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Saggi

L’etica della Ricerca Genetica sugli Esseri Umani

di John Harris

    A partire dal Processo di Norimberga e dai processi ai medici nazisti, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono emersi protocolli internazionali concepiti per proteggere gli esseri umani dalle atrocità degli esperimenti medici che erano letteralmente routine sotto il nazismo.

    Nonostante il fatto che sia Henry Ford sia Georg Wilhelm Hegel pensassero che fosse dubbia la saggezza e l’utilità del tentare di imparare dalla storia, o forse proprio a causa di un pensiero simile, l’episodio nazista ha proiettato un’ombra maligna e persistente, non solo sulla storia dell’umanità, ma sulla scienza contemporanea. Henry Ford consegnò alla celebrità la sua affermazione secondo cui "la storia è una sciocchezza", e Hegel può essere parafrasato dicendo che "la sola cosa che gli uomini possono imparare dalla storia è che gli uomini non possono imparare nulla dalla storia". Alcune delle apparenti ‘lezioni’ tratte dal periodo nazista sono state inserite nella Dichiarazione di Helsinki, forse il più importante protocollo di etica medica, e, come sosterrò, non sono state particolarmente capaci di condurre al benessere umano o alla protezione dei diritti umani.

    La World Medical Association Declaration of Helsinki sostiene il principio in base al quale: "La considerazione per l’interesse dell’individuo deve sempre prevalere sugli interessi della scienza e della società". Ovviamente, se l’espressione ‘gli interessi della società’ si riferisce agli interessi del partito nazional socialista nella Germania degli anni Trenta, il principio sembra plausibile; ma anche interpretandolo in maniera così ristretta, è difficile vedere come l’olocausto abbia potuto servire l’interesse di chicchessia. Tuttavia il tentativo di generalizzare a partire dal disprezzo per l’interesse del partito nazista, e a partire dalla vigilanza contro i pericoli derivanti dalla sua prevalenza, ha prodotto un’etica povera, perfino incoerente.

    La Dichiarazione di Helsinki è stata utilizzata come un vero e proprio veto alla ricerca scientifica che non sia direttamente rivolta al beneficio della persona coinvolta, o che non sia specificamente riconosciuta dalla persona coinvolta come qualcosa che avviene nel suo interesse. Questo saggio intende riesaminare la nozione di "considerazione per l’interesse del singolo soggetto", e sostenere un nuovo principio che sia più appropriato al contesto della ricerca genetica.

    Torniamo a puntare la nostra attenzione sulla Dichiarazione di Helsinki, e cerchiamo di valutare quanto essa sia in grado di offrire una guida utile e se possibile eticamente difendibile nel contesto della ricerca genetica.

"La considerazione per l’interesse dell’individuo deve sempre prevalere sugli interessi della scienza e della società".

    Anche se fosse vero che i nazisti subordinarono l’interesse dell’individuo agli interessi della scienza e della società, non ne seguirebbe che ciò fosse sbagliato (wrongful). Il fatto che una società buona e una società nettamente immorale condividano una certa caratteristica non mostra che esse siano entrambe immorali, a meno che non sia la presenza di quella caratteristica che le rende tali. Sarebbe come avanzare riserve sulla moralità di un sistema ferroviario caratterizzato dalla puntualità dei suoi treni, suggerendo che un simile sistema è malvagio giacché i nazisti (si dice) facevano viaggiare i treni in orario e giacché la puntualità dei treni è a volte citata per attenuare le colpe del fascismo.

    Che cosa è o non è nell’interesse di qualcuno? Dovremmo notare fin dal principio che se qualcosa sia o non sia nell’interesse di un particolare individuo è una questione oggettiva. Da una parte i soggetti stessi hanno un ruolo speciale nel determinare cos’è che è nel loro interesse, dall’altra parte sappiamo che gli esseri umani sono anche capaci di agire contro i loro propri interessi. In effetti l’idea del rispetto per le persone che è sottesa alle direttive essenziali della Dichiarazione di Helsinki è composta da due elementi chiaramente distinti e a volte incompatibili, ovvero, la considerazione per il benessere (welfare) e il rispetto dell’autonomia. Dato che spesso le persone hanno preferenze auto-danneggianti (per il fumo, l’abuso di droga, l’altruismo estremo, e così via), esse a volte sono cattivi giudici dei propri interessi, benché non possano, ovviamente, essere cattivi giudici dei propri desideri. Trascurando il caso problematico dei desideri inconsci, si può affermare che gli esseri umani abbiano una consapevolezza infallibile riguardo alle proprie preferenze. Torneremo alla questione dell’autonomia fra un momento. Tuttavia è importante notare che le preferenze di un individuo non sono necessariamente indicatori efficaci dei suoi interessi.

