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Saggi

Bambini nati da una legge

di Chiara Lalli

 

E Laura aspetta un figlio per Natale
e tutto il resto adesso può aspettare
perché Laura adesso deve
solamente riposare
e forse… smetterà anche di fumare

Vasco Rossi

 

    Nella primavera del 2001 viene presentata negli Stati Uniti una proposta di legge che ha lo scopo di proteggere e difendere il ‘feto’ da possibili danni durante la gravidanza. Il motivo delle virgolette si chiarirà tra breve.

    Il 26 aprile 2001 l'Unborn Victims of Violence Act (H.R. 503, S. 480), sponsorizzata da un sorridente Linsey Graham e fortemente sostenuta dal NRLC (National Right to Life Committe), viene approvata dalla House of Representatives, con 252 voti favorevoli contro 172 contrari: provocare la morte del feto, questo il cuore della legge, equivale a uccidere una persona non nata (unborn child).

    La legge, riaffiorata in seguito all’ondata ultraconservatrice che ha portato al potere Bush, "vivacchiava da anni tra i banchi del Congresso americano, già una volta approvata simbolicamente dai deputati e respinta dal Presidente, che oppose il veto. Ma quel presidente si chiamava Bill Clinton e se ne è andato. Al suo posto, siede George W. Bush, che deve la sua (quasi) vittoria al partito di Dio, alla destra integralista…" (Zucconi, 2001, p. 17). La posizione di Bush rispetto alla difesa della vita è nota e il presidente ha garantito che firmerà la legge, se passerà anche al Senato.

    L’esigenza a cui tale legge vuole rispondere è la carenza di specifiche tutele del feto nella legislazione federale americana. Va detto, infatti, che già ventiquattro stati riconoscevano l’unborn child come una vittima, equiparando feto e neonato, alcuni per tutto lo stadio della gestazione, a partire dal concepimento, altri solo a partire da un certo momento dello sviluppo prenatale.

    Un caso emblematico di questa inadeguatezza legislativa è costituito dall’aggressione ai danni di una giovane donna incinta avvenuta nel 1996: nella base dell’Air Force di Wright Petterson, l’aviere Gregory Robbins picchiò la moglie, causando la perdita del bambino. L’aviere fu incriminato soltanto per le percosse inflitte alla moglie, ma non per l’interruzione della gravidanza.

Una scomoda eccezione

    La nuova legge riconosce l'esistenza di due vittime nel caso di una aggressione ai danni di una donna incinta: una vittima, ovviamente, è la donna, l'altra è l'unborn child, definito come "un membro della specie umana, in ogni fase dello sviluppo, che è portato nel ventre materno". Se un criminale spara ad una donna incinta danneggiando o uccidendo l'unborn child, vi sono due crimini distinti commessi verso due persone distinte. La punibilità dell’offesa arrecata al feto non richiede la dimostrazione che l’aggressore sapesse della gravidanza della sua vittima o intendesse causare intenzionalmente la morte o il danno al feto. La pena prevista è la stessa prevista dalla Legge Federale per l’omicidio o l’aggressione nei confronti della madre (omicidio colposo nel caso di morte). Nel caso in cui, invece, vi fosse l’intenzionalità di uccidere o danneggiare il feto, la pena sarebbe equivalente a quella stabilita per l’uccisione o l’aggressione ad un essere umano (omicidio volontario nel caso di morte).

    L’equiparazione tra la procedura penale riguardo il feto e quella riguardo la madre, e la conseguente considerazione del feto come un soggetto avente diritti, incontra un ostacolo: l’aborto, che deve essere ammesso (sentenza della Corte Suprema del 1973, Roe v. Wade). Ma sembra costituire una scomoda eccezione. Nella sezione c del paragrafo Protection of unborn children, viene esclusa la perseguibilità di qualunque persona esegua un aborto con il consenso della donna incinta o nel caso in cui tale consenso sia implicato dalla legge, e viene altresì esclusa la perseguibilità della madre che decide di abortire.

    Ma se l’unborn child è considerato persona, e se la sua morte comporta l’accusa di omicidio colposo o volontario per chi commette il crimine, cosa rende un tipo particolare di omicidio volontario, cioè l’aborto, legalmente ammissibile e non punibile?

Il feto diventa unborn child

    Nella legge non compare mai la parola ‘embrione’ né la parola ‘feto’, ma solo la parola unborn child’, e tale scomparsa viene accompagnata dall’affermazione che la vita comincia con il concepimento. La legge del Missouri, ad esempio, riconosce da tempo l’unborn child come una vittima durante tutto il periodo prenatale e gli conferisce tutti i diritti, i privilegi e le immunità validi per le altre persone; la Corte Suprema degli Stati Uniti ha trovato tale legge costituzionale con la condizione di non restringere la libertà di aborto, condizione che sembra essere fragile nel suo intento e contraddittoria nella sua dichiarazione. Tale legge, oltre ad affermare che la vita inizia al momento del concepimento (the life of each human being begins at conception), proibisce l’utilizzo di fondi pubblici o di facilitazioni per eseguire aborti non necessari a salvare la vita della madre (the Act also prohibits the use of public employees and facilities to perform or assist abortions not necessary to save the mother's life) e rende illegali l’utilizzo di fondi pubblici o di facilitazioni allo scopo di consigliare una donna a decidere per un aborto, non necessario a salvare la propria vita (Webster v. Reproductive Health Services, 1989).

