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Saggi


Consenso informato e pratica clinica: l’autonomia presa sul serio

di Micaela Ghisleni

    Nell’ultimo trentennio, gli sviluppi dell’etica medica – sia da parte delle teorie etiche, sia da parte degli standard giuridici - hanno segnato nel rapporto che intercorre fra medico e paziente la fine del paternalismo medico e guadagnato l’importanza del rispetto dell’autonomia del paziente nelle decisioni cliniche che lo riguardano. Il modo tradizionale di compiere le decisioni, in cui solo ai medici veniva imputata la responsabilità decisionale della cura, si è spostato verso la promozione di una maggior partecipazione dei pazienti, dando loro l’opportunità di esprimere i propri valori e preferenze. Per il paziente è andato quindi sempre più affermandosi all’interno della pratica del consenso informato il diritto di conoscere le informazioni mediche rilevanti, al fine di conquistare un coinvolgimento attivo nel processo decisionale terapeutico che lo riguarda.

    Tuttavia, la difficoltà che rimane è quella di trovare e sperimentare degli strumenti per rendere l’autonomia un principio operativo nella pratica clinica, e non fermarsi solo ad un’affermazione di principio che, seppure condivisa, rischia di rimanere astratta, qualora sia sconnessa dal contesto di riferimento nel quale potrebbe venire concretamente esercitata dai soggetti interessati, coinvolgendoli nella scelta delle terapie loro più idonee.

    È opportuno segnalare che non solo nella bioetica ma anche nell’ambito delle biotecnologie e del biodiritto è attualmente in corso un dibattito sugli usi del modello del consenso informato, a proposito della possibilità di estenderlo da modello particolare di relazione fra medico e paziente a quello più generale tra esperti e pubblico. In questo lavoro preferisco comunque vedere il possibile sviluppo degli elementi di questo modello nell’ambito dell’etica biomedica, verso l’uso di una medicina basata sulle prove di efficacia per poter ripristinare un realistico rapporto fiduciario fra professionisti sanitari e cittadini nella pratica clinica.

    Le condizioni individuate della possibilità dell’esercizio dell’autonomia, e quindi di partecipazione alle decisioni mediche, sono tre: a) Precondizioni: la capacità di capire e la volontarietà di decidere; b) Elementi dell’informazione: la comunicazione di informazioni pertinenti, la raccomandazione di un piano; c) Elementi del consenso: la decisione a favore di (oppure contro) un piano, l’autorizzazione (o il rifiuto informato) del piano prescelto. L’accesso alle informazioni mediche pertinenti, alla luce delle quali poter compiere una scelta ragionata, è dunque riconosciuta come una condizione ineludibile affinché siano soddisfatti i requisiti del consenso informato.

    Tuttavia, nella pratica clinica è riscontrabile una variabilità di comportamento dei singoli medici circa le indicazioni appropriate per l’utilizzo di certe procedure diagnostico-terapeutiche. Tale incertezza professionale è imputabile al fatto che l’impostazione dei rapporti tra ricerca scientifica e pratica clinica è tale da lasciare al singolo medico l’onere di interpretare correttamente le informazioni prodotte dalla ricerca (talora contraddittorie o incomplete, e non immediatamente utilizzabili senza un’interpretazione critica).

    Le caratteristiche generali che l’informazione dovrebbe avere, dal punto di vista del "dover essere", riguardano l’adeguatezza e la correttezza: 1) adatta al singolo paziente, in relazione alla sua cultura e alla sua capacità di comprensione da un lato e al suo stato psichico dall’altro e 2) corretta e completa circa la diagnosi, la terapia, il rischio, la prognosi. Ma, dal punto di vista di ciò che "è" nella medicina odierna, la questione è maggiormente complicata da due fattori: 1) l’incremento qualitativo delle aspettative dei pazienti, il fatto quindi di tener conto che diverse persone in diversi momenti possono avere bisogni informativi differenti; e 2) l’evoluzione delle conoscenze e il potenziamento della tecnologia, che può far accadere la circostanza che medici diversi interpretino le medesime informazioni scientifiche in modo diverso. Le domande da porre circa l’utilità della conoscenza delle informazioni diventano quindi, per il paziente: quale e quanta informazione è desiderata? E, per il medico: quale e quanta informazione dare?