    Dobbiamo essere circospetti e non rischiare di essere eccessivamente conservatori nel rispondere alla domanda su cosa apporti e cosa non apporti un beneficio a qualcuno, o non rischiare di definire gli interessi di qualcuno in maniera troppo angusta. Noi tutti traiamo beneficio dal vivere in una società e, anzi, in un mondo in cui si porta avanti la ricerca medica, e in cui si utilizzano i vantaggi della ricerca passata. È di beneficio sia per i pazienti, sia per i soggetti che si sottopongono alla ricerca – ed è nell’interesse di entrambi – vivere in una società che persegue e accetta attivamente i benefici della ricerca, e in cui si dà un’alta priorità alla ricerca e ai suoi frutti. Noi tutti traiamo beneficio anche dal fatto di sapere che la ricerca sta progredendo e illuminando malattie o condizioni di cui non soffriamo al momento attuale, ma in cui un giorno potremmo scivolare anche noi. Ci fa sentire più sicuri e ci dà speranza per il futuro, per noi e per i nostri figli e nipoti, e per gli altri a cui teniamo. Se tutto ciò è corretto, allora io ho un forte interesse a che vi sia ricerca medica, ogni tipo di ricerca medica ben fondata; senza escludere – anche se non limitandoci a – la ricerca effettuata su di me e sulle mie condizioni o su condizioni che potrebbero divenire le mie o quelle dei miei cari. Tutta questa ricerca è anche un chiaro beneficio per me. Una interpretazione ristretta del requisito secondo cui la ricerca debba essere di immediato e diretto beneficio per il soggetto su cui la ricerca è condotta, è dunque una interpretazione perversa.

    Inoltre, e nonostante ciò che implicano le parole della Dichiarazione di Helsinki, gli interessi di un soggetto non possono avere un valore assoluto. Una simile idea comporterebbe un immediato errore di ragionamento. Essere o diventare un soggetto su cui è condotta la ricerca non è un tipo di cosa che potrebbe ragionevolmente far crescere l’importanza delle pretese morali di qualcuno o, per questa via, l’importanza dei suoi diritti. Tutte le persone sono ugualmente importanti, e, l’una rispetto all’altra, ognuna ha un uguale diritto a un’uguale considerazione. Nessuno ha il diritto a una considerazione assoluta o preponderante. Dire che l’interesse del soggetto della ricerca debba prevalere sugli interessi degli altri, se vuol dire qualcosa, deve essere inteso come un modo di riaffermare che l’interesse professionale di un ricercatore, concepito in modo ristretto, non deve avere la prevalenza sui diritti umani dei soggetti della ricerca. Tuttavia, quell’affermazione non è più sostenibile se intesa come un’osservazione generale sulla comunità della ricerca, sul sistema sanitario e medico, sulla società e in definitiva sul mondo.

    Quali dovrebbero essere allora gli obblighi dei ricercatori nei confronti dei soggetti della ricerca? Gli obblighi nei confronti dei soggetti della ricerca derivano da un obbligo molto più generale ad astenersi dal danneggiare gli altri (l’obbligo al non fare del male, che è l’opposto dell’obbligo al fare del bene, o obbligo al beneficio). Tali obblighi nei confronti dei soggetti della ricerca non sono più stringenti di quanto lo siano nei confronti di chiunque altro abbia un simile bisogno di essere protetto.

    Quando io traggo un beneficio dalla ricerca, ma rifiuto di parteciparvi, io sto sicuramente agendo in modo iniquo (unfairly) in qualche senso. Assumo il ruolo del free-rider, e sfrutto da parassita il contributo degli altri. Laddove le persone partecipano volontariamente alla ricerca, stanno facendo quello che qualunque persona decente e ragionevole dovrebbe voler fare se volesse e sperasse di ricevere benefici dalla ricerca, almeno quando i rischi e i pericoli per i soggetti che si sottopongono alla ricerca siano minimi. Il livello di protezione richiesto per rendere i rischi di partecipazione ‘minimi’ è poi una questione empirica, o almeno di valutazione, comunque da affrontare caso per caso. Una conclusione in cui potremmo avventurarci provvisoriamente è che quando i rischi, i pericoli o gli inconvenienti della ricerca sono minimi, e quando la ricerca è ben fondata ed è probabile che essa sarà di beneficio per sé stessi o per gli altri, allora c’è un obbligo morale – magari modesto – a partecipare. Da ciò consegue che coloro i quali si astengono dal partecipare o negano il permesso per l’utilizzazione di campioni di tessuti, agiscono in modo sbagliato.

