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SAGGI

 

Disuguaglianze globali*

 di Luciano Gallino

 

 

 

L’ingaggio annuale di Michael Jordan equivale a 7.000 anni di salario del ragazzo

 che in Indonesia cuce le sue scarpe da basket. Alti dirigenti della Walt Disney hanno un

 reddito di 1.000 $ l’ora, mentre la ragazzina che ad Haiti cuce i costumi di Pocahontas riceve

11 centesimi di dollaro l’ora. Il  divario tra i due redditi orari è di  9.000 volte.

(da un rapporto di inequality.org)

 

 

“Quando si arriva al punto in cui la metà del mondo guarda alla TV l’altra metà

 che muore di fame, la civiltà è giunta alla fine.”

(Un ex-presidente della Banca Mondiale)

 

Il livello di disuguaglianza a livello mondiale è grottesco.

Nazioni Unite, Human Development Report 2002, p. 19

 

 

1.      Per quali motivi interessarsi alle disuguaglianze globali

 

“In tutte le città vi sono tre parti: i ricchissimi, i poverissimi e quelli che stanno in mezzo tra gli uni e gli altri. Poiché si ammette che la misura e la medietà sono sempre la cosa migliore, è chiaro che un possesso medio di ricchezze è la condizione migliore di ogni altra, poiché in essa è più facile obbedire alla ragione.” Una volta che sia corredato di alcune note, da questo passo della Politica di Aristotele si evincono vari  motivi per interessarsi alle disuguaglianze del mondo contemporaneo. Anzitutto, a livello mondiale, la ricchezza dei ricchissimi non è mai stata così smisurata, mentre i poverissimi non sono mai stati così numerosi. Nel contempo quelli che stanno in mezzo – che formano il 60% della popolazione mondiale - vedono assottigliarsi paurosamente la loro quota di risorse economiche: da quasi il 40% nel 1990 a poco più del 10% alla fine del decennio. Un simile ordine  mondiale non può esser definito giusto, per due ragioni concomitanti: perché la quasi totalità dello strato inferiore e gran parte dello strato soprastante non dispongono dei beni primari che sono necessari per poter esercitare efficacemente i diritti fondamentali alla libertà e al benessere; poi perché simile deprivazione può essere ricondotta precisamente all’esistenza di fortissime disuguaglianze.

Sono motivi etici di quest’ordine che suggeriscono di dedicare una certa attenzione alle disuguaglianze globali. Ma non sono i soli.

Vi sono motivi politici: le forti disuguaglianze sono di per sé causa di, o concorrono a causare, gravi patologie sociali: forti tensioni collettive, instabilità politica, conflitti armati, iper-urbanizzazione, violenza endemica, criminalità diffusa, flussi migratori di popolazioni disperate. Le interdipendenze generate dalla globalizzazione fanno sì che ciascuno di questi processi, ovunque abbia origine, ci tocchi da vicino entro brevissimo tempo.

Vi sono motivi economici: entro un dato paese, l’esistenza di forti disuguaglianze  tra strati e classi sociali incide negativamente sia sul tasso che sulla stabilità dello sviluppo economico.

Né mancano i motivi ecologici per interessarsi alle disuguaglianze globali. Accade infatti che il permanere e l’accrescersi  delle disuguaglianze nel mondo  non favoriscono uno sviluppo  che sia  ecologicamente sostenibile. Le concentrazioni di ricchezze, al pari della povertà estrema, generano modalità di comportamento ecologicamente irresponsabili. 

 

 

2. La globalizzazione: una definizione stipulativa

 

Della globalizzazione sono state date decine di definizioni, spesso contrastanti. Nemmeno le definizioni più articolate pervengono a coglierne tutti gli aspetti , o anche solo la maggior parte di essi. Converrà quindi iniziare con una definizione sommaria. Propongo di chiamare “globalizzazione” l’accelerazione e l’intensificazione, particolarmente evidenti a partire dagli anni ’80 del Novecento,  del processo di  formazione, iniziato secoli addietro, d’una  economia mondiale – un’economia-mondo - che ora si sta configurando come un unico sistema funzionante in tempo reale. Al presente tale sistema non copre affatto tutto il globo. Inoltre è assai dubbio che pervenga a farlo entro il futuro prevedibile – 50 o 100 anni. 

 

 

3.   Ragioni  preliminari per porre in rapporto disuguaglianze e  globalizzazione

 

Una caratteristica della globalizzazione come sopra definita è la sua elevata correlazione con la permanenza e in molti casi l’aumento di varie forme di disuguaglianza. La presenza di una correlazione tra x e y non implica in tutti i casi l’esistenza di  un rapporto causale.

Per arrivare a comprendere tale correlazione occorre notare subito che la globalizzazione così intesa e periodizzata è il prodotto di una determinata politica economica, affermatasi in gran parte del mondo. I suoi cardini sono: gli aggiustamenti strutturali dei bilanci pubblici; la liberalizzazione dei movimenti di capitale; la de-regolamentazione del mercato del lavoro; le privatizzazioni; la riduzione in tutti i campi (sanità, previdenza, istruzione) dell’intervento e delle dimensioni dell’apparato pubblico. Una politica economica differente avrebbe presumibilmente generato, o concorso a generare, un diverso processo di globalizzazione, e forse disuguaglianze  minori rispetto a quelle che attualmente si osservano. Peraltro in merito ai rapporti tra globalizzazione e disuguaglianze sono state formulate ipotesi di vario segno. Le principali di esse saranno discusse più avanti.

Le disuguaglianze per le quali si dispone delle più attendibili ed estese basi di dati, a livello mondiale, internazionale (inter-paesi) e intra-nazionale (intra-paese), sono le disuguaglianze economiche, e tra di esse  quelle di reddito. Ma nessuna analisi di tale fenomeno dovrebbe  trascurare   le disuguaglianze di speranza di vita; di istruzione; di accesso all’informazione tramite le TIC. E’ vero che le disuguaglianze economiche sono sovente un efficace predittore delle disuguaglianze d’altra forma. Tuttavia va sottolineato come in parecchi casi la misura delle  disuguaglianze economiche mascheri o alteri la valutazione di queste ultime. Alle seconde sono dedicate apposite sezioni di questo lavoro, sebbene le prime siano, per la cennata ragione, più ampiamente trattate.

