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Note

Incontri e scontri in terre di mezzo1

di Luigi Zà

 Ma Sara vide che il figlio di Agar l'Egiziana,

quello che aveva partorito da Abramo, scherzava

con il figlio Isacco. Disse allora ad Abramo:

"Scaccia questa schiava e suo figlio, perchè il

figlio di questa schiava non deve essere erede

con mio figlio Isacco ". La cosa dispiacque ad

Abramo per riguardo a suo figlio.

( dalla Genesi, 21,9-11)

 

Proprio in un anno carico di avvenimenti in Europa, nel 1989, Karl Homuth e io decidemmo di organizzare nel Salento, all'estremo sud della Puglia, un seminario sul tema "Nuove minoranze etnico-culturali in Europa"2. Era, quel seminario, quasi il punto di arrivo di una lunga, decennale frequentazione, di amicizia innanzitutto, ma anche di ripetuti confronti e riflessioni sui temi antichi, ancora drammaticamente riemergenti, di minoranze, emarginazioni, migrazioni; temi su cui le diverse esperienze nazionali potevano convergere nella ricerca di interpretazioni e in ipotesi di soluzioni che sfidassero la capacità di ridefinire una coscienza civile e democratica europea.

Era il maggio di quell'anno: gli amici tedeschi non sapevano ancora che cinque mesi dopo il Muro sarebbe caduto e io ancor meno prevedevo che le coste del Salento, scelte come sede del seminario per la loro dolce solarità, sarebbero divenute due anni dopo ben altro luogo di approdo di una grande moltitudine di gente sofferente, proveniente dall'altra sponda balcanica dell'Adriatico.

Come dire: pure intuendo, ancora non eravamo ben coscienti sino a che punto l'Europa sarebbe di nuovo divenuta "terra di mezzo".

A quel tempo pensavamo che le migrazioni e le figure degli emigranti fossero cambiate negli ultimi decenni in Europa e l'Europa stava cambiando con esse. Vi erano paesi come l'Italia e la Spagna che da luoghi di prevalente emigrazione divenivano mete di immigrati, trovandosi legislativamente e culturalmente impreparati al nuovo fenomeno; vi erano altri paesi come la Germania, la Francia, l'Olanda dove i "lavoratori ospiti" erano ormai divenuti una realtà incisiva non solo dell'equilibrio demografico, ma soprattutto sociale.

Tuttavia eravamo già allora convinti che, pur nella diversità, le nazioni dell'Europa si trovavano ad affrontare aspetti comuni delle migrazioni; pensavamo agli effetti del mercato unico europeo, con i problemi di circolazione della mano d'opera, di trasferimenti di capitali (non solo materiali ma anche umani) e di investimenti, di status di cittadini europei (non c'era ancora l'Euro e il Trattato di Schengen). Eravamo convinti che la crescente spinta, non solo demografica, dei nuovi paesi di emigrazione (allora solo prevalentemente dall'Africa, Asia, Sud-America e non ancora dall'Est europeo) non si sarebbe fermata, anzi sarebbe aumentata in modo esponenziale, e, non essendo realisticamente possibile programmarla e regolarla, avrebbe probabilmente aumentato il manifestarsi di nuove forme di intolleranza, spesso di razzismo, anche in zone come il Sud Italia che se ne ritenevano immuni. Allora non era ancora arrivata l'onda lunga, e più difficile da regolare e controllare, composta dalle popolazioni dell'Est europeo. Né era al culmine il grande esodo di profughi - clandestini Kurdi, iracheni, pakistani e di altre terre sfortunate dell'Oriente e dell'estremo Oriente, che continuano ad arrivare su navi-rottame alle coste del Sud Italia, rischiando la vita in giorni di navigazione in condizioni disumane, per tentare di sfuggire a situazioni di fame e di guerre di cui lo stesso Occidente (dove sperano di trovare una vita dignitosa) ha grandi responsabilità.