    Se questa conclusione sembra sorprendente o perfino pericolosa, dovremmo ricordare che è ampiamente riconosciuto che a volte esiste chiaramente un forte obbligo a fare sacrifici anche piuttosto sostanziosi per il bene della comunità, o un diritto della comunità a spingersi fino a negare l’autonomia decisionale e perfino a violare l’integrità del corpo nell’interesse pubblico, e che tutto ciò è riconosciuto ufficialmente in molti modi. I seguenti ambiti, in cui ciò è già in varie misure riconosciuto e accettato, serviranno da promemoria: controllo delle droghe pericolose, controllo della circolazione stradale, vaccinazioni obbligatorie, test di controllo, donazione di sangue, quarantena per malattie pericolose e trasmissibili, servizio militare obbligatorio, trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale, protocolli di sicurezza per alcune professioni (per esempio, protezione dal rischio di contagio da individui HIV positivi), obbligo di presenza per testimoni o giurati ai processi penali. Tutto questo comporta una negazione dell’autonomia, una imposizione di valori collettivi, anche in casi in cui la sottomissione individuale non è basata sul consenso informato da parte dell’individuo stesso. Tuttavia, questi sono evidentemente casi eccezionali in cui considerazioni morali travolgenti guadagnano la precedenza sull’autonomia. Vale comunque la pena di soffermarci ancora un istante sull’esame della pratica diffusa e largamente accettata della partecipazione forzata al bene pubblico.

 Partecipazione forzata al bene pubblico

    Diamo uno sguardo più da vicino a due casi familiari, quello del servizio di giuria e quello dell’esame post mortem del corpo ordinata dal coroner (l’autopsia).

    Tutti i cittadini britannici di età compresa fra i 18 e i 70 anni sono reclutabili per il servizio di giuria. Possono essere chiamati, e a meno che la loro assenza possa essere giustificata alla corte, devono presentarsi. Ciò significa un minimo di dieci giorni, ma spesso mesi, di confinamento giornaliero in un banco della giuria o in una stanza della giuria, che essi siano d’accordo o no. Tuttavia, nonostante tutti siano reclutabili, solo alcuni sono effettivamente reclutati. Chi viene convocato e non si presenta incorre in una multa. La maggior parte delle persone non sarà mai chiamata, ma qualcuno deve essere chiamato, se il sistema della giustizia non vuole collassare. La partecipazione a questo servizio rivolto al bene pubblico, la prestazione individuale atta a favorire il bene pubblico, sono in questo caso obbligatori.

    In molte giurisdizioni, le corti o il coroner possono ordinare l’esame post mortem di un corpo. Un simile ordine è esecutivo senza che sia richiesto nessun consenso, e nonostante il fatto che le autopsie richiedono una violazione della dignità di un corpo morto e la rimozione di organi e tessuti. Lo Stato può ordinare che sia fatta un’autopsia allo scopo di soddisfare la propria curiosità sulle cause della morte di qualcuno. Naturalmente di solito non si richiedono autopsie per semplice curiosità, e piuttosto lo si fa sulla base di considerazioni di sicurezza pubblica o di politica pubblica. È importante che si giunga a conoscere la causa della morte in caso che l’identica causa possa rappresentare un pericolo per la comunità – sia che il pericolo assuma la forma di un’epidemia o di un contagio, sia che assuma la forma di una perpetuazione di una tipologia omicida.

    Ci sono molti sensi in cui si può dire che la partecipazione alla ricerca condivide caratteristiche importanti con il servizio di giuria e con l’autopsia ordinata dal coroner. Sono tutti casi in cui sussistono importanti benefici pubblici a favore dei quali i cittadini sono chiamati a sacrificare parte della loro autonomia, e forse anche dei loro interessi. È la caratteristica della sottomissione dell’interesse personale al bene pubblico che è particolarmente importante.