    Esaminerò prima i tre modelli che hanno storicamente disciplinato la comunicazione delle informazioni mediche, da parte del medico nei confronti del paziente; quindi i due modi di intendere il consenso informato, se come semplicemente legale o anche come istanza morale; e infine il potenziale culturalmente innovativo che potrebbe derivare dall’uso delle linee guida di comportamento nella pratica clinica, per una più adeguata trasmissione di conoscenza tra ricercatori, medici e pazienti.

Tre modelli di comunicazione delle informazioni mediche

    Nell’evoluzione della storia giuridica dei modelli di rivelazione delle informazioni mediche è avvenuto uno slittamento: da un modello basato sul principio di beneficenza del medico, ad un modello basato sul principio di autonomia del paziente; dal dovere di dire del medico, al diritto del paziente di sapere; dalla rivelazione alla comunicazione delle informazioni.

    Sono identificabili tre momenti nei quali l’obbligo di informare i pazienti è stato presentato come una condizione necessaria per ottenere un valido consenso informato. I tribunali, negli Stati Uniti, hanno cercato di determinare quali norme dovrebbero disciplinare la comunicazione delle informazioni, e la discussione su queste ha gettato le basi per gran parte dell’attuale dibattito sui requisiti del consenso informato sia in etica biomedica, sia nel diritto. Dalle decisioni legali sono risultati due modelli di comunicazione: lo standard della pratica professionale e lo standard della persona ragionevole. È stato proposto anche un terzo standard, soggettivo, che però non è stato fatto valere nei tribunali come uno standard di comunicazione, ma soltanto di causalità: come un modo per determinare se l’omissione di un’informazione da parte del medico abbia procurato danni al paziente.

    Nel periodo compreso fra il 1914 e il 1957 l’attenzione è stata rivolta al semplice consenso, cioè al fatto se il paziente avesse dato un consenso che comprendeva una qualche descrizione generale delle procedure implicate nel suo trattamento. È il modello di rivelazione al quale accordano preferenza i medici e coloro che favoriscono un modello di beneficenza. Sostiene che un’adeguata rivelazione sia determinata dalle regole consuetudinarie – customary rules - o dalle pratiche professionali della comunità professionale dei medici, i quali si presume siano in una posizione privilegiata per determinare i migliori interessi dei loro pazienti. Il medico, partendo dalla propria diagnosi, determina il bilanciamento dei danni e benefici della rivelazione, e stabilisce sia gli argomenti da discutere sia la quantità e il tipo di informazioni da rivelare su ogni argomento. L’onere della prova della violazione del consenso spetta al paziente, il quale deve dimostrare che la rivelazione del medico non è conforme agli standard stabiliti.

    Tuttavia, il modello della pratica professionale solleva molti problemi. Le regole che dovrebbero costituire lo standard non sono state precisamente formulate; se solo le regole consuetudinarie sono decisive per rispondere alla già difficile domanda su ‘quanto consenso è necessario?’, allora le rivelazioni negligenti sarebbero accettabili anche qualora i medici fornissero informazioni scadenti. Ma soprattutto, se non c’è nessuna prova empirica a favore né del fatto che i medici prendano buone decisioni sulle informazioni adeguate da comunicare, né che essi abbiano un’idea più chiara del paziente stesso su ciò che è nel suo migliore interesse, allora bisogna riconoscere che il pesare i danni e i benefici della rivelazione non sia un’abilità medica che possa essere misurata da uno standard professionale ma, piuttosto, sia un giudizio di valore individuale riservato alla sola persona malata.