 

 

4. Disuguaglianze economiche: questioni di metodo

 

Parlare di disuguaglianze significa far riferimento alla distribuzione di risorse primarie entro una popolazione. Una risorsa primaria è ovviamente il reddito. Una misura ampiamente utilizzata delle disuguaglianze di reddito (ma anche di ricchezza) è il coefficiente di Gini.

E’ d’uopo notare che le  misure del reddito sono suscettibili di variazioni anche rilevanti a seconda che si misurino in ragione dei termini di scambio correnti tra le monete di differenti paesi, oppure in  termini di Parità di Potere d’Acquisto (PPA). Esse variano pure in funzione del criterio utilizzato per definire il reddito stesso (pre-imposta, post-imposta, inclusivo o no dell’assistenza pubblica ecc.). Inoltre, se anziché il reddito familiare si misura il reddito individuale, lo scarto tra il primo  quintile e l’ultimo in parecchi casi diminuisce, poiché le famiglie incluse nel quintile più povero sono meno numerose.   Nondimeno, quale che sia il criterio di misura adottato, la tendenza osservata in detto periodo, così come l’ordine di grandezza delle disuguaglianze, rimangono inequivocabili.[1]

Le disuguaglianze economiche si osservano a livello mondiale tra strati di popolazione che attraversano differenti paesi; a livello internazionale – cioè tra un paese e l’altro assunti come unità; e a livello intra-nazionale, misurando  all’interno di un singolo paese le distanze tra uno strato e l’altro della sua popolazione.

Discutere criticamente di disuguaglianze economiche non significa auspicare una società in cui ciascuno detiene esattamente una uguale quota di risorse. Per intanto va osservato che nella storia non sono mai esistite società in cui non si osservassero disuguaglianze di reddito o di ricchezza più o meno grandi. In termini tecnici, non si è mai vista nessuna società dove il coefficiente di Gini fosse uguale a 0, valore che sta ad indicare che ogni famiglia riceve esattamente lo stesso ammontare di reddito di tutte le altre. In secondo luogo non è detto che una società così formata rappresenti un ordine sociale giusto,  perché una certa disuguaglianza di reddito può riflettere equamente le diversità di talento o di impegno, l’amore preferenziale per il lavoro oppure per il tempo libero, l’investimento maggiore o minore fatto negli studi. Ma oggi agiamo in presenza di dati i quali sembrano prefigurare  società che si stanno avviando verso un coefficiente di Gini uguale a 1, che si ha quando una sola famiglia dispone di tutto il reddito nazionale.  Chi consideri questa una battuta un po’ forzata dovrebbe riflettere su un dato del Rapporto 1999 delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Umano: i primi tre (3) miliardari (in dollari) nella classifica della ricchezza mondiale posseggono ricchezze maggiori della somma del Pil di tutti i paesi meno sviluppati e dei loro 600 milioni di abitanti.

 

 

5. Disuguaglianze economiche: alcune cifre

 

5.1 Le disuguaglianze a livello mondiale

 

A livello mondiale,  il 20% più ricco della popolazione, 1,2 miliardi  di individui facenti parte  abbastanza compattamente della popolazione dell’America del Nord, dell’Unione Europea, del Giappone e di pochi altri paesi anglosassoni come l'Australia e la  Nuova  Zelanda, disponeva nel 1997 di un reddito  74 volte superiore a quello del 20%  più povero.[2]   Meno di 10 anni prima, nel 1990, il rapporto tra  i  due  quintili estremi  era di 60  a 1.  Il rapporto 1:74 deriva dal fatto che il 20% più ricco disponeva dell’86% del Pil del mondo, il 20%  più povero solamente dell’1,15%.

 

5.2 Le disuguaglianze economiche tra i paesi

 

A livello internazionale, tra paese e paese,  le disuguaglianze tra ricchi e poveri appaiono non meno profonde.  Nel 1999 il 10% più ricco dei paesi  aveva un reddito pro-capite mediano (quello che divide  una popolazione esattamente in due parti) che superava di 122 volte quello del 10% più povero. Nel 1980, l’anno in cui si suole collocare il decollo dell’attuale fase di globalizzazione, l’analogo rapporto era assai minore, sebbene già macroscopico: 77:1.

 

5.3 Le disuguaglianze interne ai singoli paesi

 

Per quanto riguarda i singoli paesi, si osservano tre situazioni differenti. Nei paesi in cui  esistono da generazioni forti disuguaglianze  di reddito,  non si è  verificato  negli  anni ‘90  alcun miglioramento significativo. Si tratta in pratica di quasi tutti i paesi dell'America latina.  In 10 di essi, secondo una ricerca del Luxemburg Income Study, la disuguaglianza è anzi aumentata tra i primi nove decili della popolazione.

D’altra parte, in molti paesi contrassegnati in precedenza    da  disuguaglianze di reddito  interne assai contenute si sono  osservati,  dopo il 1990, incrementi  ragguardevoli degli indici di disuguaglianza.  Questo  gruppo  di paesi  comprende  società  assai diverse tra loro,  quali la Russia e la Polonia,   uscite dall’egualitarismo  forzato del socialismo reale;  la Cina, che imprimendo una formidabile accelerazione allo sviluppo delle zone costiere aperte al capitalismo occidentale ha scavato un abisso tra i redditi delle metropoli e le campagne dell’interno;  il  Giappone, che al fine di uscire dalla crisi che attraversa da oltre un decennio sta intenzionalmente abbandonando la tradizione di   relativo egualitarismo dei redditi  che lo distingueva;   la  Norvegia,  che ha  rinunciato ad alcuni principi dei governi socialdemocratici che avevano fatto di essa uno dei campioni dello stato sociale.

