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Saggi

 

Il ritorno della biopolitica: la libertà della scienza oltre la bio-etica*

di Patricia Chiantera-Stutte

1. Introduzione

    Quello che è stato annunciato essere l’"anno della biopolitica", secondo l’espressione usata da Gero von Randow (2000), è iniziato con ampie e talvolta accanite discussioni fra i sostenitori dello sviluppo scientifico, che approvano l’utilizzo di una serie di tecniche genetiche e medico-riproduttive e i contrari alle cosiddette "nuove biopolitiche". Il Regno Unito, dopo un lungo e articolato dibattito su tutto il territorio europeo, ha approvato a fine gennaio la clonazione a scopo terapeutico. Il fronte degli schieramenti comprende non solo opinion-makers e politici, ma soprattutto scienziati di tutte le discipline: giuristi, medici, sociologi e filosofi si scontrano sia sull’ammissibilità della clonazione a scopo terapeutico, sia sull’utilizzo di embrioni congelati per la creazione di tessuti o di organi, in grado di sostituire perfettamente quelli malati, che sull’utilizzo delle tecniche di diagnosi prenatale. Il fronte dei "contrari" è rappresentato soprattutto da teologi - cattolici e protestanti - e da esponenti delle scienze umane, mentre, al contrario, la maggior parte degli scienziati naturali sono sostenitori della utilizzazione della nuova medicina riproduttiva e genetica. I primi denunciano le nuove tecniche come nuove forme biopolitiche e come violazioni della dignità umana e auspicano una legislazione più restrittiva per il loro impiego; i secondi invocano il principio della libertà scientifica e del progresso, che costituiscono l’eredità più preziosa della cultura occidentale.

    In generale si possono distinguere tre grandi schieramenti: i favorevoli alle tecniche genetiche e riproduttive, indicate come orizzonti del progresso medico; i teologi cattolici e protestanti, che rifiutano in blocco la maggior parte delle applicazione delle tecniche genetiche, affermando il principio della sacralità della vita umana, data da Dio; un gruppo di esperti di bioetica, che si appellano alla dignità umana e critici rispetto ad alcune forme di intervento - e cioè all’utilizzo di embrioni e alla clonazione. In effetti le tecniche mediche, che formano l’argomento della contesa sono varie. La tecnica genetica prevede diversi tipi di intervento: la manipolazione genetica vera e propria, che consiste nel modificare il patrimonio genetico; la clonazione a scopo terapeutico e la vera e propria clonazione. Inoltre, al di fuori di questo ambito e legate al campo delle attuali ricerche della medicina riproduttiva, sono in discussione sia l’utilizzo di embrioni congelati, per la costituzione di tessuti e di organi sostituibili e non rigettabili; che il commercio di sperma e ovuli, attraverso le banche dello sperma - già attualmente facilmente contattabili tramite internet - che i contratti per i cosiddetti "uteri in affitto" - anche questa pratica è largamente in uso fuori Europa - che infine la diagnostica prenatale.

    Nel seguente intervento non si cercheranno di trovare risposte assolute a questioni morali: la questione etica è, come si vedrà, ritenuta qui insufficiente per una considerazione dei problemi posti dagli sviluppi genetici e dalla medicina riproduttiva. Si cercherà, invece, di delineare un approccio integrato, che evidenzi l’impatto sociale di queste tecniche, di trasformazione di mentalità e di strutture. La questione dell’utilizzo delle tecniche bioriproduttive e genetiche sarà considerata nell’ambito dello sviluppo collettivo e della discussione sociale e politica. Inoltre, proprio per il carattere non definitivo di queste considerazioni, che vogliono suggerire una strategia futura per la discussione scientifica sociologica e politica, l’ambito delle ricerche riproduttive e genetiche verrà considerato come un insieme unico e non verranno differenziati i vari interventi. Non si vogliono, infatti, indicare delle risposte definitive, che naturalmente dovrebbero essere differenziate a seconda che si parli di clonazione o di utilizzo di embrioni congelati, di banche dello sperma o di diagnosi prenatale; interessa qui il livello del metadiscorso, e, concretamente, cercare una quarta prospettiva rispetto a quelle poc’anzi delineate, trovare un punto di vista da cui sia possibile esercitare eventualmente una critica delle nuove tecniche genetiche e riproduttive.