 La nave in pericolo

    C’è un esempio che secondo me illustra bene, e in una certa misura spiega, la nostra posizione di fronte all’imposizione del rischio in favore dell’interesse collettivo. Immaginiamo una nave in una crociera sull’oceano. Il capitano riceve un messaggio radio che gli comunica che c’è un’altra nave in pericolo alcune miglia a nord. Ci sono duecento persone a bordo della nave in pericolo, mentre la sua nave ha a bordo mille persone. La sua è l’unica nave che può effettuare un salvataggio in tempo utile prima che la nave che si trova in difficoltà affondi. Egli sa che, se devia la rotta verso la tempesta, imporrà un rischio ai suoi passeggeri e al suo equipaggio. Ci sarà un ridotto ma reale rischio di morte per tutti. La tempesta è piuttosto brutta, ma la nave è grande e moderna e dovrebbe farcela. C’è un rischio più elevato, anche se non troppo alto, che qualche membro dell’equipaggio o qualche passeggero muoia durante le operazioni di salvataggio, tra le ondate, gli scossoni e i crolli. Per finire, poiché la tempesta è di notevole portata, egli sta quasi certamente per sottoporre i suoi tanti passeggeri anziani al rischio di ferite non mortali, e certamente a disagio, paura e danni. Significativamente, non abbiamo bisogno di domandarci cosa è giusto che faccia. Il capitano sa che deve tentare il salvataggio, e sottomette passeggeri ed equipaggio al rischio connesso; e saranno pochi a non essere d’accordo con lui. Egli sa anche che può e deve agire così senza domandare il consenso dei passeggeri e dell’equipaggio, perché essi avrebbero torto a negarlo e il capitano avrebbe torto a rispettare questo rifiuto.

    Notare che esistono circostanze in cui un importante bene pubblico ha il potere di sospendere o addirittura di annientare l’importanza del consenso pienamente informato, non significa ovviamente fornire un’autorizzazione alla possibilità di disattendere sistematicamente il consenso. Al contrario, il consenso pienamente informato è la migliore garanzia degli interessi dei soggetti sottoposti alla ricerca, ed è la migliore espressione dell’uguale considerazione e dell’uguale rispetto per essi in quanto persone autonome. Tuttavia, questi casi ci ricordano che il principio dell’uguaglianza della considerazione e del rispetto comporta a volte non solo la valutazione comparativa di pretese contrastanti, ma anche l’assegnazione della priorità a certe pretese più forti, più urgenti e dotate di maggior peso morale.

 Ricerca sull’Archivio dei Tessuti Umani

    Un dibattito sovradimensionato è esploso riguardo all’utilità e all’importanza morale della ricerca sull’Archivio dei Tessuti Umani (The Human Tissue Archive). I discorsi sull’importanza della protezione della privacy genetica hanno avuto un rilancio. In qualche modo, è necessario trovare un equilibrio tra questi due importanti interessi. La chiave per trovare questo equilibrio sta nella comprensione del fatto che la privacy genetica non è un bene di per sé, ma è piuttosto un mezzo atto a proteggere altri beni. La privacy genetica è importante, se lo è, a causa dei diritti e degli interessi che potrebbero correre dei rischi se essa venisse compromessa. Diventa allora necessario specificare in dettaglio quali siano questi diritti e questi interessi, per poterli confrontare con i diritti e gli interessi che rischiano di essere calpestati nel caso in cui la privacy genetica venga rispettata a tutti i costi. Un simile compito esula dagli scopi del presente articolo. Tuttavia, se ho ragione a ritenere che una ricerca genetica ben fondata è un bene pubblico, allora si possono trarre alcune conclusioni:

Io e il mio genere

    Si sostiene a volte che laddove il consenso sia problematico o, come forse avviene con la ricerca genetica su materiali d’archivio, laddove le persone da cui proviene il materiale siano morte o irrintracciabili, la ricerca possa essere approvabile nel caso in cui sia volta a migliorare le condizioni di salute dei soggetti stessi o delle persone con malattie identiche, simili o correlate. Il suggerimento che la ricerca, nel caso in cui non possa essere di diretto beneficio al paziente, debba essere ristretta in modo da essere di beneficio solo per la categoria di pazienti a cui il soggetto appartiene, sembra non solo insostenibile ma anche offensiva. Quale argomentazione potrebbe supportare l’idea che il gruppo più appropriato per ricevere i benefici della ricerca sia quello dei ‘colleghi di malattia’, per esempio il gruppo dei malati del morbo di Alzheimer? Certamente ogni obbligo morale che io posso avere ad accettare di sopportare un rischio o un danno per il beneficio degli altri non è plausibilmente concepibile come un obbligo morale relativo solamente a quelli che sono come me in senso stretto. Questo sarebbe certamente molto simile a dire che la ricerca dovrebbe essere confinata in modo da essere di beneficio a quelli che sono "neri come me" o "Inglesi come me" o "timorati di Dio come me". La categoria più appropriata è di certo "umano come me".

