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SAGGI

 

Globalizzazione e lavoro.

Nuovi confini per le classi sociali

di Emiliano Bevilacqua

 

 

 

 1. Transizione globale

 

Per gran parte del Novecento il ritmo delle esistenze individuali ha seguito la partitura disegnata dal lavoro. Le vite si definivano sulle occupazioni e l’insieme dei valori e delle interazioni sociali era da esse dipendenti. La fase fordista dello sviluppo industriale rappresenta l’apice di questo processo.

R. Sennet, soffermandosi sulla vita di un custode italoamericano, illustra il senso che gran parte dei cittadini nati prima del secondo dopoguerra attribuiva alla propria esistenza:

 

La cosa che mi aveva più colpito in Enrico e nella sua generazione era la linearità del tempo delle loro vite: anni e anni passati su un lavoro in cui raramente un giorno era diverso dall’altro. E in questo tempo lineare, i risultati erano cumulativi: Enrico e Flavia controllavano ogni settimana l’incremento dei loro risparmi, e misuravano la loro vita domestica nei termini dei miglioramenti e ampliamenti che apportavano alla loro villetta. In definitiva vivevano una vita predicibile1

 

E’ interessante notare come la prevedibilità di queste esistenze contribuisse alla formazione della consapevolezza di classe (Giddens, 1975, cap. VI), sviluppando il sentimento di appartenenza ad un contesto collettivo e la condivisione di valori e comportamenti di una comunità, fondata sul lavoro e per questo passibile di identificazione con una classe sociale. Non per caso il nostro custode, pur essendo privo di qualsiasi coscienza di classe marxianamente intesa, matura egualmente una distanza verso i borghesi e una repulsione verso i loro privilegi.

L’organizzazione fordista fa si che il lavoro accresca la sua influenza sull’insieme delle attività individuali, dalle scelte familiari al tempo libero. Lo sviluppo di un circolo virtuoso tra produzione industriale in serie, consumo di massa di beni durevoli e stabilizzazione di un equilibrio storicamente avanzato nella ripartizione tra salari e profitti ha prodotto un tipo umano che, spronato dalla possibilità di accesso a beni fino ad allora irraggiungibili, iscrive la propria esistenza in un progetto di benessere personale e familiare decisamente proiettato verso le generazioni future. In tale contesto è possibile che una classe si trasformi in una comunità di destino (Weber, 1995, vol. IV); che si realizzi, per dirla con K. Marx, il passaggio dalla classe in sé alla classe per sé (Marx, 1996). Ed infatti, il circolo virtuoso di cui parlavamo, solidificando intorno al lavoro le appartenenze di classe, ha visto una forte mobilitazione a favore dei diritti sociali ed economici dei salariati. La centralità del lavoro si è accompagnata ad una visibilità del conflitto di classe: tale dinamica ha improntato di sé l’immaginario collettivo delle società avanzate.

Questo mondo fatto di vite ripetitive ma solide appare definitivamente tramontato. Il passaggio dalla società industriale all’economia dei servizi sembra aver profondamente trasformato le modalità con cui milioni di persone guardano a se stessi e al rapporto con il mercato del lavoro (Touraine, 1970; Bell, 1991). Le indagini ISTAT, ad esempio, ci informano che nel 2000 le persone con doppia o tripla occupazione erano sei milioni e mezzo su un totale di ventitré milioni e mezzo di italiani attivi. Significativi risultano i commenti con cui viene accolto questo dato: ‘chi vuole il successo si muove in più direzioni e non solo puntando in alto nel proprio settore. Quello che funziona, che piace, è navigare liberamente’2. L’innovazione invece della stabilità; il rischio al posto delle certezze; il transeunte in luogo del progetto: tali le nuove dimensioni dell’immaginario collettivo.

