondo nuovo. Non vorrei parlare in modo astratto. Resistenza significa essere disobbedienti a quelle che sono le cose che ci vengono proposte: l'odio verso gli arabi, il rifiuto del meticciaggio, l'egoismo dei ricchi nei confronti dei poveri. La resistenza è la capacità di agire contro queste cose in ogni momento, e cioè la denuncia di quello che sono i capitalisti o le forme industriali che finanziano la guerra, la denuncia della guerra sulle piazze, l'attività permanente e continua per impedire che le forze politiche si associno in un progetto violento di riordinamento del mondo. E poi c'è il potere costituente, cioè la capacità di costruire forme di vita diverse fin da ora, senza affidarsi alla rappresentanza. Ognuno di noi deve essere capace di muoversi in piena coscienza, in piena trasparenza dentro a quelli che sono i livelli che ci opprimono. Ecco questo è un modo in cui noi possiamo resistere alla guerra.

E' necessario un riesame della cultura di Sinistra per far luce, in riferimento al nostro presente, sui due termini: guerra e pace?

Credo proprio di sì. Questo è chiaro. Come dicevo prima per quanto riguarda la guerra, chissà per quanto tempo ormai, in questa crisi del capitalismo, essa possa durare.

Una volta il mondo del lavoro aveva un suo assetto. Esisteva una misura nel lavoro: tu lavoravi, avevi il tuo salario, che era un'erogazione di ore di lavoro che avevi fatto, cioè una misura del lavoro e quindi anche dello sfruttamento. Su questo si poteva intervenire con il Sindacato. Ma quando la produttività diventa una politica sociale, quando i mezzi di lavoro non vengono più garantiti dal capitale, ma ognuno se li porta con sé, con la propria intelligenza, la produzione diventa il prodotto di un capitale sociale, quindi di una forza lavoro sociale estremamente diffusa e di cui il lavoratore intellettuale diventa una tendenza rispetto al lavoro. A questo punto non c'è più misura, non c'è più misura nel lavoro, non c'è più una ragione giusta nell'ingiustizia, nello sfruttamento, e non c'è più giusta guerra, non c'è più giustizia. Per quanto riguarda la guerra, l'abbiamo già detto quali siano i problemi che pone. Il problema fondamentale non è tanto quello di definire che cosa è diventata la guerra oggi, ma piuttosto di definire che cosa sarà la pace domani. Quelli che hanno provocato la guerra come elemento costitutivo, costituente, ordinativo del mondo, sanno perfettamente che cosa è la guerra: significa i loro portafogli, la conferma del loro potere e la ripetizione del loro potere, la divisione del mondo, delle razze, dei popoli, dei generi in funzione di quello che è il proseguimento del loro comando. Noi che vogliamo la pace non sappiamo precisamente che cosa questa possa essere o meglio lo sentiamo e, secondo me, il fatto di sentirlo e di essere estremamente legati a questa idea della pace è qualcosa che ci fa molto forti.

Per tornare alla domanda precedente, credo che se il Movimento di Seattle (unitamente al tentativo di Fausto Bertinotti di fare del suo Partito della Rifondazione Comunista una componente del Movimento no-global) porterà avanti questo processo di pace, come io mi auguro, noi potremo cominciare a parlare veramente di pace e imparare, ragionando collettivamente, che cosa possa essere oggi.

 


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