Fabio Bacchini - Anno II, Numero 2, 2001

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Saggi

Bioetica, Libertà, Ingiustizie

di Fabio Bacchini

Dal futuro al presente

    Le biotecnologie, ormai, esistono. Dopo decenni in cui il numero sempre crescente di articoli di quotidiani che ne parlava era costretto a un uso eccessivo di verbi modulati al tempo futuro ("un giorno sarà possibile..."; "tra non molti anni potremo..."), oggi i giornalisti inseguono gli eventi: accade qualcosa di stupefacente, e bisogna tentare di commentarlo, raccogliere qualche giudizio, rintracciare un esperto che copra, con un'analisi tempestiva, il silenzio generale della sorpresa. Stiamo sviluppando tecnologie così avanzate da riuscire a produrre risultati che ci prendono quasi in controtempo: sono utili? Sono dannosi? Come desideriamo disporne? Non ci avevamo mai pensato. La grande discussione pubblica che circonda ogni singola possibilità biotecnologica - l'inevitabile dissidio che pullula intorno a ogni nuovo passo del progresso biotecnologico - è indice di una precisa incertezza morale: non abbiamo ancora deciso come giudicarli. Per certi versi, questo ritardo è positivo, poiché segnala che abbiamo scampato il peggior pericolo, l'adesione frettolosa e non razionale a certe posizioni, operata soltanto allo scopo di "poter disporre di un'opinione". Ma, d'altra parte, il ritardo è preoccupante, perché mentre noi discutiamo per cercare di capire le nostre stesse idee su certi eventi, gli eventi si verificano. Quando un laboratorio di ricerca scopre il modo per poter fare una certa cosa, l'assenza di giudizi morali condivisi può essere un evento infausto: durante il tempo che ci occorre per scoprire cosa pensiamo al riguardo, quel potere esiste, e tutti possono usarlo in maniera selvaggia, irresponsabile, superficiale, crudele.   

    Sarebbe perciò opportuno che ci preparassimo, e non ci lasciassimo trovare sprovvisti di un giudizio morale sugli usi dei nuovi poteri che la biotecnologia man mano ci consegna; i giornalisti dovrebbero aiutarci scrivendo, ancora, articoli che prefigurino le nuove scoperte, anziché riferirle quando siano già state fatte. In mancanza di giornalisti tanto encomiabili, dovremmo impegnarci noi, inserendo tra le nostre letture i grandi scrittori di fantascienza, i grandi visionari, gli anticipatori; e la letteratura filosofica sulla bioetica, quale quella che è raccolta in questo numero de Il Dubbio. Perché, in ogni caso, è vero quanto dice John Harris (un autore da leggere: un divulgatore del futuro): la decisione che dovremo prendere non sarà se usare i nuovi poteri oppure no, ma come, e in che misura.

Argomentazioni

    Le persone passano in molti modi diversi dallo stato in cui non possiedono una precisa opinione morale su una certa questione x allo stato in cui la possiedono. A mio avviso, l'unico modo corretto consiste nell'ascoltare le migliori argomentazioni a favore di ognuna delle posizioni morali possibili rispetto a x, nell'ascoltare le migliori argomentazioni contro ognuna di esse, e nel valutare quale posizione risulta, alla fine del confronto, quella più solida. Questo processo di costruzione di un'opinione morale costa tempo e fatica. Inoltre, non è mai definitivo: non saremo mai certi di avere ascoltato tutte le possibili argomentazioni, e dovremo ammettere perciò che sarà sempre possibile che ci imbattiamo in un'argomentazione mai ascoltata, decisiva per ribaltare il nostro giudizio (un'argomentazione inattaccabile a sostegno della conclusione dei nostri avversari; o un'argomentazione mortale per la nostra conclusione). Il fatto che ci sforziamo incessantemente di cercarla è la migliore garanzia che essa non esista - che cioè noi abbiamo ragione, al momento, a sposare l'opinione che sposiamo. Questa visione della bioetica come un'impresa infinita è chiaramente un calco del popperismo, e della sua teoria evoluzionista della conoscenza. Ma la filosofia della scienza di Popper lavorava su un'asimmetria: le proposizioni osservative non erano in grado di verificare gli asserti universali della teoria, ma erano in grado di falsificarli. La nozione di 'argomentazione', invece, si restituisce a una simmetria della provvisorietà: le argomentazioni non sono mai risolutive, né quando vanno a sostegno di una posizione, né quando vanno contro. (Potremmo accostare questa immagine della bioetica non tanto alla versione del popperismo che Lakatos (1970) chiama falsificazionismo dogmatico - contenente l'idea avventata che esista la possibilità di confutare con assoluta certezza una teoria - bensì a una versione del popperismo più matura, che Lakatos battezza falsificazionismo metodologico, dotata della consapevolezza che nessuna falsificazione è implacabile). Inoltre, laddove Popper lascia spazio alla corroborazione solo in quanto assenza di falsificazione - e in misura proporzionale al numero e alla severità dei controlli potenzialmente falsificanti che si sono effettuati - la nozione di 'argomentazione' ci permette qui di ricavare il consolidamento di una posizione morale da quattro diverse fonti: la forza delle argomentazioni favorevoli, la debolezza delle argomentazioni contrarie, la debolezza delle argomentazioni a favore delle posizioni avversarie, la forza delle argomentazioni contro le posizioni avversarie. (Restando su Lakatos, guadagniamo qui una dimensione relazionale, comparativa e storica che appare anche nella sua ricostruzione della fase ultima e più alta del falsificazionismo, quel falsificazionismo metodologico sofisticato che sconfina ormai nella metodologia dei programmi di ricerca scientifici sviluppata dallo stesso Lakatos). Ogni modo di giungere ad avere un'opinione morale su x che non passi per un'esplorazione razionale della forza e della debolezza di tutte (o almeno delle principali) argomentazioni che supportano o minano tutte (o almeno le principali) opinioni morali su x, mi sembra viziato da gravi difetti. Per esempio, se qualcuno adotta un'opinione a riguardo a x sulla base del fatto di avere considerato solo le argomentazioni a favore di a (o, peggio, solo una delle argomentazioni a favore di a), egli potrebbe avere adottato un'opinione che non coincide con l'opinione che egli stesso riterrebbe di dover adottare se avesse invece esaminato anche le argomentazioni a favore di altre posizioni, e anche le argomentazioni contro a. Più spesso, poi, si adottano opinioni senza affidare alcun ruolo alle argomentazioni: si aderisce a un'opinione perché si tratta dell'opinione professata da qualcuno in particolare (argomento di autorità; spinta imitativa); o perché si tratta dell'opinione consegnata dall'ambiente sociale di riferimento (la religione, la morale ufficiale: queste opinioni di fondo sono spesso vissute cognitivamente come 'naturali' e 'indubitabili'; le loro negazioni sono 'assurde' e 'inconcepibili'); o perché per caso, in un momento in cui si aveva vitale bisogno di avere un'opinione (qualsiasi) riguardo alla questione x, ci si è imbattuti nell'opinione a, e si è aderito in maniera irriflessa ad a.