Osservazioni di questo tenore illustrano una realtà in cui il lavoro non è più unicamente associato al reddito e alla fatica ma viene piuttosto considerato come strumento di remunerazione esistenziale e fonte di nuove esperienze: tutto questo in un contesto in cui il tempo libero ha accresciuto la sua importanza (Lyotard, 1981; Giddens, 1994). Allo stesso tempo, l’espansione dei servizi favorisce l’accumulazione nel settore culturale e dell’intrattenimento mentre l’influenza delle mode sui mercati di massa accentua gli aspetti transitori e caduchi tanto delle merci quanto dei comportamenti (Jameson, 1978; Baudrillard, 1991; Harvey, 1997; Gorz, 1998). Le garanzie e le certezze della fase fordista vengono meno, trascinando con sé la stabilità del contesto occupazionale e di qualsiasi appartenenza, compresa quella di classe. L’automazione dei processi produttivi basata sulle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la centralità della conoscenza nella produzione, l’affermazione dei beni immateriali, la progressiva segmentazione del mercato: queste alcune fra le trasformazioni che hanno modificato l’organizzazione del lavoro nel senso di una maggiore flessibilità, nella gestione dei compiti come nel passaggio da un’occupazione ad un’altra 

La transizione da un’etica del lavoro ad un’etica dell’edonismo (Bell, 1976; Featherstone, 1994, cap. II) sembra caratterizzare dunque l’attuale fase della globalizzazione:

 

L’uomo nuovo del ventunesimo secolo è profondamente diverso da coloro che lo hanno preceduto : si trova a suo agio trascorrendo parte della propria esistenza nei mondi virtuali del ciberspazio, ha familiarità con i meccanismi dell’economia delle reti, è meno interessato ad accumulare cose di quanto lo sia a vivere esperienze divertenti ed eccitanti […]3.

 

Per spiegare la prosa enfatizzante di J. Rifkin e di tanta recente letteratura, potremmo ricorrere ad una classica riflessione di A. Gorz:

 

[] i consumi compensatori, originariamente proposti ai lavoratori per far loro accettare la funzionalizzazione del lavoro, diventano lo scopo in vista del quale il lavoro funzionale viene cercato dai non – lavoratori: non si desiderano più i beni e i servizi di mercato in quanto compensazioni al lavoro funzionale; si desidera ottenere del lavoro funzionale per potersi pagare i consumi di mercato. La regolazione incentivante attraverso il consumismo raggiunge così un’efficacia che va oltre la sua funzione iniziale, e provoca un mutamento culturale4.

 

Se è difficile nutrire dubbi sulla profondità di tale cambiamento socio – culturale, appare lecito indagare la natura delle trasformazioni che ne sono alla base. L’atteggiamento prevalente verso il lavoro è ben riassunto dal pensiero di J. Rifkin, ma i rapporti sociali nel capitalismo odierno nonché le informazioni che ci provengono dalle statistiche economiche giustificano la percezione del complessivo ridimensionamento del ruolo del lavoro così come della sua dimensione ‘salariale’? E la crisi della consapevolezza di classe, sostituita da appartenenze più effimere, trova giustificazione nella presunta crescita esponenziale delle opportunità di mobilità sociale ascendente?5

È questo uno dei problemi più attuali per lo studio delle classi sociali: verificare quanto del mutamento culturale che attraversa le società avanzate sia fondato su solide basi e quanto sia frutto di effimere correnti d’opinione. Una risposta può giungere dalla comprensione delle trasformazioni del lavoro e, conseguentemente, dall’analisi delle dimensioni ulteriori che è necessario considerare nel definire l’appartenenza di classe degli individui che compongono una società. È infatti chiaro da molto tempo che la classica dicotomia marxiana tra una minoranza di capitalisti proprietari dei mezzi di produzione (capitale costante) e una maggioranza di lavoratori salariati possessori esclusivamente della propria forza – lavoro non è adatta da sola a rendere conto della struttura di classe delle attuali società avanzate. L’insufficienza analitica dimostrata nello studio delle classi medie, ad esempio, ne è una prova. Tuttavia, tale strumento non può essere interamente liquidato a favore di estemporanee concettualizzazioni culturologiche incapaci di spiegare un insieme di disuguaglianze sociali che sembrano accentuarsi piuttosto che restringersi. È forse opportuno, perciò, accennare ad alcune questioni di teoria delle classi sociali.

