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SAGGI

Terrorismo e comunicazione (*)

 

di Fabrizio Battistelli

 

 

  

Ai tempi del mondo bipolare, portando l’Ovest a Est, i mass media avevano fornito un contributo – il contributo maggiore, insieme a quello fornito dal mercato – nella sconfitta del socialismo reale e nella vittoria dell’Occidente nella Terza guerra mondiale, un conflitto che non è stato meno micidiale per uno dei due contendenti per il fatto di essere stato combattuto con armi “fredde” e senza vittime dirette. Mentre infatti il mercato ha assicurato una produzione di merci in quantità e di qualità inimmaginabile in qualunque altro regime economico, i media ne hanno fatto conoscere l’esistenza e la desiderabilità fin nelle articolazioni periferiche del sistema antagonista. I suoni e le immagini trasmessi via etere hanno scavalcato le linee Maginot politiche e strategiche del nemico, eludendone le limitazioni normative e tecnologiche. Grazie alla propria capacità dimostrativa, i media americani ed europei hanno innescato una reazione a catena, da un lato, di identificazione nei confronti di un sistema (quello dell’emittente) in grado di offrire la felicità e, dall’altro, di delegittimazione di un sistema (quello dell’audience) non in grado di fare altrettanto1.

Nel mondo multicentrico di oggi, portando il Nord al Sud (e, in misura assai minore, il Sud al Nord) i mass media innescano un altro processo di corto circuito dagli esiti difficilmente prevedibili. Mentre infatti la sfida tra Est e Ovest aveva luogo all’interno del mondo industrializzato – e quindi conteneva in sé la possibilità che uno dei due rivali risolvesse la contesa “arrendendosi” all’altro (come poi è accaduto) – un’opzione del genere non è disponibile, anche se fosse voluta, per i Sud del mondo. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, pur in assenza di studi empirici su base comparata, è possibile supporre che la visione del mondo occidentale veicolata dai media – con le sue immagini di benessere e di libertà ma, anche, di spreco, di avidità e di libertinismo – susciti reazioni contraddittorie in un’audience che, pur nell’estrema varietà delle interpretazioni locali, tende a condividere una condizione economica di sottosviluppo (o di sviluppo dipendente) e un universo di valori che Parsons avrebbe definito “tradizionali”. Sul piano immediato, psicologico sociale, le drammatiche immagini che raggiungono il Nord provenienti dal Sud, che parlano di fame, sete, epidemie, massacri a sfondo tribale o religioso, possono provocare reazioni differenziate – dal senso di colpa al cinismo, al timore di perdere i propri privilegi; mentre soltanto per alcuni, presumibilmente pochi, spettatori, esse stimolano reazioni più complesse, di tipo politico – ad esempio in termini di solidarietà. Quanto invece alle immagini del Nord che pervengono dal Sud, a livello immediato e diffuso è probabile che nell’audience dei paesi in via di sviluppo esse alimentino, sulla base della comparazione invidiosa tra il regime di vita esibito dai media occidentali e quello sperimentato di prima persona, sentimenti di frustrazione e di risentimento. Invece, nell’ambito politico, almeno in quegli ambienti dove sono articolabili posizioni di tale natura, è possibile supporre che le reazioni siano radicalmente differenziate a seconda della società di appartenenza. Accanto a società disposte ad accettare una “resa” (con molte condizioni) al modello occidentale – come nel caso dei NIC del Sud-Est asiatico – esistono società che avvertono, più o meno consapevolmente, di non poter compiere questo passo, prive come sono delle risorse minime necessarie – come nel caso dei paesi africani – e, infine, società che, sulla base degli assunti di valore e delle rappresentazioni politiche prevalentemente condivisi, questo passo non hanno intenzione di compierlo – e questo è il caso della maggioranza dei paesi islamici.

Ciò che è sicuro è che, a differenza di quanto avveniva nei contesti storici pre-moderni e moderni, oggi è impossibile per chiunque, dal Presidente degli Stati Uniti alle elites politiche che governano i paesi del Sud del pianeta, impedire alle immagini e alle notizie di raggiungere il più sperduto villaggio e il più disinformato dei cittadini di una nazione. Su questa incondizionata e incondizionabile libertà dell’immagine e della notizia si è basato il terrorismo l’11 settembre 2001 per il suo progetto di distruzione e di affermazione politica.

Ovviamente non è questa la sede per affrontare una discussione definitoria del concetto di terrorismo. Tanto la condanna morale e politica verso una strage efferata come quella dell’11 settembre deve essere chiara e intransigente, tanto la prospettiva critica e analitica delle scienze sociali non può ignorare la difficoltà di formulare una definizione esauriente e, soprattutto, univocamente applicabile del fenomeno terroristico. La difficoltà è perfino maggiore di quella suscitata da un altro controverso e ricorrente fenomeno delle vicende umane: la guerra. Rappresentando anch’esso una forma estrema di violenza nell’agire politico, il terrorismo non è però incanalabile in quel processo di “giustificazione” cui è stata sottoposta la guerra in circa quattro secoli di riflessione ad opera del diritto internazionale; ciò nella duplice accezione della sua legittimità quanto alle cause (jus ad bellum) e della sua legalità quanto alle modalità della sua conduzione (jus in bello)  (Bobbio, 1984; Walzer, 1992). Coinvolgendo direttamente i civili, cioè soggetti istituzionalmente estranei al conflitto, il terrorismo non può mai, per definizione, essere “giusto”. Naturalmente ciò non toglie che, nello sviluppo delle circostanze politiche, possa accadere che i “terroristi” di una fase storica diventino attori politici legittimi (e talvolta addirittura i responsabili di governo) in un’altra, così come è stato per l’Irgun israeliano, per l’African National Congress sudafricano e per numerosi altri movimenti originariamente etichettati come terroristici.