 Le richieste dell’etica

    L’etica non può chiedere il sacrificio dei molti che trarrebbero beneficio dalla ricerca per l’interesse dei pochi che partecipano. Sarebbe assurdo anche che l’etica chiedesse il contrario, ovvero che l’interesse dei partecipanti alla ricerca fosse sacrificato ai bisogni dei molti che ne attendono i risultati. Ma non vi è mai stata neanche la più remota proposta di un simile sacrificio dei soggetti della ricerca. Che cosa allora sarebbe ragionevole ed etico?

    La risposta a questa domanda è che noi dobbiamo soppesare con estrema cura e con grande empatia la questione di quanto sia ragionevole informare i potenziali partecipanti a un esperimento medico prima di poter dire che si è loro consentita una scelta libera e senza impacci, e anche la questione di quanto sia ragionevole che acconsentano gli individui che, per qualsiasi ragione, si sono trovati a fornire campioni di tessuto. Una volta assicurato che i potenziali soggetti della ricerca abbiano ricevuto un’informazione completa e siano liberi di partecipare o meno a seconda di come preferiscano, a quel punto l’unica questione residua è fino a che punto sia ragionevole permettere alle persone di partecipare liberamente, dati certi rischi e date certe probabilità di riuscita. È ragionevole chiedere alle persone di correre qualsiasi grado di rischio, di sopportare qualsiasi inconveniente e qualsiasi intrusione nelle loro vite derivanti dalle esigenze della ricerca, e così via, in tutte le circostanze possibili? Tali circostanze includeranno sia i benefici personali per loro, derivanti dalla partecipazione alla ricerca, sia i benefici che ricadranno dalla ricerca su altre persone, persone che meritano senza esitazione la stessa attenzione, lo stesso rispetto e la stessa protezione da parte nostra. Porre la questione in questi termini rende evidente che gli standard di sollecitudine e i livelli di protezione che devono essere accordati ai soggetti della ricerca che siano ben informati su quello che fanno devono essere, in una certa misura, relativi al tipo particolare di ricerca.

    Quando la ricerca deve essere effettuata su materiale d’archivio che sia già stato prelevato per altri scopi, le cose sono secondo me ancora più semplici. Se (e solo se) si possono garantire l’anonimato e l’irrintracciabilità, allora, nella misura in cui la ricerca è ben fondata, ci sono ragioni molto forti per concedere il materiale d’archivio alla ricerca indipendentemente dal fatto che sia stato ottenuto o meno il consenso, e indipendentemente dal fatto che un consenso precedente possa essere o meno interpretato come estendibile alla nuova ricerca.

    Dobbiamo distinguere i casi in cui i donatori del materiale d’archivio siano morti dai casi in cui essi siano ancora vivi. Nei casi in cui siano morti, non si pone nessun problema relativo alla protezione dei soggetti della ricerca, poiché essi, per ipotesi, non possono esserne danneggiati. Certamente, può porsi un problema relativo all’esigenza di rispettare i loro desideri riguardo all’uso postumo dei loro tessuti. Questa esigenza va tenuta in conto, d’accordo, ma ritengo che non vada tenuta in conto né più né meno di quanto venga tenuta in conto l’esigenza di rispettare i desideri testamentari che riguardano ogni altra parte dei beni di una persona. E qui il principio dovrebbe essere che tutti i desideri, in generale, vanno rispettati nella misura in cui non intervengano ragionevoli esigenze connesse al pubblico interesse. Condurre una ricerca su campioni d’archivio di cittadini deceduti potrebbe essere visto come qualcosa di molto simile al tassare il loro patrimonio per rimpinguare le casse dello Stato.

    Nel caso di soggetti che forniscono tessuti vivi, c’è solo il problema di stabilire se sia più importante proteggere la loro autonomia che portare avanti la ricerca. È una domanda fondamentale, che probabilmente è destinata anch’essa a ricevere risposte diverse a seconda del tipo di ricerca. Tuttavia, non dovremmo assumere che si debba sempre dare la priorità alla autonomia individuale, a scapito degli interessi presenti e futuri di coloro che avrebbero un beneficio dalla ricerca. L’autonomia non è un diritto inviolabile, come sa ogni persona che paga le tasse, viene convocata nelle giurie o presta servizio militare.

    Certamente dobbiamo sempre ricordare che l’informazione genetica non è un tipo d’informazione che si riferisca soltanto al donatore, ma anche, in varia misura, informazione che riguarda tutti coloro che sono geneticamente collegati a lui. Perciò, attenzione e rispetto sono dovuti anche a tutti i parenti che senza volerlo sono chiamati in causa. Questa prudenza non è però richiesta soltanto nei casi in cui non si riceve il consenso del donatore, ma in tutti i casi di ricerca genetica.