 

 

 

2. Insufficienze teoriche

 

Le interpretazioni della struttura di classe italiana, prevalenti nei primi decenni repubblicani, sono condizionate dalle medesime difficoltà che hanno impedito alla sociologia italiana di svilupparsi pienamente. La scarsa attenzione per l’attività di ricerca empirica è, al contempo, causa ed effetto della perdurante influenza filosofica idealistica e della conseguente propensione ad attribuire alla teoria una certa autosufficienza. L’ottica prevalente per lo studio delle classi è stata quella marxista, modellata su uno schema valido ma inevitabilmente datato:

 

‘[…] per classe sociale intendiamo un insieme di uomini che hanno la stessa parte nella produzione, che si trovano nel processo produttivo negli stessi rapporti con altri uomini, rapporti che si esprimono anche in cose (strumenti di lavoro). Da ciò deriva che, nel processo di distribuzione, ciò che accomuna ogni classe è la comune fonte di reddito, poiché la posizione nella ripartizione dei prodotti è determinata dalla posizione nella produzione […] Perciò i rapporti di produzione sono alla base della divisione della società in classi’5:

 

La ricerca e il dibattito sono stati influenzati da un determinismo economicistico che, riproducendo lo schema fondato sulla dicotomia borghesia – proletariato, non è riuscito, ad esempio, ad affrontare il tema delle classi medie. Questa lettura del concetto di classe è stata, nel contesto italiano dell’immediato dopoguerra, vieppiù ipostatizzata dalla convergenza di diversi fattori: tendenza al solipsismo teorico, diffidenza per la ricerca empirica, tendenziale isolamento culturale (Ferrarotti, 1992, cap. VIII). In ogni caso, al di là di qualsiasi contesto nazionale, il pensiero marxista non è riuscito a definire le innovazioni teoriche necessarie per interpretare lo sviluppo dell’economia dei servizi ed ha trascurato i contributi più interessanti di alcuni suoi autorevoli studiosi (Bottomore, 1970; Therborn, 1982; Wright, 1997). Il grande rilievo attribuito all’economia e, conseguentemente ma non necessariamente, l’approccio meccanico nell’articolazione del nesso ‘struttura – sovrastruttura’, costituiscono l’ostacolo principale per una ricerca che sappia spiegare le diverse esperienze individuali di mobilità o stabilità sociale e che sia in grado di interpretare la crescente influenza delle variabili socioculturali sulle classi. L’eccessiva attenzione della teoria marxista per la dicotomia lavoro salariato – capitale ha contribuito ad enfatizzare l’importanza dei rapporti di lavoro di tipo fordista, attenuando la sua capacità di ascolto verso i fenomeni caratteristici dell’accumulazione flessibile (postfordismo).

Non si creda, tuttavia, che l’impasse in cui si è imbattuto il marxismo non coinvolga anche approcci alla stratificazione sociale decisamente lontani dal materialismo storico.  La teoria funzionalista e liberale ha vissuto una crisi altrettanto forte: per essa, il singolo lavoro e il suo rilievo funzionale sono sempre stati al centro della stratificazione occupazionale, che non conosce il concetto di classe poiché esclude l’esistenza di disuguaglianze tali da accomunare in un unico destino individui appartenenti a contesti occupazionali disomogenei. Questa corrente sociologica ritiene che il sistema delle occupazioni sanzioni, per mezzo di un articolato riconoscimento retributivo e di status, la rilevanza funzionale dei diversi lavori svolti e assicuri, attraverso il sistema dell’educazione, l’eguaglianza delle opportunità di accesso alla gerarchia delle occupazioni (Davis e Moore, 1945; Blau e Duncan, 1967); tuttavia, la crisi economica degli anni ’70, con la conseguente disconnessione tra formazione dei cittadini e mercato del lavoro, ha posto in discussione questo modello integrativo dei diversi strati sociali. Benché la differenza tra il funzionalismo e l’analisi marxista sia profonda, la fine delle certezze economiche e sociali rappresentate dal fordismo ha prodotto il declino di entrambe le correnti. L’una e l’altra lettura dimostrano un’eccessiva propensione ad assolutizzare, positivamente oppure criticamente, alcuni tratti del capitalismo novecentesco e a  reificare così i propri assunti iniziali.