Delle tre situazioni possibili nel rapporto strategico – quella del forte che attacca il forte (o ciò che è lo stesso, del debole che attacca il debole), quella del forte che attacca il debole e infine quella del debole che attacca il forte – il terrorismo configura (quando è agito da un’entità non statale che si pone contro un’entità statale) la terza situazione.

Il rapporto di forza asimmetrico tra i due contendenti giustificherebbe, secondo gli autori dell’attività terroristica, l’impiego di mezzi coperti, insidiosi e sleali, da parte di “combattenti”, quali pure i terroristi pretenderebbero di essere. Allo stesso modo, il coinvolgimento dei civili non sarebbe, secondo molte dichiarazioni del “vecchio” terrorismo, un fine in sé, quanto piuttosto un mezzo, increscioso ma necessario, per attirare sui problemi che ispirano l’azione terroristica l’attenzione dell’opinione pubblica. L’azione terroristica, insomma, rappresenterebbe una sorta di proscenio intorno al quale “i terroristi vogliono un gran numero di gente che guarda, non un gran numero di gente che muore” (Jenkins, 1988, p. 259, cit. in Carruthers, 2000, p. 168).

I rapidi riferimenti che abbiamo compiuto alla visione “classica” del terrorismo ci forniscono immediatamente due spunti da approfondire. Il primo riguarda la persistenza del connotato di base del terrorismo: la sua natura di fenomeno intrinsecamente collegato alla pubblicità, cioè il suo esistere per comunicare qualcosa a qualcuno (un pubblico appunto). Il secondo, invece, apre una riflessione sulla discontinuità del fenomeno terroristico dopo l’11 settembre 2001: entità e modalità dell’attacco alle Torri Gemelle mostrano infatti una radicale novità della pratica terroristica, sotto il duplice profilo dell’individuazione dell’obiettivo strategico e del metodo utilizzato per perseguirlo.

Cominciamo dal primo aspetto, la persistenza del legame terrorismo/pubblicità. Sebbene si possa, per delineare l’evoluzione di questo rapporto, risalire al XIX secolo (se non addirittura alla Rivoluzione francese) con gli attentati degli anarchici e degli altri movimenti rivoluzionari in vari paesi europei, per restare al secondo dopoguerra sono pressoché infinite le evidenze secondo le quali l’obiettivo strategico dei movimenti terroristici è non solo e non tanto quello di punire i presunti “colpevoli” di una situazione di (asserita) oppressione politica, di classe, etnica, religiosa etc., quanto quella di fare conoscere questo stato di cose al più ampio numero di persone possibili, a cominciare da coloro che potrebbero fare qualcosa in favore della “causa”. Ambizione di ogni terrorista, dunque, è strappare la propria causa all’oblio in cui è relegata, per inserirla nell’agenda politica (nazionale e/o internazionale), bene in vista nei primi posti all’attenzione dell’opinione pubblica e dei decisori.

E’ evidente, in questo quadro, che l’interlocutore più desiderato e corteggiato, ma all’occorrenza anche provocato, sfidato e minacciato, sono i mezzi di comunicazione di massa.

Ben al di là della soggettività degli atttori, peraltro, esistono fattori strutturali che connettono tra loro terrorismo e media, in un’interazione reciproca che è stata definita una “simbiosi” (Wardlaw, 1989). Pochi eventi, come gli atti terroristici, incontrano quasi alla perfezione i criteri della “notiziabilità” (Wolf, 1985) su cui il media system fonda la propria attività. La prima condizione della “notiziabilità”, infatti, è l’imprevedibilità dell’avvenimento, che costituisce la conditio sine qua non grazie a cui l’avvenimento stesso può essere considerato una notizia; al secondo posto vi è la criticità, che costituisce il più potente vettore dell’attenzione che il pubblico è disposto a dedicare a un avvenimento2. Dando vita a eventi imprevedibili (di cui possono essere noti il contesto e le cause, ma di cui rimangono sconosciuti i tempi e le forme) e cruenti (e dunque altamente capaci di mobilitare l’attenzione del pubblico) gli atti di terrorismo configurano la più perfetta delle notizie: quasi il prodotto confezionato a tavolino da un direttore impazzito che volesse mostrare ai suoi praticanti che cosa “fa notizia”. Nè l’attrattiva dell’atto terroristico si esaurisce in sé, ma dà solitamente vita a un ampio follow up di dichiarazioni, commenti, interviste, ritratti, schede etc., che fanno dei terroristi i “super entertainers del nostro tempo” (Laqueur, 1977, p.223).

Passando dal protagonista che domina la scena allo show che lo ospita, qual è il medium più efficace nella trasmissione della notizia dell’attività terroristica? La risposta a questa domanda è – tanto da parte degli studiosi quanto da parte degli operatori – sostanzialmente univoca: la televisione.

A partire dal primo dirottamento aereo, operato nel 1968 da un commando del Fronte Popolare di liberazione della Palestina ai danni di un aereo di linea dell’Israeliana El Al, passando per la presa in ostaggio dei passeggeri dell’847 della TWA nel 1985, fino ad arrivare ai proclami di Osama bin Laden mandati in onda dall’emittente del Qatar Al Jazeera, il medium al centro delle attenzioni dei terroristi, delle polemiche e delle misure restrittive dei governi, così come delle analisi degli studiosi è, appunto, la televisione. Le caratteristiche strutturali del mezzo televisivo ne fanno il tramite ideale per la diffusione istantanea, capillare, facilmente fruibile e partecipabile di eventi ad elevatissimo contenuto emotivo come quelli creati dal terrorismo. Rispetto alle modalità espressive della radio – altrettanto tempestiva nel riferire ma “cieca” rispetto alle immagini, che invece per la loro drammaticità sono una componente fondamentale dell’evento terroristico – e rispetto alle modalità espressive dei giornali – inevitabilmente più mediate e flemmatiche a causa dell’uso stesso della parola scritta – la televisione emerge come la regina – e per alcuni la principale imputata – della comunicazione in materia di terrorismo.

