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Note
Il rischio della precarietà nell'epoca della decostruzione
di Umberto Pagano
"L'uomo di ieri è morto in quello di oggi, quello di oggi muore in quello di domani."
(PLUTARCO)
L'implosione del tempo comunicativo ha catalizzato l'annichilimento dell'idea di spazio, inducendo una radicale palingenesi dell'universo percettivo.
Premettendo (a rischio di essere banali) che la nozione di distanza è profondamente storica e sociale e non assume significato alcuno se non in relazione alla possibilità e alla rapidità del movimento, non v'è chi non veda come, piuttosto che rendere omogenea la condizione umana, l'annullamento tecnologico delle distanze spazio-temporali tenda a polarizzarla [cfr. Bauman, 1998, trad. it. 22] e a generare il modello di produzione dell'esistenza più squilibrato della storia della civiltà umana.
Se per alcuni (pochi) l'emancipazione dalla distanza reca in dono una libertà senza precedenti, per gli altri sancisce l'impossibilità di appropriazione della località, la bruciante sospensione limbica nell'indeterminatezza di una condizione di perenne straniamento. L'incremento esponenziale della velocità sottrae senso alle distanze e, quando le distanze non significano più niente, il fantasma dell'insensatezza si aggira funesto e affamato sulle putrescenti carogne dei luoghi.
Ma se la desemantizzazione del concetto di distanza investe "globalmente" la cultura, non è altrettanto generale la possibilità tecnologica di accesso al nuovo crònotopo spazio-compresso. E mentre i ricchi d'informazione e di tecnologia si spostano veloci sulle ali dei bit con l'insostenibile leggerezza del loro essere digitale, i nuovi poveri restano incatenati all'ineluttabile pesantezza degli atomi e annegano nella liquefatta insignificanza del loro vivere, risucchiati dal gorgo dei loro luoghi-prigione che si destrutturano e si decompongono sotto le loro scarpe piombate. Essi non possono che ammirare i digitali che volano alti sulla loro testa, verso mete siderali, ectoplasmatici generatori di senso, e rassegnarsi alla poderosa pesantezza sublunare della loro materica insensatezza.
Esiste un mondo aereo, leggero, luminoso, i cui abitanti vivono nel tempo; lo spazio non conta per loro, poiché possono precorrerlo con rapidità virtualmente infinita. Ed esiste un altro mondo, stridente e metallico e immobile, i cui abitanti sono costretti a vivere in uno spazio che ormai non significa più nulla.
Ma non a caso ho definito insostenibile la 'leggerezza' dei digitali, infatti, inaspettatamente, si delinea per i due mondi e per i loro abitanti un destino curiosamente simile. 'Locali' e 'globali', pur divisi dall'insuperabile perentorietà della frattura tachimetrica, scivolano fatalmente verso un'avvilente deriva della propria identità.
C'è un tarlo nel Mondo, in questi due mondi: il tarlo della precarietà. Che si presenti sotto le spoglie della flessibilità del mercato o sotto quelle più sfuggenti e penetranti della Unsicherheit, quel tarlo divora tutti e tutto destruttura.
Sigmund Freud, nel suo saggio Civilization and its Discontents (1927) aveva affermato che nella società moderna si instaura una correlazione - determinantesi dinamicamente in modo parallelo all'avanzamento della Civiltà - tra espansione della Sicherheit e contrazione della libertà. Mezzo secolo dopo, qualcosa è cambiato e Zygmunt Bauman, nel suo Postmodernity and its Discontents (1997) (che evidentemente richiama proprio il titolo di Freud), può notare che rimane valido il meccanismo di trade-off tra Sicherheit e libertà, ma esso funziona in senso esattamente opposto: nella società secondo-moderna1 è la Sicherheit ad essere sacrificata sull'altare della libertà.
L'emancipazione dai vincoli spazio-temporali catalizzata dalla tecnologia, liberandoci dall'idea di luogo, despazializzando la produzione dell'esistenza, irrimediabilmente induce una fatale complicanza nella possibilità di strutturare la coscienza come identità. Complicanza generalizzata nella misura in cui, nella dimensione culturale, si rivela generale la desemantizzazione simbolica dell'idea di spazio.
Ha giustamente affermato Niklas Luhmann che l'uomo moderno è sempre "parzialmente dislocato". Egli è, sempre più, ovunque ma, paradossalmente, non è mai in nessun luogo completamente; la produzione sociale della sua esistenza è una dilaniante ipostasi di questo drammatico ossimoro, di questo prostrante aporema.
Non possiamo che muovere passi incerti, circondati dal rischio, su segatura di realtà: logico residuo dell'inesorabile azione erosiva del tarlo spietato della precarietà.
Siamo in presenza di nuovi e diversi meccanismi poietici dell'esperienza umana, meccanismi dominati dal rischio e dall'incertezza: è l'epoca della Risikoleben [cfr. Bauman, 1999, trad. it. 150], in cui il rischio è inconfutabilmente assurto ad attributo ontologico della società moderno-riflessiva, non è più una sua accidentale 'sporgenza' ma la sua stessa sostanza.