 Le esigenze di giustizia e il principio di Helsinki mancante

    È cruciale considerare che le potenti ragioni morali che abbiamo per condurre ricerche genetiche non sono annullate dalle potenti ragioni morali che abbiamo per proteggere i soggetti della ricerca. Si tratta di soppesare attentamente i due piatti della bilancia, certamente: ma non è affatto detto che sempre e inevitabilmente la bilancia debba pendere dalla parte della protezione dei soggetti della ricerca. Certo essi meritano tutta la nostra considerazione, il nostro rispetto e la nostra protezione; ma non meritano tutto questo più di quanto lo meritino coloro che sono oppressi dalle malattie genetiche.

    La Dichiarazione di Helsinki ha un articolo mancante. L’articolo 4 della Dichiarazione di Helsinki afferma: "Le ricerche biomediche che coinvolgono soggetti umani non possono essere legittimamente svolte a meno che non sia vero che l’importanza dell’obiettivo è proporzionale al rischio connesso affrontato dal soggetto". Il principio mancante legato a questo afferma invece:

    Le ricerche biomediche che coinvolgono soggetti umani non possono essere legittimamente trascurate, e sono perciò permesse, laddove l’importanza dell’obiettivo sia grande e il rischio e la possibilità di sfruttamento dei soggetti che abbiano dato il loro consenso informato siano invece minimi. Nel caso di tessuti d’archivio in cui il consenso all’acquisizione sia già stato dato, ogni ulteriore ricerca è permessa purché l’obiettivo sia degno di considerazione, e purché l’anonimato e l’irrintracciabilità dei soggetti e dei loro parenti siano garantiti.

    Ove le informazioni ricavate dalle analisi genetiche possano essere interessanti o importanti per le persone coinvolte, potrebbe essere doveroso rintracciare queste persone e informarle, ove ciò sia ragionevolmente possibile. I dettagli di una simile esigenza, le forme che potrebbe prendere e le limitazioni che dovrebbero essere riconosciute, vanno oltre gli scopi di questo articolo.

    Perciò, nonostante i due aspetti del consenso informato e della elargizione continua di informazione rilevante ai soggetti della ricerca non eliminino il rischio di ogni possibile sfruttamento, lo riducono a un punto tale che non sarebbe etico rimanere indifferenti di fronte ai bisogni e agli interessi di coloro che potrebbero trarre un beneficio dalla ricerca. Andrebbe notato che è proprio il consenso informato, e il rispetto per gli individui che esso presuppone, che impediscono ogni analogia con gli esperimenti dei nazisti e con le preoccupazioni di Norimberga, e che vietano ogni fallace comparazione con lo studio di Tuskegee. È il riconoscimento dell’obbligo ad una uguale considerazione e ad un uguale rispetto per tutte le persone – che è poi la caratteristica definitoria dell’idea di giustizia. Il riconoscimento che l’obbligo ad essere giusti si applica non solo ai soggetti della ricerca, ma anche a tutti coloro che ne trarranno un beneficio, costituisce un passo in avanti nella riflessione sugli standard internazionali dell’etica della ricerca.

 Incentivi a partecipare alla ricerca

    Prima di concludere, è necessario spendere una parola sulla questione degli incentivi alla partecipazione alla ricerca. La maggior parte dei protocolli di etica della ricerca è contraria agli incentivi. Per esempio, le direttive CIOMS stabiliscono che, se vengono offerti incentivi ai pazienti, "i pagamenti non dovrebbero essere così cospicui, o i servizi medici offerti così estesi, da indurre i possibili soggetti a partecipare alla ricerca nonostante ciò sia contrario al loro miglior giudizio (incentivo indebito)".

    Eppure, l’enunciazione delle direttive CIOMS è illuminante. Essa permette pagamenti in denaro o in servizi, ma afferma che "i pagamenti non dovrebbero essere così cospicui, o i servizi medici offerti così estesi, da indurre i possibili soggetti a partecipare alla ricerca nonostante ciò sia contrario al loro miglior giudizio (incentivo indebito)". Tuttavia, una chiosa che i documenti CIOMS offrono a questa direttiva introduce probabilmente un’incoerenza. La chiosa afferma che "qualcuno privo di accesso alle cure mediche potrebbe essere indebitamente indotto a partecipare alla ricerca soltanto allo scopo di guadagnare un accesso alle cure". Il nocciolo del problema è: che cos’è che rende l’incentivo ‘indebito’? Se l’incentivo è ‘indebito’ quando va a minare la possibilità di produrre "il miglior giudizio", allora non può essere semplicemente l’entità dell’incentivo a minare la possibilità di produrre "il miglior giudizio", e neanche può essere il fatto che è l’incentivo a fare la differenza tra partecipare e non partecipare. Se fosse così, infatti, allora tutti i lavori con remunerazioni attraenti dovrebbero costituire interferenze ‘indebite’ con le libertà dei soggetti, e tutti coloro che usano il loro miglior giudizio per decidere se vale la pena di accettare un certo pacchetto composto da un certo lavoro e dalla connessa remunerazione, sarebbero stati ‘indebitamente’ influenzati.