Sulla base di analisi più o meno consapevolmente riconducibili alla teoria della “simbiosi”, da circa trent’anni a questa parte i governi dell’Occidente tentano di recidere o almeno di interporre dei filtri al legame che esisterebbe “oggettivamente” tra il terrorismo e la televisione, e subordinatamente gli altri media, accusati di rendere affascinante, e insieme di normalizzare, ciò che presentano e dunque anche i crimini terroristici. D’altro canto le policy dei governi non sono tutte uguali: in esse è possibile riconoscere da un lato il modello americano, basato sulla preferenza per una “autoregolazione” dei media quando l’oggetto della loro attività è il terrorismo, dall’altro il modello europeo, più dirigista e propenso a un intervento censorio da parte delle istituzioni politiche e amministrative (Carruthers, 2000).

       Per quanto riguarda il modello “dirigista”, a partire dagli anni Settanta alcuni governi europei si sono trovati alle prese con il terrorismo interno, di matrice  nazionalista (l’Ira per la Gran Bretagna) o “marxista rivoluzionaria” (la Banda Baader Meinhof per la Germania, le Brigate Rosse per l’Italia). Nel 1985 la signora Thatcher, impegnata a fronteggiare una lunga ondata di attentati ad opera dell’Ira, aveva definito la pubblicità “l’ossigeno del terrorismo”, emanando tre anni più tardi il Broadcasting Ban che vietava le interviste radiofoniche e televisive  a esponenti repubblicani irlandesi, compresi gli appartenenti al partito (legale) del Sinn Fein. Tale severità aveva avuto un precedente nella politica di black out adottata dal governo tedesco e accettata dai media durante i trenta giorni del rapimento dell’industriale Schleyer ad opera della Rote Arme. Quanto all’Italia, all’acme dell’attacco delle Brigate Rosse al “cuore dello Stato”, culminato nel 1978 con il rapimento di Aldo Moro, il silenzio stampa era stato molto meno rigoroso; ufficialmente, tuttavia, la linea del governo (incoraggiato in questo addirittura da Mac Luhan) era stata quella di “staccare la spina”.

       Per quanto riguarda invece il modello americano, presidenti e ministri  Usa hanno preferito ricorrere, piuttosto che alle legislazioni speciali, alle raccomandazioni e ai codici di condotta autoprodotti dai media, integrati di volta in volta dalla moral suasion personalizzata nei confronti delle singole testate. Per quanto riguarda uno dei maggiori punti di attrito nel rapporto autorità/mass media – le apparizioni televisive di esponenti del terrorismo – all’indomani dell’11 settembre l’amministrazione Bush ha esercitato una costante pressione  affinchè i network  (che  come noto negli Usa sono esclusivamente privati) limitassero l’esposizione mediatica dei terroristi. All’uscita del primo video-proclama di bin Laden, ad esempio, la consigliera per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice ha telefonato personalmente ai presidenti delle maggiori compagnie televisive del paese (ABC, CBS, NBC, CNN, Fox) per chiederne l’oscuramento, mentre nel caso della radio pubblica Voice of America la preziosa intervista che quest’ultima era riuscita a ottenere dal mullah Mohammed Omar è stata semplicemente cancellata per ordine del Dipartimento di Stato (Bonini e D’Avanzo, 2001). Come avremo modo di vedere più avanti, tuttavia, questi provvedimenti, oltre che tardivi rispetto all’incommensurabile impatto mediatico esercitato dall’attacco al World Trade Center, appaiono parziali e di dubbia efficacia. Semmai non bastasse la concorrenza tra i media occidentali, la presenza sull’arena internazionale di emittenti non appartenenti all’area euro-americana cui non è possibile imporre direttamente forme nè di controllo nè di auto-controllo, realizza l’imperativo del media system per cui the show must go on.

Accanto alla persistenza del tradizionale obiettivo strategico rappresentato dalla ricerca di pubblicità, poi, l’11 settembre 2001 il terrorismo esibisce una drastica discontinuità per ciò che concerne gli obiettivi e i metodi tattici. In questo senso ci sembra necessario parlare di “nuovo” terrorismo.

Con buona pace di chi ritiene che l’attacco alle Twin Towers e al Pentagono non abbia sostanzialmente modificato il sistema internazionale e il ruolo che gli stati vi rivestono in tema di sicurezza (Andreatta, 2002), questo evento rappresenta un poderoso salto quantitativo e qualitativo nell’escalation del conflitto che oppone alla comunità internazionale, fatta di stati, soggetti “privati” come le organizzazioni terroristiche. L’esito di questo salto è sotto gli occhi di tutti. L’aggressione manu militari al territorio metropolitano degli Stati Uniti, costituisce non soltanto una novità pressoché assoluta nei 225 anni di storia di questo paese (restando, sin qui, un dato essenzialmente nazionale), ma anche la violazione del “santuario” strategico (come veniva definito ai tempi della guerra fredda) dell’ultima e sola superpotenza rimasta, e quindi la fine del mito della sua invulnerabilità. Se le conseguenze politiche di tutto questo sono difficilmente prevedibili nella loro evoluzione, un dato è certo: la loro portata è epocale3.

Quanto alle modalità “tattiche” mediante le quali tale discontinuità si è espressa, ne rilevo tre principali: 1) l’assolutizzazione del sacrificio umano; 2) il capovolgimento bellico delle tecnologie civili; 3) l’ingovernabilità mediatica del messaggio neo-terroristico.