    La libertà di aborto è messa a rischio dalla stessa modalità concettuale e dalla scelta lessicografica attuata dalla legge.

    George Lakoff analizza i termini ‘embrione’, ‘feto’, ‘bambino’ (‘baby’). ‘Embrione’ e ‘feto’ sono termini medici: un ‘embrione’ è il prodotto del concepimento ad uno stadio più organizzato rispetto a un agglomerato di cellule, ma non ancora riconoscibile come membro della specie; un ‘feto’ è uno stadio ancora più evoluto, ma non ancora nato. Non c’è, ovviamente, un preciso momento in cui l’agglomerato di cellule diventa un embrione e l’embrione un feto. Una volta che il feto è nato, è chiamato ‘bambino’. Questi modi diversi di riferirsi a diversi stadi dell’evoluzione umana a partire dal concepimento, vengono ridotti dall’Unborn Victims of Violence Act ad un unico termine, ad un unico ‘modo’ di essere appartenenti alla specie umana in questa fase dello sviluppo: child, sebbene unborn.. È chiaro che tale riduzione terminologica impone un certo tipo di concettualizzazione: ‘baby’ è un essere umano che esiste autonomamente e che rimanda a una dimensione morale, mentre i termini ‘embrione’ e ‘feto’ rimandano a un contesto principalmente medico. Di conseguenza le decisioni morali relative all’aborto o allo statuto dell’unborn baby sono determinate una volta che si siano scelte le parole. Infatti, l'aggettivo ‘unborn’ non basta a cancellare le caratteristiche specifiche di ‘child’.

    Ma se child viene considerato a pieno titolo persona umana, dobbiamo pensare a una persona bonsai? Oppure a una persona potenziale? Vi è qualcosa di incomprensibile sulla definizione di un ammasso di cellule come persona.

    È proprio per non incorrere in questa incomprensibilità che filosofi come John Harris propongono una distinzione tra pre-persona e persona. Il termine pre-persona comprende lo zigote, l’embrione e il feto fino all’emergenza di alcune caratteristiche che permettono di individuare lo stato di persona, determinato dall’autocoscienza e da una rudimentale intelligenza, quindi dalla capacità di apprezzare la propria esistenza. Non è possibile stabilire l’esatto momento in cui una pre-persona acquisisca tali caratteristiche. Pur ammettendo una zona chiaroscurale, Harris individua tuttavia due zone distinte dello sviluppo in cui gli individui sono chiaramente pre-persone e in cui, d’altra parte, essi sono chiaramente persone.

    Con un colpo ben assestato l’Unborn Victims of Violence Act offre la soluzione al problema di stabilire una soglia o di indicare cambiamenti moralmente rilevanti in un processo continuo quale lo sviluppo e l'evoluzione di un grumo di cellule in persona umana: la vita ha inizio al concepimento.

    Ma l’affermazione che la vita umana comincia nel momento dell’incontro tra un ovulo e uno spermatozoo è problematica. In un certo senso tale affermazione è falsa, in quanto sia l’ovulo che lo spermatozoo sono già vivi prima del concepimento.

    Si può facilmente concedere ai sostenitori di tale posizione che vogliano intendere che il concepimento sia l’inizio di un nuovo essere umano specifico: ma anche questa tesi può essere criticata.

    In primo luogo ci si trova di fronte a un possibile inganno, perché sono molte le cose che possono incominciare al concepimento. L’ovulo fecondato diventa una massa cellulare che si divide in due componenti principali, l’embrione e il trofoblasto; quest’ultimo si sviluppa fino a diventare la porzione fetale della placenta e il cordone ombelicale, e alla nascita viene espulso. Tale suddivisione cellulare è particolarmente interessante: vi sono due cose, uguali geneticamente, vive e umane ma solo una è considerata degna di essere protetta.

    In secondo luogo, un ovulo fecondato non è ancora un ‘singolo nuovo essere umano’, perché fino a due settimane dopo il concepimento può incorrere in una divisione gemellare, e dare origine a due individui, invece che ad uno. Come intendere, allora, un’esistenza di un individuo che ha la durata di due settimane per poi trasformarsi in due individui? Un unborn child potrebbe diventare due o più unborn children?

    Vi è infine una terza questione: se l'ovulo fecondato in vitro di Louise Brown è considerato l'unborn Louise, anche l’ovulo non fecondato era l’unborn Louise, dal momento che si sapeva che l’ovulo sarebbe stato fecondato di lì a poco. Infatti l’ovulo non-ancora-fecondato è vivo, è un antecedente causale di Louise, è nessun altro che Louise, e allora esso non è altro che Louise Brown. Se qualcuno avesse rovesciato in laboratorio la provetta contenente l’ovulo non ancora fecondato di Louise, avrebbe interrotto la vita di Louise Brown.

    Determinare l’esatto inizio della vita umana è evidentemente difficoltoso; abbracciare la tesi secondo la quale ha inizio con il concepimento sembra implicare il rischio di dover chiamare unborn children ovuli umani non fecondati, spermatozoi, un tessuto, una cellula, il cordone ombelicale e di dare loro lo stesso peso giuridico di un individuo adulto.