Viene poi un gruppo di  paesi sviluppati, nei quali le disuguaglianze di reddito sono cresciute in misura eccezionale dopo il 1980. In cima all’elenco si trovano  i   paesi  anglosassoni, leader  del progetto politico ed economico denominato globalizzazione. In primo piano sono qui gli Usa ed il  Regno Unito (seguono Australia e Nuova Zelanda). Nel Regno Unito il coefficiente di Gini, che misura la disuguaglianza della distribuzione dei redditi (più è alto, maggiore la disuguaglianza) ha fatto registrare il più spettacolare incremento di tutti i paesi Ocse. Per gli Usa si stima che quasi tutti i benefici dello sviluppo economico degli anni ‘90 siano andati al 5% più ricco delle famiglie. Secondo dati riportati dal Scientific American (giugno 1999), tra il 1967 e il 1997 il reddito medio dei primi quattro quintili delle famiglie americane (più precisamente households) è salito in termini reali di poche migliaia di dollari: si tratta infatti di 2.000 $ per il primo (da 7 a 9.000 $), pure di 2.000 per il secondo (da 20 a 22.000 $), di 6.000 $ per il terzo (da 31 a 37.000 $), e di 12.000 per il quarto (da 44 a 58.000 $).

Il quinto superiore, ovvero il top 20% delle famiglie quanto a reddito, è salito invece da 79.000 a 123.000 $, di modo che il suo distacco dal quintile più povero, che era di 72.000 $ nel ’67, è salito nel ’97 a 114.000 $. Questa prestazione appare però modesta a paragone del top 5% delle famiglie (estratte dal top 20%): esse sono infatti balzate da 126.000 a 215.000 $ di reddito l’anno.

 Un altro indice di accresciuta disuguaglianza sono  i salari settimanali dei lavoratori dipendenti comparati con  le retribuzioni dei Chief Executive Officers (CEOs). I primi risultano diminuiti del 12% in termini reali tra il 1973 e il 1998. I secondi sono aumentati del 535% negli anni ’90 in moneta corrente, pari a circa il 450% in moneta costante. Il rapporto tra lo stipendio degli alti dirigenti  e il salario medio è così salito, secondo calcoli dello “Executive PayWatch”, un osservatorio del sindacato AFL-CIO, peraltro  considerati attendibili  anche da Business Week e dall’Economist,  da 42 a 1 nel 1980 a 475 a 1 nel 1999, ed a 531 a 1 nel 2000.

Con un coefficiente di Gini di 0,457, gli Usa avevano nel 1999 una distribuzione del reddito più diseguale di molti paesi poveri, quali il Bangladesh, l’Egitto, il Ghana e il Pakistan.  Nei paesi dell’UE, in Giappone, Canada, Corea del Sud, il coefficiente di Gini varia – con l’eccezione del Regno Unito – tra 0,250 e 0,350.

Per quanto riguarda l’Italia, facendo riferimento al reddito familiare disponibile per decili di famiglie, il relativo indice di Gini mostra una sensibile riduzione delle disuguaglianze tra il 1987 e il 1991, e un forte aumento delle medesime negli anni successivi sino al 1998 (ultimo dato disponibile). L’indice scende infatti da 0,309 nel 1987 a 0,270 nel 1991, ma nel 1998 esso tocca quota 0,343, che equivale  ad un aumento del 27%. Nel 1995 l’Italia faceva registrare  insieme con il Regno Unito la peggiore prestazione nella scala degli indici di disuguaglianza dei paesi Ue, con un indice di Gini pressocchè identico (0,315 contro 0,316).[3]

Altri segni dell’aumento delle disuguaglianze di reddito in Italia sono da vedersi nella crescita della quota di  popolazione avente un reddito inferiore del 50% alla linea della povertà (che vede una famiglia di due persone spartirsi un reddito pari o inferiore al Pil medio pro capite). Tale quota era del 5,5% nel 1986, ed è salita al 9,4% nel 1995. Ancora più marcato è l’aumento della quota di bambini (< 14 anni) con un reddito  inferiore del 50% alla linea della povertà. Secondo l’equipe del Luxemburg Income Study, essa era dell’11,4% nel 1986, mentre nel 1995 si presentava quasi raddoppiata

Più disuguale è diventata la ripartizione tra redditi da lavoro e redditi da impresa. Da oltre un decennio in Italia, come nei principali paesi Ue,  la quota  dei redditi da lavoro  è andata fortemente riducendosi. “In particolare – si legge in un approfondito studio dell’Università di Pavia – nell’industria privata la quota dei redditi da lavoro è  tendenzialmente diminuita per tutti gli anni ’90, ad eccezione del periodo immediatamente successivo alla svalutazione del ’92. … Come riflesso di questi mutamenti, e in particolare di una dinamica più accentuata del reddito nazionale rispetto a quella del reddito percepito dal settore famiglie /in altre parole il Pil è cresciuto più dei redditi familiari/, si verifica una significativa riduzione della quota di reddito (nazionale lordo disponibile) percepita dalle famiglie consumatrici /che scende/ (dal 78,9% del 1991 al 71,6% del 1997) ed un corrispondente aumento della quota percepita dalle imprese individuali e dalle società… (la cui quota cresce dal 5,7% del 1991 al 7,4% del 1997).”[4]

Sempre negli anni ’90, i divari salariali territoriali si sono notevolmente ampliati. La differenza percentuale tra le retribuzioni nette percepite al Centro-Nord e al Sud è aumentata dal 2% al 15%. Anche la crescita del numero dei lavoratori a bassa retribuzione risulta più accentuata nel Mezzogiorno che nelle regioni del Centro-Nord. La quota di occupati che percepiscono bassi salari era nel 2000 del 28% nel primo e del 14% nelle seconde. Agli inizi degli anni ’90 era dell’8% in ambedue le ripartizioni geografiche.