Accennerò brevemente alle prime due novità, per concentrarmi poi sulla terza, che è lo specifico oggetto di queste note.

1) Per quanto riguarda il sacrificio di vite umane, da sempre il terrorismo ha fatto vittime prevalentemente tra i civili (in questo, appunto, consiste la sua differenza con una campagna di guerra “giusta” quoad exercitium). Solitamente, tuttavia, le perdite civili provocate dall’azione terroristica sono state considerate dai movimenti che pure vi hanno fatto ricorso, come un by product, tragico ma necessario, dell’azione stessa. Come le minacce espresse a chiare lettere da Osama bin Laden hanno confermato, invece, in questo caso un intero popolo (quello americano) viene dichiarato responsabile della politica dei suoi governi e condannato a pagare per questo. E’ significativo come un’analoga escalation di morte coinvolga gli stessi terroristi “combattenti”. A differenza della grande maggioranza delle azioni belliche tradizionali e della stessa maggioranza (almeno sinora) di quelle attuate dal “vecchio” terrorismo, la tattica sul campo del nuovo terrorismo non prevede la tutela, in quanto possibile, della vita dei propri combattenti, ma, al contrario, la sua distruzione programmata; in questo quadro i kamikaze sono sistemi d’arma che i comandanti non contano di recuperare e riutilizzare, contenitori umani a perdere, meri vettori di una carica esplosiva da condurre sul bersaglio4.

Nella sua duplice applicazione al nemico e a se stessi, così, il sacrificio umano da relativo – cioè contingente e subordinato a uno scopo – diviene assoluto – cioè generalizzato e scopo in se stesso.

2) Con il nuovo terrorismo dell’11 settembre diventano belliche le tecnologie civili. Con un capovolgimento inaspettato, vengono trasformati in strumenti di morte quelli che erano da tutti identificati come strumenti di vita, di comunicazione, di mobilità, di sviluppo. I terroristi non hanno avuto bisogno, questa volta, di introdurre dall’esterno armi: le hanno trovate sul campo, sotto forma di oggetti e di pratiche di cui hanno semplicemente invertito il segno, da positivo a negativo. Si pensi innanzitutto all’aereo di linea, un mezzo unanimemente associato ad attività pacifiche, produttive e/o ricreative, e che dopo l’11 settembre sarà difficile indicare spensieratamente ai bambini quando si affaccerà sul cielo di una nostra città. Ma il capovolgimento semantico investe, come nei quadri dei surrealisti, numerosi altri oggetti della vita quotidiana e della produzione: dai taglierini di ceramica usati per sgozzare hostess e passeggeri, alle tecnologie informatiche impiegate per comunicare i piani d’attacco, alle operazioni finanziarie utilizzate per speculare e per destabilizzare le borse, sino al sistema formativo che, in una società aperta e fondata sul mercato come quella americana, consente a chiunque paghi 10.000 dollari di diventare pilota aeronautico.5

3) Ma la cesura tra “vecchio” e “nuovo” terrorismo internazionale scandita dall’11 settembre 2001 è particolarmente evidente in relazione al ruolo dei media e alla “gestione delle notizie”. A partire dalla storica esperienza del Vietnam – la guerra “perduta nel tinello di casa” – le emergenze belliche succedutesi da allora sono state affrontate dalle autorità civili e militari americane mediante un’attenta politica di news management (Savarese, 1992), fatta di tempestiva offerta di notizie ufficiali, di prevenzione nei confronti della diffusione di notizie “sensibili” e di organizzazione e monitoraggio della presenza al fronte di gruppi (pool) di giornalisti.

Per quanto riguarda specificamente il news management nelle emergenze da terrorismo (attentati, dirottamenti e presa di ostaggi etc.) già nel 1976 una Commissione appositamente nominata dal governo degli Stati Uniti aveva pubblicato il suo Rapporto su Disordini e Terrorismo, presto divenuto la base di riferimento per i media, in particolare per i network televisivi, nella messa a punto di propri codici di condotta. La filosofia del rapporto, sintetizzabile nei due obiettivi della “minima intrusività” nei confronti del fenomeno terroristico e dell’attività antiterroristica e della copertura non “incendiaria” (inflammatory) degli avvenimenti, si sviluppava in una serie di raccomandazioni pratiche rivolte agli operatori dell’informazione.

Rileggere oggi il Rapporto del 1976 dà la misura di quanto lontano sulla via della ingovernabilità si sia spinto un fenomeno – il terrorismo internazionale – che muoveva allora i primi passi. Certamente, alcune raccomandazioni mantengono tuttora la propria validità: di questo tipo evitare la divulgazione di informazioni tattiche (relative in particolare alle mosse della polizia e delle altre forze di sicurezza), basarsi sui portavoce ufficiali, bilanciare la propaganda terroristica con le dichiarazioni del governo. Altre importanti raccomandazioni, invece, appaiono irrimediabilmente compromesse e non più realizzabili, travolte tanto dai formidabili progressi registrati dall’attività terroristica nel mondo multicentrico, quanto dalle dinamiche dello stesso media system.

Tre comportamenti raccomandati ai giornalisti sono particolarmente significativi in questo senso: 1) l’impegno a non intervistare i terroristi; 2) la disponibilità dei corrispondenti delle varie testate a operare riuniti in pool organizzati e supportati dalle autorità; 3) l’impegno a procrastinare il resoconto delle notizie troppo “infiammabili”. Un’analisi puntuale di queste tre raccomandazioni mostra la loro parziale o integrale impraticabilità nell’era del nuovo terrorismo.