 La proposta rivale: Motherhood Protection Act of 2001

    La proposta alternativa, avanzata da Zoe Lofgren e John Conyers, contiene la stessa esigenza di proteggere la madre e il feto e di considerare con attenzione i casi di aggressione e di violenza verso le donne incinte, ma parla chiaramente di "crimini contro la donna che sta portando a termine la gravidanza". Non introduce una seconda persona i cui diritti potrebbero essere violati: parla di prenatal injury (lesione prenatale), mai di unborn child. Ma quando si parla di prenatal injury si intende che si tratti di attentato ai diritti della madre: la madre ha il diritto che il suo feto non subisca nessuna violenza, non è un diritto del feto ma un diritto della madre. Ed è proprio questo argomento a costituire la differenza rispetto all’Unborn Victims of Violence Act.

    Interferire (provocando danni o un aborto in seguito ad aggressione) con il normale corso di una gravidanza, costituisce un’aggravante e non un crimine ‘autonomo’, commesso ai danni di una vittima unborn.

Il Motherhood Protection Act of 2001 viene respinto dalla House of Representatives.

Douglas Johnson, Legislative Director di NRLC, in una lettera aperta in cui appoggia l'Unborn Victims of Violence Act, chiama con disprezzo ‘one-victim substitute’ tale proposta di legge, e vuole evidenziarne i difetti, e soprattutto evitare che il Congresso e poi il Senato la approvino.

    I motivi per rifiutare la proposta del Motherhood Protection Act si dice siano molteplici (several), ma poi Mr. Johnson, evidentemente, ritiene che i soli due motivi da lui elencati siano talmente forti da essere sufficienti, ove il primo è disonesto, e il secondo è inconsistente.

    Il primo motivo è che la proposta del Motherhood Protection Act sarebbe callous (calloso, odioso) verso le madri che sopravvivono alle aggressioni in cui i loro bambini (their babies) sono uccisi. Il caso scelto a sostegno di questa posizione è talmente al limite da essere disonesto. Il piccolo Zachariah, morto in seguito a percosse quattro giorni prima della data prevista della sua nascita, ‘dimostra’ l'assurdità della posizione che riconosce una sola vittima e non due nelle parole della madre, Tracey Sheide: "La proposta one-victim è offensiva nei miei confronti. La sua premessa è questa: la notte che mio marito mi picchiò, nessuno morì. Ma questo non è vero. Quella notte, c'erano due vittime. Io venni quasi uccisa ma me la cavai. Il piccolo Zachariah morì". La gigantografia del piccolo corpo di Zachariah e della bara azzurra campeggiò sui banchi della destra repubblicana durante tutto il pomeriggio del dibattimento sull’Unborn Victims of Violence Act.

    Le parole della madre sembrano ragionevoli e il suo invocare giustizia nei confronti di una seconda vittima appaiono altrettanto legittime dell’invocarne per un infanticidio. Il problema sembra stare proprio qui: nella difficoltà di poter parlare ‘allo stesso modo’ di tutti gli unborn children, in ogni fase dello sviluppo dal concepimento alla nascita. La prossimità al parto (4 giorni) rende Zachariah un quasi-neonato e troppo comodo l’uso di questo tragico avvenimento come esemplare.

    Il secondo motivo offerto da Johnson sarebbe la presenza di una incoerenza legale nel considerare un danno alla gravidanza come una seconda offesa alla stessa vittima, la madre. "In quei casi in cui la donna è uccisa dall'aggressore, non è una imputazione doppione perseguire l'aggressore sia per avere ucciso la donna sia per averle causato una lesione addizionale?", si chiede Johnson come se avesse trovato il giusto mattone da togliere per far crollare l'argomentazione nemica. Ma allora sarebbe altrettanto incoerente che esistano le aggravanti per un omicidio, o per qualunque crimine giudichiamo al vertice di una scala di gravità. Non è forse un’aggravante offendere il cadavere delle proprie vittime? Non è un’aggravante torturare prima di uccidere qualcuno? Non sembra possibile rintracciare in questi esempi alcuna incoerenza legale.

L'opinione di Tooley

    Come dice Micheal Tooley, le più accettabili teorie sull'aborto sono quelle più estreme. Senz'altro la teoria dell'unborn child è una teoria estrema, e anche se non si dichiara direttamente sull'aborto (anzi, esclude l'aborto dall’elenco delle violenze possibili ai danni del bambino non nato), si dichiara senza dubbio su una questione che costituisce il cuore del dibattito sulla legittimità dell'aborto: il problema di quando si diventa persona. Tutti i sostenitori di tale legittimità devono sostenere che persona si diventa ‘ad un certo punto’, e prima di quel punto, di quella soglia, è moralmente ammissibile intervenire per interrompere una gravidanza, dopo no, a causa del fatto che l'aborto si trasformerebbe nell’interruzione della vita di una persona, quindi in omicidio. È necessario indicare una differenza moralmente rilevante tra i diversi stadi dello sviluppo di un essere umano, dallo zigote al neonato. Tale decisione non trova e non può trovare una soluzione ‘fattuale’, dal momento che è costituito da una linea continua e che nessun cambiamento fisiologico è intrinsecamente rilevante dal punto di vista morale.

    La difficoltà di scegliere e di dimostrare la scelta di una soglia non indebolisce comunque la posizione che vuole affermare la distinzione tra pre-persona e persona: i ‘più onesti’ e i più scrupolosi sarebbero disposti a indicare una fase di dubbio, che richiede precisazioni, ma che costituisce lo spartiacque tra pre-persona e persona.