La crisi del modello di accumulazione fordista, a causa di un significativo cambiamento delle società avanzate, ha influito ovviamente sulla riflessione sociologica. In primo luogo, il welfare state è indicato da alcuni studiosi come una fonte di risorse e/o disuguaglianze non più dipendenti dal mercato del lavoro ma direttamente connesse a meccanismi di tipo politico. La garanzia di prestazioni sociali minime ma universali e la frequente traduzione normativa delle decisioni nate dalla contrattazione tra le parti sociali accrescono il numero dei soggetti dipendenti da decisioni di tipo politico (Offe, 1972; Habermas, 1984). In secondo luogo, le società avanzate assistono ad un drastico ridimensionamento del tempo destinato al lavoro e ad una crescita parallela della disponibilità di tempo libero. Per finire, l’emergente visibilità di disuguaglianze precedentemente sottovalutate, dal genere all’etnia fino alla zona di residenza, è frutto della tendenza alla frammentazione delle esperienze e dei contesti che caratterizza le società occidentali (Collins, 1984; Parkin, 1985; Luhman, 1982; Fearherstone, 1994; Beck, 2001): la pluralità dei mondi vitali, producendo una ‘ moltiplicazione dei caratteri che possono attivare le discriminazioni sociali positive o negative’6, ridimensiona qualsiasi teoria che interpreti le diseguaglianze in termini esclusivamente economici e pone in discussine la possibilità stessa di rintracciare un insieme concettuale capace di spiegare unitariamente la maggior parte delle differenze sociali e dei comportamenti che ne derivano.

L’insieme di queste osservazioni critiche contribuisce a svalutare il concetto stesso di classe sociale, associato ad un contesto prevalentemente segnato dal lavoro salariato di tipo fordista. Sebbene gli autori che si richiamano a queste interpretazioni della società differiscano sotto diversi aspetti, la scarsa considerazione per le relazioni sociali di produzione e per la loro influenza nella determinazione della posizione sociale degli individui è ciò che li accomuna. Molte delle argomentazioni sostenute sono condivisibili: è necessario comprendere se la loro efficacia sia tale da escludere irrimediabilmente il lavoro dalla riflessione relativa alla stratificazione sociale.

 

 

3. Una soluzione possibile?

 

L’equazione tra posizione sociale e collocazione occupazionale, da un lato, e tra appartenenza di classe e posizione nelle relazioni sociali di produzione, dall’altro, caratterizza, rispettivamente, una parte rilevante del funzionalismo e il marxismo ortodosso. Il regime dell’accumulazione flessibile e la globalizzazione sono fondati sulla trasformazione del lavoro ma non sulla sua scomparsa: tuttavia, l’opacità di tali mutamenti, le conseguenze culturali che da essi derivano insieme all’inadeguatezza delle teorie cui facevamo riferimento delineano un comune sentire che influenza la riflessione sulla stratificazione sociale: le risorse di potere su cui si basano le diseguaglianze appaiono nebulose e molteplici mentre la stessa possibilità di costruire concetti in grado di spiegare opportunità, destini e comportamenti dei diversi soggetti appare ardua.