 

 

6. Al fondo  delle disuguaglianze economiche: la povertà estrema

 

Nel mondo larghe fasce di popolazione vivono o sopravvivono in condizioni di “povertà estrema”, predicato che sta ad indicare che i loro consumi sono al di sotto del limite di sussistenza. Con un’espressione forte per un’organizzazione internazionale, la Banca Mondiale – cui si devono tutti i dati sotto riportati - parla al riguardo di “povertà abbietta”. La popolazione che forma il quintile inferiore nella scala dei redditi, 1,2 miliardi di persone, nel 1998 disponeva per vivere di meno di 1 dollaro al giorno (in dollari 1993 e misure dei consumi in PPA). La popolazione che viveva con meno di 2 dollari al giorno ammontava, sempre nel 1998, a 2,8 miliardi di persone, equivalente al 45% della popolazione mondiale. In proporzione, sul totale della popolazione mondiale sia la quota dei poveri da $1/giorno sia la quota dei poveri da $2/giorno sono leggermente diminuite tra il 1987 e il 1998, rispettivamente dal 28 al 23%, e dal 50 al 45%. Ma poiché la popolazione è aumentata, il numero assoluto dei poveri da $1/giorno è rimasto pressochè costante. Erano  1,17 miliardi nel 1998,  e 1,18 miliardi nel 1987. Da parte loro, stando ai dati del World Bank Group diffusi nel 2001, i poveri da $2/giorno sono cresciuti nello stesso periodo di ben 260 milioni, da 2,55 miliardi a 2,8 miliardi. La globalizzazione non sembra recare particolari benefici a chi vive in condizioni di povertà estrema.

 

 

7. Disuguaglianze di  speranza di vita e di mortalità infantile

 

Al presente, secondo dati del 2001, vi sono 49 paesi designati dalle Nazioni Unite “paesi a sviluppo minimo” (Least Developed Countries, LCDs). Il criterio base per venire inclusi in tale gruppo è un Pil pro-capite inferiore a 900 dollari l’anno. In più della metà dei LDCs,  27 su 49, la speranza di vita alla nascita del sesso modalmente più longevo, la femmina, è inferiore a 55 anni. Quella dei maschi è di 2-4 anni più bassa. Tra questi  27 paesi ve ne sono 16, comprendenti paesi popolosi come l’Etiopia (64 milioni di abitanti nel 2000) e l’Uganda (23,4 milioni), nei quali la speranza di vita delle femmine è inferiore ai 50 anni. Infine vi sono 4 LDCs (Angola, Malawi, Mozambico, Zambia) in cui essa scende a meno di 40 anni.

All’estremo opposto, troviamo che sui 22 paesi “a sviluppo massimo” che formavano l’Ocse prima della recente inclusione di paesi meno avanzati come il Messico e la Turchia, ben 18 facevano registrare una speranza di vita delle femmine superiore agli 80 anni. Uniche eccezioni, sia pure per un difetto di pochi mesi, la Danimarca, l’Irlanda, il Regno Unito e gli Usa.  Le giovani donne dei paesi più sviluppati possono quindi sperare fondatamente di vivere una vita che può esser lunga da 1,5 a oltre 2 volte quella delle donne dei LDCs.

In questo quadro i  dati positivi non  sono del tutto assenti, in specie sul lungo termine. Si può notare in effetti che  la speranza di vita  nei paesi in sviluppo (PVS) è aumentata in media da 55 anni nel 1970 a 65 anni nel 1997.   Tuttavia la disuguaglianza rispetto ai  paesi Ocse è rimasta quasi immutata. Era  di 14 anni nel 1970 (55 a 71), e di oltre 13 nel 1997 (65 a 78).  Accade inoltre  che le tendenze positive talora si invertano. A partire dal 1990, 38 paesi hanno conosciuto un declino della speranza di vita. Ben 12 di essi hanno perso da 5 anni (Tanzania) a 17 anni (Botswana) di speranza di vita, in specie a causa delle epidemie di Aids e di tubercolosi.[5]

Il tasso di mortalità infantile su 1.000 nati vivi è pari o inferiore a 5,0 in Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Hong Kong, Islanda, Lussemburgo, Olanda, Singapore, Svezia, Svizzera. L’Italia è poco al disopra di tale valore, con il 5,5 per 1000. In altri 23 paesi esso varia dal 100 al 200 per 1000, ossia è da 20 a 40 volte più elevato. Si va dal Benin e dall’Uganda, che sono di appena 2-4 punti sotto il 100 per 1000, al 125-150 per 1000 di Afghanistan, Guinea, Liberia, Mali, Mozambico, Niger, Sierra Leone, Sahara Occidentale, al 197,8 per 1000 dell’Angola.[6]

Anche in questo caso le disuguaglianze internazionali appaiono diminuire notevolmente in termini assoluti, ma approfondirsi in termini relativi. Nel 1970 il tasso medio di mortalità infantile nei PVS era pari a 107 per 1000; nei paesi Ocse era a quota 20. Nel 1999 l’analogo tasso  era sceso a 59 nei PVS, e a 6 nei paesi Ocse. Ciò significa che il rapporto tra i due tassi, PVS/Ocse, che misura quante volte è più alta la mortalità infantile nei primi a paragone dei secondi, si è più che raddoppiato, passando da 4,3:1 a 8,8:1.

 

 

8. Disuguaglianze di istruzione

 

Nel 2000, il tasso di alfabetizzazione – il livello 1 dell’istruzione, che si raggiunge in generale con il completamento della scuola primaria verso gli 11 anni – era del 99% nei paesi dell’UE, in quelli dell’Europa centro-orientale, nel Nord-America, in Russia e negli altri  paesi della ex-Unione Sovietica.[7] Ma era poco più del 60% nell’insieme dell’Africa sub-sahariana, del 56% nell’Asia meridionale, e del 51% nei LDC, i “paesi meno sviluppati” di cui abbiamo gà parlato.  Lo scarto tra il primo gruppo di paesi e il secondo risulta molto più elevato se invece dell’alfabetizzazione si fa riferimento all’istruzione secondaria e superiore.