    Qualunque sia il momento in cui un ‘concepito’ diventa persona, quel momento è determinato dall’acquisizione di alcune caratteristiche, che permettono di attribuirgli un diritto alla vita e di parlare di inviolabilità di tale diritto.

    La posizione di Tooley acquista vigore dal confronto con la dottrina che sostiene che si è persone fin dal concepimento, abbracciata dall’Unborn Victims of Violence Act e anche dai cattolici e dai conservatori.

    "Dal momento che esistono le persone umane - ciò è indiscutibile - o lo si è da subito o mai", sostengono i fautori di questa teoria estrema della vita, trascurando di specificare almeno una premessa che renderebbe più comprensibile la suddetta affermazione: poiché non si verifica mai, nello sviluppo prenatale, un evento individuabile come cruciale per la trasformazione di un grumo di cellule in persona. In base a questo ragionamento, si è persone da subito (ovvero, a partire dal concepimento), perché l’altra possibilità, che non si è mai persone, non è ovviamente neanche da prendere in considerazione.

    Questa è l’argomentazione di Ramón Lucas Lucas (2001, p. 84) il quale sostiene che "c’è una profonda ragione metafisica per cui la vita biologica dell’embrione è e deve esser già vita personale. […] La vita umana è la vita di uno "spirito incarnato". Dunque una vita vegetativa d’un embrione umano è una vita personale umana perché il suo principio vitale unico è l’anima spirituale" (il corsivo è mio).

    Tooley vuole confutare la tradizionale obiezione etica contro l’aborto, che consiste nell’attribuire all’embrione e al feto un diritto alla vita. La questione da discutere diventa quella di quali proprietà deve possedere un organismo per avere un serio diritto alla vita, e qual è il momento nello sviluppo di un membro della specie umana a partire dal quale si possiedono tali proprietà.. In altre parole, cosa rende un organismo una persona e quando un organismo ‘diventa’ persona. Persona è un concetto morale, che deve essere distinto dal termine descrittivo ‘essere umano’: l’enunciato ‘x è una persona’ è sinonimo dell’enunciato ‘x ha un serio diritto alla vita’, mentre essere umano può essere sostituito dall’espressione ‘membro della specie homo sapiens’, evitando l’ambiguità di umano e lasciando soltanto una caratterizzazione in termini fisiologici di un certo tipo di organismo biologico.

    La soluzione proposta da Tooley è il requisito dell’autocoscienza: "un organismo possiede un serio diritto alla vita solo se possiede il concetto del sé come soggetto continuo nel tempo di esperienza e altri stati mentali, e creda di essere una tale entità continua nel tempo" (Tooley, 1972, p. 33).

    Il feto non possiede tale requisito, e quindi non ha un serio diritto alla vita che debba essere tutelato; di conseguenza l’aborto può essere difeso sulla base di un forte principio morale. Il carattere estremo della posizione di Tooley è determinato dal fatto che l’attribuzione di quelle caratteristiche di autocoscienza non sia contemporanea alla nascita, ma successiva ad essa: un neonato non può avere la capacità di desiderare di esistere come soggetto di esperienze ed altri stati mentali.

    Il fatto che l’attribuibilità dell’autocoscienza si manifesti solo in seguito alla nascita rende moralmente equivalenti il neonato e il feto per un certo periodo di tempo e moralmente ammissibili sia l’aborto che l’infanticidio.

Rischi

    L’Unborn Victims of Violence Act vuole cancellare le tappe embrione-feto-persona o qualunque distinzione tra pre-persona e persona, e considerare human being (nel senso di persona, quindi titolare di un serio diritto alla vita) qualsiasi ‘cosa’ si trovi nel grembo materno a partire dal concepimento.

Ma vi sono almeno tre conseguenze immaginabili che è importante analizzare.

  1. Il conflitto madre/unborn child come conflitto dei diritti di due persone: chi avrebbe più diritto di essere protetto (nel caso in cui si debba fare, ad esempio, una scelta di sopravvivenza: la madre contrae una malattia la cui cura danneggia o addirittura causa la morte del feto)?
  2. Il problema della madre-contenitore: le incubatrici viventi.
  3. Le possibili conseguenze sul piano legale: il passaggio a dichiarare l'aborto illegale sembra una conseguenza immediata e legittima. Anzi, una conseguenza che libererebbe tale proposta di legge da una profonda contraddizione.

Il conflitto di diritti e le incubatrici viventi

    Come evitare la collisione del diritto della madre e del diritto dell'unborn child, che, in quanto persona, si trova ad avere gli stessi diritti della madre? Il diritto alla vita assegnato al feto e il diritto di scelta della madre (incluso quello di decidere del suo corpo) darebbero vita ad un primo possibile contrasto. Ma, d’altra parte, sembra ragionevole ammettere che il diritto alla vita di una persona (il feto) sia più forte del diritto della madre di scegliere cosa avverrà del suo corpo e al suo interno. Partendo da questa asserzione, è ragionevole ammettere che un futuro di donne-incubatrici, pur avendo qualche tratto troppo ‘fantascientifico’, sarebbe verosimile.