Iniziando  dalle interviste, se i capi del terrorismo non hanno più i propri propagandisti negli autori dell’azione terroristica in quanto non è prevista la loro sopravvivenza a quest’ultima6, ciò non significa, assolutamente, che essi abbiano rinunciato alla propaganda. Al contrario, quest’arma decisiva viene avocata direttamente dal vertice dell’organizzazione terroristica che, grazie al recente pluralismo affermatosi nel mercato mondiale dell’informazione e, contemporaneamente, alle caratteristiche di despazializzazione che il nuovo terrorismo ha assunto – prende direttamente la parola per diffondere un incisivo messaggio di incoraggiamento agli amici e di minaccia e intimidazione ai nemici. Quanto al recente pluralismo, dalla situazione di monopolio dell’informazione televisiva via satellite di appena un decennio fa (si pensi all’esclusiva goduta dalla CNN durante la guerra del Golfo), l’esordio del XXI secolo vede una situazione concorrenziale nella quale non soltanto nuove News TV si sono affiancate alla capostipite negli USA e in altri paesi occidentali, ma altri competitori sono apparsi nel Sud del mondo. Al di là di un bilancio che non è questa la sede per formulare, è evidente che la presenza di una “CNN islamica” come Al Jazeera, attraverso la quale bin Laden è stato in grado di parlare al mondo, ha drasticamente scompaginato le carte dell’informazione televisiva internazionale. Come per una nemesi del processo di globalizzazione, cioè dell’inarrestabile estensione del mercato ovunque e a tutto, l’Occidente non è più in grado, né a livello di media, né a livello di governi, di monopolizzare l’informazione; e sempre meno sarà in grado di farlo in futuro.

Non meno cruciale è il fenomeno della despazializzazione. Ribadendo l’ancestrale rapporto “tellurico” del guerrigliero con la propria terra di origine (Schmitt, 1981) il vecchio terrorismo locale (IRA, ETA, ma anche Tigri Tamil e indipendentisti Ceceni, etc.) rimaneva saldamente ancorato a un territorio che costituiva il suo caposaldo ma, anche, l’ambito cui poteva essere ricondotto e nel quale poteva essere “cercato”. Il nuovo terrorismo globale di Al Qaeda appare invece largamente despazializzato. Analogamente a quanto accade per un’impresa multinazionale, la sede principale può essere di per sé meno importante dell’insieme delle singole filiali o anche di una loro parte, così che chiudere a forza la prima (come è accaduto con il rovesciamento del regime dei Talibani in Afganistan) non significa ipso facto aver neutralizzato le seconde. Nello stesso tempo è sintomatico che, anche in un’organizzazione come Al Qaeda, strutturata secondo un modello a rete “multicanale” dove tutti comunicano con tutti (Lesser et al., 1999), la comunicazione esterna è rigorosamente accentrata e riservata in esclusiva al leader bin Laden (in un unico caso demandata al suo portavoce Suleyman Abu Ghaith). In un’organizzazione che alla strutura “moderna” gerarchica e compartimentata (e quindi efficiente ma rigida) ne ha sostituita un’altra tipicamente “postmoderna” decentrata e multicefala (e quindi caratterizzata da ridondanza e resilienza), è decisivo che sia il capo in persona – e lui soltanto – a mostrarsi e a parlare. Ciò che Osama bin Laden ha puntualmente fatto, diffondendo nei più remoti angoli del globo immagini e parole raggelanti espresse con lo stile ieratico di un sacerdote e la sicurezza di uno statista.

Quanto al secondo aspetto, l’organizzazione dei giornalisti in pool, essa ha effettivamente funzionato nel caso di emergenze informative nelle quali le autorità detenevano saldamente il controllo della situazione nel corso di una determinata operazione, per un periodo di tempo definito e in riferimento a un territorio circoscritto. Non soltanto in microinterventi militari quali Grenada, Panama, Haiti, ma anche in “medie” campagne di guerra quali il Golfo e il Kossovo, il metodo del pool si è potuto giovare di uno scambio, giudicato sufficientemente equo da entrambe le parti, tra autorità (in questo caso i militari) e operatori dell’informazione. L’autorizzazione ad accedere a (settori del) fronte e la possibilità di farlo con il supporto logistico, organizzativo e protettivo concesso dalle forze armate ai giornalisti, venivano ricambiate da quest’ultimi con l’impegno a una più o meno pronunciata forma di auto-controllo consistente nel non “cacciarsi nei guai” e nel non “sferrare colpi bassi” nei confronti delle istituzioni impegnate sul campo.

Efficace quando le autorità hanno non soltanto qualcosa di rilevante da vietare ma anche qualcosa di rilevante da offrire – come accade nel caso di una guerra – il metodo del pool funziona assai meno nel caso di un’azione terroristica, durante la quale il governo e le istituzioni preposte alla sicurezza non controllano, o controllano solo in parte, le fonti dell’informazione e le condizioni organizzative, logistiche e ambientali in cui i giornalisti sono chiamati a operare. La difficoltà delle autorità americane di esercitare efficacemente il news management è apparsa in tutta la sua evidenza durante l’allarme antrace, all’indomani degli attentati a New York e Washington. Ma l’intero dopo-11 settembre, sul territorio americano e nello stesso Afganistan, è stato caratterizzato da una situazione caotica sul piano comunicazionale, scandita dall’aspra competizione fra le testate (americane e non; si veda l’alleanza, poi trasformatasi in contesa tra CNN e Al Jazeera, la polemica tra Fox e CNN sui video con l’addestramento di Al Qaeda, etc.) e dal difficile rapporto tra media e governo riguardo alle policy informative da seguire. Nulla di lontanamente paragonabile, insomma, all’asettica ed efficiente gestione delle notizie (e dei giornalisti) realizzata nel 1991 con il “capolavoro” della Desert Storm.

