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SAGGI

 

Globalizzazione e migrazioni

di Umberto Melotti

 

 

  

Caro Fabio,

mi hai chiesto d’intervenire su “Globalizzazione e migrazioni” sulla tua bella rivista e di farlo possibilmente in circa dieci  cartelle. La cosa non è certo impossibile, se è vero che il buon Dio (o Mosé per lui) ha liquidato in dieci comandamenti le direttive intese a orientare il comportamento dell’umanità. Non è però neanche facile, se non si ha la stessa divina capacità di sintesi. Il rischio, in ogni caso, è di lasciarsi andare ai proverbiali “brevi cenni sull’universo”, cui peraltro chi insegna nelle università dovrà ben presto abituarsi per assecondare il volere di chi ha varato la recente riforma universitaria per “moduli”, che non mi trova francamente entusiasta. Ciò nonostante ho accettato di dare una positiva risposta alla tua richiesta, anche perché non sono proprio capace di rispondere di no ai giovani che stimo, e lo faccio ora, in zona Cesarini (non Casarini, per favore!), anche se l’argomento  suscita in me parecchie perplessità. Concedimi pertanto di stendere il mio intervento in forma di lettera, a sottolinearne il carattere aperto e problematico. Lungi dal tentare di essere esauriente, mi limiterò del resto ad alcune osservazioni che spero sensate, anche se c’è il rischio di ripetere cose ovvie o almeno già note, anche perché io stesso ho già avuto occasione di trattarne, in parte, altrove.

Ma veniamo al tema. Come forse sai, non ho mai scritto espressamente sulla cosiddetta “globalizzazione” e ho anzi cercato di evitare il più possibile questa stessa parola, dato che il termine sta diventando uno dei più corrosi passe-partout e veicola da tempo più equivoci che conoscenze. Ho invece scritto, tra i primi, a partire dalla metà degli anni ’70, sulla “nuova divisione internazionale del lavoro”, che della cosiddetta globalizzazione costituisce l’antecedente immediato e la necessaria premessa. Rispetto alla situazione creata da quel tipo di divisione internazionale del lavoro (che fu una risposta a scala almeno tendenzialmente planetaria alla seconda grande crisi economica del Novecento,  la crisi del 1973-74, impropriamente nota come la “crisi petrolifera”) la globalizzazione si distingue del resto soprattutto per le conseguenze delle nuove tecnologie informatiche e comunicative introdotte nei due ultimi decenni (che hanno assicurato rapidità e pervasività alle molteplici influenze provenienti dai centri capitalisticamente più avanzati) e la nuova importanza assunta dagli aspetti finanziari più o meno “virtuali”, anche in confronto agli aspetti produttivi e distributivi dell’economia reale, come ben sa chi è costretto ad ascoltare ogni giorno i noiosissimi bollettini di tutte le principali borse del mondo.

Ricordare la “nuova divisione internazionale del lavoro” nell’affrontare il tema da te proposto è necessario, perché una delle componenti più importanti di tale processo furono proprio (come già ebbi a mettere in luce allora, quando in Italia quasi nessuno vi prestava attenzione) le migrazioni internazionali, che appunto in quegli anni conobbero un consistente incremento e una profonda trasformazione qualitativa, destinati a farne in breve un fatto di interesse non più soltanto economico e demografico, ma politico, sociale e culturale (evito di aggiungere anche etico, solo per non rischiare di cadere in una peraltro solo apparente retorica).