Eravamo già in grado di prevedere che scompariva la vecchia figura dell'emigrante, il quale nel paese ospitante cercava solo lavoro possibilmente dignitoso e adeguatamente retribuito; che sempre di più gli immigrati volevano un riconoscimento sociale e culturale, una accettazione come citoyens nei paesi ospitanti, che tuttavia non escludeva il conservare la propria specificità - identità culturale. Insomma, prevedevamo che nel futuro cambiasse sempre di più la condizione di migranti: l'esperienza di lungo periodo nelle aree ospitanti e in contesti sociali e culturali molto differenti, il più delle volte chiusi nei loro confronti, li configuravano come vere e proprie minoranze etniche, linguistiche, culturali, generalmente emarginate nei processi sociali e produttivi.

Per verificare la legittimità di queste intuizioni si doveva anche progettare una specifica riflessione sul ruolo e sulla formazione dei formatori e operatori sociali capaci di agire nelle specifiche diversità socio-culturali, che a volte sono i presupposti di conflitti, poiché ritenevamo che formazione e lavoro sociale fossero determinanti nella prospettiva dello sviluppo di una società multiculturale. Prendere atto dei conflitti significava vivere le esperienze della quotidianità confrontandosi con le differenze dei migranti, tenendo conto delle esigenze e della realtà dell'ordine sociale e anche delle proprie convinzioni scientifiche e delle proprie emozioni.

Quali i traguardi da raggiungere per definire una società quale multiculturale?

Questi i livelli minimi allora individuati:

- riconoscere ciò che è diverso senza mistificarlo;

- non intervenire nella vita privata;

- incrementare l'autorganizzazione dei gruppi etnici, evitando il deprezzamento;

- propugnare apertura, capacità di apprendimento, scambio di esperienze, intese sulla base di una specie di "consenso minimo" universalmente legittimato.

 

E' evidente il substrato ideologico di simili orizzonti: le sue radici si riconoscono nelle tradizioni borghesi-democratiche e liberali nel senso migliore, nelle idee illuministiche, nel sogno del "cittadino del Mondo", così come era nelle intenzioni dei Padri delle Costituzioni degli Stati europei. Tolleranza e principio di eguaglianza quali binari conduttori per approdare allo status di cittadino libero, le citoyen appunto, come diritto base per tutti.

Nella Dichiarazione dei diritti della Virginia, ispirata da Thomas Jefferson nel 1769, fondamento della Dichiarazione di indipendenza e della Carta costituzionale degli Stati Uniti d'America, alla 1° sezione era scritto: "Tutti gli uomini sono per natura ugualmente liberi e indipendenti e possiedono certi diritti innati dei quali (....) non possono per contratto privare sé stessi, né la propria posterità; e questi diritti sono il godimento della vita e della libertà (....) e il conseguimento della felicità e della sicurezza". Una visione universale dell'uomo nella illuministica illusione che la freccia dalla punta argentea del progresso scientifico ed economico, garantito dalle libertà democratiche, avrebbe reso uguali gli individui. Inutile ricordare che tale splendida illusione continuò ad essere presente nei movimenti socialisti e umanitari del XIX secolo.

Quest'insieme complesso di riflessioni continuò nel maggio dell'anno successivo, il 1990, avendo in sé molte contraddizioni e perplessità che ciascuno di noi portava, sia perché avevamo riflettuto su quanto discusso precedentemente, sia perché intuivamo più chiaramente che il popolo dei migranti, che era il nostro riferimento, stava sempre più cambiando e che forse non reggeva più l'astratto concetto di società multiculturale.

In quella seconda sessione del seminario il dibattito divenne più serrato tra chi voleva riflettere e approfondire il problema dello sviluppo (o della fine) di un'utopia di una società in cui con buona volontà e pacificamente si sarebbero miscelate culture pur molto differenti, e chi accentuava l'urgenza "del fare", cioè di mettere in atto interventi (sociali, educativi, economici, politici, ecc.) in favore dell'inserimento degli emigranti.