Una bioetica laica

    Le argomentazioni possono essere migliori o peggiori. Un'argomentazione ha qualcosa che non va quando è vaga o imprecisa, o quando è fallace o non conseguente, o quando fa uso di premesse scorrette o non dichiarate e problematiche. Molte argomentazioni sarebbero buone solo se ci fossero buone ragioni per ritenere che le premesse che esse utilizzano siano vere: ma, in assenza di una dimostrazione della verità o della plausibilità delle premesse, tutti coloro i quali non credono nella verità o nella plausibilità delle premesse possono a buon diritto ritenere deboli o nulle le argomentazioni che da esse si sviluppano. Questo problema assedia le argomentazioni che procedono da premesse di carattere religioso. Le argomentazioni religiose muovono spesso da premesse discutibili, del tipo di "Dio esiste" o "Il cosmo è stato creato da Dio allo scopo di fornire una dimora per l'uomo" o "La vita umana è stata creata a immagine e somiglianza di Dio". Non voglio affrontare la questione se queste premesse siano vere o meno; il punto è che esistono persone che non accettano queste premesse - tutti coloro che sono atei oppure aderiscono a religioni che non affermano quanto detto - e che, inoltre, tali persone non possono essere portate a credere a quelle premesse tramite l'esposizione a qualche evidenza o a qualche dimostrazione convincente (più convincente delle premesse stesse). Stando così le cose, chi confeziona un'argomentazione bioetica facendo un uso non eliminabile di una premessa di carattere religioso sa di non rivolgersi a tutti gli esseri umani possibili, ma soltanto all'insieme degli esseri umani i quali accettano quelle premesse: ovvero, soltanto all'insieme degli adepti della stessa religione a cui l'argomentatore appartiene, e da cui attinge le sue premesse.

    La richiesta di una bioetica laica si risolve soltanto nell'esigenza di disporre di una bioetica che lavori tramite argomentazioni rivolte il più possibile a ogni essere umano, e non solo a certi sottoinsiemi dell'umanità (coloro i quali aderiscono a una certa religione; coloro i quali aderiscono a una certa ideologia politica; e così via). Se le argomentazioni divengono settarie, e se i presupposti delle argomentazioni non sono accettabili da tutti, le argomentazioni non possono svolgere il ruolo di elementi di mediazione e di costruzione dell'accordo che, invece, sono chiamate a ricoprire in questo quadro. Va notato che l'idea di bioetica laica appena disegnata non disdegna nessuna conclusione, nessuna posizione possibile riguardo a qualsiasi questione; esclude come illegittime solo le argomentazioni che facciano uso esplicito o, peggio, implicito, di premesse non condivisibili da tutti. In questa chiave, possono risultare illegittime argomentazioni che supportano posizioni tradizionalmente "laiche", e possono risultare perfettamente idonee argomentazioni che supportano tipiche posizioni religiose. Ad essere laiche non sono a rigore mai le posizioni, ma solo, eventualmente, le argomentazioni; ed è interesse e compito di coloro i quali appartengono a uno schieramento di pensiero caratterizzato (una religione, un partito politico) argomentare in modo laico a favore delle proprie conclusioni preferite - laddove 'argomentare in modo laico' vuol dire 'argomentare senza fare uso di premesse non universalmente condivisibili'.

    Il progresso delle biotecnologie inaugura ed esige dunque una ingente discussione morale; tale discussione morale si nutre degli apporti conoscitivi di numerose discipline - probabilmente di tutte le discipline; ma segnatamente della medicina, della biologia, della psicologia, della sociologia, dell'antropologia, della filosofia. 'Bioetica' è il nome che diamo a questo crocevia di voci che tentano di convincersi. La tensione è verso la giustificazione argomentativa di posizioni morali. L'appello è alla razionalità umana, non alle variazioni episodiche e geografiche di carattere religioso o politico-ideologico. 'Laica' (ma potremmo scegliere anche un altro termine meno equivocabile) è il complimento che rivolgiamo a un'argomentazione che non faccia uso di premesse parziali e non meno discutibili della conclusione a sostegno della quale è rivolta; omaggiamo del titolo di 'laica' anche una bioetica (un insieme di argomentazioni contrapposte a sostegno e contro posizioni morali su certi usi delle biotecnologie) costituita da argomentazioni laiche.

Scontri fra diritti

    Perché si deve discutere sulla moralità degli usi delle biotecnologie? A causa del fatto che spesso l'uso di una biotecnologia può produrre delle ingiustizie. Il fatto che sorgano nuove possibilità d'azione comporta il rischio che le nuove azioni offrano vantaggi ad alcuni (tipicamente, coloro che agiscono), ma svantaggi ad altri (tipicamente, coloro i quali non agiscono). I primi sono ora più liberi, e possono affermare di stare soltanto esercitando la propria libertà. I secondi, d'altra parte, fanno notare che l'aumento della libertà altrui va a limitare la loro libertà di non subire le conseguenze indesiderate delle altrui azioni. Si crea perciò un contrasto. Se vogliamo, possiamo colorare questo tipo di collisione con l'assegnazione di diritti: dal momento della comparsa di una nuova biotecnologia, gli utenti affermano di avere il diritto di usarla, e chi ne subisce le conseguenze sgradite contrappone il proprio diritto di non subire tali conseguenze. È ciò che avviene nelle fantasiose eventualità di discriminazioni genetiche: le compagnie assicurative, i datori di lavoro e le università potrebbero desiderare di avvalersi dell'esame delle predisposizioni genetiche di coloro che chiedono di stipulare un'assicurazione sulla vita (per far pagare di più chi è predisposto al cancro), di coloro che chiedono di essere assunti (per scartare chi è predisposto all'instabilità emotiva e alla disonestà, all'insubordinazione, al rischio), di coloro che chiedono di essere ammessi ad un corso di studi molto ambito (per accettare solo chi è predisposto al talento matematico). I selezionati direbbero di "avere diritto a essere trattati tutti allo stesso modo", o almeno di "avere diritto a essere valutati come persone, e a non essere discriminati sulla base del corredo genetico"; i selezionatori risponderebbero di "avere diritto ad avvalersi delle tecnologie più sofisticate per censire nei candidati le qualità che ritengono importanti; in questo senso, l'esame e il test scritti non sono meno discriminanti, sono solo più rozzi e arretrati". Chi avrebbe ragione? Ecco un tipico scontro frontale fra diritti.