Per la verità, già nei primi anni del secondo dopoguerra (verso il 1950, se si vuole precisare una data) si era verificata un’inversione della tendenza secolare della direzione dei grandi flussi migratori a scala planetaria. Per quattro secoli e mezzo, dalla scoperta dell’America sino alla metà del ’900, i flussi migratori erano andati per l’essenziale dalla vecchia Europa, centro del sistema mondiale che si era andato formando appunto in quel periodo, alle sue periferie, costituite dalle Americhe, dall’Africa, dall’Asia, dalla lontana Oceania. Dopo la seconda guerra mondiale vi fu un rovesciamento della direzione fondamentale dei flussi, nel contesto dei cambiamenti epocali determinati da quel grande conflitto (l’emergere degli Stati Uniti d’America come prima potenza mondiale; la divisione del mondo in due grandi blocchi politici, economici, militari e ideologici; il tramonto e poi la fine dei grandi imperi coloniali europei; l’accesso all’indipendenza politica di quasi tutti i Paesi dell’Asia e dell’Africa, a partire dalla più grande e importante colonia britannica, l’India; le rivoluzioni sociali della Cina, di Cuba, dell’Algeria  e del Vietnam; le insurrezioni sociali e le conseguenti repressioni in America Latina, Asia e Africa). I flussi migratori cominciarono così a dirigersi principalmente dalle periferie del sistema mondiale verso il suo centro, che comprendeva ormai anche gli Stati Uniti d’America, dando vita a un processo che si sarebbe poi incrementato e accelerato via via, in parte autonomamente, per effetto della stessa “catena migratoria” instaurata dalle prime migrazioni, e in parte eteronomamente, per effetto delle crisi economiche e politiche che caratterizzarono quegli anni. Basti qui richiamare per ciò che concerne l’Europa la fuga di undici milioni di tedeschi dalla Germania orientale e dagli altri territori del vecchio Reich passati  all’Unione Sovietica e alla Polonia, le altre fughe “verso la libertà” dall’Unione Sovietica e dai suoi numerosi Paesi satelliti europei ed extraeuropei e, per citare un fatto che ha toccato direttamente il nostro Paese, l’abbandono in parte forzato e in parte spontaneo, da parte della popolazione italiana dell’Istria e della Dalmazia, di quelle regioni, occupate dalle truppe titine e poi attribuite alla Jugoslavia. Fuori d’Europa vanno  ricordati eventi ancor più disastrosi: i reiterati conflitti nel subcontinente indiano (fra indiani e pakistani, con connotazioni anche etnico-religiose, prima e pakistani occidentali e pakistani orientali poi), l’espulsione degli asiatici dai nuovi Paesi indipendenti dell’Africa orientale, le drammatiche crisi economiche della Cina sconvolta dalle crudeli “riforme” maoiste, i movimenti di popolazione indotti dalle tante guerre di “liberazione” in Africa e in Asia, peraltro per lo più conclusesi con l’instaurazione di odiose dittature, a partire dalle tremende guerre contro i francesi in Vietnam e in Algeria e da quelle contro gli inglesi in Africa orientale.

Tuttavia in Europa (con la sola importante eccezione della Gran Bretagna, centro del più grande impero coloniale della storia) per circa un quarto di secolo l’immigrazione continuò a essere prevalentemente continentale. Qui, del resto. l’immigrazione assunse una fisionomia assai particolare e in ogni caso irripetibile. Per un lungo periodo di tempo (dal 1945 al 1973) rispose infatti soprattutto alla forte domanda di manodopera (inappagata dall’offerta interna a ciascun Paese, anche per la falcidie bellica di maschi in età lavorativa) determinata dalla ricostruzione post-bellica e dalla lunga fase di sviluppo che le fece seguito (una fase che vide, fra l’altro, nei due Paesi europei usciti sconfitti dal conflitto, il grande “miracolo economico” tedesco e quello, più piccolo, ma pur sempre assai significativo, del triangolo industriale italiano di Genova, Milano e Torino).

In tale periodo, peraltro, soltanto i Paesi dell’Europa centro-settentrionale si configurarono come aree d’immigrazione, perché quelli dell’Europa meridionale (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia), allora ad alta natalità e a basso sviluppo,  restarono anzi ancora nel loro complesso, per un quarto di secolo, aree di emigrazione, benché alcuni di essi, proprio per effetto dei due già citati fattori dinamici (la ricostruzione post-bellica e la successiva fase di sviluppo), abbiano conosciuto delle intense migrazioni interne rispondenti fondamentalmente alla medesima logica delle citate migrazioni internazionali (basti pensare per l’Italia ai flussi dal Sud e dal Nord-Est verso il triangolo industriale e in minor misura Roma e per la Spagna a quelli dall’Andalusia e da altre regioni relativamente arretrate verso la Catalogna e  Madrid). L’Italia fu in questa fase il primo Paese europeo di emigrazione (tanto che come retaggio di quel periodo la componente italiana risulta tuttora ai primi posti nella presenza immigratoria in diversi  Paesi europei: Svizzera, Germania, Francia, Belgio). A mano a mano, però, che, per lo sviluppo economico e la diminuita natalità, si esaurirono i serbatoi di manodopera dell’Europa meridionale, acquisì una crescente  importanza l’immigrazione dalla sponda sud e dalla sponda est del Mediterraneo: l’Algeria, il Marocco e la Tunisia, soprattutto per la Francia, anche in virtù dei precedenti rapporti coloniali; la Turchia, soprattutto per la Germania, in virtù delle antiche e delle nuove relazioni economiche; la Jugoslavia per altri Paesi.   