Sono passati dieci anni: le spiagge del Salento non sono più luogo privilegiato da impegnati intellettuali e operatori sociali per fare seminari pur approfonditi sulle nuove minoranze in Europa, ma quotidianamente sono la meta di gente sempre più disperata che rischia la vita per raggiungerle, per trovare una piccola porta di una terra che garantisca un poco di tranquillità e di benessere. Gli emigranti che oggi preoccupano l'Europa non sono più i gasstarbeiter, sono masse sempre più imponenti che chiedono di riscuotere il credito delle nostre idee liberal-democratico-borghesi propagate per il mondo sull'eguaglianza degli individui, e inoltre di godere del benessere e della ricchezza derivanti da sistemi economico-politici che erano stati propagandati come i migliori per raggiungere "la felicità".

Le continue urgenze di questo nostro passato recente e di questo nostro presente hanno dato l'impressione di dar ragione all'anima "pratica" del seminario, all'anima "del fare"; ma puntualmente, dopo ogni emergenza, la specificità di situazioni immediate e la loro diversità riproponevano la necessità di ritornare a una riflessione più ampia, su chi arriva in Europa, su che cosa è una miscela di culture e come esse possano convivere. E' sempre più chiaro che oggi e nel futuro ancora di più non si tratta solo dell'incontro-scontro con la cultura europea, ma anche del confronto tra le altre che si sono incontrate su questa area geografica; diventano sempre più reali i conflitti etnico/politici/religiosi fra popoli extra-comunitari che si confrontano nelle nostre nazioni. Emerge così l'altra anima del seminario, apparentemente più astratta e teorica, che comunque richiedeva una approfondita riflessione su fenomeni complessi per avere un orientamento di lunga prospettiva per il futuro.

Ripensando quest'ultimo decennio in me si è sviluppato un pensiero più pessimista: forse più che di migranti il nocciolo, mai esplicitato chiaramente, delle nostre riflessioni riguardava il malessere, per cui ondeggiavamo da discorsi ideologici a proposte tecnicistiche, a soluzioni empatiche, a raffinati astrattismi teorici; in realtà eravamo prigionieri, in modi diversi, delle categorie della nostra cultura. E tuttavia oggi più che mai sono convinto che noi europei dobbiamo partire dalla crisi della nostra cultura.

Gunnar Myrdal titolò l'importante ricerca condotta alla fine degli anni '30 sul problema inerente la presenza dell'elemento nero tra la popolazione degli USA An American Dilemma, ritenendo che il problema nero fosse in realtà un problema dei bianchi, cioè avesse il suo fondamento nella contraddizione esistente tra il "credo americano" ispirato agli ideali di eguaglianza e libertà a cui gli americani sono molto legati, e la vita reale che impone nella quotidianità le differenze.

Oggi noi europei di "buona volontà" nel tentativo di giustificare e trovare una soluzione alla convivenza -contrapponendoci a soluzioni di esclusione e di rifiuto verso gli altri- ci aggrappiamo al passato dell'Europa, alla sua storia, ancora una volta al suo essere "terra di mezzo".

Ricordiamo il Mediterraneo nel passato come spazio di incontro di civiltà, luogo di sviluppo e di nascita di nuove culture: ma ciò non è avvenuto pacificamente, ci sono voluti tanti secoli, tante guerre e tanto sangue. La stessa nascita dell'Europa fu l'incontro certamente non pacifico di popoli "barbari"3 che si contesero per secoli (dal IV al X secolo) e portarono le grandi trasformazioni che furono alla base della nascita e dello sviluppo della nostra cultura e della nostra civiltà. Altri ricordano il fascino dei grandi imperi europei, in particolare Asburgico, dove sino all'inizio del XX secolo vivevano popoli con lingue e mores differenti, come esempi di convivenze: ma, a parte che anche allora tra quelle genti c'erano le discriminazioni, essi non erano emigranti ma "sudditi" dell'impero. Certamente un grande fascino conservano le prime pagine del libro di Elias Canetti, La lingua salvata, che descrivono la città natale, Rustschuk sul basso Danubio, dove si sentivano parlare sette o otto lingue, dove si incontravano bulgari, greci, albanesi, turchi, armeni, zingari, rumeni: ma cosa è successo dopo quella forzata coesistenza di sudditi? Quante guerre e massacri e pogrom sono avvenuti fra quei popoli nel XX secolo?