2. Che cos’è la biopolitica

    Da parte dei critici delle tecniche bioriproduttive e genetiche viene spesso usato il termine "biopolitica"; prima di addentrarci nel dibattito attuale, conviene capire il significato del termine di discussione che in genere viene inteso in maniera assiologica negativa.

    La biopolitica nacque alla fine degli anni ’60 come subdisciplina delle scienze politiche. Nel 1967 venne tenuto il primo incontro su "biologia e politica" alla Southern Political Science Association, mentre il primo meeting internazionale si svolse a Parigi nel 1975 (Klaus von Beyme, 1996). Nei primi studi biopolitici, i collegamenti tra biologia e politica venivano rintracciati nelle analogie fra il "corpo politico" e gli organismi biologici, così come nel riferimento dei comportamenti e degli sviluppi politici a unità "reali" e biologiche, come la superficie della terra, la popolazione, le risorse e così via.

    In genere, malgrado un certo successo degli studi behaviouristi della corrente biopolitica, l’approccio biopolitico è rimasto marginale ed è stato usato per lo più per investigare variabili dipendenti del comportamento politico. La ragione di questa marginalità è da impuntare, secondo von Beyme, all’esperienza totalitaria e soprattutto al successo delle teorie biologiste nel fascismo e nel nazismo. In altre parole, la pericolosa "somiglianza" delle teorie biopolitiche con le scienze sviluppatesi nei regimi totalitari ha provocato una "rimozione" dell’approccio biopolitico - eccezion fatta per alcuni scienziati, fra cui Michel Foucault (2000) e Agnes Heller (1996), i quali sono però critici rispetto a questo tipo di approccio. Il modello biopolitico per eccellenza si ritrova, infatti, sia per Heller che per Foucault, nel regime nazista, e in particolare nei campi e nelle politiche eugenetiche.

    Riannodando il filo delle analisi di Hannah Arendt sul totalitarismo (1951), Agnes Heller individua i meccanismi fondamentali del biopotere nel processo di funzionamento dei campi nazisti e della legislazione antisemita del terzo Reich, mentre Foucault sostiene che il nazismo è il culmine dello sviluppo delle pratiche biopolitiche, sviluppatesi attraverso la costituzione della scienza psichiatrica e criminologica (2000). Il biopolitico designa per Heller una "forma" del discorso politico, che provoca la distruzione della sfera politica classica: mentre questa si fonda - in termini simili a quelli di Hannah Arendt - sul riconoscimento del soggetto parlante in base ai suoi argomenti e alle sue ragioni, indipendentemente dal suo ruolo nella sfera dell’oikos, la biopolitica considera solo i fattori "privati", le caratteristiche "fisiche" come substrato fondamentale del politico. A questa riduzione dei soggetti politici al loro "corpo" - sesso, razza o salute - si collega, secondo Heller, una pratica adottata dal biopotere: "la maniera totalitaria di rifiutare un argomento", che consiste nel ricondurre il discorso dell’avversario a dei caratteri biologici, e nel dire, per esempio, che "i nemici dicono quello che dicono solo perché maschi bianchi". In tale modo l’asse fondamentale su cui si fonda la politica diventa la dicotomia amico-nemico, che a sua volta viene rinforzata attraverso l’interruzione della comunicazione fra i gruppi antagonisti, attuata con la reificazione delle posizioni simmetriche e l’applicazione della doppia morale. Una strategia fondamentale della biopolitica è, infatti, la denuncia delle altre istituzioni e agenti politici come universalisti e totalitari - come creatori dei grand récit - e la contemporanea contraddittoria imposizione del proprio punto di vista - del proprio petit récit - su tutti gli altri. "Da un lato [questa] politica è esteriormente postmoderna nel suo linguaggio antiuniversalistico e perciò la grande narrazione è, almeno in principio, in forte contrasto con i fini della biopolitica; ciononostante il petit récit programmato si trasforma quasi inavvertitamente in una saga epica". Per definire con esattezza i termini fondamentali dello iato fra politica classica e biopolitica, Agnes Heller e Ferenc Féhér fanno riferimento alla dicotomia libertá-vita, dove la libertà rappresenta la capacità individuale di decisione e di differenziazione, e la vita viene associata all’esaltazione del gruppo, espressa a partire dall’affermazione dei diritti collettivi, per finire con l’autocelebrazione della comunità nel "corpo simbolico", tipica dei regimi totalitari (Féher-Heller 1994).

