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Saggi

Ricadute etiche delle innovazioni biologiche

di Alberto Oliverio

Modificare la natura: bivalenze passate e odierne

    La capacità della genetica di modificare gli organismi viventi, uomo compreso, e di introdurre possibili alterazioni di tipo "migliorativo" è al centro di discussioni che ovviamente trascendono gli aspetti tecnici di questi interventi. La carica innovatrice delle tecnologie genetico-molecolari ha inoltre fortemente colpito la coscienza collettiva e stimolato diversi aspetti dell'immaginario, dalla letteratura alla cinematografia, cosicché per l'uomo della strada è spesso difficile differenziare tra vero e falso, tra possibile e impossibile, tra reale e immaginario. La genetica, quindi, si presenta al giorno d'oggi con un volto duplice: da un lato quello positivo, comune ad altre scienze dotate di connotazioni sia conoscitive che applicative, volte a fare luce e a "razionalizzare" la realtà ma anche a ridare la salute, a migliorare la vita, ad abbracciare quasi il mito di Faust, attraverso la clonazione; dall'altro quello negativo o inquietante, sia in termini etici che in quelli più materiali di una possibile carica distruttiva nei confronti della natura e della stessa essenza umana.

    I miti del passato proiettano di frequente la loro ombra sino ai nostri giorni e sull'ingegneria genetica si allungano due ombre diverse, quelli che possiamo chiamare come il mito di Igea e il mito di Asclepio. Secondo il mito di Igea il mondo della natura rappresenta una realtà spesso benevola, comunque inviolabile in quanto essa possiede una sua saggezza che l'uomo non dovrebbe alterare. Nel mito di Asclepio, invece, gli uomini proiettano la loro propensione a modificare la natura, a correggerne i difetti, e nel caso delle malattie a mettere in pratica degli atteggiamenti terapeutici che sono al centro di quelle azioni che in passato venivano compiuti in nome di Asclepio, la divinità medica. Queste bivalenze nei confronti della natura, natura umana compresa, punteggiano il nostro passato: esiste così il mito di Gaia - la Terra benefica e materna - e il mito di Prometeo - l'eroe che strappa alla natura i suoi segreti per plasmarli a favore degli uomini - esistono la natura medicatrice e quella distruttrice di Lucrezio nel De rerum natura; per gli Illuministi esisteva il mito del buon selvaggio e di una natura da assecondare mentre invece altri di loro sostenevano la necessità di intervenire pesantemente, facendo violenza alla natura...

    In alcuni momenti questo atteggiamento bivalente è stato particolarmente vivo, in particolare all'inizio del Novecento, quando le due "fazioni" - i sostenitori della scienza e delle tecnologie e quelli dell'umanesimo - si sono dati battaglia, gettando le basi di alcuni atteggiamenti del giorno d'oggi. Si potrebbero citare decine e decine di fonti che compendiano questi opposti atteggiamenti, ma forse il dibattito emerge in tutta la sua chiarezza nell'ambito di quel grande documento letterario che è La montagna incantata di Thomas Mann attraverso le discussioni tra due personaggi-chiave, Settembrini e il gesuita Naphta, l'uno fautore della Zivilisation, cioè di una moderna cultura post-illuministica, e l'altro di quella Kultur che affonda le sue radici storiche nelle tradizioni popolari germaniche e che guarda con simpatia al mito di una natura forte e incontaminata. Da un lato si sottolineano i valori della trasformazione, dall'altro ci si rifugia in un mondo prossimo alla natura, alla ricerca di una sapienza perduta. Questo dibattito ha pervaso la cultura dei primi decenni del nostro secolo e si rispecchia in modo evidente nella "contesa" tra John B.S. Haldane - fautore di un messaggio scientista in Daedalus, or Science and the Future, 1923 - e Bertrand Russell, più critico e pessimista nel suo Icarus or the Future of Science (1923). In ogni aspetto della produzione culturale di quegli anni, da Tempi moderni di Chaplin agli interventi di Hermann Hesse contro la cinematografia, intesa come cultura volgare, possiamo rinvenire le testimonianze delle polemiche tra i fautori e i detrattori del nuovo.