E' il caso di ricordare che anche il vasto impero Ottomano era multietnico e ha garantito per secoli le diversità culturali e religiose, molto di più di quanto non facessero cattolicissimi Stati europei, quali la Francia e la Spagna, non solo nelle loro espansioni coloniali, ma anche sul loro territorio metropolitano.

Proprio guardando a quei secoli, ai sussulti e alle contrazioni nell'evoluzione della nostra storia -anche dell'ultimo decennio-, dovremmo dare ragione ai tanti che nel corso dei secoli hanno espresso giudizi negativi sui progressi della storia: tra gli altri, a Raymond Queneau quando scrive che "la storia è la scienza dell'infelicità degli uomini" o a Hegel che in un passo della Filosofia della storia definisce la storia umana un immenso mattatoio.

La storia ci aiuta a capire chi siamo e da dove veniamo, ma non è di molto aiuto per superare le contraddizioni impellenti della quotidianità. Per affrontare i problemi posti dalle nuove figure di immigrati e rispondere alle loro esigenze, non bastano la "buona volontà" ossia i "buoni sentimenti", in nome di un attraente, ma spesso anche generico richiamo alla pacifica convivenza. Non bastano certe aperture e disponibilità verso culture diverse, da consumarsi attorno a cucine esotiche, rassegne di film, concerti musicali, narrativa; né qualche programma scolastico aggiuntivo sulle "altre" culture: per questa via, malgrado le buone intenzioni, l'incontro tra culture rischia di diventare folklore. Né basta richiedere leggi più accoglienti verso gli stranieri, poiché ciò serve solo a placare le coscienze, mentre in realtà difendiamo il nostro ordine. Né serve rispolverare dal lessico della cultura europea il vecchio concetto di tolleranza: un concetto alla fine equivoco, che invita non tanto al rispetto degli "altri", quanto piuttosto a uno steccato ideale per mantenere le distanze e non farci disturbare da ciò che è diverso. Karl Homuth diceva molto lucidamente già dieci anni fa "Non basta semplicemente tollerare lo straniero; questo significherebbe rinunciare alla forza animatrice della differenza e della non identità ".

Accontentarci di quanto detto è non solo insufficiente ma anche pericoloso, perché non elimina gli istinti xenofobi che dormono dentro di noi e che sono pronti a riemergere, anche nelle persone più insospettabili, quando ci sentiamo minacciati. In altri termini, sino a che punto siamo disposti a cambiare e fino a quanto siamo disposti a cedere in questo mutamento epocale di incontri tra individui diversi?

Esemplare in merito è quanto è avvenuto nell'incontro tra la popolazione della Puglia e gli Albanesi. Nel 1991 vi fu il grande esodo dall'altra sponda dell'Adriatico sulle nostre coste e altrettanto grande fu la commozione, la partecipazione, la solidarietà dei Pugliesi in aiuto di quella massa di miseri e disperati "profughi". Poi gli Albanesi incominciarono a installarsi nelle nostre città e villaggi e a pretendere con urgenza ciò che si aspettavano da noi, cioè tutti i vantaggi di una democrazia occidentale basata su un'economia capitalistica, inclusi i vistosi consumi così come li avevano visti negli spot pubblicitari televisivi; e allora cambiò il nostro atteggiamento nei loro confronti. Annotavo in un mio scritto su quegli avvenimenti: "Nel frattempo, nell'immaginario collettivo, gli albanesi da popolo fratello da aiutare, divenivano sporchi, pigri, violenti, esigenti, inselvatichiti. Incontravo frotte di Albanesi mal vestiti e rumorosi che invadevano il vecchio, sonnolento, raffinato centro della mia città (.........), che occupavano la stazione prendendo d'assalto le carrozze ferroviarie senza biglietto e senza distinguere tra prima e seconda classe, tra le proteste dei viaggiatori italiani rimasti senza il loro posto prenotato e che scoprivano la differenza tra solidarietà a distanza e contatto fisico"4.