Infine, la questione di quella che per le autorità è l’intempestività, nel senso di precocità inopportuna, nella divulgazione delle notizie che hanno per oggetto il terrorismo e che per i giornalisti, al contrario, è la tempestività nel senso della prontezza informativa. Qui la divergenza tra le due parti su ciò che sia giusto fare è strutturale: per i media è imperativo pubblicare la notizia di cui si entra in possesso nel più breve tempo possibile, sia come servizio nei confronti del pubblico, sia come tutela nei confronti della concorrenza (che si assume farà altrettanto). Su temi altamente coinvolgenti ed emotivi (inflammatory, appunto) come il terrorismo, per le autorità la pubblicazione della notizia dovrebbe essere sottoposta a un processo – oltre che di vaglio della sua attendibilità (condiviso anche dai media) e di selezione dell’opportunità di pubblicarla (assai meno condiviso dai media) – anche di “flemmatizzazione”, cioè di dilazionamento dei tempi di divulgazione della notizia e quindi, indirettamente, di attenuazione del suo impatto.

A livello soggettivo, anche animati dalle migliori intenzioni di comportarsi in modo patriottico e di cooperare con le autorità, i media non accettano mai volentieri di limitare la tempestività della divulgazione della notizia, tendenzialmente coincidente per essi con il momento dell’apprendimento della medesima: solo in alcune situazioni particolari si registrano casi di embargo ottenuti o spontaneamente offerti dagli operatori dell’informazione7. Per le modalità in cui ha preso corpo, un evento come il duplice attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono è tale, oggettivamente, da spazzare via qualunque pretesa – se mai vi fosse stata un’autorità che avesse voluto/potuto invocarla – di dilazionare, attenuare o in qualsiasi altro modo filtrare un evento la cui tragicità è eguagliata soltanto dalla spettacolarità. Rispetto ad azioni coperte di commando isolati, a uccisioni senza testimoni di singoli ostaggi (come ad esempio durante il dirottamento della “Achille Lauro”), all’esplosione di edifici che (pur catastrofici come nel caso di Oklahoma City) non sono stati fissati dalle telecamere, con il colossale e inaudito colpo inflitto al cuore di Manhattan – in piena luce solare, in orario televisivamente propizio e addirittura programmato per la diretta8 – il nuovo terrorismo si è installato al centro del proscenio mediatico, scacciandone gli altri attori, monopolizzandolo per mesi e, infine, minacciando di tornarvi in qualsiasi momento.

In queste condizioni, flemmatizzare le notizie, imponendovi filtri e dilazioni, è per le autorità, per qualunque autorità di governo esistente al mondo, potenzialmente anche in regimi politici economici e sociali diversi dalle democrazie rappresentative di tipo occidentale, semplicemente impensabile.

La straordinaria e inedita permeabilità del mondo globalizzato alla notizia, specialmente quando riguarda un evento di ineguagliabile notiziabilità come gli attentati terroristici di New York e Washington, esce confermata dalla ricerca di Everts e Isernia (2002), che hanno analizzato un’ampia serie di sondaggi d’opinione dedicati al terrorismo e alla risposta ritenuta giusta nei suoi confronti, realizzati nel mondo dopo l’11 settembre 2001. Come emerge in particolare dalla campagna comparata di sondaggi che la Gallup ha effettuato in 24 paesi del mondo, in 2/3 di essi – dal Perù all’India – più dell’80% della popolazione è stato informato dell’avvenimento entro 2 ore. Hanno appreso in tempo reale degli attentati ben 2/3 non soltanto dei cittadini degli Stati Uniti e di altre nazioni del continente americano, ma anche gli inglesi e gli italiani; gli israeliani, addirittura, nella misura dell’84%. Per tutti, il mezzo d’informazione dominante su ogni altro è stato – come prevedibile – la televisione. Quanto alla durata degli effetti, il terrorismo ha occupato il vertice dei problemi percepiti nei diversi paesi per almeno tre mesi; infatti si è dovuto attendere il gennaio 2002 perché l’agenda dei problemi avvertiti dall’opinione pubblica iniziasse un lento ritorno alla normalità (v. Tab. 1).

 

Tab. 1 Tempo trascorso per apprendere degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 in un campione di 24 paesi.

14-17 settembre 2001

ora  zero

ora  zero + 1

ora  zero + 2

ora  zero + 3

ora  zero + 4

stesso giorno

successivamente

non  sapeva nulla, non sa, non risponde

Argentina

67

14

9

3

1

4

2

0

Bosnia

45

25

13

6

5

4

2

0

Bulgaria

23

23

22

10

9

10

3

0

Corea

32

27

5

1

1

25

4

5

Croazia

56

13

11

5

4

7

3

1

Danimarca

56

23

10

0

7

2

0

2

Ecuador

74

9

10

2

2

2

1

0

Estonia

36

22

16

7

7

4

6

2

Germania

58

20

10

5

3

1

1

2

GranBretagna

61

19

9

4

4

1

2

0

India

49

32

6

0

3

6

5

0

Israele

84

7

2

1

1

2

1

2

Italia

61

20

6

3

3

5

1

1

Lituania

45

35

13

2

1

1

2

1

Lussemburgo

55

18

13

7

4

1

1

1

Messico

57

14

8

9

1

12

0

0

Pakistan

0

0

0

0

0

78

18

4

Perù

50

19

10

5

5

9

2

0

RepubblicaCeca

23

18

16

14

12

15

2

0

Sud Africa

48

12

6

10

0

15

8

1

Svizzera

48

22

20

5

1

2

1

1

Ucraina

8

12

37

14

11

5

11

1

USA

68

14

9

5

2

1

0

0

Zimbabwe

35

11

14

18

2

3

15

2

 

Fonte: Gallup International Poll (settembre 2001), cit. in Everts e Isernia, 2002

Domanda: “Quando avete appreso degli attacchi terroristici?” (ora locale)

NB: In Pakistan la domanda prevedeva solo due risposte: stesso giorno/giorno successivo. Il Pakistan è anche l’unico caso in cui     l’opzione “non sapeva nulla” annovera tre casi.