    Questa premessa indica quali siano alcune delle radici delle attuali simpatie e avversioni nei confronti della capacità trasformatrice delle nuova biologia e delle genetica, una scienza che in pochi anni ha rivoluzionato le nostre conoscenze e capacità di intervento sui viventi fino a dischiudere le porte all’ingegneria genetica e alla clonazione.

Disponibilità tecnologica e scelte

    Un primo aspetto problematico della nuova genetica riguarda la crescente capacità dei biologi di diagnosticare non soltanto delle malattie genetiche vere e proprie ma anche uno stato di potenziale fragilità che potrebbe, ad esempio, rendere una persona più suscettibile a cardiopatie o a malattie del sistema nervoso nel corso della sua maturità. Il programma di ricerca sul genoma umano - volto a tracciare una mappa di tutti i geni dell'uomo e a individuarne gli effetti fisiologici e patologici - comporta, accanto a positive ricadute conoscitive e terapeutiche, anche diversi problemi quali quello di individuare individui più fragili o di poter predire con certezza che una persona si ammalerà di una determinata malattia quando essa è ancora in perfetta salute. Queste due possibilità suscitano problemi di ordine etico: nel primo caso c'è il rischio che un individuo possa essere discriminato - sul lavoro, da società assicuratrici, da un partner ecc. - sulla base di una maggior possibilità, ma non certezza, che egli un giorno si ammali. Nel secondo caso esiste il problema che deriva da una scissione tra la nostra capacità di diagnosticare un malattia e la nostra attuale incapacità di curarla, il che può avere gravi conseguenze psicologiche sulla persona al centro di questo dilemma. Nel prossimo futuro simili problemi di ordine bioetico si presenteranno sempre più di frequente: sarà necessario affrontarli prima di ricorrere a un cieco utilizzo di tecnologie disponibili in quanto la disponibilità non è necessariamente sinonimo di opportunità. Certamente le scelte non saranno facili, ma uno dei compiti più importanti degli scienziati in generale e dei biologi in particolare consisterà nella loro capacità di comunicare ai non addetti ai lavori il significato e le implicazioni delle loro scoperte per guidarli nelle loro decisioni.

    Esistono però problemi d’altro genere che emergono da altri usi dell’ingegneria genetica, problemi che riguardano l'estensione della "correzione" genetica a forme patologiche di media gravità o addirittura a variazioni di tipo fisiologico. Quest'ultima eventualità ci pone di fronte al secondo aspetto critico delle ricerche nel campo della biologia molecolare, quello connesso ai criteri di normalità e devianza, di fisiologia e patologia e quindi all'incerto limite tra interventi a carattere terapeutico e interventi a carattere migliorativo. Se quasi tutti sono d'accordo nell'accettare eventuali correzioni genetiche effettuate sulle cellule somatiche - e quindi non ereditabili - per combattere diversi tipi di malattie, ereditarie e non, le posizioni si fanno più complesse man mano che emergono nuove e atipiche possibilità di intervento: esistono, ad esempio, dei punti di transizione, quasi impercettibili, in cui dalla correzione del patologico si può andare verso il miglioramento di ciò che è blandamente patologico oppure verso la prevenzione o un puro e semplice - magari ipotetico - miglioramento. Spesso i termini di questo gradiente non sono evidenti: se, ad esempio, esiste una malattia che dipende da una qualche carenza genetica, si può intervenire attraverso una terapia genica e il valore di tale intervento è facilmente constatabile. In altri casi l'intervento potrebbe essere di tipo preventivo: si sa che esiste una debolezza di qualche tipo e si cerca di prevenire una malattia che potrebbe insorgere negli anni aumentando, ad esempio, le difese dell'organismo, il livello di un enzima o di una proteina che possono antagonizzare alcuni tipi di patologia, come quelle cardiovascolari antagonizzate dalla presenza di sostanze che trasportano e metabolizzano gli acidi grassi. In questi casi il gradiente verso il miglioramento è veramente impercettibile: se infatti posso aumentare le difese dell'organismo di individui passibili di una determinata malattia, non posso allora migliorare le difese di tutti gli organismi? In altri casi, infine, l’intervento potrebbe essere essenzialmente di tipo "estetico", rivolto a caratteristiche del corpo umano preferibili rispetto ad altre.