Oggi è raro trovare in questa parte d'Europa chi parla bene degli Albanesi e da parte loro questi non amano più tanto gli Italiani: il conflitto tra i due popoli è cresciuto. Il punto non è stabilire chi sono i buoni e chi sono i cattivi (gli Italiani? gli Albanesi?). Il punto è che non si è cercato e non si trova ancora un equilibrio tra il dare e l'avere, tra ciò che reciprocamente si concede e ciò che si guadagna. La conseguenza è che nelle nostre raffinate città sgorgano odiosi atteggiamenti di rifiuto, di discriminazione, di razzismo e si chiede sempre di più allo Stato rigorosi provvedimenti di forza contro gli stranieri.

Ecco allora che rispunta la xenofobia, letteralmente, dal greco, "paura dello straniero": succubi della nostra prudenza, vediamo continue angoscianti minacce dietro l'angolo. Mi piace ricordare che nel vecchio dialetto della terra in cui vivo, il Salento, straniero si dice "streusu", che significa sì straniero, ma anche strano, colui di cui non è facile prevedere le azioni e le finalità.

Abbiamo paura dello straniero perché lo sentiamo come una minaccia, poiché mette in crisi la nostra sicurezza e la nostra identità. In primo luogo è in concorrenza con il nostro benessere economico, vi è l'ansia che ci contenda il lavoro, la casa, ci riduca gli spazi: non è un caso che l'ostilità verso lo straniero è più diffusa negli strati più poveri della popolazione, tra coloro la cui precarietà delle condizioni economiche e sociali li fa sentire più minacciati. Ma la paura più grande -e più generalizzata- è la sfida che lo straniero porta ai nostri connotati storici, al nostro ordine, alle nostre certezze spirituali, ai nostri valori.

Cito due esempi di cui si discute in questi giorni. In Germania si discute della "deutsche Leitcultur", su ciò che è tipicamente tedesco e che va difeso, evidentemente contro "gli inquinamenti" di altri popoli che arrivano in Germania. In Italia un Principe della Chiesa Cattolica, il cardinale Biffi, propone di ridurre l'ingresso di immigrati di religione musulmana, facilitando quello di immigrati cattolici, per non creare dei conflitti nell'ambito dei mores, per facilitare l'inserimento e la convivenza tra stranieri e italiani. Sentendo la minaccia di una paventata, quanto improbabile, islamizzazione dell'Europa, dopo secoli si riapre il confronto tra Cristianesimo e Islam!

La sinistra intellettuale e politica si indigna, ironizza, ma in fondo sottovaluta questi fenomeni che sbrigativamente vengono catalogati come appannaggio della destra; ho paura che siano molto più diffusi, a diversi livelli e con diversa intensità, tra la gente europea. Ignorarli significa rimuovere senza risolverlo il problema reale del conflitto dei valori.

Certamente i valori sono astrazioni, ma definiscono ciò che è buono e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che occorre realizzare: in altre parole sono giudizi morali sulle azioni e orientano in maniera determinante la vita quotidiana, attraverso il sistema normativo che li concretizza. Per quanto si possa essere disponibili ad assumere una posizione di relativismo culturale, è molto difficile liberarsi del tutto dai preconcetti che hanno le radici negli orientamenti dettati dai nostri valori; cioè è sempre probabile che persista il segreto sentimento della superiorità delle nostre convinzioni. Allora il problema fondamentale è quando i miei valori si scontrano con valori diversi.