Sebbene la rilevazione dei dati per sostanziarli sia in molti casi ardua, esistono diversi indici per valutare le  disuguaglianze di istruzione inter-paesi e intra-paese. Tra i principali:

·        Le disparità di  accesso ai diversi gradi di scuola e di raggiungimento dei relativi diplomi che si osserva: tra i generi; tra città e campagna; tra regioni di uno stesso paese; tra strati sociali, definiti principalmente in base al reddito.  Ad esempio, la percentuale di studenti che ottengono un diploma universitario di primo grado (biennale o triennale) in rapporto al livello  di reddito dei genitori.

·        L’indice di “speranza di vita scolastica” (School Life Expectancy - SLE). Esso misura gli anni di istruzione formale (ovvero di anni di scuola completati con il passaggio all’anno successivo) che gli abitanti di un dato paese possono attendersi a partire dall’età media di ingresso nella scuola pre-primaria, che quasi ovunque è 3 anni. La SLE è di 5-6 anni, in media, nell’Africa sub-sahariana. In diversi paesi del gruppo LCD, quali Burkina Faso, Mali, Niger, Mozambico, essa è inferiore a 3 anni. Nel Bangladesh, a riprova che entro ogni forma di disuguaglianza se ne ritrovano spesso altre, a cominciare da quella di genere, la SLE è di 6 anni per i maschi, ma scende a 1,5 anni per le femmine.[8]

·        L’indice di “prestazione educativa” (Education Performance Index - EPI) che combina: il tasso netto di iscrizione a scuola dei bambini in età 6-11 anni; l’equità di genere nel tasso predetto; il tasso di compimento scolastico (quota di scolari che superano il quarto anno di scuola, inteso come livello e non come frequenza). Lo EPI misura in sostanza il deficit rispetto a un punteggio ideale di 100, che si ottiene con un tasso di 100% di iscrizione e di compimento, e 0 con una perfetta parità di genere. In questo momento, sebbene in molti paesi sia difficile rilevare i dati che vanno a comporre l’EPI, e compararli in modo corretto con altri, varie ONG che si occupano di istruzione stimano che vi siano al mondo oltre 200 milioni di bambini la cui probabilità di accedere e completare la scuola primaria è prossima allo zero.

Le disuguaglianze di istruzione inter-paesi ed intra-paesi sono dovute a diversi fattori, non solo economici. In molti paesi dell’Africa, del Medio Oriente, del Sud-est asiatico, gli indici SLE ed EPI delle femmine sono assai inferiori a quelli dei maschi a causa delle discriminazioni di carattere  culturale e religioso che colpiscono le prime. Tuttavia il peso dei fattori economici rimane rilevantissimo, in specie nei confronti tra paesi. Nel 2000 la spesa pro capite per allievo delle primarie era di 5.130 dollari in Usa, contro i 12 dollari di Nepal e India. Il Canada spende 5.038 dollari (Usa $) per ciascuno studente delle scuole medie e superiori; il Pakistan, 8 dollari.[9]

 

9. Disuguaglianze nell’accesso alle TIC e alla Rete

 

Si stima che agli inizi del 2002 gli utenti di Internet abbiano superato nel mondo  i 550 milioni. Questa popolazione di internauti appare distribuita tra i diversi paesi, ed entro ciascun paese, in modo fortemente disuguale. Con 165 milioni di utenti l’Europa (inclusa l’Europa orientale) sorpassa di 41 volte l’Africa, che arriva a malapena a 4 milioni, pur avendo una popolazione maggiore  (oltre 800 milioni contro 730). L’America del Nord, con 310 milioni di abitanti, conta più di 200 milioni di utenti; mentre nell’America centrale e meridionale, che ha 200 milioni di abitanti  in più, gli internauti son quasi 10 volte di meno, superando di poco i  21 milioni. Nei 30 paesi dell’Ocse, che hanno meno d’un quinto della popolazione mondiale,  sono collocati il 95 % degli hosts (computers connessi  a Internet con un proprio indirizzo stabile) esistenti al mondo. In Asia l’India, popolata da 1,1 miliardi di persone, benchè sia nota per i suoi successi nell’ingegneria del software,  conta soltanto 5,2 milioni di utenti Internet, cioè un sesto rispetto alla Cina (che ha una popolazione di poco superiore, 1,3 miliardi), e un undicesimo rispetto al Giappone, che di abitanti ne ha soltanto 127 milioni.

 Non minore, in proporzione, è l’entità delle disuguaglianze intra-nazionali. In ciascun paese dove si fanno appropriate rilevazioni, il tasso di diffusione di Internet appare in generale fortemente correlato al livello di reddito, di istruzione, di qualificazione professionale; nonché al gruppo etnico, all’età, e tuttora, in molti paesi, al genere. Nella UE come in Usa il medio  utente Internet è bianco, sui 35-40 anni, provvisto di diploma o laurea, e un reddito annuo superiore ai 30.000 euro o altrettanti dollari. (UE e Usa, va detto, sono anche le uniche parti del mondo in cui il genere non discrimina più tra utenti e non utenti di Internet). In diversi paesi del Centro Africa, tra l’87 e il  98% degli utenti sono maschi con un titolo di studio superiore. Nel Medio Oriente le donne costituiscono meno del 5% degli utenti  Internet. Anche le condizioni psico-fisiche della persona incidono: tra i disabili gli internauti sono mediamente 4 volte di meno che non tra gli abili, a parità di altri fattori socio-economici.

A simili disuguaglianze internazionali e nazionali nella diffusione di Internet  ci si riferisce da qualche anno con l’espressione “frattura digitale” (ingl. digital divide, fr. fracture numérique, ted. digitale Kluft).