    I casi di scontri fra diritti sono ancora più interessanti e problematici quando sono ingarbugliati dalle questioni riguardanti l'ingresso e l'uscita dalla vita: nascita e morte. Una delle ragioni sta nella natura estrema delle situazioni. Nascita e morte sono gli eventi più cruciali che possano accadere a un essere vivente, e ove siano implicate la nascita e la morte, le discussioni sono subito per ciò stesso più vive e delicate, i dilemmi più profondi e di difficile soluzione (per esempio, riconosciamo che ognuno ha il diritto di fare ciò che vuole della sua vita - purché ciò non rechi danni ad altri; ma allora perché non ammettiamo tranquillamente che ognuno ha il diritto di morire come e quando vuole? Il problema dell'eutanasia). Un'altra ragione sta nel fatto che, nelle situazioni in cui sono coinvolte le nascite e le morti, spesso ci troviamo di fronte a proprietari di diritti che, a differenza dei proprietari dei diritti in competizione con i loro, non possono difendere i propri diritti: perché sono morti, o perché non sono ancora nati. In queste circostanze, può sembrare corretto non permettere che l'assenza dei proprietari dei diritti influisca sulla legittimità di tali diritti, dunque sulla opportunità che tali diritti siano difesi (l'idea è che dovremmo rispettare i diritti di chi non esiste così come dovremmo rispettare i diritti di chi è momentaneamente altrove: entrambi non possono lottare per i propri diritti, ma ciò non dovrebbe influire sulla correttezza morale dell'esigenza di rispettarli). Ma si può anche discutere sulla correttezza ontologica di una simile argomentazione: d'altra parte, se non esistono i soggetti ai quali spettano i diritti, sembra che si possa concludere che non esistono nemmeno i diritti di quei soggetti. Ecco allora alcuni problemi vivissimi: i diritti delle generazioni future, i diritti dei bambini non ancora nati. Nel grande dibattito sull'aborto è determinante anche la risposta ad un'altra domanda: quando si comincia ad esistere? La soppressione di un embrione rappresenta un caso di omicidio (si annienta un individuo che aveva già iniziato ad esistere) oppure un caso, innocuo, di impedimento dell'inizio dell'esistenza di un individuo (si interviene tempestivamente per evitare che un individuo inizi ad esistere; non diversamente che con la contraccezione o la castità)? Ma mentre la discussione sull'aborto ci ha allenato a rivolgere tutta la nostra attenzione al tema dei diritti alla vita - i diritti ad esistere - oggi sta emergendo una rinnovata richiesta di sensibilità per i diritti ad esistere in un certo modo. L'idea è che abbiamo una responsabilità verso gli individui che mettiamo al mondo: dobbiamo assicurare loro il rispetto di un pacchetto di diritti minimi che tutti hanno ancor prima di iniziare ad esistere (e questo non è, appunto, un po' paradossale?). Secondo alcuni teorici, tali diritti sono diritti a non "nascere con handicap così seri da condannare anticipatamente alla frustrazione molti interessi fondamentali" (Steinbock 1986, p. 19). Secondo altri, si tratta di diritti a non avere una vita che sia peggiore della non-esistenza (Feinberg 1986): una condizione più forte di quella richiesta da Steinbock. In ogni caso, si tratta di diritti che esistono prima che l'individuo che li possiede inizi ad esistere; cosicché, se un individuo inizia ad esistere con tali diritti già violati in partenza, egli ha subito un torto - ed un torto ormai irreparabile. Questo tipo di assegnazione di diritti provoca due classi di conseguenze singolari: la possibilità teorica, da parte di figli con vite handicappate e penose, di intentare cause civili e penali nei confronti dei medici o dei propri genitori (cause sempre più diffuse nel mondo di lingua inglese); e la necessità di tutelare coloro i quali non potrebbero che iniziare ad esistere con diritti violati (tutti gli embrioni malformati fin dal concepimento) riconoscendo loro, prima di iniziare ad esistere, dei diritti a non cominciare ad esistere. Naturalmente, l'ascrizione di simili diritti non sarebbe compatibile con l'ascrizione, agli stessi individui, di contemporanei diritti ad esistere, su cui insistono gli antiabortisti: pena la conseguenza di non lasciare alcuna possibilità di non violare diritti a quel genitore che per disgrazia concepisca un figlio incurabilmente deforme o malato, dal momento che un simile genitore può per definizione solo scegliere tra far nascere un bambino menomato, o abortire un embrione. Ma i diritti a non cominciare ad esistere non sono certo gli unici diritti che possono essere violati al debutto stesso dell'esistenza di un individuo: ne rappresentano solo un caso particolare.

Ingiustizie verso chi nasce

    Se le ingiustizie possibilmente commesse nei confronti di coloro che non facciamo nascere si configurano esaustivamente come casi di violazione di diritti ad esistere, le ingiustizie commesse nei confronti di coloro i quali facciamo nascere possono essere di molteplici tipi, poiché i diritti che possiamo essere disposti a riconoscere come i diritti che vengono violati sono numerosi. In linea di principio, la materia è molto complessa. Infatti, gli unici casi scarsamente problematici sono quelli in cui il progresso biotecnologico mette di fatto a disposizione dei genitori le tecniche atte a curare o a rimuovere una deformità o una malattia con cui l'embrione appena concepito sarebbe altrimenti destinato a nascere; se i genitori si rifiutano tuttavia di fare ricorso alle tecniche terapeutiche in questione, il figlio, una volta nato, può legittimamente asserire di aver visto violato il suo diritto a nascere sano. Ma già dobbiamo fare delle precisazioni: se il progresso era giunto a mettere a punto le tecniche terapeutiche del caso, ma i genitori non avevano i mezzi economici (o d'altro tipo) per procurarsele, il figlio può ugualmente protestare per un'ingiustizia subita, ma deve ora protestare con la società (le istituzioni, i responsabili politici dell'avvenuta esclusione dei suoi genitori dall'uso delle biotecnologie), non con i genitori.

    D'altra parte, se il progresso non era (ancora) giunto, al momento della gestazione dell'embrione malsano, a mettere a punto le opportune tecniche terapeutiche, l'individuo che è nato sviluppandosi da quell'embrione non potrà ritenere che qualcuno abbia violato il suo diritto a nascere sano nel senso che qualcuno poteva farlo nascere sano, e ha omesso di fare ciò che occorreva per farlo nascere sano. Ciò che può fare quest'individuo è solo appellarsi ad un 'diritto a nascere sano' inteso nel senso di un 'diritto a non nascere non sano': appellarsi cioè a quei diritti a non cominciare ad esistere in condizioni gravemente handicappate di cui parlavamo prima. L'individuo rimprovera allora i genitori di averlo messo al mondo, di non aver fatto ricorso a un caritatevole aborto: e può anche pensare di portare i genitori in tribunale. Oltre agli interventi terapeutici, ci sono tutti gli interventi non terapeutici. Ora, è fin troppo evidente che un individuo che, allo stato di embrione, sia stato sottoposto a interventi che l'hanno danneggiato, può rivendicare di aver subito un'ingiustizia: e questo vale sia per gli interventi che non sono manipolazioni genetiche (una madre che assume droghe), sia per gli interventi che sono manipolazioni genetiche; inoltre, vale sia per gli interventi danneggianti preterintenzionali (in cui il responsabile del danno non agiva col proposito di danneggiare, ma agiva - od ometteva di agire - in un modo che, senza che egli lo desiderasse, comunque causava un danno altrimenti evitabile), sia, a maggior ragione, per gli interventi intenzionalmente danneggianti. Cosa dovremmo dire delle manipolazioni genetiche non terapeutiche e però anche non danneggianti, ovvero di quelle che, senza essere terapeutiche, siano neutrali o migliorative? Non è difficile scorgere la possibilità che gli individui che siano stati embrioni mentre tali manipolazioni erano tecnicamente praticabili si lamentino, poi, da adulti, sia nei casi in cui le abbiano subite, sia nei casi in cui non le abbiano subite. Supponiamo infatti che sia possibile, per i genitori, modificare la linea somatica o la linea germinale dell'embrione che essi hanno appena concepito, in modo da intervenire su un gene che controlla tratti o abilità particolari. I genitori potrebbero incidere sul sesso del nascituro, ma anche sui talenti e sui gusti. Potrebbero convertire i previsti occhi neri in occhi verdi; la prevista tendenza alla ottusità mentale in un'intelligenza logica; la prevista tendenza all'indolenza in una propensione al tennis agonistico. I futuri figli di questi genitori potrebbero ben lamentarsi di non essere stati modificati per essere predisposti geneticamente ad essere più belli o più intelligenti o più atletici di come sono. In questo senso, essi (che devono competere con altri individui modificati) fanno notare che, nella corsa a ciò che più desiderano (un lavoro da indossatore, un posto da professore universitario, una medaglia d'oro) sono svantaggiati rispetto ad altri individui, a causa di una colpevole omissione dei loro genitori; essi hanno subito un'ingiustizia a non essere messi in linea con gli altri, e nella vita si trovano ad avere opportunità di partenza inferiori agli altri. Ma anche se i genitori ricorrono alle migliori biotecnologie a loro disposizione, e riforniscono i loro figli di occhi azzurri, alta statura, intelligenza logico-matematica, abilità senso-motorie, grinta, entusiasmo e indomabilità, ecco che i figli possono rivendicare di aver subito un'ingiustizia nel senso di avere subito un'illegittima imposizione di una volontà altrui. Essi non hanno mai desiderato di avere quei tratti in particolare, e imporli loro (modificando un processo che essi riconoscono come giusto, quello della distribuzione casuale delle caratteristiche individuali ad opera della 'lotteria dei talenti') è stato un atto tanto violento quanto incatenarli o minacciarli per costringerli ad essere, una volta nati, in un certo modo. I genitori desiderano spesso che i loro figli abbiano certe virtù tradizionalmente stimate, ma i figli hanno ragione nel dire che questi desideri non devono diventare imposizioni. Un genitore che modifica i geni di suo figlio inscrive profondamente i propri gusti nel destino, nella natura della personalità di un altro essere, e tutto ciò senza averne ricevuto alcun permesso, alcun invito. Questa prepotenza, che somiglia molto alla costrizione, alla forzatura, rappresenterebbe un'ingiustizia commessa verso i nascituri: proiettare su di loro le ambizioni dei genitori, in modo però più infido e definitivo di quello costituito da un'educazione rigorosa, in cui almeno i figli hanno a disposizione la carta estrema del rifiuto e della ribellione. L'analogo sarebbe appunto una fanciullezza passata ai ceppi: mio padre voleva che io fossi un atleta, e mi ha obbligato ad avere un corpo da atleta, che io invece non avrei desiderato. Dunque, la ascrizione di tratti genetici positivi può rappresentare un'ingiustizia sia che venga effettuata, sia che non venga effettuata. Per quanto riguarda l'ascrizione di tratti genetici neutrali, sia che si parli di tratti di scarsa incidenza sull'identità dell'individuo (come il colore degli occhi), sia che si parli di tratti che hanno invece un'importanza strutturale nel sancire la natura dell'identità personale (come il sesso, almeno nelle società in cui questo tratto sia - fortunatamente - neutrale), sembra che sia potenzialmente più configurabile come un'ingiustizia il manipolare che il non manipolare. Mentre un individuo cui sia stato cambiato il colore degli occhi potrebbe accusare i genitori di indebita ingerenza nella sua vita, un individuo cui il colore degli occhi non sia stato modificato sembra non possa individuare nessuna ingiustizia in ciò, almeno finché si assume che le colorazioni dell'iride siano tutte a priori ugualmente preferibili (ed è ciò che abbiamo assunto chiamando questo tratto 'neutrale'). Ma, appunto, se il tratto è davvero neutrale, che male può fare il genitore nel non affidarlo al caso, e nell'orientarlo a suo piacimento? Se egli preferisce gli occhi neri, o azzurri, non ha egli il diritto, a parità di condizioni, di far sì che gli occhi di suo figlio siano come egli li preferisce (dal momento che non ha modo di chiedere al figlio come il figlio li preferisce), piuttosto che come capitano? E, a maggior ragione, non ha un genitore il diritto di modificare i geni del figlio in direzione della positività? Non sarebbe, questo, perfino un suo dovere, identico a quello che gli impone di modificare i geni del figlio in direzione dell'evitamento delle malattie?