Mi sembra banale scriverlo, ma mi è molto difficile accettare l'esercizio di pratiche che -in nome di veri o presunti motivi religiosi o tradizioni culturali- attentano alla integrità e alla dignità della persona umana: per esemplificare mi riferisco ai più evidenti, quali le mutilazioni sessuali femminili, la poligamia, la sottomissione assoluta della donna all'uomo, il possesso determinante della famiglia sull'individuo. Mi irrita anche l'uso del velo imposto alla donna, per un mio senso di eguaglianza tra i sessi, per un senso della laicità dello Stato e della società: se combatto le scorie oscurantiste della mia cultura cattolica, perché non devo combatterle nelle altre?

In questi ultimi anni ho cominciato a credere che non possa esistere una società multiculturale, almeno per qualche decennio, sino a quando l'amalgama non si fonde e si ricompone, sperando che avvenga senza crudeli situazioni. Credo piuttosto che possa esistere una società dove vivono a fianco molte culture/etnie/religioni, che a volte possono convivere e dialogare, a volte entrare in conflitto.

Sono anche convinto che sotto il manto della multicultura, e del potenziale conflitto culturale/etnico/religioso, si vogliono nascondere ben altri conflitti, quali quelli sociali, economici e politici; altrimenti non potremmo spiegarci come e perché a fasi di convivenza e di feconde ibridazioni si sono succedute rotture drammatiche e conflitti sanguinosi e insanabili.

Il concetto di multicultura è dunque in crisi; ma lo è anche quello di "melting-pot", come sperimentato in particolare negli USA, ma anche in Canada e in Australia: le diversità che il "crogiolo" nazionale aveva cercato di fondere riappaiono in continuazione, con la conseguenza che crescono le distanze fra le varie comunità, con rigurgiti pericolosi di segregazione o autosegregazione; lì alla metafora della "pentola" (crogiolo), si è sostituito quello della "insalatiera etnica" in cui ogni etnia è chiamata a convivere con le altre senza rinunciare alla propria specificità. Il collante è la comune appartenenza nazionale: ma questo non può essere generalizzato a tutte le situazioni, poiché non è detto che quel tipo di collante sia accettato da tutti o voglia essere fornito da chi è più forte. D'altro canto la più recente esperienza dell'ex Jugoslavia, dell'ex URSS, di Israele, di altre realtà europee (per non parlare del medio ed estremo Oriente) testimonia la difficoltà di tenere insieme con l'autorità dello Stato o con la forza delle armi chi vuole dividersi o addirittura si disprezza e si odia.

Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm in un articolo pubblicato su un giornale italiano5 con il titolo "Perché i popoli non convivono più. La nuova xenofobia che spezza gli Stati" annota che dalla caduta dei regimi dittatoriali, che comprendevano molti popoli, e ancor prima dopo la fine della prima guerra mondiale, gli europei non sono riusciti a creare Stati stabili, liberal- democratici in cui sia garantita una convivenza pacifica di diversi gruppi etnici. E cita John Stuart Mill che aveva già affermato come "istituzioni libere in Paesi con nazionalità diverse sono tanto auspicabili quanto impossibili".

Dal 1918 si è avviata un'omogeneizzazione nazionale sempre maggiore degli Stati: si è sviluppato il concetto - già presente nella seconda metà dell'Ottocento - che uno Stato-nazione, separato in maniera inequivocabile, rappresenti idealmente soltanto un "popolo" di lingua ed etnia definita e il territorio nazionale appartenga a quel popolo. All'inizio del XX secolo, l'Europa era costituita da diciannove Stati; all'inizio del 1938 essi erano ventinove; oggi sono trentanove, senza contare le repubbliche praticamente autonome all'interno della Russia, anche esse rigidamente su base etnica (Tartari, Baschiri, Calmucchi, Ceceni, ecc). Sembra che lo sviluppo del processo di "democratizzazione" demarchi sempre di più le etnie.