Verso un’ingegneria genetica "estetica"?

    Il corpo umano è sempre più spesso il prodotto di manipolazioni e interventi migliorativi: il termine "palestrato", neologismo di uso comune, rimanda a macchine di ogni tipo che permettono di costruirsi un corpo statuario che invii segnali accattivanti e parli della perseveranza del suo proprietario per raggiungere il desiderato obbiettivo. In alcuni ambiti e culture il non essere palestrati diviene così un elemento discriminante: tuttavia il mondo dei belli o dei "fisicamente corretti" resterà una minoranza che abita gli schermi televisivi, stabilendo però standard di paragone e generando piccole frustrazioni in quanti non assomigliano ai personaggi dei serial di successo. Alcuni messaggi hanno infatti una carica penetrante e possono suscitare desideri e indurre scelte.

    Circa dieci anni or sono, il filosofo neoutilitarista inglese Johnatan Glover, aveva pubblicato un pamphlet intitolato "What sort of people should there be?" in cui sosteneva la liceità di modificare corpo o mente per ottenere un miglioramento fisico o psichico di una persona. Quando Glover scrisse il suo saggio si era appena agli inizi delle polemiche sull’ingegneria genetica e il filosofo prese posizione a favore di quegli interventi che, in futuro, avrebbero potuto rendere una persona più bella, più sana, più felice, anche se è azzardato ipotizzare che un intervento volto, ad esempio, ad alterare i livelli di mediatori nervosi possa rendere "più felice", semmai meno propensi alla depressione, anche se ciò è ancora da provare. Glover, tuttavia, per sostenere la propria tesi, chiedeva a ipotetici genitori se non avrebbero preferito avere figli sani anziché malati, felici anziché infelici, fisicamente ben messi ed alti anziché gracilini e bassotti: la risposta possibilista del filosofo era un ricorrente "perché no?", condivisibile per alcune delle "opzioni" proposte, meno accettabile o sempliciotta in rapporto ad altre scelte.

    Nel suo catalogo dei miglioramenti possibili, Glover si riferiva esplicitamente all’altezza delle persone, indicando come alcune ricerche indicassero che il successo, per lo meno in alcuni ambienti, arriderebbe di più a chi è di statura superiore alla media. Verrà il giorno, sosteneva il filosofo, in cui i genitori desidereranno aumentare l’altezza dei propri figli, anche di quelli di statura media. Quel giorno è giunto, ma i risultati di alcune ricerche sollevano molti dubbi sul facile uso degli ormoni che consentono di promuovere la crescita. Sino a qualche anno fa, i medici si limitavano a somministrare ormone della crescita o GH nei casi di nanismo ipofisario dovuti a una insufficiente secrezione ormonale: la terapia sostitutiva riesce a promuovere una crescita quasi normale, sia per quanto riguarda lo sviluppo osseo, sia per quanto riguarda quello dei muscoli la cui massa aumenta in seguito agli effetti del GH.

    Sin qui niente di strano, si tratta di un intervento correttivo per supplire alla scarsa quantità di ormone prodotta dall’organismo: ma la disponibilità di GH, prodotto con tecniche sempre più efficienti, ha indotto numerosi medici e famiglie - soprattutto statunitensi - a somministrare l’ormone a ragazzini di altezza appena inferiore alla media o media o a persone caratterizzate da una massa muscolare "inadeguata" per portarli su standard superiori. Un crescente numero di genitori si sobbarca così le spese di un costoso trattamento pur di vedere i propri figli più alti e un tantino più palestrati. Di recente, però, sono stati pubblicati i risultati di un esperimento che dimostra che gli animali con bassi livelli di GH sono più longevi mentre negli animali normali il trattamento ormonale aumenta la loro taglia ma ne accorcia la vita. C’è quindi da chiedersi quanto sia opportuno, altre considerazioni a parte, somministrare GH a bambini o adolescenti non affetti da nanismo pur di aumentarne statura ed aspetto o assumere questo ormone per avere un fisico più palestrato in quanto un look migliore rischia di essere di breve durata. Ma al di là dei rischi connessi a questi interventi essi indicano la presenza di desideri e aspettative nei confronti delle capacità modificative delle nuove tecnologie.