    Nel periodo fra il 1957 e il 1972 l’attenzione si è spostata alla validità del consenso, cioè alla qualità della comunicazione delle informazioni, incluse quelle sui rischi collaterali, di un trattamento. È il modello di rivelazione che discende dal principio legale del rispetto dell’autodeterminazione. Sostiene che il medico deve rivelare al paziente tutte le informazioni pertinenti a prendere una decisione, giudicandole da quelle che vorrebbe conoscere un’ipotetica persona ragionevole. Il provvedere materiale informativo è parte del dovere fiduciario di cure dovute dal medico al paziente, e l’esperienza medica è riconosciuta essere solo uno dei vari fattori che un paziente può desiderare di prendere in considerazione. La pertinenza di un’informazione per la decisione di un paziente non è misurata da un giudizio professionale, ma dalla rilevanza – materiality - che una persona ragionevole, nel pervenire a una decisione, attribuirebbe ad un rischio: se questo rischio fosse considerato importante, dovrebbe essere rivelato; se non lo fosse, la rivelazione non sarebbe necessaria. Perciò, in teoria, un medico può essere colpevole di una rivelazione negligente, anche se il suo comportamento è perfettamente conforme alla pratica professionale abituale e riconosciuta.

    Tuttavia, anche il modello della persona ragionevole solleva alcuni problemi. Il concetto di ‘pertinenza’ delle informazioni e il concetto di ‘persona ragionevole’ sono rimasti indefiniti; da un tale modello non segue alcun dovere specifico o estensivo di rivelazione. Dato che l’applicazione di un modello astratto di persona ragionevole a un caso concreto richiederebbe il riferimento a specifici fatti del caso, un problema irrisolto è: come comprendere quali informazioni una ‘obiettiva’ persona ragionevole vorrebbe volere ‘sotto le stesse o simili circostanze’ di quelle del paziente, senza tener conto degli interessi o valori che riguardano il soggetto in questione?

    Nel periodo dopo il 1972 si è affermato un modello di comunicazione basato sempre più sul paziente, piuttosto che sull’atteggiamento abituale dei medici nei confronti della rivelazione dei rischi. È il modello di rivelazione ispirato a dare al paziente l’opportunità dell’esercizio informato di una scelta. Riconosce il fatto che i singoli pazienti hanno differenti bisogni informativi a seconda dei loro specifici problemi di salute, delle loro particolari credenze, dell’unica storia personale e familiare che li distingue. A dare forma ai limiti del dovere di rivelare del medico è il diritto del paziente alla propria decisione, e questo diritto può venire effettivamente esercitato solo se il paziente possiede informazioni sufficienti a metterlo in grado di compiere una scelta intelligente.

    I doveri di rivelazione vengono giudicati facendo riferimento non ai bisogni d’informazione della comunità scientifica, né a quelli di una ipotetica persona ‘oggettivamente’ ragionevole, ma agli specifici bisogni d’informazione – informational needs - del soggetto individuale. I confini che dovrebbero delimitare l’ambito di ‘pertinenza’ delle informazioni che il medico è obbligato a fornire sono dati dall’esistenza di un ragionevole nesso tra il ‘bisogno di sapere’ del paziente e ciò che il medico dovrebbe conoscere della situazione del paziente stesso.

    Quindi, sia lo standard della pratica professionale, sia lo standard della persona ragionevole possono essere adeguati per una dottrina legale del consenso informato – nel senso di effettivo - ma lo standard soggettivo è il più adeguato dalla prospettiva morale di ottenere un consenso informato – nel senso di autorizzazione autonoma - perché è l’unico che riconosca le indipendenti esigenze d’informazione delle persone. Tuttavia, nella pratica clinica quotidiana

"non si può ragionevolmente pretendere che un medico conduca un’analisi del carattere e dell’ambiente di ciascun paziente per stabilire quali informazioni siano pertinenti. (…) la questione principale non è la quantità delle informazioni da fornire, ma che cosa possono fare i professionisti per facilitare processi decisionali informati. La soluzione del problema della comunicazione dovrebbe risiedere nella partecipazione attiva mediante scambio reciproco di informazioni" (corsivi miei).

Due significati del consenso informato

    Ci sono almeno due modi di intendere il consenso informato, uno morale e uno legale, ed una definizione del concetto dovrebbe essere conforme ad entrambi.

" (…) dal punto di vista morale, il consenso informato riguarda più le scelte autonome dei pazienti e dei soggetti, che la responsabilità legale dei professionisti in qualità di informatori. Sia i professionisti sanitari sia i pazienti hanno la necessità di chiedere e di rispondere a domande, ma questo processo non consiste tanto nella comunicazione di informazioni quanto nell’individuazione delle informazioni pertinenti e nella decisione sul modo di esporle e usarle".