    Se volessimo tradurre i termini attuali del dibattito sulle tecniche di manipolazione genetica e riproduttive nelle categorie helleriane, ci troveremmo in difficoltà: quali sono, tra gli assertori del progresso scientifico e quelli della "dignità umana", dalla parte della vita e quali dalla parte dell’individuo? Sembrerebbe a prima vista che i primi siano fortemente individualisti, interessati al progresso scientifico e allo sviluppo individuale, al di fuori di ogni riferimento a valori costituiti collettivi, che non siano quelli della crescita medica, mentre i secondi, riferendosi ai concetti di "solidarietà della specie" - come fa il filosofo esperto in bioetica, Robert Spaemann (2001) - rispolverino vecchie immagini comunitarie. I diritti della ricerca scientifica e neutrale, della mentalità - o mente - razionale vengono contrapposti ai diritti umani, a quelli della corporeità dell’embrione, del corpo e della specie.

    Ad uno sguardo più profondo, però, qualcosa sembra stonare in questa descrizione. Bisogna, infatti, chiedersi chi e cosa sono l’oggetto della contesa, e cioè di quali valori si sentono portatori questi schieramenti. I fautori della opzione per il progresso scientifico non proteggono solo la libertà individuale, quanto piuttosto la libertà scientifica, e cioè per la difesa degli ideali e della comunità della scienza; l’altro fronte sostiene, invece, i valori politici ed etici attuali, formatisi storicamente anche attraverso il trauma storico della seconda guerra mondiale. Questi valori concernono proprio la libertà delle scelte individuali, i diritti umani e sono il presupposto per cercare il parametro "in base a cui tutte le persone hanno diritto ad avere diritti e hanno diritto alla libertà e al benessere." In altre parole, nell’affermare i valori della politica e della morale, questo gruppo rivendica l’autonomia individuale e la sua indipendenza.

    Lo schema di Heller è, perciò, in questo caso difficilmente utilizzabile: dietro tutti e due i movimenti si profilano gruppi, così come valori individuali e ideali di libertà, inoltre, nessuno dei due gruppi sembra mettere in atto le strategie tipiche del discorso biopolitico. Quando definisce i movimenti biopolitici come difensori della dimensione corporale, Heller si riferisce, infatti, ad una specifica dimensione del discorso, che si traduce in una modalità apolitica; qualificanti per la connotazione biopolitica sono perciò non tanto i contenuti dei movimenti biopolitici, la loro difesa di istanze legate ai bisogni del corpo, quanto le modalità della comunicazione politica. In altre parole, la definizione di Heller è sia sostanziale, sia - soprattutto - formale, e perciò, se i due gruppi devono essere considerati in relazione alla modalità della loro argomentazione, nessuno sembra adottare modalità biopolitiche. Inoltre, paragonare le attuali ricerche mediche con lo sviluppo medico nei campi di concentramento, attraverso un semplice raffronto, sembra ingiustificato: gli sviluppi della medicina genetica non lasciano intravedere nessun piano controllato dall’alto per l’eliminazione di una razza o di un popolo.

    Dovremmo a questo punto buttare via tutti gli arnesi delle analisi sulla biopolitica e negare l’esistenza di un discorso biopolitico? La mia risposta è negativa. Riprendendo il suggerimento di Foucault sulla biopolitica come tecnica di disciplinamento e di definizione del corpo e tenendo ben presente che la posta in gioco in questo conflitto sulla genetica riguarda anche le rappresentazioni del progresso scientifico, possiamo svolgere alcune riflessioni che potrebbero cambiare il quadro dell’analisi. Foucault parte dall’assunto che il discorso medico si pone come "discorso di verità", come istanza che permette la nascita del corpo attraverso il suo disciplinamento e la sua definizione: la comparsa del corpo si consuma dopo il Medioevo quando "improvvisamente, dalla materialità corporale, alla quale la teologia e la pratica penitenziale del Medioevo facevano semplicemente risalire l’origine del peccato, comincia a staccarsi il campo complesso e variabile della carne: un campo al tempo stesso di esercizio di potere e di oggettivazione" (Foucault, 2000, p.179).

3. Eugenetica e genetica

    Questo evento segna l’atto di nascita del corpo e, nel frattempo, anche l’antecedente storico indispensabile per lo sviluppo delle scienze del corpo, fra cui la eugenetica e la psicoanalisi. "L’eugenetica e la psicoanalisi sono le due grandi tecnologie che si sono levate, alla fine del XIX secolo, per dare alla psichiatria capacità di presa sul mondo degli istinti" (Foucault, 2000, p. 123).