 

 

10. Rapporti tra globalizzazione e disuguaglianze: alcune ipotesi

 

 Posto che è difficile negare l’esistenza,  in generale, d’una elevata correlazione tra la globalizzazione e il permanere, oppure l’aumento, delle principali  forme di disuguaglianza,  varie ipotesi sono state formulate: alcune per spiegarla, altre per giustificarla.

L’ipotesi più generica afferma: è colpa del capitalismo, o della sua attuale fase di sviluppo. Si può essere d’accordo, ma  tale ipotesi presenta un grave inconveniente,  si potrebbe dire con Popper: è impossibile  confutarla. Inoltre, per la sua genericità, chiude di fatto la porta a ogni tipo di azione.

Altre sono più specifiche, nonchè suscettibili di confutazione. Vediamone alcune.

·        Ipotesi n° 1:  l’aumento delle disuguaglianze   è imputabile non già all’inclusione, bensì all’esclusione d’un paese o di una regione dal circuito della  globalizzazione.

·        Ipotesi n° 2 (che a ben vedere è una variante della 1):   Le disuguaglianze sono prodotte da forti differenze dei tassi di crescita tra le regioni di uno stesso paese, riconducibili alla concentrazione degli investimenti in certe regioni a scapito di altre che si accompagna alla globalizzazione.

·        Ipotesi n° 3: determinati paesi non traggono  dal processo di globalizzazione le  spinte pur in esso insite verso una maggiore uguaglianza di reddito perché le loro strutture sociali, economiche e politiche  sono inidonee ad accoglierle, oppure perché hanno commesso gravi errori di politica economica.

·        Ipotesi n° 4: l’aumento  delle disuguaglianze, ancorchè appaia  eccessivo, è il prezzo da pagare ad una crescita economica accelerata, quale è stata indotta in molti paesi dal processo di globalizzazione. Dopo un certo periodo, anche gli strati sociali inizialmente svantaggiati dalla crescita ne trarranno beneficio.

·        Tra le diverse ipotesi giustificatorie troviamo quella (no. 5) la quale afferma che sebbene il numero dei poveri sia rimasto immutato, i poveri del 2000 sono comunque meno poveri dei poveri del 1980; ergo la globalizzazione ha giovato anche a loro. 

L’ipotesi che le accresciute disuguaglianze economiche  siano dovute all’esclusione di un paese o d’una regione  dai processi di globalizzazione (ipotesi n° 1) richiede una replica articolata. Per un verso l’ipotesi è contraddetta dal constatare che, ad esempio,  l’Africa sub-sahariana, la cui popolazione si colloca in gran parte  nel quintile più basso della scala della povertà, esporta nel resto del mondo circa il 30% del suo prodotto interno lordo,  mentre i paesi dell'Unione Europea   arrivano appena al 15%, e l'insieme dei paesi Ocse soltanto al 19%.  D’altra parte, il peso dei flussi commerciali  dell’intera Africa sul totale del commercio nel mondo è sceso dal 4,5% degli anni ’70 all’1,5% sul finire degli anni ’90. L’Africa è quindi diventata un’entità marginale nel sistema economico mondiale. Non è questa l’ultima ragione per cui in tale continente si ritrova circa il 40% dei poveri “assoluti”, quelli i cui consumi sono valutabili in meno di 1$ al giorno. Vari autori individuano in tale emarginazione l’effetto non già di una esclusione dai processi di globalizzazione cui si potrebbe porre rimedio, bensì di una caratteristica intrinseca di tali processi, che addensano e accelerano le interazioni entro il nucleo delle economie forti – Usa, Ue e Giappone – mentre li restringono nei confronti delle economie  periferiche.[10]

 L’ipotesi (è la n° 2) che in molti casi le  disuguaglianze intra-nazionali siano prodotte da forti differenze dei tassi di crescita tra le regioni di uno stesso paese, riconducibili alla concentrazione degli investimenti – in specie dagli investimenti diretti all’estero (IDE) - in certe regioni a scapito di altre che si accompagna alla globalizzazione, è corroborata da un’ampia evidenza empirica.

 Macroscopici sono i casi dell'India e della Cina. In ambedue i casi  le accresciute disuguaglianze di reddito appaiono riconducibili ai tassi differenziali di  crescita economica, indotti dalla concentrazione degli IDE in una circoscritta regione del paese.  In India, l’80% degli IDE effettuati in India dopo il 1991 – 20 miliardi di dollari - si sono concentrati in soli sei stati  della federazione  su 25. Il meccanismo che accresce le disuguaglianze opera qui con la maggior evidenza. Gli investimenti operati dalle grandi imprese transnazionali.vanno agli stati, come il Maharshtra e il Gujarat,  che hanno forze di lavoro più qualificate e consumatori con maggior capacità di spesa. Grazie agli investimenti,  aumentano le spese per l’istruzione ed i consumi privati, rendendo quel territorio ancora più attraente per gli investitori. Il più alto tasso di sviluppo economico   che ne è seguito in tali zone ha contribuito massicciamente ad inasprire le disuguaglianze di  reddito tra   la popolazione dei diversi  stati.  Il Gujarat, ad esempio, con una popolazione di oltre 45 milioni di individui,  aveva nel 1981 un reddito pro-capite superiore del 100% a quello del Bihar, che ha una popolazione più che doppia. Nel 1998 la differenza era salita al 250%.