Un insieme molteplice di processi, dall’espansione dell’economia dei servizi allo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione, assicura un ruolo di rilievo al sapere e alla conoscenza: le credenziali educative così come la formazione individuale divengono risorse fondamentali per la competizione individuale. D’altra parte, fenomeni altrettanto estesi, dalla separazione delle funzioni di proprietà e controllo all’interno dell’azienda fino ad una gestione di compiti e mansioni più flessibile e riflessiva (Dahrendorf, 1963; Accornero, 1994, cap. IX), sottolineano che la capacità decisionale sull’organizzazione del lavoro può diventare una significativa risorsa di potere. L’appartenenza di classe dei singoli individui, perciò, deve essere valutata anche in considerazione di tali variabili. Il lavoro rimane essenziale nelle società avanzate ma al suo interno si affermano aspetti un tempo secondari: il concetto di classe, nel passato grandemente influenzato dalla riflessione sui rapporti di proprietà, deve aprirsi a tali novità.

L’impianto analitico neoweberiano e le ricerche che da tale ambito provengono ci appaiono, teoricamente ed empiricamente, come la base da cui partire per adeguare l’analisi di classe alla realtà della società globale. In quest’ottica, la classe può essere definita come un insieme di persone unite da una posizione comune in relazione ai principali rapporti economici e sociali che caratterizzano storicamente le diverse società. La collocazione all’interno della stessa struttura di classe è determinata da una comune possibilità di accesso a beni e prestazioni che, a loro volta, impongono chances di vita simili per i singoli. Le risorse di dominio che discriminano l’inclusione di ogni soggetto in una classe sono quattro (capitale; forza-lavoro; credenziali formative; controllo organizzativo sulle mansioni) e il potere (o la sua mancanza) di disposizione su di esse può costituire indice efficace di tale appartenenza (Weber, 1980; Lockwood, 1958; Goldthorpe et al., 1980; Cobalti, Schizzerotto, 1994; De Nardis e Bevilacqua, 2001). La verifica della stabilità temporale dell’appartenenza di classe così come di eventuali fenomeni di mobilità sociale è affidata all’analisi di un campione di soggetti di cui si studiano la collocazione di classe della famiglia di origine, i passaggi intermedi e la posizione raggiunta al termine della vita. È possibile, così, rintracciare l’eventuale efficacia esplicativa sui destini individuali svolta dalla classe di appartenenza e confrontarla con altre variabili quali gli stili di vita o la zona di residenza, verificandone in prospettiva comparata la capacità euristica.

Il concetto di classe proposto dall’analisi neoweberiana ha due meriti. Anzitutto, dimostra come sia teoricamente ed empiricamente possibile studiare la struttura di classe delle società avanzate assumendo criticamente le novità imposte dalle trasformazioni del lavoro. In secondo luogo, esso dimostra un elevato grado di apertura e flessibilità: la sociologia delle classi neoweberiana non sostiene, infatti, che nuove variabili quali l’etnia o gli stili di vita non influiscano sulla vita delle persone ma afferma che tale influenza sia comparativamente minore rispetto a quella esercitata dall’appartenenza di classe e che, in ogni caso, ciò debba sempre essere verificato empiricamente (De Nardis e Bevilacqua, 2001, cap. V) .

 

 

4. Complessità globale

 

Le ricerche condotte ricorrendo ad una moderna teoria delle classi (Paci, 1993, cap. I; Cobalti e Schizzerotto, 1994; De Nardis e Bevilacqua, 2001) consentono di sottrarsi all’alternativa tra un’analisi della composizione sociale tutta imperniata sulle diseguaglianze derivanti dal lavoro ed una riflessione genericamente fondata sulle nuove dimensioni socioculturali della società globale. Al contrario, esse pongono le basi per una serena valutazione di tutti gli elementi che influenzano le chances di vita degli individui.

