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Editoriale

Bioetica e libertà

di Fabio de Nardis

 

    Non è assolutamente casuale il fatto che una giovane rivista critica abbia deciso di dedicare il suo primo fascicolo monografico (a cura del Dott. Fabio Bacchini) a un tema tanto complesso quanto affascinante come la bioetica. L’elaborazione di un giudizio etico che valuti le moderne dinamiche del progresso biotecnologico è infatti, probabilmente, una delle più importanti e allettanti sfide che oggi si pone di fronte all’intera comunità intellettuale laica. Le discussioni animate da ogni riflessione su nuove possibilità biotecnologiche sono indice di una situazione di sostanziale incertezza morale; nel senso che, la società ancora non sembra in grado di valutare certi fenomeni o, se non altro, non sembra in grado di farlo in maniera unanime. È a questo punto che l’uomo di scienza non può fare a meno di porre l’attenzione sulla logica, intesa come discorso razionale, ossia fondato su argomentazioni logico-razionali in quanto prodotte da premesse altrettanto razionali, non parziali, libere da condizionamenti ideologici e religiosi incapaci di autogiustificarsi e orientati alla stimolazione di credenze, cosiddette perché ‘credute’, ‘non-pensate’.

    Il primo punto da cui partire è dunque rappresentato da quell’area di dissolvenza che definisce un particolare stato di incertezza assiologica. Quest’ultimo non va inteso come assenza di giudizi morali quanto piuttosto come coesistenza caotica di più posizioni etiche diversamente argomentate perché poggianti su diverse premesse. È a questo punto che allo studioso di fenomeni sociali s’impone l’esigenza di attivare una strategia dell’ascolto dei diversi argomenti in campo, attento a non schiacciarsi all’interno del guscio limitativo dei confini ideologici e/o disciplinari. Fondamentale, a nostro avviso, è scartare le argomentazioni discutibili perché basate su premesse discutibili in quanto non verificabili con gli strumenti della conoscenza umana e accogliere, invece, tutte quelle argomentazioni che contribuiscono a edificare un circuito dialogico anche conflittuale ma dove i diversi soggetti non abbiano la presunzione di proporre tesi fondate su presupposti ontologicamente superiori perché ‘inumani’ o derivati comunque da entità sovra-umane, da ‘dio’ alla ‘natura’ a qualsiasi altra autorità ideologica. Ciò che sortirà dalla sintesi delle diverse argomentazioni dovrà dunque essere un sistema di valutazione morale svincolato da giudizi etici non argomentabili logicamente, il che non vuol dire assolutamente assenza di etica quanto piuttosto costruzione di un’etica laica, intesa come prodotto dei rapporti interpersonali e non come speranza, o ancor peggio, ambizione di salvazione umana meta-terrena.

    Per intenderci sulla questione, il presupposto conoscitivo da cui l’individuo laico parte o dovrebbe partire è il concetto cristiano della vita come ‘dono’. Se si accetta tale proposizione non si può non accettarne anche le conseguenze e cioè che il dono diventa proprietà del chi a cui è stato donato, e quindi la vita come dono va intesa come proprietà del chi che la vive. Se essa è più o meno oggettivamente donata, va considerata come dono e non come prestito del quale bisogna render conto a un chicchessia creditore. Se la vita non appartenesse all’individuo che la vive questo cesserebbe di essere una persona trasformandosi in un soggetto, nel senso letterale del termine, ossia assoggettato alla volontà o proprietà di qualcun altro o qualcos’altro. Proposizioni del tipo "Dignità dell’uomo" e "diritto alla vita" vanno, quindi, e in primo luogo, intese come titolarità proprietaria dell’esistenza individuale. Ecco perché si è pensato a Bioetica e libertà come titolo-manifesto del fascicolo. La libertà va concepita come libertà di gestione della propria esistenza in quanto appartenente agli individui che la vivono.

    Quando si parla di rispetto dell’altro come sé stesso, si parla di un comando evangelico sacrosanto, ma deve essere inteso anche come rispetto delle scelte altrui quando queste non vanno ad incidere sulla libertà ontologica di altri individui, altrimenti si parlerebbe di rispetto parziale, il che, per quanto non auspicabile, sarebbe pure possibile, ma andrebbe, se non altro, specificato. Per intenderci, io posso fermare qualcuno che si droga perché so che la cosa fa male, e posso impedire a qualcun altro di tagliarsi le vene per spirito di altruismo o per amore, ma non posso certo legare a una sedia l’uno e l’altro per tutti i giorni della loro vita per evitare che si droghino o si ammazzino; sarebbe una mancanza di rispetto di una legittima libertà di scelta. A quest’ultima affermazione si potrebbe obiettare: 'Ma come la mettiamo con l’aborto? Rispettiamo la libertà di scelta della madre o quella potenziale del nascituro? E con l’eutanasia? Come la mettiamo quando il malato terminale non è nelle condizioni di scegliere tra la vita e la morte, per così dire, dolce?'

    È a questo punto, a nostro avviso, che entra in gioco il concetto fondamentale di ‘dignità’; nel senso che chiunque dovrebbe avere non solo diritto alla vita propria, ma anche e soprattutto, diritto a una vita dignitosa. Nel caso dell’embrione umano, ad esempio, non si tratta di stabilire il momento in cui abbia inizio la vita, ma altresì si tratta di valutare che tipo di vita gli aspetti e assicurargli, nei limiti del possibile, uno sviluppo vitale dignitoso, accettabile. Il diritto del potenziale individuo non va inteso, in questo senso, semplicemente come diritto alla vita ma come un diritto a un certo tipo di vita; se vogliamo, si trasforma in diritto a non-nascere quando non vi siano le condizioni di un percorso di vita a lui vantaggioso almeno sotto il profilo dello sviluppo biologico elementare.

    Per quanto riguarda l’eutanasia (da eu-thanatos, morte dolce) il discorso è se vogliamo analogo; nel senso che, quando si parla di ‘diritto alla morte’ è sottinteso che si parla di diritto a una morte ‘dignitosa’. Il malato terminale non ha più nulla da sperare; dunque, si tratta di scegliere di prolungare o meno una ‘tortura a morte’. Chi, sulla base di qualche principio etico, fondato su argomentazioni evidentemente discutibili, si arroga il diritto di scelta sul prolungamento della vita in determinate circostanze, assume su di sé la responsabilità di un diritto di tortura altrui e la cosa appare paradossale in un mondo in cui la sofferenza colpisce e scandalizza molto più della morte. Nel senso che gli stessi Stati che legittimano l’esecuzione capitale condannano, invece, come indegna e amorale ogni forma di tortura fisica e psichica. Inoltre, se il principio su cui si basano gli oppositori del suicidio assistito è quello del ‘lasciar-essere’ nel nome della titolarità divina o naturalistica della vita umana, gli stessi dovrebbero ammettere che la vita stessa, da questo punto di vista, rappresenta una negazione al libero svolgimento dell’essere, coincidendo, la condizione umana, con un intervento costante nel naturale sviluppo della vita (Flores). Basti pensare alla medicina, intesa come strumento primario di intervento antinaturale sull’individuo, tanto che non si possa più affermare con certezza dove inizi e dove cominci la volontà di dio e dove quella dell’uomo.

    Tutto questo fa parte di quel misterioso fenomeno che è la vita sulla quale alcune istituzioni ‘più o meno umane’ vorrebbero esercitare il proprio dominio spirituale e materiale. A tutto questo noi ci opponiamo con la ferma convinzione di voler ridare a Cesare quel che è di Cesare.

                                                                                                                 F.d.N.

 


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