    Judith Jarvis Thompson attacca tale presunta maggiore forza del diritto del feto alla vita invitandoci ad immaginare la seguente situazione: una mattina ci svegliamo distesi accanto a un famoso violinista al quale è stata diagnosticata una grave insufficienza renale. La società dei musicofili, dopo accurate ricerche negli archivi medici, ha scoperto che soltanto noi possediamo il tipo di sangue adatto per le trasfusioni. Durante la notte siamo stati portati in un ospedale e il nostro sistema circolatorio è stato collegato a quello del violinista allo scopo di depurare il suo sangue. Al nostro risveglio il direttore dell’ospedale ci informa delle novità: "[…] il violinista è collegato al suo corpo. Staccarsi vorrebbe dire ucciderlo. Ma non c’è da preoccuparsi, è solo per nove mesi. Per allora sarà guarito dalla sua insufficienza, e potrà essere staccato senza pericoli. […] Ricordi che ogni persona ha diritto alla vita, e i violinisti sono persone. Certo, lei ha il diritto di decidere cosa avverrà del suo corpo e al suo interno, ma il diritto alla vita di una persona prevale sul suo diritto a decidere cosa avverrà del suo corpo e al suo interno" (Thompson, 1971, p. 5). Avremmo forse il dovere morale di accettare tale situazione? Qualcuno potrebbe obbligarci a rimanere collegati al violinista? Saremmo di certo gentili a concederglielo, ma il diritto alla vita attribuito ad una persona non implica il diritto ad usare il corpo di un’altra persona, e non può essere considerato agevolmente più forte del diritto di ognuno di decidere del proprio corpo.

    Il conflitto di diritti però potrebbe avvenire tra il diritto alla vita del feto e il diritto alla vita della madre. Se si decidesse che il diritto alla vita del nascituro è più forte del diritto alla vita della madre, le conseguenze sarebbero ancora più gravi (lo scontro avverrebbe su un piano di vera e propria sopravvivenza).

    Tale maggiore forza, ad esempio, potrebbe essere sostenuta dall'argomento che il nascituro ha più diritto dal momento che non ha ancora vissuto niente, non ha avuto la possibilità di godere dell'esistenza a differenza della madre (lasciamo da parte l'argomentazione irrazionale della sacralità della vita).

    Di conseguenza, se una donna incinta venisse a sapere di avere una malattia che le impedisce di terminare la gravidanza senza morirne, cosa si dovrebbe fare? Quale diritto alla vita dovrebbe essere tutelato ai danni dell’altro?

    Abortire significherebbe provocare direttamente la morte del feto, mentre non intervenire significherebbe soltanto lasciare morire la madre (l’assunzione implicita è che sia meno grave lasciare morire qualcuno piuttosto che provocarne direttamente la morte); inoltre abortire significherebbe uccidere un bambino innocente. E allora, essendo le uniche scelte possibili il lasciare morire una persona o ucciderne una direttamente (per di più innocente), si deve preferire lasciare morire la persona. Tanto più che ad essere malata è la madre, non il feto. Nel caso in cui non si possa salvare la vita di entrambi, non può essere privilegiata la vita della persona malata (la madre) al prezzo della vita della persona sana (il feto), altrimenti ciò istituirebbe il principio in base al quale per salvare qualcuno che è malato si può sacrificare qualcun altro che è sano e che per sua fortuna non era stato colpito da quella malattia: un cardiopatico potrebbe essere salvato uccidendo una persona sana il cui cuore potrebbe essere trapiantato al primo per salvargli la vita; una persona morente a causa di un fegato danneggiato potrebbe pretendere un fegato nuovo appartenente ad un’altra persona.

    Pensando al violinista, ci troveremmo in questa situazione: lo sforzo a cui vengono sottoposti i nostri reni ci condurrà a morte nel giro di qualche tempo; ma dobbiamo rimanere dove siamo, perché decidere di staccare i collegamenti che ci legano a lui significherebbe uccidere direttamente un violinista innocente. E questo sarebbe inammissibile. Non sembra richiedere molte parole l’affermazione dell’ammissibilità di difendere la propria vita, staccando i collegamenti o abortendo anche se tali azioni implicano la violazione di un altrui diritto alla vita.

    Una volta assegnato un diritto alla vita al feto, che cosa accadrebbe nel caso in cui una donna si rifiutasse di preservarlo (decidendo intenzionalmente di uccidere il feto) o la sua condotta fosse giudicata dannosa o addirittura mortale per il nascituro (uccidendo inintenzionalmente il feto)?

    Le donne rischierebbero di diventare 'nutrimento' e contenitori, come nel film Matrix (in quel caso i beneficiari erano gli alieni, in questo caso sarebbero gli unborn children), per un tempo limitato (9 mesi) senza neanche godere dell'illusione ricostruita dal programma complesso e ingannevole che dà il titolo al film.

    Il compito delle donne, una volta rimaste incinte, sarebbe quello di portare a termine la gravidanza e alla nascita l'unborn child evitandogli qualunque rischio, consensualmente oppure no, anche a costo della propria vita.

    Come proteggere il diritto dell'unborn child contro i possibili danni causati da un comportamento ‘sconsiderato’ della madre? Bisognerebbe forse impedire alle donne incinte di fumare? Di condurre una vita faticosa e potenzialmente dannosa per il nascituro? Smettere di fumare sarebbe forse preferibile moralmente, ma non può mai essere un dovere, e nessuno può imporre ad una donna di smettere di fumare a causa della sua gravidanza. Inoltre, anche un comportamento precedente alla gravidanza può essere dannoso per il feto: si dovrebbe forse impedire a tutte le donne di fumare perché potenziali portatrici di feti?