 

 

Conclusioni

 

Dei vari fattori socioculturali, politici, economici che condizionano in un senso o nell’altro la conflittualità internazionale, abbiamo sottolineato il peso decisivo dei mezzi di comunicazione di massa che, grazie alle nuove tecnologie di trasmissione satellitare e digitale, sono in grado di raggiungere ogni “angolo” del pianeta. L’esito finale è un inedito e colossale corto circuito informativo che alimenta atteggiamenti e comportamenti di volta in volta imitativi ovvero reattivi presso popolazioni differenti poste bruscamente a contatto tra loro. Ciò è soprattutto vero per il Sud del mondo, particolarmente esposto ai messaggi delle emittenti del Nord, in una situazione di interazione globale nella quale non si può – parafrasando la Scuola di Palo Alto, non comunicare ma, meno ancora, si può evitare di “essere comunicati”9.

In questo contesto di interazione globale di tutti con tutti si inserisce il terrorismo internazionale, attualmente non l’unico ma di certo uno dei più accaniti (e fortunati) ricercatori di pubblicità nel mondo multicentrico. Con la violenta lacerazione della normalità quotidiana che porta con sé, il terrorismo configura un caso da manuale di notiziabilità pressoché perfetta dal punto di vista mediatico: a questo punto è inevitabile il suo incontro con la televisione, il più diretto e coinvolgente dei media. In tal modo il terrorismo emerge se non come un fenomeno “simbiotico” nei confronti della TV, certo come altamente telegenico. Su questa situazione di fondo si inserisce il “nuovo” terrorismo del modello Al Qaeda, l’organizzazione che, dopo la prova generale realizzata con gli attentati alle ambasciate americane  in Africa nel 1998, l’11 settembre 2001 è assurta al rango di antagonista della superpotenza planetaria, di fonte di minaccia per il resto del mondo occidentale e di fattore di destabilizzazione dell’intera comunità internazionale.

La discontinuità del nuovo terrorismo rispetto alle forme conosciute in precedenza è evidente non soltanto nelle dimensioni inaudite dei suoi esiti, ma anche nelle caratteristiche qualitative che è esso andato assumendo; tra queste abbiamo ricordato, sul piano tattico, l’assolutizzazione del sacrificio umano e il capovolgimento bellico delle tecnologie civili. Il dato su cui abbiamo concentrato la nostra attenzione, peraltro, è l’ingovernabilità mediatica che distingue il “nuovo” dal “vecchio” terrorismo, dimostrata dalla crescente difficoltà di applicare ad esso le misure  di news management proposte e attuate in precedenti situazioni di emergenza. Nella nuova fase apertasi l’11 settembre è arduo, per le autorità, regolare l’acuta competizione per l’accesso alle notizie che caratterizza gli operatori dell’informazione del proprio paese nei rapporti tra loro, con le autorità  stesse e infine con esponenti o fiancheggiatori del fenomeno terroristico; così come è sempre più arduo impedire che, grazie all’attuale pluralità delle emittenti, i terroristi possano imperversare sugli schermi televisivi del mondo impartendo la loro interpretazione degli eventi. Soprattutto è, più che arduo, impossibile evitare che immagini sconvolgenti come quelle della decapitazione e dell’implosione delle Twin Towers irrompano, tali e quali e in tempo reale, nelle case di centinaia di milioni di persone. Senza filtri temporali e senza frame interpretativi, la potenza pedagogica di queste immagini è poderosa e sprigiona effetti pesantemente depressivi, ovvero euforizzanti, sulle audience esposte al messaggio, a seconda che esse siano ostili ovvero simpatetiche nei confronti della causa terroristica. L’80% del pubblico internazionale informato dell’avvenimento nei primi 120 minuti dal suo accadere, e nella grande maggioranza dei casi testimone con i propri occhi, costituisce una prova vivente delle conseguenze della globalizzazione, troppe volte menzionata come un riferimento retorico e non adeguatamente meditata come un processo reale, complesso e ambivalente. E’ da sottolineare, in particolare, la folgorante tempestività della partecipazione del pubblico, che brucia le istanze di mediazione e di metabolizzazione degli eventi scioccanti insite, in precedenza, nei tempi lunghi e nei ritmi lenti della diffusione sociale e dell’assimilazione individuale delle informazioni10.

Le sfide che la comunità internazionale deve affrontare sono, come si vede, formidabili. Ciò è particolarmente vero per gli Stati Uniti e per l’intero mondo occidentale, per i quali perseguire la sicurezza conciliando le ragioni dell’efficienza con quelle della democrazia non è un’opzione, ma la propria ragione d’essere e il vantaggio competitivo nei confronti di altre interpretazioni della politica e di altri modelli di società. La drastica discontinuità con le fasi storiche precedenti reclama una rivoluzione nella mentalità con cui affrontare i problemi della sicurezza nazionale e internazionale: rispetto alla propensione, prevalsa finora, a cercare risposte sul piano meramente tecnico, la soluzione passa attraverso l’elaborazione di una rinnovata cultura della pace e della sicurezza internazionale e del coinvolgimento dell’opinione pubblica, dove esiste, e, dove non esiste, della costruzione di essa.