I mutamenti sociali e culturali di cui ci siamo occupati all’inizio di questo scritto sono un fenomeno incontestabile. Tuttavia, pur ritenendo che si fondi su processi sociali significativi non pensiamo che le sua dimensioni siano tali da cancellare il patrimonio teorico con cui la sociologia weberiana e quella marxista hanno guardato al lavoro e alle classi.

Certamente, gli episodi che illustrano quanto sia cambiata la società attuale rispetto a quella fordista sono molteplici e di grande effetto. Gli scenari postmoderni che oggi caratterizzano gli insediamenti di antica industrializzazione contribuiscono ad accentuare la sensazione di un cambiamento epocale7; l’arredamento urbano sembra riflettere la trasformazione produttiva mentre cinema e letteratura mettono in scena le conseguenze di questi mutamenti. La crescita dell’economia dei servizi e lo slancio dei consumi voluttuari si manifestano con un grande impatto sull’immaginario collettivo: simbolico il proliferare di parchi a tema innovativi quanto näif8. Se l’offerta rivolta al consumo di massa può essere di una certa originalità, non c’è dubbio che alcuni dispendiosi servizi alla persona colpiscano ancor di più: si veda l’esempio significativo degli ‘assistenti per una vita pulita’, figure impegnate nell’aiutare i vip dello star system holywoodiano a non cedere alle tentazioni della droga nel periodo contrattuale di recitazione9. Indubbiamente, tutto ciò è fortemente indicativo della nascita di molteplici figure professionali e contrattuali che procede parallela alla progressiva crisi del lavoro stabile e garantito. Anche ai livelli medi e bassi della scala occupazionale l’impiego diviene più flessibile e i mestieri si moltiplicano. È quindi possibile sostenere che il lavoro:

 

È sovente un’operazione una tantum, l’attività di un bricoleur, mirata a quanto è a portata di mano e a sua volta ispirata e limitata da quanto è a portata di mano, più il risultato di un’occasione presa al volo che il prodotto di un processo pianificato e programmato […] forse il termine <<arrabbattarsi>> è più adatto a caratterizzare la mutata natura del lavoro […]10

 

Tuttavia, per quanto sostenibile, questa tesi riflette una parte importante ma limitata della realtà; ed essa né elimina né sostituisce la perdurante capacità esplicativa di un rinnovato concetto di classe. Persino nei settori più avanzati delle nuove occupazioni terziarie è possibile rintracciare delle evidenti diseguaglianze stratificanti, in relazione a risorse ‘economiche’ quali il possesso dei mezzi di produzione oppure della forza lavoro. L’appartenenza di classe, ad esempio, ha determinato, più di altri fattori, la vita di quei lavoratori della <<net economy>> oggetto della legislazione sulla sicurezza voluta dall’amministrazione democratica del Presidente Clinton, la quale affronta il problema delle numerose patologie diffuse tra coloro che passano quotidianamente più di quattro ore al giorno davanti ad un computer11: le attività degli esperti informatici e della rete bene illustrano il caso in cui i summenzionati mutamenti culturali agiscono parallelamente a rilevanti diseguaglianze di classe.

Nella società post – industriale la maggioranza della popolazione è impiegata nel settore dei servizi, sia pubblici che privati: questa realtà è responsabile del declino degli insediamenti industriali fordisti ed è alla base di un modello di società che pone in discussione l’idea stessa di lavoro e propone valori e comportamenti diversi dal passato. Allo stesso tempo, è opportuno sottolineare come il comparto industriale occupi tuttora all’incirca un terzo della forza – lavoro delle società avanzate, il 32% in Italia12. Può essere utile, inoltre, ricordare che la gran parte delle occupazioni create negli ultimi anni non giustifica affatto la deduzione secondo la quale il lavoro abbia perso la sua centralità economica e temporale; ciò significa che una parte maggioritaria delle occupazioni create13, anche nel settore dei servizi, conserva aspetti riconducibili allo schema analitico della sociologia delle classi. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, è stato osservato che:

 