    È certo che l’influenza diventa sul serio ‘indebita’ solo se le cose stanno molto diversamente. Se, per esempio, fosse vero che nessuna persona sana di mente parteciperebbe mai alla ricerca e che soltanto gli incentivi potrebbero indurre qualcuno a ignorare "il miglior giudizio" o "ciò che è razionale fare"; o se la ricerca fosse in qualche modo non morale; o se la partecipazione fosse intollerabilmente indignitosa; in questi casi, vi sarebbe una base legittima per sostenere la sussistenza di una influenza indebita.

    Supponiamo che sia realizzato un certo numero di requisiti: la ricerca genetica è scientificamente ben fondata; si prefigge obiettivi importanti, la realizzazione dei quali costituirà un passo significativo nello sviluppo della conoscenza; i soggetti corrono un rischio minimo; gli inconvenienti della partecipazione sono relativamente scarsi; e così via. In queste circostanze, sicuramente non sarebbe soltanto nell’interesse di tutti che alcune persone partecipino alla ricerca, ma anche nell’interesse stesso delle persone che partecipano. Il miglior giudizio di certo non concluderà che ciascuna particolare persona dovrebbe non partecipare. È ovvio che ci sarà qualcuno che, fatto qualche conto di convenienza personale, potrebbe decidere di non partecipare: "Per me sarebbe un disturbo, non varrebbe la pena, ci sarebbero più grane che altro", e così via. Tuttavia, scalzare la forza di questo genere di obiezioni ricorrendo ad incentivi non significherebbe minare la possibilità di raggiungere il miglior giudizio più di quanto potrebbe significarlo la pratica di rendere economicamente attraenti alcune occupazioni lavorative.

    Possiamo concludere che l’offerta di incentivi per la partecipazione alla ricerca, forse in forma di agevolazioni fiscali offerte alle persone che rendono i loro tessuti contenuti in archivio disponibili per la ricerca, non sarebbe una prassi immorale, e al contrario potrebbe essere vista come una strada promettente per il futuro.

 Privacy genetica

    Un’obiezione all’utilizzazione per scopi di ricerca dell’Archivio dei Tessuti Umani, un’obiezione che potrebbe aver resistito a tutte le argomentazioni che fanno leva sull’interesse pubblico e che ho proposto fin qui, è quella secondo cui c’è un diritto alla "privacy genetica". I diritti alla privacy genetica e in realtà i diritti all’identità genetica sono spesso sbandierati da chi si improvvisa scienziato, senza peraltro alcuna consapevolezza dell’incoerenza di ciò che si dice e della reciproca incompatibilità delle due rivendicazioni. La ‘privacy genetica’, se pure il termine significa qualcosa, ha a che fare con la privatezza o la segretezza dell’informazione genetica. La ‘identità genetica’, d’altronde, è spesso confusa con la ‘unicità genetica’: parlando di ‘diritto all’identità genetica’, si parlerebbe allora di ‘diritto a un genoma esclusivo’, e certamente questo non può essere un diritto umano fondamentale o basilare, a causa della frequenza con la quale viene violato, senza apparenti effetti dannosi, in tutti i casi in cui si ha l’esistenza di gemelli monozigoti. La ‘identità genetica’, in quanto distinta dalla ‘unicità genetica’, ha a che fare col grado in cui i nostri geni sono condivisi con altre persone, e forse la questione di da chi provengano i nostri geni. Per metterla in termini un po’ crudeli, il naso degli Hapsburg, o le orecchie dei Battenburg, dei quali il Principe Carlo è portatore (orgoglioso?), sono cose che hanno a che fare con l’identità genetica, ma che sono essenzialmente pubbliche. Perciò, non è chiaro come l’informazione riguardante tali caratteristiche fisiche possa essere oggetto di diritti di privacy, più di quanto possa esserlo l’identità dei propri antenati, laddove gli antenati sono nella maggior parte dei casi oggetto legittimo di pubblica conoscenza (e, spesso, fonti di privata fierezza generata proprio da quella pubblica conoscenza).