    L’eugenetica, che ha avuto il suo periodo fortunato di sviluppo durante il Nazismo, rappresenta perfettamente non solo l’idea di "miglioramento" e di controllo, tipiche dell’idea nazista dello sviluppo umano, al quale andavano sacrificati alcuni gruppi, ma anche una legittimazione e un’"attrattiva" del regime nazista (Bauman, 1998). "Il nazismo ebbe un vasto consenso non solo perché i tedeschi odiavano gli Ebrei... Il movimento nazista fu visto come una fonte di rigenerazione, nella sanità pubblica e in altri settori", afferma uno studioso dell’eugenetica (Proctor, 2000). L’eugenetica, la scienza che tendeva al miglioramento della salute e della razza, era "genetica", e cioè era la pratica per il miglioramento del gene e insieme era anche l’igiene razziale. Essa è stata alla base sia delle leggi naziste che oggi riteniamo barbare, come quella del 1933 sulla sterilizzazione dei malati ereditari (Gesetz zur Verhütung erbkranken Nachwuchses), che dei provvedimenti come quelli del 1939 sull’eutanasia dei bambini "anormali" e degli adulti malati gravi. L’eugenetica e la genetica sono all’inizio strettamente legate: entrambe usano metodi simili e si rivolgono a questioni simili per il miglioramento della razza. L’eugenetica riformatrice, nata dopo la seconda guerra mondiale e mirata alla prevenzione delle malattie e alla diminuzione del dolore, erede dell’eugenica e della genetica, venne ribattezzata alla fine degli anni ’50 genetica umana (human genetics) e l’igiene genetica venne rinominata genetic counseling. Attualmente la genetica è una branca consacrata del sapere e, certamente, il suo passato non può gettare nessun ombra sul suo attuale funzionamento: essa è scienza.

    D’altra parte, come suggerisce Donna Haraway, riecheggiando Foucault, "la scienza è rappresentata come un linguaggio univoco", ed è proprio su questo linguaggio che ci si deve interrogare. La questione biopolitica si collega allora all’investigazione sulle tecnologie del corpo, su quegli interventi "positivi" che la scienza ha messo in atto contemporaneamente e in funzione degli interventi negativi e dei campi di concentramento. In altre parole, fuori dai campi esisteva una realtà che era strettamente connessa ai campi, non solo da un punto di vista dell’ideologia "politica", ma dalla prospettiva dei "discorsi di verità", delle pratiche mediche per la cura del corpo perfetto e della razza perfetta e della preservazione della purezza della razza ariana. Per capire l’idea nazista di razza e di uomo e la biopolitica nazista è perciò necessario non solo ricostruire il funzionamento interno dei campi, ma anche il contesto in cui questi funzionavano. Per questa stessa ragione, la prospettiva di Agnes Heller sulla biopolitica è parziale: Heller considera solo le tecniche interne al campo, il potere "negativo" sul corpo. Al contrario bisogna prendere in esame l’immagine di razza, di uomo e di perfezione, per comprendere "gli scarti" e la controimmagine (Gegenbild) dell’umanità che sopravviveva e più spesso moriva nei campi.

    A partire da queste considerazioni sarebbe allora possibile rintracciare delle "filiazioni" della moderna scienza genetica e soprattutto dell’idea di determinismo genetico, contenuta in alcuni scritti scientifici e non-scientifici, con la vecchia eugenetica: quando da più parti provengono teorie che rendono responsabile il gene di condotte criminali, di tare caratteriali e persino di abitudini nocive, come il tabagismo, e quando il gene viene reso come fattore determinante dell’identità individuale e, relativamente a questo, il suo miglioramento o eliminazione sono più o meno caldeggiati, il discrimine fra l’eugenetica e la genetica sembra poco visibile. Non è un caso che gli interventi del partito contrario alla manipolazione genetica senza limiti, si richiami molto spesso le immagini dell’eugenetica e del Terzo Reich. Forse questi sono esempi estremi, ma essi rappresentano possibili sviluppi, che inquietano diversi esponenti della bioetica. L’etica del corpo si contrappone, perciò, al progresso scientifico ponendo una serie di questioni, che in questa sede possono solo essere brevemente accennate.