    In un primo senso, il consenso informato è analizzabile come un particolare genere di azione compiuta da pazienti e soggetti individuali, ed è basato sul concetto di un’autorizzazione autonoma. "Un consenso informato è un’azione autonoma compiuta da un soggetto o un paziente che autorizza un professionista a coinvolgere il soggetto in una ricerca o a iniziare un progetto medico per il paziente (o entrambe le cose). (…) è dato da un paziente o un soggetto che con 1) una comprensione sostanziale e 2) in una assenza sostanziale di controllo da parte di altri 3) intenzionalmente 4) autorizza un professionista (a fare X)". Non c’è consenso informato senza la comprensione di queste caratteristiche dell’azione e senza l’intenzione di compierla.

    In un secondo senso, il consenso informato è analizzabile in rapporto alla rete di regole culturali che ne formano la pratica collettiva; è orientato verso l’ottenimento di un’effettiva autorizzazione istituzionale o legale ed è basato sulla validità del consenso effettivo. "Il consenso informato è definito come l’accettazione volontaria e non forzata di un intervento medico da parte di un paziente, dopo un’adeguata rivelazione da parte del medico tanto della natura dell’intervento, dei suoi rischi e benefici, quanto delle alternative, coi loro rischi e benefici". Un’autorizzazione è effettiva se è stata ottenuta attraverso procedure che soddisfino le regole e i requisiti di una specifica pratica istituzionale nella cura sanitaria o nella ricerca. La conformità alle regole operative è la sola condizione necessaria e sufficiente affinché un consenso sia ritenuto essere stato informato.

    Di conseguenza, gli approcci clinici al consenso informato risultano essere di due tipi: può’ essere concepito come consenso effettivo o come autorizzazione autonoma. Nel primo caso, viene inteso solamente da un punto di vista legale come un evento pro-forma, come l’assenso da parte del paziente alle proposte fatte dal medico; corre però il rischio di ridursi ad una procedura solo burocratica che serve a tutelare il sanitario da illeciti legali. Nel secondo caso, viene interpretato anche da un punto di vista morale come un processo, all’interno del quale il medico e il paziente ragionano attivamente insieme; c’è la possibilità quindi che, mediante uno scambio reciproco di informazioni, vengano offerte dal medico le migliori opzioni diagnostico-terapeutiche, praticabili per il paziente stesso nella sua particolare situazione.

    Il rapporto fra i due sensi del concetto di consenso informato è tale da creare un apparente scarto, anziché una conformità tra i due; per soddisfare il senso morale si può infatti fallire nel soddisfare il senso legale, e viceversa. Ad esempio, se un medico ottiene il consenso soddisfacendo i criteri giuridici, allora il consenso (nel secondo senso) è stato ottenuto; ma non segue che la giurisprudenza usi dei modelli sufficientemente ispirati ad una stretta concezione dell’autonomia, in modo da soddisfare i criteri morali del consenso (nel primo senso).

    Invece, il rapporto dovrebbe essere tale che il primo senso funzioni da modello normativo per il secondo senso, in modo da poter servire scopi pratici: avere un modello moralmente adeguato a cui i requisiti istituzionali possano riferirsi. Si potrebbe avere così sia un dettagliato modello valutativo di riferimento che renda più facile per gli organismi deliberativi (tribunali, comitati etici ospedalieri, organizzazioni di professionisti sanitari) valutare l’adeguatezza morale dei requisiti del consenso informato nel senso legale, sia la possibilità di elevare il livello delle politiche sanitarie operative, o dei requisiti legali vigenti, da quello della validità effettiva del consenso a quello dell’autorizzazione autonoma.

La medicina delle prove di efficacia (MePE)

    Abbiamo dunque visto che, affinché l’autorizzazione del paziente sia davvero autonoma, entrambi – sia l’operatore sanitario, sia il paziente - hanno bisogno di poter accedere a informazioni mediche, e queste devono poter essere per entrambi di buona qualità. Ora, proprio nell’ambito della pratica morale del consenso informato inteso nella sua valenza di ‘autorizzazione autonoma’ è possibile collocare l’istanza etico-sociale della rilevanza dell’approccio terapeutico avanzato dalla Evidence-Based Medicine (EBM) .