    Come scrivono Buchanan, Brock, Daniels e Wikler (2000, p. 156), "cosa potrebbe essere più naturale del fatto che i genitori aspirino al meglio", e tentino di avere "il migliore bambino possibile"? D'altra parte, i figli possono ritenere 'ingiusto' che le loro vite non siano state desiderate a prescindere dalla natura specifica che esse potessero assumere, ma invece in funzione di certe proprietà che esse erano deputate a portare e ad esprimere. Sarebbe avere subito un torto essere stato desiderato non in quanto persona, ma in quanto futuro campione di tennis, o in quanto futuro brillante medico, e così via. Questo significherebbe essere solo strumenti nelle mani progettuali di qualcuno, e - quel che è peggio - con progetti nati in funzione di scopi egoistici, riguardanti altre persone (i genitori). C'è da dire che, se fossero queste le considerazioni proposte, non molti dei figli attuali - figli naturali con il genoma non modificato - potrebbero vantare una nascita svoltasi nel rispetto di simili condizioni. Molti figli non manipolati sono nati per sbaglio, addirittura senza un desiderio che essi nascessero, o con un desiderio opposto; e molti di quelli che sono stati desiderati non sono tuttavia amati, o sono solo parzialmente amati, o sono sufficientemente amati da genitori che però li amano solo in quanto futuri campioni di tennis o in quanto futuri brillanti medici. Ecco allora che, dietro le ingiustizie apparentemente inaugurate dalle biotecnologie, si intravedono ingiustizie molto più antiche, molto più di base, molto meno d'avanguardia e al contrario molto più universali. È pur vero che, se un genitore può manipolare i geni in direzione terapeutica e non lo fa, o se un genitore manipola i geni danneggiando, o se un genitore manipola i geni prepotentemente e, senza scrupoli, scalpella e confeziona un figlio su misura per certe sue ambizioni trasferite, il figlio può sentirsi vittima di un'ingiustizia che, almeno nell'immediato, appare di tipo nuovo, perché resa possibile (nelle sue configurazioni fenomeniche) dalle nuove possibilità biotecnologiche. Si contrastano qui un diritto del genitore alla libertà riproduttiva (egli ha il diritto di decidere se, con chi e quando procreare: nella misura in cui sarà possibile decidere come, il genitore vorrà avere il diritto di decidere anche come procreare) e un diritto del figlio a non nascere in condizioni danneggianti, svantaggiose, o comunque imposte. Questi due diritti si scontreranno sempre di più, perché le biotecnologie li immetteranno sempre più su rotte di collisione. E ogni volta che prevarrà l'uno, la sconfitta dell'altro autorizzerà a parlare di ingiustizie in atto.

Esclusioni dall'uso delle biotecnologie

    La bioetica non vede accendersi le proprie discussioni solo in seguito all'esame delle conseguenze dell'uso delle biotecnologie. Certo, per effetto dell'uso delle nuove biotecnologie, possono configurarsi numerose ingiustizie. Ma altre ingiustizie, più basilari, possono sorgere in seguito al fatto che alcuni soggetti sono esclusi dall'uso di alcune risorse biotecnologiche. I problemi dell'esclusione da una biotecnologia sono problemi sia bioetici sia politici: questa sovrapposizione ci ricorda che la discussione bioetica è anche una discussione politica, e conferma la natura composita, multietnica, inesauribile della bioetica (composta anche della più seria controversia politica, oltre che dalla ricerca medica e biologica, e da tutto il resto). La dotazione di nuovi poteri biotecnologici è catalogabile come una forma di incremento della libertà. Ma cosa vuol dire essere 'liberi'? Cosa vuol dire essere 'più liberi'? Perché far diventare 'più liberi' solo alcuni dovrebbe poter costituire un'ingiustizia commessa nei confronti degli altri? Quali modi - alcuni più ovvi ed evidenti, altri più infidi - esistono per escludere?