La classe operaia, che, alla fine degli anni sessanta, appariva relativamente omogenea, attorno alla figura centrale dell’<<operaio – massa>>, è oggi più articolata al suo interno, ma meno separata dal resto del lavoro dipendente […] Nello stesso tempo si può riconoscere, per molti aspetti, una tendenza all’unificazione sociale del lavoro dipendente, operaio e impiegatizio14

 

Di fronte a generalizzazioni scarsamente fondate oppure di fronte a dogmatismi poco adatti alla discussione scientifica è opportuno avviare un’attività di ricerca che sappia affrontare il tema della trasformazione del lavoro nella società globale e le sue conseguenze per la formazione delle classi sociali. Essa, inoltre, è sollecitata dalla consapevolezza di muoversi nel solco di una fra le più ardite aspirazioni sociologiche: provare ad affrontare temi macrosociologici di carattere generale non esimendosi dalla contemporanea validazione empirica delle ipotesi avanzate.

 

 

 

 

NOTE

 

 

1 R. Sennet, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 13 – 14.

2 <<I soldi? Sol un dettaglio. Il doppio lavoro fa moda>>, in La Repubblica, 22/04/2002, p. 24.

3 J. Rifkin, L’era dell’accesso, Milano, Mondadori, 2000, p. 249.

4 A. Gorz, Metamorfosi del lavoro, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 58.

5 Per una risposta attuale ma decisamente scettica a questa domanda si può consultare M. Pisati, La mobilità sociale, Bologna, Il Mulino, 2000.

5 N. I. Bucharin, Teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista, Firenze, La Nuova Italia, 1977, pp. 307 – 308.

6 A. Cobalti, A. Schizzerotto, La mobilità sociale in Italia, Bologna, IL Mulino, 1994, p. 26.

7 Esemplificativa di questo fenomeno è l’area di Sesto San Giovanni, importante insediamento industriale  milanese. Si veda in proposito <<Sesto.com, dagli altiforni alla rete>>, Il Manifesto, 27/01/2001, p. 2.

8 Sebbene i parchi a tema siano caratteristici degli Stati Uniti, è dall’est europeo che provengono le iniziative più controverse degli ultimi anni: dal Grutas Park, fatto costruire da un industriale lituano per mostrare gli <<orrori>> del comunismo, al Dracula Park rumeno, ideato per attirare turisti sensibili al fascino gotico della Transilvania (<<Lituania, benvenuti nella Disneyland anticomunista>>, Il Corriere della Sera, 18/06/2001, p. 13; <<Dracula Park? Some Romanians shudder>>, Internazional Herald Tribune, 30-31/03/2002, p. 1).

9 <<Hollywood inventa i ‘baby sitter’ per i divi alcolizzati e drogati>>, La Repubblica, 08/04/2002, p. 36.

10 Z. Bauman, Modernità liquida, Bari, Laterza, 2002, p. 159.

11 <<Mai al computer per più di 4 ore. Rivoluzione negli uffici USA>>, La Repubblica, 15/11/2000, p. 39. Si veda anche B., Lenard, S., Baldwin, Netslaves, Roma, Fazi Editore, 2001.

12 P., Sylos, Labini, La crisi italiana, Laterza, Bari, 1995, p. 22.

13 Per quanto riguarda, ad esempio, gli operi generici italiani ‘[…] i dati ISTAT dicono che essi sono in aumento da parecchi anni […] facendo riferimento agli avviamenti al lavoro, si constata infatti che gli operi generici erano 1648000 nel 1994 e sono saliti a 2035000 nel 1999 […] Per contro, nello stesso periodo gli operi qualificati avviati al lavoro sono aumentati di appena 49000 unità, passando da 1267000 nel 1994 a 1316000 nel 1999’ (L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Bari, Laterza, 2001).

14 M. Paci, I mutamenti della stratificazione sociale in AAVV, Storia dell’Italia repubblicana, Torino, Einaudi, 1995, vol. VIII, pp. 700 - 701

 

  

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

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