Biologia e immagini dell’essenza umana

    L’esempio del GH è uno degli esempi possibili ed indica che mentre in genere l'intervento mirato alla correzione della malattia, alla carenza, non pone problemi, quello che invece cerca di migliorare le caratteristiche dell'organismo potrebbe porne sempre più e non soltanto per quanto riguarda gli usi "estetici" dell’ingegneria genetica. Ma esiste anche un altro problema, legato alla "non correzione": infatti, chi fosse portatore di una carenza di tipo genetico, e non si sottoponesse a un intervento terapeutico, potrebbe apparire come un "peso sociale" che con il suo "difetto" grava sull'intera collettività in termini di carichi economici e politiche sociali. Ciò appare tanto più possibile quanto più progrediscono le ricerche sul genoma umano che renderanno disponibile un perfetto identikit della nostra natura biologica, un identikit che potrebbe permettere di stabilire, fin dalla nostra vita embrionale, se saremo sani o malati, "ben fatti" o "mal fatti": ovviamente questa terminologia è estremamente semplificante dal punto di vista scientifico ma potrebbe non esserlo dal punto di vista del linguaggio corrente e generare in futuro una pericolosa cultura della perfezione secondo cui chi è "mal fatto" potrebbe anche essere colui che fa del male in quanto presenta delle deviazioni da una norma ideale o in quanto, con la sua esistenza di "tarato", pone in crisi il benessere della società a causa dei crescenti costi sociali che gli handicap comportano in una collettività che miri a una crescente integrazione dei "diversi".

    La possibilità di conoscere in futuro come sia "fatto" biologicamente ciascuno di noi o a quali malattie possa andare incontro un determinato individuo rischia di polarizzare la nostra attenzione su una faccia della medaglia e di farci sottovalutare l'altra, cioè non soltanto il fatto che le malattie hanno cause ambientali ma anche che il nostro stesso sviluppo e la nostra identità derivano da una complessa interazione tra i geni e l'ambiente e che di questo fanno parte i determinanti culturali in cui siamo immersi. Uno di questi aspetti riguarda l'impatto della nuova biologia sull'immagine dell'uomo. La biologa Evelyn Fox Keller, nel considerare il ruolo dell'ingegneria genetica in rapporto all'immagine che l'uomo ha di sé stesso, afferma che è ormai finita l'epoca del soggettivismo ed è comparso, proprio grazie alla biologia molecolare e alla genetica, una nuova forma di oggettivismo, cioè la possibilità di descrivere il "sistema uomo" per ciò che è e non per ciò che noi riteniamo possa essere. Fox Keller, insomma, ritiene che la descrizione della matrice biologica dell'uomo possa consentirci di comprendere cosa significhi la natura umana, il che è in parte vero: ma non si può certamente ritenere che la conoscenza dei codici genetici e delle differenze biologiche che sono alla base delle differenze individuali possa rappresentare una forma di conoscenza esaustiva, in grado di illuminarci sulla complessa realtà della natura umana e sul significato del suo destino vitale. Esiste in effetti il rischio di assimilare il programma genetico o la descrizione biologica di un individuo con la realizzazione di tale programma in un particolare contesto ambientale: il che potrebbe fare sì che in futuro ci si concentrasse eccessivamente su questa dimensione medico-biologica dell'uomo, sulle influenze genetiche piuttosto che su quelle ambientali, sociali e economiche, sulle dinamiche e i valori interni all'individuo piuttosto che su quelli esterni. Si tratta di un aspetto su cui vale la pena di riflettere come vale la pena di riflettere sul fatto che la scienza, in particolare la biologia degli anni Novanta, non sfugge a quella dimensione individualista che ha caratterizzato altri aspetti della cultura di questi anni, una dimensione in cui si fondono aspetti positivi, conoscitivi, terapeutici e legati a una nuova razionalità, ma anche aspetti problematici e talora gravidi di implicazioni negative ...