Aumenti di libertà

    Il progresso delle biotecnologie assegna un maggior grado di libertà ad almeno alcune persone: consente loro di poter fare cose che, altrimenti, esse non potrebbero fare. In questo senso, il progresso biotecnologico può essere visto sotto la stessa luce positiva del progresso tecnologico in generale. Il telefono, la televisione, il computer, le fibre ottiche, la chirurgia laser: sono esempi di passi in avanti nello sviluppo tecnologico che consentono ad alcuni individui (gli utenti di quella tecnologia) di incrementare il numero delle opzioni a loro disposizione. Essi, senza quella tecnologia, non avrebbero potuto far sapere alla propria moglie che il loro treno è in ritardo; ascoltare le dichiarazioni del Presidente della Repubblica Francese; scrivere testi con correzione ortografica automatica; sopravvivere a un'operazione chirurgica. Ora possono farlo. Essi sono perciò più liberi. Va detto che all'interno dell'interpretazione metafisica del concetto di 'libertà' esistono visioni diverse. Secondo l'idea disposizionale di 'libertà', un individuo è più libero di un altro se può fare più cose dell'altro. Una concezione rivale afferma che, per essere liberi, non occorre poter fare tante cose, ma basta poter fare ciò che si desidera fare. Queste due concezioni possono scontrarsi, per esempio in casi in cui un individuo possa fare mille cose, ma non quella che desidera fare, e un secondo individuo possa fare una sola cosa, che però è quella che desidera fare (Feinberg 1973, p. 17). Chi è più libero tra i due? Sembra tuttavia che il progresso tecnologico renda più liberi in entrambi i sensi: ovviamente nel primo, giacché consegna alle persone ulteriori possibilità di comportamento, e anche nel secondo, poiché, se assumiamo che i desideri delle persone sono fissi, fornire nuove possibilità d'azione significa concedere, alla lunga, nuove possibilità di realizzare quei desideri. Non è detto che ogni tappa del progresso costituisca per tutti la realizzazione di un desiderio: ma nessuna tappa è per qualcuno la frustrazione di un desiderio. Ma che il progresso tecnologico renda più liberi nel secondo senso può essere immediatamente messo in discussione. In particolare, si può mettere in dubbio l'assunzione secondo cui i desideri che animano le persone non siano influenzati dal progresso stesso. Se il progresso retroagisse sull'insieme dei desideri delle persone, potrebbe accadere che una certa innovazione tecnologica soddisfi col suo apparire alcuni desideri, ma vada a crearne altri, magari più numerosi di quelli appena soddisfatti, e al momento irrealizzabili. Se così fosse, questa innovazione tecnologica avrebbe causato una frustrazione di desideri più ingente della contemporanea soddisfazione di desideri. La sommatoria dei suoi effetti sarebbe negativa: essa avrebbe complessivamente reso meno libere le persone nel secondo senso (mentre, nel primo senso, le avrebbe regolarmente rese più libere). Ora, in effetti non è assurdo pensare che un'innovazione produca anche desideri frustrati. Primo: molti individui non avevano mai pensato che potesse esistere quell'innovazione, né il beneficio da essa apportato; di conseguenza, essi non avevano mai desiderato di poter disporre di quel beneficio. Iniziano a desiderarlo con l'avvento dell'innovazione tecnologica: ed ecco allora che escluderli dall'uso della tecnologia produce un desiderio frustrato in più (e non, invece, la permanenza della frustrazione di quel desiderio, come ci si potrebbe aspettare). Secondo: gli esclusi iniziano anche a desiderare di non essere esclusi dall'uso dell'innovazione tecnologica, e questo è un altro desiderio frustrato distinto, che compare con la comparsa della innovazione tecnologica. Terzo: un'innovazione tecnologica scatena spesso, sia negli esclusi che nei non esclusi, i desideri di innovazioni successive, i quali sono desideri per definizione al momento irrealizzati. Poiché uno scatto tecnologico produce anche frustrazioni di desideri, il fatto che il progresso tecnologico renda più liberi nel secondo senso non può essere dato per scontato, e dovrebbe essere appurato empiricamente, caso per caso, volta per volta.

Esclusioni dall'aumento di libertà

    Quando si rende disponibile una nuova tecnologia, è spesso vero che non tutti coloro i quali vorrebbero usufruirne riescono a farlo. Sussiste un certo numero di esclusi. Il criterio di esclusione può variare: geografico (un cittadino europeo può utilizzare tecnologie non disponibili a un cittadino africano), economico, culturale, meritocratico, e così via. Il punto è che ogni sottoinsieme escluso può rivendicare di essere stato escluso ingiustamente: di aver subito una discriminazione ingiusta, che consiste nel rendere più libero soltanto un sottoinsieme dell'umanità, sbarrando al sottoinsieme complementare la via per l'identico incremento di libertà. Una simile imparità, si sostiene, è evidentemente ingiusta. Qualcuno potrebbe contestare le ragioni di questa protesta. Costui inizierebbe col precisare che, certamente, vi sarebbe ingiustizia se l'aumento della libertà del sottoinsieme di persone che usa la tecnologia avesse ricadute dannose sul sottoinsieme che non lo usa. Ma, esclusa questa eventualità, è evidente - continuerebbe la sua argomentazione - che non c'è altra possibilità di riscontrare ingiustizie.

    L'idea che la libertà degli esclusi diminuisca è semplicemente ridicola, e se la seconda accezione di 'libertà' conduce a questa conclusione, ciò mostra solo quanto sia inadeguata una tale accezione. È chiaro a tutti che, mentre la condizione di coloro che hanno accesso alla tecnologia muta favorevolmente, la condizione degli esclusi è a tutti gli effetti immutata. Prima, essi non potevano fare qualcosa; dopo, essi continuano a non poter fare qualcosa. Le loro possibilità sono invariate. Nessuno commette ingiustizie nei loro confronti, perché nessuno li rende meno liberi. In effetti - proseguirebbe l'obiezione - la lettura più corretta della situazione è quella effettuata alla luce dell'idea disposizionale di 'libertà' (il primo senso). Prima dello scatto tecnologico, gli esclusi potevano agire, in date circostanze, nei modi alternativi a, b, c; dopo l'arrivo della tecnologia da cui sono esclusi, essi continuano a poter agire, nelle stesse circostanze, nei modi a, b, c; non è pertinente, ai fini della valutazione della libertà di cui godono, notare che qualcun altro, che in precedenza poteva scegliere come loro soltanto tra a, b, c, ora può invece scegliere tra a, b, c, d, e. La risposta a questa obiezione potrebbe rivendicare le ragioni dell'adozione dell'idea di 'libertà' nel secondo senso. Poiché ciò che conta è la realizzazione o la frustrazione dei desideri, è importante valutare quali desideri siano o non siano presenti nelle persone prima dell'avvento di una tecnologia, e dopo, nel momento in cui tali persone ne siano escluse. Nel momento dell'esclusione, è molto probabile che gli esclusi abbiano molti desideri frustrati che essi semplicemente non avevano (e che quindi non erano frustrati) prima della innovazione tecnologica. Ma questa risposta ha alcuni difetti. In primo luogo, asserisce che bisogna basarsi sull'idea di 'libertà' nel secondo senso, ma non fornisce alcuna argomentazione a supporto di questa asserzione, ed è dunque sospettabile che alla base dell'asserzione ci siano solo motivi di convenienza. In secondo luogo, l'obiettore può proporre l'esempio di una nuova tecnologia che permetta di volare a corpo libero. Il desiderio di volare, per quanto oscuramente, è un desiderio coltivato almeno una volta da tutti gli esseri umani di tutte le epoche, e non è quindi creato dalla comparsa della tecnologia. In questo senso, la condizione degli esclusi non varierebbe, perché un antico desiderio frustrato continuerebbe ad esistere come desiderio frustrato. L'obiettore avrebbe così dimostrato che anche l'adozione, per quanto ingiustificata, dell'idea di 'libertà' nel secondo senso, non andrebbe sempre a vantaggio degli scopi dei suoi avversari. Sembra dunque che, se vogliamo mettere in difficoltà l'obiettore, dobbiamo ricorrere a una differente strategia. La migliore disponibile è forse questa: potremmo accettare il presupposto dell'obiettore secondo cui la libertà è più intuitivamente misurabile mediante l'idea disposizionale di 'libertà' (anche se faremmo notare che forse neanche l'obiettore ha sufficientemente motivato questa sua posizione), potremmo accettare quindi di assumere l'idea di 'libertà' nel primo senso, e tuttavia suggerire che, escludendo qualcuno dall'uso di una tecnologia, si commette un'ingiustizia che non consiste in una diminuzione della libertà.