In Cina, il forte flusso di IDE è stato incanalato dal governo in alcune “zone economiche speciali” (ZES) situate lungo la costa. Zhuhai, Shenzen, Shantou, Xiamen sono state le prime ZES, istituite nel 1980 sulla costa sud-occidentale. Anche l’isola di Hainan, estrema propaggine meridionale della Cina, è divenuta una ZES nel 1987. Altre Zes sono state via via aperte in direzione  Nord, sino al confine con la Corea.  Nelle ZES vige la franchigia doganale sia per i prodotti importati che per quelli esportati dopo la lavorazione. Terreni e permessi di costruzione sono concessi dalle autorità locali a condizioni di favore agli investitori stranieri. Tali benefici hanno portato a moltiplicare per 12, in soli dieci anni, gli IDE indirizzati alla Cina: da 3,5 miliardi di dollari nel 1990 a 45 miliardi nel 2000. Dal 1996 la Cina è il secondo maggior beneficiario al mondo degli IDE, subito dopo gli Usa. In Cina forse ancor più che in India, la concentrazione degli IDE in una regione circoscritta del paese, ed i più rapidi tassi di sviluppo che in essa ne sono derivati, hanno fortemente accresciuto le disuguaglianze economiche rispetto alle altre regioni.

 Ipotesi n° 3: determinati paesi non traggono i benefici attesi dal processo di globalizzazione o perché le loro strutture sociali, economiche e politiche erano o sono troppo fragili per sostenerne l’impatto, oppure perché hanno commesso gravi errori di politica economica.

E’ altresì noto che il fortissimo aumento delle disuguaglianze di reddito registratosi in Russia, così come in altri  paesi dell'Europa orientale,  è stato principalmente dovuto al loro precipitoso e malgovernato inserimento nei processi di globalizzazione.  Ancora, pochi paesi come quelli  dell'America latina sono più strettamente  inseriti da decenni nei processi di globalizzazione. Si veda il disastro dell’Argentina – il miglior allievo del FMI – in cui la quota di popolazione sotto la linea della povertà potrebbe aver toccato nel 2002 il 40%.

D’altra parte è vero che  in vari stati africani i potenziali benefici della globalizzazione sono stati sottratti alla popolazione soprattutto dalla   avidità, incompetenza e corruzione dei  gruppi dirigenti locali.  In altri casi ancora, come nell’America Latina, gran parte dell’onere ricade sui governi che  non hanno saputo predisporre i piani  di formazione professionale che avrebbero potuto portare all'inserimento di una quota di popolazione assai più elevata nel circuito virtuoso dello sviluppo economico sollecitato della globalizzazione.

L’ipotesi n° 4, che riportiamo qui per comodità del lettore, asserisce che l’aumento  delle disuguaglianze internazionali e intra-nazionali, ancorchè appaia  eccessivo, è il prezzo da pagare ad una crescita economica accelerata, quale è stata indotta tra e in molti paesi dal processo di globalizzazione. Dopo un certo periodo, anche i paesi, e gli strati di popolazione, inizialmente svantaggiati dalla crescita ne trarranno beneficio. E’ l’ipotesi del “gocciolamento” (trickle down). Fu affacciata circa mezzo secolo fa dall’economista  Simon Kuznets. I vantaggi della crescita vanno in prima battuta a coloro che stanno in alto nella piramide sociale, ma poco alla volta ricadono anche su quelli che stanno in basso. In termini più tecnici (kuznetiani): in presenza d’una crescita di lungo periodo, le disuguaglianze di reddito prima aumentano, poi diminuiscono.

Qui le variabili critiche sono  il tempo, ed i relativi tassi di crescita dei PVS e dei PS. Se un PVS  di nome A ha un reddito pro capite di 1.000 dollari, e un PS di nome B un reddito di 10.000 dollari,è evidente che affinchè il primo possa raggiungere il secondo bisogna che A accresca ogni anno il suo reddito di qualche dollaro in più di B. Il numero degli anni che impiegherà per raggiungerlo dipenderà da quanti sono, anno per anno, i dollari in più. Descrivere il processo è più facile che realizzarlo. Infatti, se l’economia di B cresce anche solo al modesto tasso del 2% l’anno, dopo un anno B avrà aggiunto 200 dollari ai suoi 10.000. Ma per aggiungere più di 200 dollari al proprio Pil pro capite di 1.000 dollari, l’economia di A dovrebbe crescere in quell’anno di oltre il 20% - un traguardo inimmaginabile anche per i più dinamici PVS.

Pertanto si stima che solo 10 PVS possono sperare di raggiungere il Pil reale pro-capite dei paesi sviluppati  entro i prossimi 100 (cento) anni – e ciò a condizione di mantenere tassi di sviluppo stabilmente più elevati a confronto dei primi.

Secondo lo Unctad, settore delle Nazioni Unite che si occupa in particolare di aiuti allo sviluppo, soltanto per superare la soglia dei $ 900 pro capite i LDCs impiegheranno  25 anni o più.

Tra le ipotesi giustificatorie troviamo quella (n° 5) che afferma che sebbene il numero dei poveri sia rimasto immutato, i poveri del 2000 sono comunque meno poveri dei poveri del 1980; ergo la globalizzazione ha giovato anche a loro.

E’ vero che,  in termini strettamente monetari, gli  strati sociali o le quote di popolazione più poveri  sono   oggi - a livello mondo -  un po’  meno poveri di quanto fossero in passato. Tuttavia   la qualità della vita dei poveri è peggiorata,  ed il loro numero non   è mai stato così alto.  Nel   1950  il  Pil del mondo ammontava a 3.000 miliardi di dollari.  La popolazione  superava di poco i due  miliardi di individui.  Al quintile più ricco – 400 milioni di individui - andava il 65% del Pil mondiale, mentre al quintile più povero – altri 400 milioni -  toccava il 2,6%.  Il rapporto  tra il 20% più  ricco e il 20% più  povero  era dunque di 25 a 1. In valore, allo strato più povero andavano il 2,6% di 3.000 miliardi, equivalente a 78 miliardi di dollari. I quali, divisi tra  400 milioni di individui,  assegnavano a ciascuno in media   un reddito lordo di 195  dollari l'anno – poco più di 1/2 dollaro al giorno.  Il 20 % più ricco della popolazione mondiale si spartiva invece il 65% di 3.000 miliardi di di dollari, ossia 1.950 miliardi, pari a 4.875 dollari pro capite, ossia  13 dollari al giorno.