    Non è possibile utilizzare uomini come mezzi, come tappe per il miglioramento della specie, afferma il filosofo Spaemann, richiamandosi alla morale kantiana (2001). La questione dell’utilizzo di cloni a scopo terapeutico e di embrioni congelati sembra, però, da questo punto di vista difficilmente risolvibile in sede giuridica, soprattutto perché nella maggior parte dei paesi europei l’embrione non è protetto, in quanto è permissibile l’aborto. Allora: o i governi europei violano tutti i diritti umani, e in questo caso bisogna ritornare indietro ed eliminare l’aborto, oppure l’embrione non è e non sarà tutelato. Lo stesso embrione è in fondo quello abortito e quello da utilizzare - salvo poi che, data la richiesta elevata di embrioni per l’utilizzazione medica, non siano più sufficienti gli embrioni congelati e, perciò si debba necessariamente passare alla clonazione a scopo terapeutico.

    La questione giuridica, però, può essere vista come una parte marginale di un più ampio discorso morale, dando in tal caso luogo alle riflessioni sulla tutela dell’embrione, a partire dal suo legame e dalle sua "vicinanza" all’adulto, che è tutelato dalla legge in quanto persona portatrice di diritti. In questo dibattito, che ripropone argomenti già precedentemente elaborati sull’aborto, resta poco da dire. Spaemann invoca a tal proposito quattro principi, che fonderebbero il rispetto della vita dell’embrione: la solidarietà della specie, la continuità dell’embrione con l’adulto, le potenzialità dell’embrione a diventare un individuo umano, e, infine l’argomento dell’identità. In questo luogo non è possibile analizzare in profondità il ragionamento svolto da Spaemann, né valutare la critica che potrebbe essere rivolta al filosofo dal punto di vista giuridico; mi limito a rilevare solo un certo conflitto fra questa difesa dell’embrione e l’attuale "morale pubblica", secondo cui l’embrione non è l’adulto e non ha gli stessi diritti di una persona adulta, la quale possiede tutte le caratteristiche che lo configurano come "soggetto di diritti" e cioè, secondo la morale kantiana, la capacità di libera autodeterminazione e l’autonomia, che sono i fondamenti della dignità umana e, tout court, dell’umano. L’argomento della difesa dell’embrione in quanto "soggetto di diritti" è stato considerato - a ragione - "debole", in quanto esso può essere solo fondato sulla solidarietà della specie, ma non vince quando entra in conflitto con interessi di soggetti umani portatori di diritti. Infatti, "se si giudica l’embrione secondo il suo attuale status quo, non è possibile fondare un diritto comune soggettivo e proprio alla vita e alla dignità." A meno che non si voglia fondare la dignità dell’embrione, come fanno la chiesa cattolica e quella protestante, su un agente di legittimazione esterno: sulla sacralità della vita umana in quanto data da Dio e sulla presenza nell’embrione dell’anima. A tal punto può sembrare che una morale laica abbia dei sostanziali problemi a fornire degli argomenti contro la manipolazione genetica.

4. La commercializzazione della sfera vitale

    Da un punto di vista astratto, prettamente filosofico, il problema sembra di difficile risoluzione, se si pongono le domande circa quando diventa l’embrione una persona e quando deve essere tutelata la sua dignità. Giacché la questione è già stata risolta negativamente con la legislazione sull’aborto, bisogna chiedere scusa e tornare indietro?

    Secondo la prospettiva che viene qui adottata, la questione dell’aborto e quella della clonazione sono separabili, in base a delle considerazioni che prescindono dall’etica e dalla considerazione astratta della "dignità dell’embrione" e rivestono invece una dimensione collettiva, o meglio biopolitica. Ci si dovrebbe chiedere, infatti, se la questione della clonazione debba essere necessariamente posta esclusivamente in modo astratto, come se l’embrione, o il concetto di "persona" fossero solo strumenti filosofici, pure essenze o, ancora, solo oggetto di discussione nell’ambito teorico. Le scienze sociali ci insegnano, però, che non esiste una "persona" al di fuori di una certa immagine di persona, diffusa e coniata all’interno di un contesto sociale, politico ed economico e, allora, perché dovrebbe esistere un embrione come "essenza" immutabile ?