    Distinguendo fra le idee di 'subire una diminuzione della libertà' e di 'subire un'ingiustizia', sembra che abbiamo uno spazio di manovra: ciò che rimane immutato è solo il grado di libertà degli esclusi, non il grado di ingiustizia che subiscono. È pur vero che l'escluso continua a non poter fare d e e, così come non poteva fare d e e prima. Tuttavia, è importante domandarsi cosa impedisca a un individuo di fare d e e. Se ad impedirglielo sono limitazioni classificate come 'biologiche' o 'naturali', l'individuo, che pure non è libero di fare d e e, non può imputarne la responsabilità a nessuno, e non può recriminare di aver subito un'ingiustizia. Hélvetius scriveva che "non è mancanza di libertà non volare come un'aquila o nuotare come una balena", ma la questione è essenzialmente terminologica: possiamo stipulare di chiamare 'mancanza di libertà' ogni tipo di restrizione, e quindi anche ogni incapacità. In questo senso, gli individui che non possono fare d e e, non sono liberi di fare d e e, qualunque siano le ragioni che li mettono in condizione di non poter fare d e e. Ma se ciò che essi non sono liberi di fare è "volare come un'aquila", non c'è nessuna ingiustizia dietro questa assenza di libertà. Al contrario, se il contesto sociale include l'avvenuta scoperta di una tecnologia che consente il volo umano a corpo libero (per esempio, una pillola che annulla per alcune ore l'effetto della forza di gravità terrestre sul corpo di chi la ingerisce), coloro i quali non hanno accesso a questa tecnologia (la pillola è riservata ai ricchi, o ai militari, o a chi ha i capelli biondi) possono cominciare ad affermare legittimamente che il loro essere non liberi di "volare come un'aquila" è un'ingiustizia. Essi sono tanto (poco) liberi quanto lo erano prima: ma il fatto che una nuova azione si renda disponibile agli esseri umani, permette di interpretare l'immutata libertà di chi ne è escluso come una possibile discriminazione, quindi come una possibile ingiustizia. Come nota Feinberg (1973, pp. 20-21): Almeno nel discorso sociale e politico, non-libertà di solito non significa semplicemente un qualsiasi tipo di incapacità, ma piuttosto un'incapacità di tipo speciale - vale a dire, quella indotta direttamente o indirettamente dal potere coercitivo di altri esseri umani. Eppure questa osservazione non fa che confermare la natura linguistica, non sostanziale, del problema. Ciò che conta è che, nel caso in cui l'impossibilità per un agente di fare d e e non sia più dovuta a cause naturali, ma alla coercizione da parte di altri, allora questa impossibilità di fare d e e diventa di pertinenza del "discorso sociale e politico": diventa una possibile ingiustizia. (Poi c'è chi chiama 'non-libertà' tutte le restrizioni, dando una valenza metafisica al termine, e chi invece chiama 'non-libertà' solo le restrizioni "indotte dal potere coercitivo da parte di altri esseri umani", dando una valenza già squisitamente "sociale e politica" al termine).

    Tre secoli fa non esisteva la tecnologia che permettesse di condurre il gas nelle abitazioni, mediante un sistema di tubature, per riscaldare e cucinare: oggi esiste. Chi, oggi, si vedesse proibita la possibilità di disporre dell'erogazione di gas in casa, sarebbe nelle identiche condizioni di un uomo del Settecento (altrettanto 'non-libero' nel senso metafisico). Ma, oggi, dover vivere senza gas è un'ingiustizia; dover vivere allo stesso modo nel Settecento non era un'ingiustizia. Il concetto metafisico di 'libertà' non è sensibile al contesto delle libertà di cui dispongono gli altri; il concetto politico e sociale di 'libertà', così come il concetto di 'ingiustizia', lo sono. Lo sviluppo delle tecnologie può dunque innescare forme di ingiustizia dovute al fatto che una non-libertà fino a quel momento puramente metafisica diviene una non-libertà causata da decisioni umane: una non-libertà fortemente indiziata di ingiustizia. Si tratta ora di applicare queste riflessioni teoriche, che vertevano sul progresso tecnologico in generale, a esempi concreti riguardanti il progresso biotecnologico in particolare.

Ingiustizie dovute a esclusione su base economica

    Ove una risorsa biotecnologica non sia dispensata gratuitamente dallo Stato, ma sia procurabile solo in cambio di alte somme di denaro, è evidente che si crea una disparità nelle possibilità di disporne: i ricchi avranno un accesso molto più facile dei non-ricchi. I poveri si troveranno di fronte a un vero e proprio impedimento; e potrebbero autointerpretarsi come costretti (da decisioni politiche) a non usare quella biotecnologia, che invece altri (i ricchi) possono usare. Questa discriminazione, che rende un sottoinsieme dell'umanità più libero di un altro sottoinsieme, sarebbe ingiusta. Questo tipo di protesta, elevata da parte di chi non riesce a procurarsi i benefici derivanti dall'uso di una biotecnologia a causa di una incapacità economica, ha le sue ragioni. Eppure, essa rischia di trascurare un dato rilevante: il denaro è stato di fatto incaricato dall'organizzazione sociale in cui viviamo di selezionare l'accesso alla quasi totalità dei beni esistenti, e ben poche di tali selezioni ci appaiono ingiuste. Al contrario, ci appaiono ingiuste le violazioni delle procedure con cui il denaro permette l'accesso ai beni: il furto, l'appropriazione indebita, il favoritismo, e in genere ogni scavalcamento delle prassi correttamente regolate dal denaro. Nessuno, credo, vorrebbe lamentarsi perché l'uso dell'elicottero (una tecnologia che consente di ridurre le distanze e di riuscire ad assistere sia alla conferenza a Milano, sia alla rappresentazione a Roma, contribuendo alla crescita culturale dell'individuo) o dell'idromassaggio o della televisione satellitare siano di fatto riservate ai ricchi (o, equivalentemente, siano di fatto proibite ai poveri).