Parallelamente, si sta delineando un nuovo modello di uomo, quello che Ernest Gellner, con un'efficacissima metafora mutuata dall'industria dell'arredamento, ha voluto definire 'uomo modulare'.
I mobili di un tempo nascevano con forme e funzioni definitive, quelli attuali, invece, sono componibili, ampliabili con l'aggiunta di moduli più o meno indipendenti; essi non raggiungono mai uno stato perentorio e possono essere continuamente e rapidamente riconfigurati, nella misura in cui ogni loro configurazione è caduca e precaria. Allo stesso modo, l'uomo modulare esperimenta la frammentazione delle sue esperienze e delle sue competenze. La precarietà è il suo Zeitgeist. Si tratta del modello più 'avanzato' di uomo serializzato assemblabile, capace di decostruirsi e rimodularsi con una caleidoscopica mutevolezza ma che, in questa schizofrenica metamorfosi, smarrisce la sua essenza. L'identità nell'era della modularità è sempre più parossisticamente temporanea [cfr. Ferguson, 1998, p.8-9]; l'affrancamento dai vincoli spazio-temporali propulsa un'iperbolica accelerazione delle possibilità di una sua palingenesi, fino a renderla così metamorfica e liquida da comportarne la deriva. Quello componibile è un uomo amorfo, autopoietico ma anche ontologicamente precario; la rapidità cui si è condannato lo ingabbia in un paradossale meccanismo iperdinamico di indeterminatezza. E la sua modularità non si esaurisce nell'ambito cognitivo, ma invade anche quello anatomo-fisiologico. I cyberuomini ultramoderni si autogenerano come esseri biomeccanici e proliferano di estroflessioni percettive e comunicative quanto di appendici tecnologiche, ed essi stessi non sono che insignificanti appendici di una "società reticolare"2, in cui anche i rapporti interpersonali non sfuggono al principio di precarietà e si realizzano in fugaci incastri di posticce sporgenze modulari, in una sorta di puzzle che snervantemente viene distrutto e ricostruito all'infinito, ma in cui ogni volta i pezzi cambiano di forma.
Per quanto possa sembrare efficiente e coevolutiva con l'ambiente, la modularizzazione dell'esistenza ha conseguenze esiziali: essa genera "una sorta di frammentazione che priva ciascuna attività del sostegno delle altre, rendendola fredda e valutabile sono in relazione al proprio fine dichiarato, piuttosto che parte di una cultura 'totale' calda e integrata" [Gellner, 1996, 104]. E allora, l'atomizzazione dell'umana esperienza diviene crocevia di una proliferazione dell'alterazione3 e dell'anomia. E allora la società metaspaziale della "parziale dislocazione" diviene il campo drammatico della decostruzione del Sé. Nei non luoghi di produzione della nostra esistenza smembrata germoglia una ir(razionalità) ultramoderna che esaspera fino al parossismo i classici postulati della non finitezza del processo di socializzazione e della indeterminatezza dell'Io [cfr. Seel, 1998, p.39-40].
L'implosione del tempo implica, inesorabilmente, la deriva dell'identità, la sua vivisezione, la sua polverizzazione. La fisiologica mutevolezza dell'uomo si è fatta patologica incapacità di generare razionalità, assiologie, senso.
Nel suo saggio Nuova confutazione del tempo (il titolo contiene una deliziosa contradictio in adjecto), Jorge Luis Borges cita un antico testo buddista in cui viene sostenuto che "il mondo si annienta e risorge seimilacinquecento milioni di volte al giorno e che ogni uomo è un'illusione, vertiginosamente attuata da una serie di uomini istantanei e soli" [Borges, 1946, ed. cit. 185].
Borges è dichiaratamente mosso dall'intento di negare il tempo, intento in cui lo hanno preceduto in molti, da Sesto Empirico a Francis H. Bradley ad Arthur Schopenhauer. Non ho qui intenzione di spingermi su quel sentiero ripido e sdrucciolevole, ma mi limito a prendere in prestito quella icastica immagine buddista per descrivere l'uomo postmoderno: egli non è solo modulare, è anche istantaneo e - aggiungerebbe Buman - solo. La sua istantaneità lo imprigiona e lo condanna a non vivere se non il presente, all'incapacità di progettare il suo futuro, perché dilaniato dalla Unsicherheit. Basta rilevare il sentimento di impotenza e di vuoto che affligge molti giovani, per rendersi conto che la detemporalizzazione e la conseguente desemantizzazione dello spazio, producono una Risikogesellschaft4 in cui gli effetti sulla costruzione psicosociale dell'individuo sono precisi, concreti e dolorosi. Altrettanto evidenti sono le conseguenze sulle istituzioni che tradizionalmente garantivano la continuità e la solidità del sistema sociale.