    Vi sono donne che potrebbero arrecare danni al nascituro non a causa di un comportamento sbagliato, ma a causa di una condizione strutturale: una malattia, un difetto genetico.

    Andrebbe forse impedito alle donne affette da AIDS di rimanere incinte, così come alle portatrici di malattie geneticamente trasmissibili? Va reso obbligatorio il vaccino contro la rosolia? Va impedito alle donne povere di rimanere incinte perché la loro condizione di indigenza causerebbe privazioni dannose per il corretto sviluppo del feto? In questo elenco, potenzialmente infinito, andrebbero almeno nominate anche le donne stupide o sole, a causa del fatto che una "persona stupida è il tipo di persona più pericolosa che esista" come stabilisce la Quinta Legge Fondamentale della Stupidità Umana formulata da Carlo M. Cipolla, e che una donna sola può essere costretta a lavorare durante gran parte della gestazione e per questo la sua gravidanza potrebbe essere compromessa. Quali sarebbero allora i criteri per permettere o negare alle donne un diritto a rimanere incinte?

    Inoltre è naturale ipotizzare la necessità di tutelare anche i bambini già nati dalle condotte dannose dei genitori: senza dubbio una donna stupida può essere altrettanto dannosa verso i suoi figli già nati, anzi forse lo sarebbe soprattutto verso questi ultimi. E questo presiederebbe ad una politica di screening degli aspiranti genitori tanto severa verso i genitori naturali quanto più oggi non sia con gli aspiranti genitori adottivi o con coloro che aspirano alla fecondazione artificiale.

Regina e le altre

    "Per una donna incinta, l’esistenza di una legge sul danno al feto potrebbe rendere quasi ogni azione potenzialmente criminale. I suoi spostamenti quotidiani, la dieta, i rapporti sessuali, i divertimenti e le altre attività sarebbero sottoposte all’esigente e sospettoso esame critico dei medici, della collettività e magari anche di una giuria. Una donna potrebbe trovare difficile spiegare le forze che determinano il suo comportamento, e convincere una giuria che non era mossa da un’ostilità verso il feto" (Schott, 1988, p. 239).

    Lee A. Schott scrive nel 1988; nel 1996 la Corte Suprema di uno degli stati roccaforte del movimento anti-abortista, il South Carolina, approva la legge che considera persona il feto che abbia raggiunto l’autosufficienza, la possibilità cioè di sopravvivere fuori dall’utero. Nel 2001 viene approvata una legge federale che vuole tutelare gli unborn children.

    Il 15 maggio 1989 Regina McKnight, una giovane senza casa, cocainomane, mentalmente ritardata e abitante nel South Carolina (e, dovremmo aggiungere, nera), partorì un bambino morto. Regina McKnight, alla fine del maggio 2001, è stata dichiarata colpevole di omicidio e condannata a scontare 12 anni di prigione.

    La giovane fumava crack durante la gravidanza: l’autopsia evidenziò delle tracce di tale sostanza nel corpo del feto e il medico che eseguì l’autopsia ritenne che la morte del piccolo risalisse ad uno o due giorni prima del parto, avvenuto all’ottavo mese e mezzo. I medici che intervennero al processo non concordarono nel ritenere la tossicomania della madre la causa della morte del feto: determinare la causa di un parto di un bambino morto è spesso estremamente difficile e a volte impossibile.

    Nonostante questo, una giuria dichiarò Regina colpevole di omicidio dopo aver deliberato per soli quindici minuti. Charles Condon, candidato repubblicano al governo, ritenne la condanna una importante testimonianza della volontà del South Carolina di proteggere la vita innocente tanto delle persone born quanto delle persone unborn.

    La legislazione del South Carolina considera persona il feto vitale e quindi ogni comportamento potenzialmente dannoso per il feto è perseguibile come criminal child abuse.

    L’uso di sostanze stupefacenti sembra occupare il primo gradino dei comportamenti sconvenienti, ma possono essere nominati anche il fumo, gli alcolici, le droghe legali o la violazione delle prescrizioni mediche.

    La violazione dei diritti, questa volta delle donne e non del feto, è una inevitabile conseguenza dell’equiparazione giuridica tra una pre-persona e una persona; ma vi è un’altra conseguenza piuttosto allarmante.. Le donne incinte il cui comportamento è giudicato, da loro stesse, trascurato verso l’unborn child e quindi condannabile, le donne che fanno uso di sostanze stupefacenti, sempre più spesso si guardano bene dall’andare in ospedale per sottoporsi a controlli durante la gravidanza, per evitare la prigione. Quando lo fanno, è per partorire, oppure è a causa di qualche complicazione a cui può essere tardi rimediare.

    Ciò che è accaduto a Regina McKnight suscita una domanda: come sia possibile considerare una conseguenza non desiderata e forse non determinata dall’uso di crack come omicidio e, allo stesso tempo, affermare che è legale abortire. Causare quello stesso effetto (la morte) deliberatamente non può essere legittimo se si dichiara che è un crimine farlo involontariamente.

    La maggiore gravità di un omicidio intenzionale rispetto a un omicidio colposo sembra paradossalmente invertita in tale caso.