    La domanda è allora se le biotecnologie (tutte o in parte) siano tecnologie che permettono alle persone di vedersi concedere possibilità o di realizzare desideri talmente importanti (non il desiderio di vedere la partita del campionato di calcio brasiliano, ma il desiderio di avere un figlio), che esse dovrebbero essere distribuite a chiunque ne faccia richiesta, e non solo ai ricchi che ne facciano richiesta. Quali siano i desideri importanti, però, diviene allora una questione fondamentale. In prima battuta, è evidente che le biotecnologie permettono di non frustrare desideri che, per definizione, riguardano le grandi scelte sulla vita e sulla morte, e non le piccole scelte su come passare il tempo oggi pomeriggio. Si potrebbe allora argomentare che questi desideri, che riguardano la vita e la morte, sono desideri più importanti degli altri: e che essere obbligati a vederli frustrati rappresenta la violazione di un diritto a vederli realizzati ove possibile. Quando sia disponibile una biotecnologia che consenta di realizzarli, il passaggio dalla non-libertà metafisica alla non-libertà politico-sociale rappresenta un'ingiustizia. Questa mossa equivarrebbe a creare una cintura protettiva di diritti atta a tutelare questi speciali desideri: equivarrebbe a dire che il potersi riprodurre, o il potere avere le migliori possibilità di avere un figlio sano, sono diritti di tutti, e non solo di qualcuno. È però abbastanza facile accorgersi che la maggiore importanza assegnata a questi desideri è un atto arbitrario. Scelte diverse potrebbero essere fatte: per esempio, si potrebbe stabilire che i desideri più importanti sono quelli desiderati con maggiore intensità. A questo punto, dato che qualcuno potrebbe desiderare con più intensità di possedere un elicottero che di potersi riprodurre, sarebbe incoerente riconoscergli un diritto alla soddisfazione dei suoi desideri meno importanti (così definiti), e non riconoscergli un diritto alla soddisfazione dei suoi desideri più importanti. Lo Stato dovrebbe allora assegnare elicotteri a chiunque sia in grado di dimostrare di desiderare un elicottero con tutto il cuore, o quantomeno di desiderarlo con maggiore intensità di quanto desiderava di potersi riprodurre colui che, tra tutti coloro che si sono potuti riprodurre artificialmente grazie alla dispensazione gratuita delle biotecnologie relative, lo desiderava di meno? In ogni caso, dobbiamo decidere quali desideri siano tali da dover essere sempre soddisfatti in chiunque siano presenti (purché vi siano le tecnologie appropriate per soddisfarli), e quali desideri invece siano abbastanza meno importanti da poter affidare il problema della loro soddisfazione al meccanismo del potere economico. Le nostre risposte dipenderanno in parte anche dal nostro modo di valutare la significatività del fatto che una determinata persona sia ricca. Se reputiamo che il fatto che una persona sia ricca sia un merito, lasciare al denaro la facoltà di sancire se i desideri (anche importanti) delle persone siano soddisfatti o no, equivarrà a lasciare che siano i meriti delle persone a decidere. Se reputiamo, invece, che essere ricchi sia casuale (o, peggio, colpevole), delegare al denaro la facoltà di determinare la soddisfazione dei desideri corrisponderebbe ad accettare che la regola per distribuire le felicità e le frustrazioni sia il caso, o, peggio, la colpa: ed è probabile che eviteremo di cadere in questa difficoltà, soprattutto per quanto riguarda i desideri che giudichiamo 'i più importanti'. Robert Walzer (1983, pp. 106-110) elenca alcune delle cose che negli anni Ottanta, negli USA, non potevano essere acquistate dal denaro: tra di esse, gli esseri umani, l'influenza e il potere politico (non posso vendere il mio voto), la giustizia penale, la libertà di parola, stampa, religione e riunione, il diritto di sposarsi e di procreare, il diritto di abbandonare la comunità politica, l'esenzione dal servizio militare, le cariche politiche e le posizioni professionali (quindi anche i titoli di studio), i servizi assistenziali di base, la violazione di alcuni diritti della persona (per esempio, della persona in quanto lavoratore), molti tipi di premi e onorificenze, la grazia divina, l'amore e l'amicizia, i crimini. La lista è rimasta più o meno la stessa, ma con la necessità di complicare l'analisi di alcuni punti. In particolare, se si rendesse disponibile un insieme di tecniche di riproduzione artificiale tale che anche donne sole (sterili e non) e coppie sterili o non eterosessuali possono ora riprodursi, e se quest'insieme di tecniche andasse sul mercato, ciò non significherebbe forse che alcuni soggetti possono acquistare "il diritto di procreare"? Tra i servizi assistenziali di base è incluso il servizio sanitario o no (un problema vivo, che scaturisce dal confronto fra la situazione italiana e quella statunitense)? Se spostiamo l'attenzione all'Italia, e riflettiamo sull'impianto di base di un paese che dispensa gratuitamente a tutti le cure mediche, come dovremmo categorizzare le tecniche per la riproduzione artificiale, le tecniche di clonazione, le tecniche di manipolazione genetica? Come cure di altrettanti disagi, o come lussi che, analogamente all'idromassaggio, vanno pagati? Il problema è chiaramente un problema di categorizzazione. Se la sterilità è assimilabile a un tratto che viene percepito dal soggetto come un difetto della propria costituzione fisica, al pari delle orecchie a sventola o di un naso troppo grande, allora ci sembra giusto che la tecnologia che permette la riproduzione artificiale venga acquistata, come in effetti si pagano le operazioni di chirurgia estetica. Se la sterilità viene vista, più gravemente, come una fonte di angoscia, la biotecnologia che la annulla è forse sullo stesso piano della psicoterapia: e comincia a essere in dubbio, credo, se debba essere pagata o meno dai soggetti che ne usufruiscono. All'estremo opposto, se la sterilità viene concettualizzata come una malattia (come un'invalidità), ecco che la riproduzione artificiale diventa un diritto di tutti coloro i quali siano sterili, e la discriminazione economica diventa intollerabile (tanto intollerabile, almeno, quanto una discriminazione economica proiettata sui malati di tumore o di disfunzione renale).

    In futuro dovremo fare i conti con numerosi problemi simili a questo: problemi di categorizzazione, in cui dovremo scegliere come desideriamo concepire un certo fenomeno, se come simile a un certo tipo di fenomeni già esistenti, oppure come simile a un altro tipo di fenomeni già esistenti. Le biotecnologie, a volte, ci obbligheranno a questo genere di decisioni perché creeranno nuovi fenomeni, la cui tipologia sarà per noi (chiaramente) misteriosa e indeterminata, all'inizio. Oppure, le biotecnologie ci obbligheranno a scelte simili perché ci consentiranno di poter intervenire ad alterare il corso di fenomeni su cui, in precedenza, nulla potevamo. Casi simili saranno, molto probabilmente, casi in cui non avevamo preso decisioni concettuali importanti riguardo ai fenomeni in oggetto, dal momento che queste decisioni non ci erano state richieste, anzi erano operativamente superflue. Ma, in seguito alle nuove possibilità di agire nella sfera di quei fenomeni - possibilità spalancate dal progresso biotecnologico - tali decisioni si rendono con ciò necessarie.

Ingiustizie dovute a esclusione su base cognitiva

    Qualcuno può essere escluso dall'insieme di coloro che usano una biotecnologia non solo col criterio della selezione economica, ma anche in modo più surrettizio. Ciò che accade nel caso della selezione economica è che qualcuno che vorrebbe utilizzare la biotecnologia, di fatto non può usarla. Ma noi possiamo escludere qualcuno non solo non permettendogli di soddisfare il suo desiderio di utilizzare la biotecnologia, ma anche non permettendogli di avere il desiderio di utilizzare la biotecnologia. È evidente che, affinché una donna sterile giunga a concepire un desiderio di poter ricorrere alle tecniche di riproduzione artificiale (per esempio, giunga a desiderare che venga impiantato nel suo utero un ovulo proveniente da un'altra donna, fecondato in vitro), è necessario che si verifichino una serie di condizioni. In primo luogo, la donna deve sapere che esiste questa possibilità tecnica. Ammesso che già desideri avere un figlio, ella deve almeno conoscere l'esistenza della biotecnologia come rimedio possibile al suo problema, affinché possa passare a desiderare di usufruire di quella biotecnologia. In secondo luogo, ella deve credere che desiderare di usufruire di quella biotecnologia non significa desiderare qualcosa di immorale o di sbagliato (con ciò, si noti bene, io non sto dicendo che ricorrere a una simile tecnica sia intrinsecamente morale. Si noti che non sto dicendo neanche che farlo sia intrinsecamente immorale. Sto soltanto analizzando che tra i prerequisiti per la comparsa di un certo desiderio nella mente di una persona è necessaria la presenza di alcuni altri stati cognitivi come certe credenze, tra cui la credenza secondo cui questa pratica non è immorale). In questa prospettiva, tutto ciò che impedisce la realizzazione di queste condizioni cognitive, attraverso l'impedimento della formulazione del desiderio di accedere alla biotecnologia, impedisce anche ogni possibilità di accesso alla biotecnologia, e può dunque essere invocato come una causa di formazione di discriminazioni ingiuste. Si possono includere in questo elenco la disinformazione (ovviamente), e poi tutti i fattori di negativizzazione della biotecnologia: la fragilità culturale di fronte alle campagne di demonizzazione, la scarsa formazione scientifica (il basso tasso di istruzione superiore), la chiusura intellettuale e relazionale, sociale, della vita che viene condotta, la sottomissione psicologica rispetto a valori o persone che non approvano la biotecnologia, e così via. Non basta distribuire un bene a tutti coloro che lo richiedono per essere sommamente giusti, perché alcune ingiustizie possono verificarsi a monte, nei processi che conducono alcuni di coloro che hanno un bisogno, a formulare il desiderio relativo al bene che soddisferà il loro bisogno, ed altri che hanno l'identico bisogno, a non sviluppare invece il desiderio del bene risolutivo (o a non esprimerlo mai con una richiesta formale). Tali ingiustizie potrebbero essere facilmente localizzabili in strati deboli della popolazione: ancora le fasce economicamente inferiori, o (più pertinentemente) le fasce meno colte, meno autonome dal punto di vista decisionale, più chiuse e incassate in sistemi assiologici rigidi.