    Questa riflessione porterebbe ad allargare il campo di indagine per far funzionare, insieme ad una prospettiva filosofica, una più ampia, sociologica e politica. Allora la bioetica non potrebbe essere disgiunta dalla considerazione delle biopolitiche, dalle analisi che considerano il corpo come l’oggetto dei dispositivi di potere che circolano e determinano i comportamenti, secondo Foucault. Si può semplicemente riflettere sul carattere "costruito" del corpo, della sessualità, della normalità e della "razza". In questo caso il problema della manipolazione genetica e della clonazione, come anche quello della commercializzazione dello sperma e degli ovuli, rientrano nelle questioni sociali e politiche e implicano la riflessione sulla società futura e sull’uomo futuro.

    E a tal punto, ci si può chiedere se e quale sarà la "misura dell’uomo", in una società in cui le generazioni attuali potranno determinare attraverso la scelta del "donatore" non solo la salute, ma anche il sesso, l’intelligenza e le qualità fisiche dei discendenti - cosa che già accade negli Stati Uniti. È giusto determinare ora l’uomo futuro secondo le varie scelte individuali di coppie, sicuramente benestanti, perché possano permettersi di "scegliere" il proprio embrione e che aspirano ad un ideale di bellezza e di salute, fortemente permeato dalle immagini attuali del corpo/mente? È ammissibile la clonazione indiscriminata? Non si incorrerebbe in una hybris, nella presunzione che porta a "determinare" e perciò a limitare la libertà delle generazioni future? Naturalmente i genitori hanno una certa influenza sulla nascita, ma questa non significa determinazione delle qualità del nascituro - non ancora. "Non credete che quando sono andato con vostra madre pensavo a voi", afferma Gottfried Benn. "Il futuro è il risultato di quello che gli uomini futuri faranno di quello che si è dato loro. Voler avere un controllo su questo processo, e perciò rimpiazzare l’educazione con l’allevamento, come propone Sloterdijk, distruggerebbe quello che ci unisce ai nostri figli: la naturalezza" (Spaemann, 2001).

    Il "determinismo genetico", testimoniato dalla stampa e da parte di alcuni testi scientifici soprattutto in America e le possibili conseguenze di un "cambiamento di mentalità" che porta a considerare il gene come "dato scientifico certo", in base a cui pianificare la propria riproduzione e in base a cui decidere, dovrebbero essere più seriamente discussi come problemi "collettivi". Lasciare a imprese pubbliche o, persino, come accade negli Stati Uniti, a imprese private, quotate in borsa e i cui interessi sono intrecciati allo sviluppo del capitale globale, ma anche ad agenzie assicurative e a industrie farmaceutiche, la decisione su questioni che riguardano il futuro collettivo, è indice di quello che Bauman chiama la commercializzazione della sfera vitale (Bauman, 2000). Nella società moderna ad alto rischio, afferma il sociologo polacco, si "compra" il controllo sulla prole, sulla riuscita del prodotto finale, che deve avere determinate caratteristiche e di qualità" e deve essere sottratto alla regola del caso che domina la vita professionale e l’economia mondiale. In questo modo, il mercato simula di offrire una risoluzione privata ad una questione che può essere risolta solo collettivamente: "l’incantesimo e l’incantamento, che oggi ci invitano a giudicare le scienze naturali secondo la qualità dei prodotti, resi da esse liberamente accessibili per il consumo, e, intanto, a dimenticare la qualità del mondo, cercano di trovare nel consumatore disperato soluzioni biografiche per sistemi contraddittori" (Bauman, 2000).

    Affiorano in questa discussione dei nodi che riguardano alcune pratiche mediche, soprattutto la clonazione, la manipolazione genetica indiscriminata e il commercio dello sperma e degli ovuli: prima di tutto, la dipendenza di queste pratiche così importanti per lo sviluppo dell’umanità futura dal mercato, da interessi privati e da lobbies, che pianificano solo il loro profitto e commercializzano le "qualità umane"; in secondo luogo, la questione della giustizia sociale, che si pone se solo si pensa al fatto che i consumatori di questo mercato sono ricchi, e gli emarginati verranno esclusi da questo commercio, il che implica uno scenario futuro in cui le classi agiate goderanno di migliore salute, bellezza e intelligenza, mentre i "normali" saranno ai gradini inferiori - cosa che in parte già accade attraverso l’istruzione e la cura del corpo, ma che si tende ad eliminare con il riferimento al principio di "eguaglianza di opportunità"; in terzo luogo, la questione della diffusione del determinismo genetico, che attribuisce un certo comportamento deviante ad un gene, condannando il portatore del gene all’emarginazione e, infine, la questione della "quantificazione" delle qualità umane, della dignità e del valore dell’identità individuale, paradigmi messi in crisi dalla commercializzazione di donatori con qualità razziali, intellettuali, estetiche, valutate numericamente.