    Regina è il primo caso in cui una donna venga accusata di omicidio in tali circostanze: negli anni precedenti molte altre donne sono state coinvolte in processi a causa di un comportamento ritenuto dannoso per il feto. Nel 1997 Cornelia Whitner, risultata positiva al test per rilevare presenza di cocaina nel sangue, viene condannata a 8 anni per abuso su minore, anche se il suo bambino era nato sano.

    Melissa Ann Crawley fumava cocaina mentre era incinta nel 1991. Nel 1998 il suo ricorso in appello fallisce e Melissa entra in prigione per scontare 5 anni: nonostante quel bambino fosse sano, Melissa si fosse disintossicata, avesse trovato lavoro e stesse allevando tre bambini, che ora sono con i parenti. "Melissa stava facendo un buon lavoro con i suoi bambini. La mia opinione è che si stia causando maggiori danni a questi bambini facendola stare in prigione di quanto possa essere stato danneggiato il bambino di 6 anni (quello della gravidanza incriminata, n.d.r.) a causa dell’uso di cocaina", sostiene uno degli avvocati difensori di Melissa.

    Il South Carolina è uno degli stati che stanzia meno fondi per i programmi di disintossicazione e la prevenzione delle tossicodipendenze, ma spenderà circa 300.000 dollari per la lunga detenzione di Regina McKnight.

Contraddizioni interne all'Unborn Victims of Violence Act

    Sia nell'aborto che in una aggressione muore un unborn child. A rendere il primo non punibile (e quindi legale e quindi, in un certo senso, morale) è la volontà della donna. La decisione della donna è capace di trasformare un omicidio in aborto (omicidio legalizzato)?

    E allora, dovrebbe valere anche per un bambino di 10 mesi o 10 anni, dal momento che sempre di bambino si parla, fin dal concepimento, e che unborn non indebolisce in nessun modo lo status di bambino: di conseguenza una madre che decida di uccidere il suo born child di qualunque età è ugualmente non punibile come una donna che decida di interrompere una gravidanza.

    Altrimenti sarebbe necessario stabilire cosa rende moralmente diversi un unborn child e un born child: l'essere dentro o fuori dell'utero materno non sembra costituire una differenza moralmente rilevante. La scelta del termine child per definire qualunque organismo dal concepimento in poi rende piuttosto difficile, se non impossibile, non classificare l’aborto come baby killing.

    Inoltre, una donna dovrebbe essere non punibile se abortisce (uccidendo il proprio unborn child) e punita se prende a pugni la propria pancia causando la morte dell’unborn child? Come può un’azione che ha lo stesso esito (la morte dell’unborn child) essere perfettamente lecita quando viene commessa volontariamente da un soggetto particolare (la madre), e invece perseguibile penalmente o quando viene commessa involontariamente da quello stesso soggetto particolare (la madre) oppure quando viene commessa sia volontariamente che involontariamente da un soggetto qualunque diverso dalla madre? Vi sono due paradossi che possono essere evidenziati. Il primo è che un’azione ugualmente volontaria e con lo stesso esito (un danno per c) è perseguibile penalmente quando la compie a e non perseguibile penalmente quando la compie b, dove sia a che b sono diversi da c.. A questo paradosso si potrebbe scampare solo dicendo che c’è un particolare soggetto b, la madre, che gode di una speciale immunità nel causare la morte del soggetto c, l’unborn child. Benché questa sia l’unica soluzione a tale paradosso, non è certo la soluzione adottata dalla legge. Infatti c’è un secondo paradosso che impone di scartare la soluzione dell’immunità.. Un’azione con lo stesso esito (la morte del soggetto c, cioè l’unborn child) e compiuta dallo stesso soggetto b, la madre, è perfettamente legittima quando il soggetto b la compie volontariamente, e perseguibile penalmente quando il soggetto b la compie non volontariamente, per negligenza. Questo secondo paradosso è grave di per sé ed è anche ciò che garantisce l’irresolubilità del primo paradosso, a cui si accompagna. La scala di gravità delle azioni che ne risulta è del tutto ingiustificabile.

    E poi, è la sola madre biologica ad essere non punibile se abortisce?

    Cosa succede nel caso di un utero in affitto: la gestante potrebbe essere accusata di arrecare danno a una vittima se decidesse di abortire e la ‘proprietaria’ dell'ovulo fecondato invece non punibile se con percosse causasse un aborto? In questo caso chi sarebbe autorizzato dalla legge a poter decidere di abortire?

    Sembrerebbe che siano la decisione della donna e la ‘proprietà biologica’ del feto a costituire una differenza moralmente rilevante tra aborto e omicidio, volontario o involontario che sia. Ma questo è insensato e contraddittorio, e costituisce una difesa troppo debole del diritto di abortire, che dovrebbe intendersi, secondo lo spirito di questa legge, come un diritto di compiere un’azione illegale e moralmente riprovevole. E, viene da pensare, soltanto fino a quando a tale immoralità non verrà posto rimedio e l’aborto tornerà ad essere illegale.

Scomodi paragoni

    Sarebbe interessante verificare le posizioni dei sostenitori dell'Unborn Victims of Violence Act sulla pena di morte, sulle politiche pre- e post-natali e sull’eutanasia.