    Per di più, Lee Silver ha brillantemente dimostrato le seguenti due verità:

Primo, una comparazione fra due persone qualsiasi nel mondo mostrerebbe che, in media, esse condividono il 99.9% della propria informazione genetica. In effetti, qualunque coppia di persone presa a caso sarebbe assolutamente identica relativamente alla stragrande maggioranza dei geni.

Secondo, con una popolazione mondiale di più di sei miliardi di persone, è estremamente improbabile che qualsiasi individuo possieda nel suo genoma anche un solo allele che sia unico al mondo. Ogni allele posseduto da te compare anche nel genoma di altre persone.

    Stando così le cose, è improbabile che possa esservi un diritto alla privacy genetica che implichi la segretezza riguardo ai propri geni o al proprio genoma. Certamente, nella misura in cui i geni sono collegati a, e rivelativi di, situazioni mediche personali, ogni diritto alla privacy riguardo alla propria situazione medica dovrebbe portare con sé un diritto alla privacy riguardo alle informazioni genetiche che possono fornire le informazioni sulla situazione medica personale, almeno nei limiti in cui tale privacy possa essere ragionevolmente mantenuta.

    Le più importanti questioni poste da ciò che viene chiamata ‘privacy genetica’ non vertono affatto in realtà sulla privacy dell’informazione; piuttosto, vertono sull’uso e sull’abuso dell’informazione. La battaglia per la privacy genetica è, nel senso più vero, una battaglia persa. Le cose stanno così soprattutto perché oggi è facilissimo ottenere informazioni genetiche sugli altri, traendole dai sistemi di immagazzinamento dei dati facili da violare o da campioni di DNA ottenuti in modo illecito (un bicchiere usato può fornire abbastanza saliva per poter effettuare un’analisi del DNA). Non dovremmo preoccuparci della privacy dell’informazione genetica, ma dell’uso e dell’abuso di questa informazione. Il miglior modo di proteggere qualsiasi diritto che vorremmo difendere tramite l’appello alla ‘privacy genetica’, consiste nel controllare e, più importante, nel punire con rigore e durezza gli usi dell’informazione genetica che siano irragionevoli, ingiusti o forse, in alcuni casi, semplicemente non autorizzati. Una discussione del problema di quali usi dell’informazione genetica siano irragionevoli, ingiusti e non autorizzati esula purtroppo dagli scopi di questo articolo.

 Conclusioni

    Alcune importanti conclusioni possono essere tratte da quanto abbiamo detto:

  1. Non c’è giustificazione per chi restringe la definizione della nozione di ‘interessi dei soggetti della ricerca’ per riferirsi con ciò soltanto agli interessi personali ed egoistici. Tutte le persone, compresi i soggetti della ricerca, hanno un interesse reale e effettivo nella continuazione della ricerca medica.

  2. Diventare un soggetto di una ricerca non aumenta la consistenza dei propri diritti morali o delle proprie pretese morali. Perciò gli interessi dei soggetti della ricerca non possono essere l’unica cosa che conta. Tutti gli individui hanno diritto di essere trattati con uguale considerazione e uguale rispetto.

  3. Un consenso informato adeguato rimane l’unica garanzia per gli interessi dei soggetti della ricerca viventi. Certo il consenso informato non è la soluzione di tutti i problemi, ma i pericoli residui possono essere compensati dai pericoli derivanti dalla scelta di non effettuare la ricerca. Sono il consenso informato e la continua elargizione di tutta l’informazione rilevante ai soggetti della ricerca che caratterizzano tutte le ricerche etiche e che le distinguono nettamente da ciò che preoccupò Norimberga e da ciò che costituì la macchia di Tuskegee.

  4. Gli incentivi offerti ai soggetti della ricerca non sono né coercitivi né sotto altri aspetti immorali, purché la ricerca sia ben fondata e rivolta all’interesse pubblico.

  5. La ricerca condotta sull’Archivio dei Tessuti Umani non comporta ovviamente nessun rischio fisico per le persone che hanno fornito il materiale. Tuttavia, i diritti e gli interessi dei donatori sono seriamente minacciati dal possibile abuso dell’informazione, e devono essere protetti fino ad un grado proporzionato ai probabili vantaggi derivanti dalla ricerca. Un modo per proteggerli consiste nell’assicurare una severa e immancabile punizione per gli usi scorretti dell’informazione genetica (ammettendo con ciò che la salvaguardia dell’informazione non è qualcosa che possa essere garantita incondizionatamente). Oltre a tali punizioni, dovrebbe essere fornita protezione contro gli usi illegittimi che dell’informazione genetica acquisita senza il consenso degli individui potrebbero avere interesse a fare soggetti quali le compagnie di assicurazione o i governi.

 


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