    La MePE è nata negli anni ’90 soprattutto come movimento culturale, come un tentativo di ri-legittimare la scientificità della medicina ‘dall’interno’, compiuto da una parte della professione medica sensibile all’esigenza di riconoscere la responsabilità sociale, prima ancora che professionale, del proprio operato. Il termine MePE è stato usato pubblicamente per la prima volta nel 1992, in un articolo in cui si affermava l’importanza dell’analisi sistematica della qualità e consistenza delle informazioni che derivano dalla ricerca clinica. Secondo il parere di alcuni suoi sostenitori, "il semplice fatto di diffondere pubblicamente che esiste una cultura ed una pratica della MePE (…) può, già di per sé, avere un valore dirompente poiché ciò significa indirettamente che oggi la medicina praticata non è evidence-based, bensì opinion-based o market-based". Dal punto di vista della qualità dell’informazione che può fornire ai pazienti-utenti, contribuisce a scalfire due pregiudizi culturali diffusi; quello di una visione mitica della medicina, modificando la credenza che la medicina sia una scienza esatta; quello del rapporto paternalista, di subordinazione nella relazione medico-paziente, promuovendo l’autonomia del paziente nello scambio dialogico fra ‘competenze’.

    Negli incontri tra medico e paziente, l’utilità della MePE varia a seconda delle fasi del procedimento clinico: 1) è scarsa per la formulazione delle ipotesi diagnostiche, un processo in cui sono determinanti le capacità percettive e cognitive del medico; 2) è moderata per la verifica della diagnosi, per la valutazione della severità della malattia ed eventuali altre malattie associate; 3) è alta per le decisioni terapeutiche, fornendo informazioni sia sull’esistenza, l’efficacia e la validità delle prove d’efficacia di trattamenti nuovi o mal noti, sia sull’evoluzione della storia naturale della malattia non trattata. La scelta se trattare/non trattare potrebbe essere dunque duplicemente informata: dal punto di vista del ‘contributo tecnico’ della fattibilità, con l’uso delle informazioni scientifiche sull’efficacia dei trattamenti e la loro disponibilità; dal punto di vista del ‘contributo etico’, con la valutazione del grado di accettabilità degli interventi specifici e della desiderabilità dei loro esiti, preferenza che dev’essere espressa da parte dei destinatari ultimi, i pazienti. Da questo punto di vista, a giustificare un particolare intervento clinico non viene solo più ad essere l’autorità del medico, ma le prove che l’intervento sia efficace. Sarebbe quindi così possibile articolare le decisioni cliniche in risposta alle specifiche caratteristiche e bisogni dei pazienti (implementazione dello standard di comunicazione soggettivo), evitando nel contempo il rischio di un’eccessiva discrezionalità nei comportamenti da parte dei medici (maggior trasparenza nello standard di rivelazione professionale).

"I medici hanno autorità non in quanto singoli individui, ma come membri di una comunità che ha valutato obiettivamente le loro capacità professionali. Il professionista offre suggerimenti e consigli non agendo individualmente sulla base di criteri personalistici e soggettivi, ma come rappresentante di una comunità con criteri comuni. Nella moderna professione medica, l’indagine razionale e l’evidenza empirica sono ritenuti essere il fondamento di questi criteri" (corsivi miei).

    Da una visione utilitarista dell’autonomia, la competenza che è richiesta ad una persona per poter esercitare il consenso informato ad un atto medico non è quella di aspirare a compiere complesse connessioni tra malattie e terapie, ma di aver chiarezza sulle previste sofferenze, sulla quantità e qualità della vita che le rimane. Come afferma Lecaldano, "La questione sostantiva in gioco sembra principalmente quella del dovere del personale medico di informare il paziente in modo tale da assicurarsi che egli possa decidere in modo autonomo se accettare o meno quello che gli viene proposto." E, poco dopo, aggiunge

" La scienza medica dovrebbe essere formulata in modo tale che i pazienti e coloro che la praticano sappiano e possano, in primo luogo, identificare quali sofferenze accompagnano le terapie e gli interventi cui si ricorre. Il discorso della scienza medica dovrebbe essere tradotto in un linguaggio base che rinvii ai dolori e alle sofferenze" (corsivi miei).

 


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