    Christian Wehlte riporta una parabola per esemplificare il significato del carattere non quantitativo delle caratteristica della vita individuale e della sua "sacralità": un marziano entra in una chiesa e gli viene detto di non bere l’acqua santa. Egli, in base alle sua conoscenze scientifiche, svolge un’analisi sull’acqua, e, scoprendo che è potabile, la beve. Immediatamente una folla lo accerchia, intimandogli di non bere l’acqua, perché l’acqua è sacra. L’acqua non può essere bevuta, infatti, non in base alle sue caratteristiche chimiche, ma in base a qualcos’altro, alla sua sacralità (Wehlte, 2000). La sacralità della vita non può essere misurata in base a meccanismi quantitativi, in base a regole di mercato e a valutazione di quozienti intellettivi. Se il paradigma complessivo della valutazione della vita comincia a dipendere così strettamente dalle regole di mercato, si abbandonano dei limiti fondamentali e dei valori dell’agire umano. Non è l’aborto, scelta individuale e sofferta, in questione: la battaglia sull’aborto, che, ripeto, riguarda una scelta individuale, non è comparabile con questo cambiamento di paradigma, in cui la stessa donna viene considerata come donatrice di ovuli, quantificata in quanto bella, intelligente e "procreativa", oppure, nel caso dell’utero in affitto, regolata come un contenitore di embrioni - i contratti negli Stati Uniti per gli uteri in affitto sono ispirati alla legislazione sui depositi temporanei.

    In questa visione, la donna e l’uomo donatori devono essere il più possibile "normali", senza difetti. Ma esistono la normalità e la devianza come concetti in sé? Secondo una ricerca in vari paesi europei si è rilevato che buona parte delle coppie eviterebbe di avere figli con malformazioni, anche lievi. Se però questi standards fossero stati imposti dall’inizio dell’umanità, ci si può immaginare quanti artisti, quanti geni sarebbero semplicemente stati abortiti perché "anormali"? Non è un caso che proprio le associazioni che rappresentano i portatori di handicap siano le prime che protestino contro l’indiscriminata manipolazione genetica ed esprimano dubbi contro la diagnosi prenatale. Non è tanto in questione l’aborto nei casi di malformazione - aborto che è già consentito - quanto la decisione dei genitori presa in base a test genetici secondo cui il possibile embrione avrebbe eventualmente delle predisposizioni a future malattie. Non si vogliono sottovalutare le ragioni di donne che desiderano un figlio con il proprio marito e lo possono avere solo con l’aiuto medico; o di donne con un marito morto che usano il suo seme; o ancora di madri che hanno perso il figlio e vogliono esattamente "quel" figlio. Sono casi disparati, da discutere in maniera diversa, ma non sono solo casi individuali. Qualsiasi sia la soluzione che verrà presa in ambito sociale e politico, essa non interessa solo la comunità scientifica, e nemmeno solo la chiesa, che si pone come istanza morale: essa interessa i cittadini e l’intera collettività che deve necessariamente avere un controllo e un’informazione precisa su processi che riguardano le generazioni future e che, perciò, deve sviluppare una critica sociale. La questione non è solo personale e morale, ma politica e sociale. E anche scientifica: bisogna indagare, studiare le tecniche del biopotere, dai campi di concentramento all’eugenetica, dalle immagini delle epidemie alle analisi del corpo e del discorso sul sistema immunitario. "Una politica dell’umano o una politica umana deve rivolgersi contro ogni immagine, giudizio e pregiudizio, che sono sempre stati racchiusi nel concetto e nella storia dell’umanità e che hanno ricevuto la loro forma attuale nelle tecnologie del bio-potere" (Vogl, 2000).

    * Il presente intervento costituisce solo un'anteprima di un saggio molto più ampio presente in una raccolta di studi sulla biopolitica (con scritti di L. Cedroni; P. Chiantera-Stutte; T. Dell'Era; A. Petrillo), attualmente in corso di pubblicazione.

 

Riferimenti bibliografici

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