Oggi anche negli Stati più stabili economicamente e politicamente la convivenza di popoli diversi diventa sempre più problematica. I motivi sono diversi. Per iniziare si può risalire alla congiuntura economica degli anni '70, che ripropose le vecchie contraddizioni del capitalismo, riportando crisi, incertezza, paura della perdita del posto del lavoro, infine la compromissione dello Stato assistenziale: lo scenario è l'ostilità contro chi non appartiene alla "nazione", con le recriminazioni sentite sovente "la colpa è degli stranieri, vivono alle nostre spalle, ci portano via il lavoro e le case, in cambio ci danno delinquenza". Questo non basta, poiché gli etnocentrismi si sono evoluti in maniera esponenziale negli ultimi decenni proprio nei vecchi Stati di lunga tradizione costituzionale, come una ricerca della comunità smarrita (ovvero difesa della propria identità). L'economia e la società moderne tendono sempre di più alla omologazione, anche culturale, e i gruppi che si sentono minacciati di estinzione tendono a stabilire sempre più nette demarcazioni rispetto agli "altri" di cui ci sente vittime.              

Ciò che è più percepito negli Stati dell'Unione europea è di essere delle ricche fortezze che si difendono dall'invasione di poveri in cerca di lavoro. Nel citato articolo Eric Hobsbawm scrive: "Scorgo il pericolo di un'umanità divisa in due parti: i "nostri" che possiedono i diritti, e gli "altri", lo strato inferiore delle persone necessarie, ma politicamente inesistenti. Non fanno parte di noi". Egli si chiede se non ci stiamo abituando a un mondo dell'ineguaglianza sistematica dei diritti.

Domanda imbarazzante per gli eredi di una civiltà che si basava sul principio dell'eguaglianza tra gli individui. Occorre trovare risposte adeguate di fronte al fenomeno della presenza degli stranieri sulle nostre terre, ben coscienti che questa enorme transumanza di gente alla deriva non si fermerà. Ma non è un caso se principalmente nei Paesi della Vecchia Europa (occidentale) si dibatte il problema della convivenza e si riflette e si cercano soluzioni, anche se con indecisioni e rigurgiti di intolleranza. E' una forma di revisione -quasi catarsi- della nostra storia, come fare i conti con i principi ideali fondamentali che ne sono stati alla base e a cui si ispirano i nostri sistemi politici. Come dire, malgrado tutto, siamo ancora gli eredi della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789).

In questa "terra di mezzo", l'Europa, vi sono ancora Paesi con una coscienza democratica, dove i diritti universali della persona vengono solitamente affermati e, pur se con ritardi e contraddizioni, tutelati. Tali diritti si fondano sulle garanzie sociali, civili e politiche anche per gli stranieri presenti sul nostro territorio; e nello stesso modo indicano i vincoli da rispettare. In altri termini, la convivenza -e la gestione del conflitto- tra cittadini stranieri e Stato democratico dipenderà principalmente dalla capacità di distinguere tra ciò che è accettabile, ancorché diverso -pure radicalmente diverso- e ciò che non lo è. In questo è la differenza tra lo Stato laico e democratico e gli Stati dispotici e confessionali.

Per concludere ritengo che la convivenza di etnie e culture diverse sia possibile in Europa e in un futuro, certamente non prossimo, la loro fusione: sarà tutto faticoso e difficile ed è sicuramente la sfida più drammatica per la sopravvivenza della nostra civiltà.

 

Note

1. Traduzione del testo Begegnungen und Konflikte im "Land der Mitte, comparso in Ein Fisch ist keine Currywurst, Frankfurt (D), IKO, 2001, volume collettaneo con scritti in memoria del prof. Karl Homut.

2. Le sintesi di questo seminario e di quello successivo del 1990 sono state pubblicate nel volume Nuove minoranze in Europa: quale formazione, a cura di Karl Homuth e Luigi Zà, editore Capone, Lecce, 1991.

3. Ricordo che con il termine "barbaroi" gli antichi greci indicavano coloro che parlavano un'altra lingua.

4. Luigi Zà, Incontro con l'Albania , Centro internazionale della grafica, Venezia, 1996.

5. cfr. "Corriere della Sera" , 7/5/1999

 


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