Ingiustizie dovute a esclusione su base morale

    Altre esclusioni sono più programmate. Derivano, più o meno esplicitamente, dall'applicazione di precisi valori morali. Esistono casi in cui l'introduzione di alcune esclusioni è gratuita, ovvero non giustificata da esigenze di fatto, e nasce da considerazioni squisitamente morali ('morali' include 'religiose', 'ideologiche', e così via). Esistono altri casi in cui l'introduzione di alcune esclusioni si rende invece necessaria: si tratta di tutti i casi in cui la domanda supera l'offerta possibile (l'offerta possibile può essere limitata da un'oggettiva scarsità del bene, o dal costo eccessivo del bene, che pure, in assenza di considerazioni economiche, è infinitamente riproducibile). Benché escludere qualcuno sa in questi casi necessario, è su base morale che si pretende di decidere chi. Alcuni esempi. Quando una legge sulla riproduzione artificiale (come la recente 4048 proposta in Italia) ammette soltanto la fecondazione in vitro omologa (condotta cioè con sperma prelevato dall'elemento maschile della coppia che si sottopone al trattamento) per coppie giovani, stabili ed eterosessuali, essa esclude di fatto dall'accesso alla biotecnologia tutte le donne sole, e tutte le coppie omosessuali (sia le coppie omosessuali femminili che quelle omosessuali maschili), nonché le coppie eterosessuali non giovani o non stabili. Le donne sole sterili potrebbero dirsi ingiustamente discriminate rispetto alle donne sole fertili, che possono decidere di avere un figlio da sole (utilizzando un partner occasionale all'oscuro di tutto) senza che nessuno lo vieti loro. (Si ricordi che non sto dicendo cosa è giusto o ingiusto, ma soltanto paragonando alcune situazioni che, se sono giuste, devono essere ugualmente giuste e, se sono ingiuste, devono essere ugualmente ingiuste). La opposizione alla fecondazione in vitro eterologa (in cui lo sperma è fornito da un donatore anonimo esterno alla coppia) comporta una discriminazione fra le coppie la cui causa di sterilità risiede nell'elemento femminile (questa sterilità è riparabile mediante la fecondazione omologa) e le coppie in cui la causa di sterilità risiede nell'elemento maschile (questa sterilità sarebbe riparabile solo mediante la fecondazione eterologa). Qualora questa disparità non fosse scrupolosamente giustificata, le coppie del secondo tipo avrebbero molto probabilmente ragione a rivendicare un'ingiustizia subita. Poiché è ragionevole sospettare che all'origine della proibizione della fecondazione eterologa vi sia una eccessiva somiglianza della donazione di sperma (che essa comporta) con un rapporto sessuale extraconiugale, spauracchio della ideologia religiosa più diffusa in Italia, le coppie con problemi di sterilità nell'uomo potrebbero dirsi con pieno diritto (rispetto alle coppie con problemi di sterilità nella donna) discriminate a causa di considerazioni insufficienti a fare ritenere moralmente accettabile un tale tipo di discriminazione: e, perciò, discriminate ingiustamente. Si aggiunga che, in un caso come questo, non ci si trova a dover fare i conti con un bene scarso o particolarmente costoso: non c'è dunque neanche la necessità stretta di un qualche criterio selettivo, per quanto arbitrario. Gli sterili avrebbero qualche ragione a ritenersi discriminati ingiustamente rispetto ai non-sterili anche quando i programmi di accesso alle biotecnologie per la riproduzione artificiale prevedano il superamento di certe prove di idoneità atte a riscontrare la presenza di tratti quali il benessere economico, la stabilità affettiva o il grado di cultura, visti come fonte di benessere per l'eventuale bambino. Gli sterili potrebbero far notare che i non-sterili possono riprodursi anche quando siano incolti, poveri e anaffettivi; e che perciò ogni esclusione di coppie sterili dal programma, ove sia giustificata dal riscontro di caratteristiche simili, è con ciò stesso una discriminazione ingiusta degli sterili rispetto ai non-sterili. Questa ingiustizia non nasce - secondo gli sterili esclusi - dal fatto che i criteri usati siano ingiusti (chi potrebbe dire che, a parità di condizioni, non è meglio che un bambino abbia una famiglia colta piuttosto che una famiglia incolta?), ma a causa del fatto che sarebbe comparativamente più giusto che non ci fossero criteri. Qualche tipo di criterio deve essere fornito quando la domanda supera l'offerta, e ciò avviene drasticamente nel caso del trapianto di organi, in cui le liste di attesa sono numericamente più consistenti degli organi disponibili. Poiché il puro criterio temporale di iscrizione alla lista è a volte dannoso, perché potrebbe comportare che per tutti gli iscritti il momento del trapianto giunga troppo tardi, è facile che si impongano criteri di altro tipo, che possano consentire una scelta a parità di criteri medici soddisfatti (alta urgenza, basso rischio di rigetto, condizioni fisiche adeguate a sopportare l'operazione, e così via). Ma anche i criteri non medici migliori sono sospettabili di introdurre ingiuste discriminazioni tra persone che, è vero, possono essere distinte fra 'socialmente più preferibili' (o 'moralmente più preferibili') e 'socialmente meno preferibili' (o 'moralmente meno preferibili'), ma che - questo è il punto - andrebbero considerate identiche di fronte alla sofferenza e alla morte. La sofferenza e la morte sembrano sfondi contro i quali diviene inaccettabile qualsiasi differenziazione, anche la più argomentabile. Tuttavia, non si può non introdurre una qualche differenziazione fra le persone, perché non selezionare qualcuno a scapito di qualcun altro significa, in questi casi, un danno per tutti. Si innesca perciò una situazione intimamente irresolubile (Charlesworth 1993, p. 108): Senza dubbio qualcuno ha sostenuto che in una situazione di drastica necessità è un atteggiamento responsabile ed anche giusto l'uso di un criterio di "valore sociale" (per esempio, non permettendo il trapianto di fegato ad un alcolista cronico). Nel famoso caso del Centro del Rene Artificiale dell'Università di Washington, a Seattle, nei primi anni sessanta, furono utilizzati i seguenti criteri per selezionare i pazienti in dialisi: la maturità e la responsabilità emotiva dei pazienti, la loro situazione economica, il valore che essi rappresentavano per la comunità in generale. Usando questi criteri il pannello di selezione escluse un esponente della "beat generation", in base al criterio del suo valore sociale; una donna di dubbia reputazione, per la sua mancanza di responsabilità; e un taglialegna, per l'insufficienza delle sue risorse economiche. D'altro canto, essere una guida degli scout o un insegnante del catechismo avrebbe favorito l'inclusione dei pazienti nel programma. In casi come questo, non differenziare le persone significa forse non introdurre discriminazioni ingiuste, ma può costituire un male per tutti. D'altronde, anche non differenziare le persone può costituire una fonte di ingiustizia verso qualcuno; se la guida degli scout si vedesse rifiutare il trapianto a vantaggio di un alcolista cronico o di un pluriomicida ergastolano (in attesa, per ipotesi, da un tempo più lungo del suo), egli potrebbe reagire spiegando di avere subito un'ingiustizia: secondo lui, la discriminazione che avrebbe potuto favorirlo sarebbe stata giusta. Il punto è che, con tutta probabilità, la guida degli scout direbbe lo stesso se il trapianto fosse toccato, sulla base della pura priorità d'iscrizione alla lista, anziché a lui, al rappresentante della beat generation o alla "donna dalla dubbia reputazione". A volte le esclusioni sono necessarie. Moltissime esclusioni sono ingiuste; quali, se ne esistono, siano giuste, è una faccenda estremamente complicata, che soltanto l'ideazione di buone argomentazioni può soddisfacentemente e provvisoriamente risolvere.

Bibliografia

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