Nel 1998 il PIL del mondo  risultava salito a 30.000  miliardi di dollari, mentre la popolazione sfiorava i 6 miliardi. Il  20%  più  ricco  della popolazione mondiale produceva l’86% di tale ammontare,  il 20% più povero solamente l’1%.  Il rapporto tra il quinto e il primo quintile era quindi salito a 86:1. In termini monetari, ciò significa  che i 1.200 milioni di individui  più poveri si spartivano, per così dire, 300 miliardi di Pil,  corrispondenti a 250 dollari  l’anno pro capite – meno di 1 dollaro al giorno, stima su cui convergono le principali organizzazioni internazionali, a partire dalla Banca Mondiale.    I 1.200 milioni di individui che formavano  il 20% più ricco disponevano invece di un Pil di  25.800 miliardi di dollari, pari a 21.500 dollari annui pro capite.   Di conseguenza i  ricchi  disponevano nel 1950  di 4.680 dollari pro capite in più dei poveri,  mentre la differenza  a loro favore era salita nel 1998 a 21.250 dollari.   

Il punto critico in questa linea di confronto  non può, d'altra parte, esser visto solamente nella moltiplicazione per 4,5 volte dello scarto  monetario tra i più ricchi e  i più poveri; bensì nel fatto che nel 1998 un individuo provvisto di 250 dollari l'anno era in grado di acquisire un volume di beni e servizi  minore e di qualità peggiore  che non suo padre che nel 1950 fruiva di appena 195 dollari l'anno. Basti pensare a che cosa implica per l’economia d’una famiglia il trasferimento dall’abitazione in un villaggio rurale ad una abitazione in una metropoli; trasferimento spesso forzato dalla razionalizzazione dell’agricoltura in Africa come nell’Asia sud-orientale e nell’America Latina, secondo i canoni imposti dal FMI e dalla Banca Mondiale.

 

 

 

 11. Iniziative per ridurre le disuguaglianze: obbiettivi e risultati

 

La verifica delle ipotesi formulate per spiegare la correlazione tra globalizzazione e disuguaglianze non è soltanto uno scopo della ricerca sociologica ed economica. E’ una necessità per fondare azioni efficaci. Varie azioni sono state intraprese da parte di organizzazioni internazionali, finalizzate ad esempio alla lotta contro la povertà estrema. Una di queste è stata avviata ormai da alcuni anni dalla Banca Mondiale. L’obbiettivo era dimezzare il numero dei poveri estremi entro il 2015. Ricordiamo che si parla al riguardo di 1,2 miliardi di persone che vivono con meno di 1 dollaro al giorno, ovvero di 2,8 miliardi che vivono con meno di 2 dollari al giorno (sempre calcolati in PPA). Gli ultimi rapporti della stessa Banca Mondiale dimostrano come questo obiettivo – sebbene sia stato riproposto tal quale al vertice di Johannesburg nel settembre 2002 - sia ormai da considerare fallito. Il numero dei poveri estremi avrebbe già dovuto risultare in questo momento diminuito di centinaia di milioni di unità per conseguire il suo dimezzamento entro il 2015. Per contro, al 2001 il numero dei poveri  da 1$/giorno appare stabile rispetto al 1987, mentre quelli da 2$/giorno appare sensibilmente aumentato.

Una delle cause di tale insuccesso va sicuramente vista nella insufficienza delle risorse impegnate sul piano mondiale nella lotta alla povertà. Ma non meno ha pesato l’inadeguatezza dei modelli esplicativi del permanere e dell’aumento delle disuguaglianze. Da qui deriva la centralità pragmatica, la rilevanza politica della ricerca sui fattori che sono all’origine delle disuguaglianze globali e ne favoriscono il mantenimento o l’aggravamento. 

 


 


Note

* Più che un saggio o un articolo, questo testo è per il momento un insieme di note che ho cominciato a ordinare per giungere ad un lavoro molto più ampio sulle disuguaglianze globali, non solo quelle economiche. Mi è parso comunque opportuno pubblicarlo, dopo il dubbio esito del summit di Johannesburg, come un ulteriore contributo alla discussione su questo tema. Di esso avevo cominciato a  trattare, ma in una prospettiva diversa, e con minor ricorso a dati quantitativi,  in Globalizzazione e disuguaglianze (Laterza, 7a ed. 2002). Spero che la lettrice o il lettore mi scuseranno per la scarsità di riferimenti alle fonti, e per la struttura ancora poco articolata dell’argomentazione.

[1]Cfr.  J. Bernstein, L. Mishel, C. Brocht, Any Way You Cut. Income inequality on the rise regardless of how it’s measured, Briefing Paper dell’Economic Policy Institute, Washington 2001, http://epinet.org.

[2] Le indagini di questo tipo, che si fondano su complicate misure dei consumi in situazioni assai difficili per i ricercatori, vengono effettuate a cura della Banca Mondiale solamente ogni tre anni. I dati dell’indagine 2000 non sono ancora disponibili.

[3] Marisa Bottiroli Civardi, Renata Targetti Lenti, Profili reddituali, livello d’istruzione e diseguaglianza nella distribuzione personale dei redditi in Italia, “Quaderni del Dip.to di economia pubblica e territoriale”, Università di Pavia, n. 1, 2001, p. 41

[4] Bottiroli Civardi e Targetti Lenti, cit., 2001, p. 8

[5] Worl Bank, World Development Report 2002, p. 1-2

[6] Britannica Book of the Year 2001, p. 802 sgg.

[7] UNESCO, World Education Report 2000, p. 37.

[8] Oxfam, Education Now, Cap. 3, pp. 2-3 (www.caa.org.au/oxfam/advocacy/education/report/chapter 3-1.html

[9] Oxfam, cit., p. 2.

[10] Ankie Hoogvelt, Globalization and the Postcolonial World, in David Held e Antony McGrew, The Global Transformation Reader, Cambridge 2001.

 

 

 


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