    Questo aspetto contrasta però con una delle caratteristiche più importanti della biologia contemporanea, con un "valore" che deriva dalle conoscenze nell’ambito della stessa genetica, della biologia delle popolazioni e soprattutto dalle scienze del comportamento. Uno dei canoni della biologia moderna è infatti il ruolo centrale dell’individuo, la sua unicità biologica e storica. Nell'ambito delle scienze del comportamento e delle sue basi biologiche l'attenzione verso le singolarità, le particolarità di un individuo, spesso compone un'immagine più completa dell'uomo, poiché proprio nel processo terapeutico, il terapeuta a volte può rendersi conto che alcune particolarità non sono necessariamente patologiche ma sono un aspetto dei tanti modi di "stare al mondo". In definitiva, l'uomo medio non è altro che un artefatto necessario per fare avanzare la conoscenza scientifica.

    Andiamo quindi verso una rivalutazione dell'individuo come singolarità, in qualche misura ci spingiamo verso quel relativismo che è tipico delle scienze dell'uomo. Senza far riemergere la vecchia polemica tra relativismo e universalismo, come comporre la riscoperta dell'individualità con la ricerca "tutta scientifica" delle regole generali? In realtà, con il progredire delle conoscenze biologiche e mediche, con il progredire dei meccanismi e degli strumenti d'indagine, aumenta parallelamente il catalogo di eccezioni e di particolarità che un tempo venivano trascurate, espulse proprio perché in contrasto con le norme generali conosciute e che invece oggi spingono la medicina, la biologia, le scienze verso categorizzazioni ugualmente generali ma avvedute, in continua trasformazione. È dunque vero che si possa descrivere, ad esempio, un cervello ideale, ma è altrettanto vero che non si può fare a meno di incorrere in semplificazioni nel momento in cui si pensa che i processi di base, le strategie cognitive, gli approcci computazionali, cioè delle spiegazioni improntate a un semplificante determinismo, diano ragione del funzionamento reale di una mente. E soprattutto si semplifica quando si separa la mente dal corpo, immaginando che il cervello proceda senza avere relazioni con il corpo, con il sistema immunitario, il sistema endocrino. Non è più possibile identificare la biologia come una "disciplina delle leggi", essenzialmente determinista; essa è invece una "disciplina del possibile" con basi fisiologiche ed organiche. Certo, esistono dei determinismi evolutivi, dei meccanismi molecolari, dei vincoli che fanno sì che io sia in un certo modo piuttosto che in un altro, ma oggi non è possibile inquadrare alcuni problemi in termini semplicisticamente estremizzanti: nel campo dei fenomeni mentali non è pertanto possibile praticare un dualismo di matrice cartesiana come non è possibile invocare un materialismo dello stato centrale che immagini il cervello come una collezione di parti e funzioni distinte.

La clonazione: mito o realtà?

    Al momento attuale sono presenti su internet numerosi siti che offrono a breve "servizi di clonazione umana": essi hanno come obbiettivo aiutare quei genitori che abbiano perduto un bambino clonandolo a partire dalle sue cellule, il che può far breccia nel dolore di un certo numero di genitori che piangono la perdita di un figlio e ritengono di poterlo "riportare alla vita" attraverso la sua clonazione. Un simile desiderio presenta tanti punti deboli, non ultimo quello di illudersi di cancellare un lutto ripartendo da zero, sostituendo una vita con un’altra vita, identica alla precedente solo dal punto di vista genetico: ma il dolore dei genitori è comprensibile e si può ben capire come le offerte di clonazione suscitino l’attenzione di un numero di persone ormai non esiguo che ritengono che la clonazione umana sia ormai a portata di mano, l’ultimo mirabolante capitolo di una serie di convulse tappe delle tecnologie genetiche.