    L’atteggiamento dei sostenitori dell’Unborn Victims of Violence Act, modellato su una estrema difesa del diritto alla vita, non può essere considerato a sostegno della vita in assoluto, dal momento che molti di loro sono favorevoli alla pena di morte. Una possibile spiegazione e diminuzione di tale contraddizione può essere costituita dalla precisazione di innocenza. La difesa e la tutela viene assicurata alle vite innocenti: l’unborn child è l’esempio più evidente di una vita umana innocente, mentre un condannato a morte ha cancellato per sempre con il crimine la sua innocenza e il suo diritto alla vita.

    La difesa del diritto alla vita, che ormai sappiamo dover essere limitato alle vite innocenti, deve convivere spesso con un’altra posizione apparentemente inconciliabile: l’opposizione alle cure pre- e post-natali. Non sarebbe forse illogico e immorale voler salvare le vite di unborn children le cui madri desiderano abortire (ammettiamo che questo sia un desiderio dei sostenitori dell'Unborn Victims of Violence Act) e non voler salvare invece altri unborn children desiderati dalle proprie madri e molti dei quali muoiono a causa di inadeguate cure pre- e post-natali? Se lo scopo fosse davvero la protezione degli unborn children, perché non sostenere le cure pre- e post-natali? Fa pensare la decisione presa da Bush di dare l’avvio al ritiro dei fondi americani alle agenzie internazionali che fanno propaganda all’aborto nel Terzo Mondo, fondi che non sono stati di certo ridestinati alle spese per la cure pre- e post-natali. La protezione e la tutela della vita è garantita contro l’aborto e fino al parto (ove le condizioni naturali lo permettano senza complicazioni), dopo sembra non suscitare molto interesse.

    Lakoff offre una spiegazione di questo atteggiamento (essere fautori del diritto alla vita e allo stesso tempo favorevoli alla pena di morte e contrari alle cure pre- e post-natali) in termini di scelta ‘politica’ di macro-categorie morali secondo cui gli atti vengono considerati morali o no. Avere una visione conservatrice del mondo significa avere una Moralità da Padre Severo (Strict Father Morality). Secondo Lakoff, non è fondamentale che un atto promuova o metta fine alla vita affinché tale atto venga giudicato ‘giusto’ o ‘sbagliato’ da un conservatore. Piuttosto, un conservatore giudicherà ‘moralmente giusti’ o ‘moralmente sbagliati’ sia atti che favoriscono la vita, sia atti che la recidono, a seconda che tali atti siano in armonia o in opposizione con la Morale da Padre Severo.

    Il diritto alla vita è un diritto che i conservatori riconoscono, ma non in assoluto: essi lo riconoscono a tutti gli esseri umani innocenti (di qui la loro prontezza nel battersi per un diritto alla vita dei bambini, ivi compresi i bambini non nati), ma non a tutti gli esseri umani colpevoli.. Se una persona compie azioni gravemente immorali, perde il diritto alla vita. La pena di morte è considerata perciò morale in alcuni casi (la sua accettabilità deriva dalla Categoria della Moralità della Punizione).

    L’indifferenza riguardo alle cure pre- e post-natali è spiegabile in base ad un altro ragionamento: le donne (o i genitori) che decidono di avere un bambino devono essere responsabili e in grado di badare alla propria salute e a quella del nascituro. Di conseguenza, non c’è nessuna ragione morale per cui si dovrebbe favorire programmi sociali per sostenere le cure pre- e post-natali. La mortalità infantile è una questione di responsabilità individuale, non di azione di governo. La Categoria di riferimento è quella dell’Autodisciplina.

    Inoltre rispetto agli unborn children con gravi malformazioni o malattie genetiche, nel caso in cui, cioè, si parla di aborto terapeutico, quest'ultimo verrebbe a coincidere con l'eutanasia: in entrambi i casi si decide di porre termine alla vita di una persona umana per ‘gravi motivi di salute’.. A questo punto, o sono ammessi entrambi, o nessuno.

  1. Se i sostenitori dell’Unborn Victims of Violence Act sono favorevoli all'aborto per tali gravi motivi, devono dichiararsi favorevoli anche all'eutanasia, e a quella attiva (ovvero non il semplice ‘staccare la spina’, ma intervenire attivamente nell'accelerare la morte, ad esempio, con una iniezione).
  2. Se sono contrari all'eutanasia attiva, non possono allora permettere l'aborto terapeutico, che avverrebbe, inoltre, senza il consenso del diretto interessato.

Il problema dell'albero

    Seguendo lo spirito dell’Unborn Victims of Violence Act sarebbe ugualmente grave tagliare un albero ‘adulto’ o togliere dalla terra un seme. Sarebbe uguale definire allora quel seme come albero, o meglio, sarebbe forse sbagliato continuare a definirlo seme e non ‘ingermogliato albero’. Un ecologista griderebbe allora allo stesso modo di fronte al taglio di una quercia o al dissotterramento di una ingermogliata quercia, non potendo stabilire alcuna differenza. Il deforestamento selvaggio sarebbe equivalente a togliere dalla terra semi appena piantati, così come il gesto di un bambino dispettoso che profana un campo ove sono appena stati piantati ingermogliati alberi in qualunque stadio del loro sviluppo sarebbe altrettanto grave di quello che avviene nelle foreste di tutto il mondo.

    Cancellare le differenze e gli stadi che trasformano un ovulo e uno spermatozoo, nel corso dei mesi o degli anni, in una persona comporta l’equivalenza morale e di status di seme e quercia, e risolve il millenario problema di stabilire se venga prima l’uovo o la gallina, dal momento che sono la stessa cosa.

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