 

 

Bibliografia

 

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Note

(*) Questo saggio sviluppa i temi presentati dall’autore al Convegno “La comunicazione come antidoto ai conflitti” organizzato dall’Università degli Studi di Siena, Facoltà di Lettere e filosofia di Arezzo, 17-18 maggio 2002.

 

1 È paradossale l’inversione tra reale e virtuale che, nel corso della guerra fredda, si è verificata tra armamenti e prodotti mediatici. Mentre i primi – caratterizzati da una massiccia materialità (70.000 testate nucleari) sono rimasti (fortunatamente per l’umanità) virtuali, i secondi, caratterizzati per definizione dalla virtualità, hanno funzionato nella quotidianità e operato in modo concreto ancorché immateriale.

2 In queste caratteristiche strutturali del processo di produzione della notizia risiedono alcune delle difficoltà che è destinata a incontrare la comunicazione istituzionale. Le “buone notizie” fornite da quest’ultima in condizioni di routine, dai media vengono per lo più etichettate come “non notizie” e cestinate, proprio in quanto prive di varianza. Il discorso cambia quando la fonte istituzionale è in grado di esibire eventi che rispetto alla routine (ad esempio, per un corpo di polizia, la normale attività di istituto) fuoriescono positivamente generando situazioni eccezionali (ad esempio un’operazione di prevenzione e/o repressione anticrimine o antiterrorismo che si conclude con una serie di arresti). Analogamente fuoriesce dalla routine e suscita l’immediata attenzione dei media, diventando automaticamente notiziabile, anche l’evento “negativo” (errore, incidente, abuso, etc.) in cui l’istituzione può incorrere nel corso della sua attività (Battistelli, 2000).

3 Per motivi comprensibili, le ripercussioni critiche della fine del mito dell’invulnerabilità americana sono state affrontate marginalmente dai politici (e, stranamente, poco anche dai politologi) mentre bisogna rivolgersi al pensiero psicoanalitico per apprendere del lutto che ci ha colpito non sentendoci “più garantiti nella possibilità di proiettare sul popolo americano l’incarnazione della sicurezza assoluta” e quindi di essere depauperati per sempre della fede in una “onnipotente intangibilità, cui anche la morte sembrava dovesse sottostare” (Pavone, 2002, p. 95).

 

4 La nostra è una constatazione di natura tecnico-militare, che non intende essere irriguardosa nei confronti della vita umana di chicchessia, né avanzare giudizi perentori in ordine alle motivazioni soggettive dei kamikaze, che invece possono e devono essere affrontate analiticamente. La sconfinata carica di aggressività espressa dalla scelta di autodistruggersi per distruggere rappresenta un dato empirico che non può essere semplicemente archiviato sulla base di un biasimo morale, bensì chiede di essere spiegato. In termini politici, innanzitutto, va vagliato quando il terrorismo kamikaze è opera di una ristretta banda di criminali internazionali come Al Qaeda, ovvero quando costituisce un fenomeno che minaccia di coinvolgere strati crescenti di popolazioni bloccate in una situazione politica e umana senza speranza, come nel caso palestinese. In termini psicologico-evoluzionistici, un’interessante lettura del fenomeno kamikaze come applicazione (strumentalizzata dai capi) dei meccanismi di selezione parentale e di altruismo reciproco propri della specie umana, è in Attili, 2002.

5 Come si legge in una profetica recensione del libro di Qiao Liang e Wang Xiangsui pubblicata sul San Francisco Chronicle del 20 aprile 2001, “un bel mattino la gente si sveglierà per scoprire con sorpresa che alcune cose gentili e carine hanno cominciato ad assumere caratteristiche offensive e letali” (cit. in Mini, 2001: 28).

6 L’impossibilità di fruire della suggestiva testimonianza propagandistica dei kamikaze ex post, ad esempio, ha indotto i capi palestinesi di Amal e delle Brigate Martiri di Al Aqsa a registrarne le dichiarazioni ex ante, cioè alla vigilia dell’attentato. L’efficacia di questo strumento ha indotto gli israeliani a ritorsioni nei confronti delle famiglie dei kamikaze (distruzione delle abitazioni, deportazione dei parenti maschi), cui ha fatto a sua volta seguito la strategia palestinese di continuare a registrare e diffondere l’immagine dei “martiri” senza tuttavia rivelarne più l’identità.

7 Di questo tipo l’impegno assunto da 17 reporter di TV, giornali e agenzie di stampa americani, imbarcati nella prima settimana dell’ottobre 2001 sulla portaerei “Carl Vinson” nel mare arabico settentrionale, a non rivelare che l’ora X dell’attacco all’Afganistan era imminente.

8 E’ da ricordare che l’impatto del secondo aereo suicida sulla Torre Sud è stato realizzato a 18 minuti di distanza dal primo, quando, come prevedibile, le telecamere stavano mandando in diretta le immagini del primo attentato.

9 In tal senso è soltanto una boutade la recente risposta fornita nel corso di un’intervista da Huntington (2001: 6). All’osservazione dell’intervistatore che forse l’Occidente dovrebbe porsi il problema della natura e delle forme dei messaggi che diffonde via TV e via Internet presso gli altri popoli, il politologo ha replicato: “Se non vogliono guardare, nessuno li costringe”.

10 Il progressivo azzeramento del divario spazio-temporale nel rapporto evento/notizia emerge in tutta la sua portata dal confronto tra la divulgazione istantanea degli attentati dell’11 settembre 2001 e quella di altri cruciali avvenimenti storici. La presa di Costantinopoli ad opera dei Turchi il 29 maggio 1453 richiese ventidue giorni per raggiungere Parigi, e la vittoria conseguita a Trafalgar dagli inglesi sulla flotta franco-spagnola il 21 ottobre 1805 impiegò ancora due giorni per arrivare a Londra.

 

 

 


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