    Problemi etici a parte, è dubbio che le offerte di clonazione che circolano su internet corrispondano a una reale capacità operativa: la tecnica della clonazione non è infatti facilissima e le promesse o annunci di clonazioni prossime venture vanno considerate con qualche scetticismo. Il dubbio reale sono i punti deboli e le incertezze che ancora caratterizzano non soltanto le procedure di clonazione ma anche alcune tecniche di fertilizzazione in vitro. Spesso si minimizza il fatto che la nascita dei "figli della provetta" comporta una estenuante serie di tentativi di impiantare con successo gli ovuli fertilizzati in vitro e ai primi stadi di divisione embrionale: anche nel caso della clonazione, basata sull’impianto di un embrione ottenuto per "fotocopia" di una cellula somatica (ad esempio una cellula della mammella o un globulo bianco) appartenente a un individuo adulto, i tentativi falliti sono numerosi, la prassi lunga e paziente. Nel caso della famosa pecora Dolly, ottenuta per clonazione dai ricercatori scozzesi dell’Istituto Roslin, sono stati impiantati ben 277 embrioni senza successo. Anche in altri esperimenti di clonazione animale la percentuale di casi positivi, che cioè terminano con la nascita di un individuo, è molto bassa.

    L’aspetto più problematico della clonazione riguarda però il fatto che numerosi cloni muoiono alla nascita, hanno problemi di sviluppo o sono affetti da quella che ormai viene definita dagli esperti come LOS (Large offspring syndrome), la "sindrome della prole grossa", al centro di numerose ricerche anche al Roslin. Buona parte degli animali clonati, ma anche di quelli ottenuti attraverso la fertilizzazione in vitro, crescono troppo nel corso della gestazione o sono malaticci alla nascita. Questo eccesso di crescita intrauterina, insieme a uno stato di debolezza fetale, fa sì che diversi tentativi di clonazione siano un insuccesso. In sostanza, i punti deboli della clonazione sono ancora numerosi, la procedura è lunga, coronata da scarsi successi, caratterizzata da numerosi rischi per il nascituro e per la sua salute futura, non ultimo da un invecchiamento precoce del clone. La clonazione implica massicce manipolazioni delle cellule e dell’embrione ai suoi primi stadi, il che non è certamente una garanzia per il futuro di un animale clonato, tanto meno per quella di un essere umano, ben più complesso anche dal punto di vista del sistema nervoso.

    È possibile che in futuro la clonazione sia più semplice e meno problematica ma oggi non la si può presentare come un intervento "normale", impedito soltanto da motivi etici o giuridici: resta il fatto che nell’immaginario collettivo si sta insinuando l’idea che la clonazione sia a portata di mano e, soprattutto, che essa assicuri una sorta di rinascita, il prolungamento di una vita destinata a spegnersi. Dal punto di vista psicologico la clonazione esercita una qualche presa proprio in quanto sembra assicurare una rinascita dello stesso individuo che dovesse praticarla, anche se è ben evidente che si tratterebbe di un altro individuo, di un’altra psiche, di altre esperienze. Dal punto di vista biologico è però sempre più evidente che gli eventi che si verificano nel corso dello sviluppo, tra cui lo scambio di cellule tra madre e feto che sopravvivranno e lasceranno una "traccia" anche nel corso della vita da adulti, sono difficilmente ripetibili e che una stessa "formula genetica" non implica la produzione di due individui in tutto e per tutto identici.

    La nuova biologia, che abbraccia un insieme di discipline che vanno dalla biologia molecolare alle neuroscienze, lascia quindi intravedere un futuro problematico, aperto a una serie di interventi che puntano alla riparazione e al miglioramento di alcune funzioni del nostro organismo, a una concezione diversa della malattia e della salute, della stessa vita umana. Difficile dire se queste innovazioni incidano realmente sul significato profondo della vita e della morte, dei desideri e delle paure: ma in futuro dovremo sempre più fare i conti da un lato con un immaginario che si proietta verso una dimensione fantascientifica, verso una vita plasmata dagli esseri umani, dall’altro con una realtà in cui alcuni problemi fondamentali vengono soltanto spostati, rinviati nel tempo.

Bibliografia

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