L'uomo è l'unico essere vivente - verosimilmente - a vivere l'insicurezza ontologica, dal momento che "la coscienza di sé introduce l'esperienza esistenziale della sua finitudine" [Crespi, 1985, 21]. La consapevolezza del proprio esserci fonda implicitamente il dubbio nullificante5 circa la realtà di questo essere e l'incertezza del suo perdurare: l'idea della morte.
Da sempre la cultura ha sviluppato strategie di difesa dalla insicurezza ontologica, meccanismi che consentissero la produzione di senso anche relativamente ad un'esistenza, come quella umana, caratterizzata dalla fugacità. Dall'inizio della civiltà "le paure generate dalla consapevolezza della propria morte furono incanalate, almeno in parte, verso le preoccupazioni per la sopravvivenza di più ampie totalità, da cui veniva derivato il significato della vita individuale" [Bauman, 1999, trad. it. 46]. Istituzioni come la famiglia e la nazione svolgono proprio questa funzione di produzione di senso. Ma nella società dell'incertezza tale ruolo è ormai compromesso, e le istituzioni versano nella medesima condizione di instabilità e transitorietà del singolo: si stanno sfaldando. "I ponti costruiti collettivamente fra la transitorietà e l'eternità sono andati in pezzi e l'individuo è rimasto faccia a faccia con l'autentica, assoluta, precarietà della propria esistenza. Ora si da per scontato che affronti le conseguenze con le proprie forze" [Ibidem]. In tal modo comincia ad essere compromessa anche l'efficienza dell'identità come luogo della differenza, ovvero della oscillazione tra socialità e asocialità. [cfr. Crespi, 1985, 41].
Il risultato di questo processo è, per John Carroll, "l'egoismo di una insicurezza cronica"[Carroll, 1998, 92]: "se non possiamo avere il nutrimento spirituale che chiediamo, allora accumuleremo i beni di questo mondo in grande quantità" [Ibidem, 94].
Le spinte compulsive al consumo, tipiche della società postmoderna, sono il chiaro sintomo di un ipercarico simbolico del consumo stesso: consumiamo per dimenticare la morte. Nel tardo capitalismo si assiste ad una perversa inversione tra genesi del bisogno e creazione del bene; se la società primo-capitalistica era fondata sulla produzione di beni seriali attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro, la società capitalistica avanzata è fondata sulla produzione in serie di bisogni, e allo sfruttamento della forza lavoro si aggiunge quello della forza consumo. "Il sistema dei bisogni è il prodotto del sistema di produzione" [Baudrillard, 1974, trad. it. 93].
La sopravvivenza del capitalismo dipende, dunque, dalla sua capacità di generare insoddisfazione, e la fuga dalla morte dell'individuo deve trarre propulsione dal desiderio, non tanto dal desiderio di specifici oggetti quanto dal metadesiderio (il desiderio di desiderare).
Anche in questo il tempo ritorna come dimensione essenziale. L'atto di consumo perfetto, nella logica capitalistica postmoderna, è un atto di soddisfazione istantanea, in un duplice senso: "i beni dovrebbero soddisfare nell'immediato, senza richiedere speciali capacità o il protrarsi di un lavoro preparatorio; e la soddisfazione dovrebbe cessare immediatamente, ossia non appena esaurito il tempo necessario al consumo. Che andrebbe ridotto all'essenziale" [Bauman, 1998, trad. it. 91-92].
E' evidente come il paradigma produttivo tipico della modernità e della postmodernità è stato edificato nel e sul mito dell'accelerazione, sul dogma della massimizzazione della rapidità della produzione, del consumo e del ciclo cremastico, in totale spregio della necessità di contenimento dell'entropia. L'aumento esponenziale delle compromissioni ambientali né è una palese evidenza.
L'uomo modulare ultramoderno, che esperimenta l'estroflessione consumistica dei brandelli della sua identità esplosa, è entropico, precario, istantaneo, solo.
Nella società despazializzata e virtualizzata del rischio, "il nostro [comune] destino non è spaventoso perché è irreale; è spaventoso perché è irreversibile" [Borges, 1946, 186].
Scivoleremo nel gelido abisso dell'Incertezza, e sopra di noi lo Spirito della Precarietà. Attoniti e immoti, udiremo il fruscio sottilissimo delle sue ali, mentre si libra, più leggero di un sogno, sulle mute rovine del nostro mondo decostruito.
Note
1 Si fa riferimento all'ormai nota idea di Ulrich Beck (1986) di modernità di secondo ordine, o modernità riflessiva.
2 La definizione è di M. Castells (1998)
3 Si veda J.P.Sartre (1960), Critique de la raison dialectique, Paris, Gallimard; trad. it. Critica della ragione dialettica, Il Saggiatore, Milano, 1963.
4 Il termine è usato da Ulrich Beck (1986) nel suo noto Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main; trad. it. La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2000.
5 Vedi J.P.Sartre (1943), L'être et le néant, Paris, Gallimard; trad. it. L'essere e il nulla, Milano, Mondadori, 1958;
Riferimenti bibliografici
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