Dopo il 1973 la situazione mutò ancora per effetto della già citata crisi economica. I tradizionali Paesi d’immigrazione dell’Europa centro-settentrionale chiusero l’uno dopo l’altro le loro frontiere a ulteriori immigrazioni per motivi di lavoro, ma per i persistenti fattori di espulsione nei Paesi di esodo, cui altri se ne aggiunsero per gli effetti diretti e indiretti della crisi economica e  l’aggravarsi delle politiche repressive in non pochi Paesi dell’America Latina, dell’Africa nera, dell’Asia meridionale e dell’Estremo Oriente (che conobbero reiterati colpi di stato, seguiti da dittature violente e cruente), le migrazioni verso l’Europa non diminuirono, ma divennero clandestine o assunsero la forma della ricerca del rifugio per motivi politici o si riorientarono verso i Paesi dell’Europa meridionale, che, non essendo stati in precedenza delle mete immigratorie significative, non avevano provveduto a chiudere le loro frontiere. Così anche questi Paesi divennero (in genere malgrado sé stessi, anche per la persistenza di alti tassi di disoccupazione interna soprattutto giovanile), aree d’immigrazione. Anche a scala mondiale, del resto si aprirono, legalmente o illegalmente, altri importanti poli immigratori: i Paesi del Golfo persico produttori di petrolio, altri Paesi petroliferi come la Libia e la Nigeria, il Giappone, ormai diventato la terza potenza industriale del mondo, le quattro “tigri asiatiche” di recente e contraddittorio sviluppo (Hong Kong, Singapore, Formosa e la Corea del Sud). Più forte si fece anche la pressione immigratoria sui tradizionali Paesi extraeuropei d’immigrazione: gli Stati Uniti d’America, il Canada e l’Australia. Più tardi, con la caduta del muro di Berlino, l’implosione dell’Unione Sovietica e il tracollo dei regimi di collettivismo burocratico dell’Est europeo, altri importanti Paesi divennero aree di esodo quasi incontrollato. In questo periodo si moltiplicano anche i Paesi che (come già l’Italia di non molti anni prima) si configurano al tempo stesso come aree di emigrazione e d’immigrazione. I casi più tipici sono quelli dei due più grandi Paesi del Sud America, l’Argentina e il Brasile, caratterizzati da un grado di sviluppo intermedio e da forti squilibri territoriali e sociali. Ma situazioni simili esistono anche in altri Paesi, come, ad esempio, il Messico e la Repubblica Dominicana.                                       

Le migrazioni divengono così davvero un fatto globale, sia per ciò che concerne le aree di emigrazione, ormai estese a tutto il mondo relativamente povero, sia per ciò che concerne le aree d’immigrazione, ormai estese a tutto il mondo relativamente ricco. Molte però sono le situazioni intermedie, che non permettono di appiattire l’analisi sulle mere variabili economiche, per importanti che queste siano. Entrano in gioco, in realtà, anche variabili di altra natura, fra cui quelle di carattere culturale. Particolare rilievo, fra queste, assumono quelle collegate al fattore religioso, che concorre in molti casi a orientare la direzione dei flussi. Non è un caso, ad esempio, che la maggior parte delle donne immigrate in Italia e la quasi totalità delle cosiddette primo-migranti (cioè di quelle che arrivano sole e non al seguito di mariti o di altri congiunti) provengano da Paesi cattolici, come le Filippine, Capo Verde, il Perù, l’Ecuador e la Repubblica Dominicana.

In estrema sintesi, i rapporti fra migrazioni internazionali e globalizzazione possono essere così puntualizzati:

1) In una prima fase storica, di durata  plurisecolare, che parte dalla scoperta delle Americhe e arriva alla seconda guerra mondiale, le migrazioni internazionali, che s’intrecciano con le conquiste coloniali europee nel resto del mondo, gettano le necessarie premesse del processo di globalizzazione, estendendo a scala planetaria il sistema economico internazionale dominato dal “centro” capitalisticamente più avanzato, costituito allora dalla vecchia Europa.

2) Per effetto di tali migrazioni si costituiscono nella “periferia” del sistema le prime grandi società multirazziali, multietniche, multiculturali, multilinguistiche e multireligiose dell’epoca moderna (che fuori dell’Europa non sono una novità).

Un caso emblematico è costituito dal Brasile, il più grande Paese dell’America del Sud, ove alla presenza degli indigeni (5 milioni al tempo della conquista, destinati però a ridursi via via a poche centinaia di migliaia) si sovrappone la popolazione europea dei conquistatori portoghesi (peraltro già portatrice di influenze complesse, fra cui quelle collegate alla precedente dominazione araba nella penisola iberica) e poi dei numerosi immigrati italiani, tedeschi e di altri Paesi, la componente africana, giunta in condizioni di schiavitù per effetto delle migrazioni forzate del tempo della tratta, l’immigrazione asiatica, soprattutto dalla Cina e dal Giappone, e, recentemente, immigrazione anche di componenti indie provenienti da altri Paesi dell’America del Sud. Da ciò una complessa mescolanza di razze e di culture, che ha trovato espressione anche nella musica e nella cucina e nelle varie religioni sincretiche praticate nel Paese, fra cui l’umbanda e il cadomblé. Simile, del resto, è la storia di altri Paesi “latino-americani”, in cui pure prevale ora la componente europea (Argentina), ora la componente indigena (Messico, Guatemala, Ecuador, Perù), ora la componente africana (Haiti).

Anche in Africa, però, le immigrazioni europee hanno dato vita a complesse commistioni di lingue, di culture e di religioni. Ancor oggi vi si distinguono Paesi anglofoni, francofoni e lusofoni, per effetto delle più  significative conquiste europee.  Anche le precedenti conquiste arabo-islamiche hanno del resto lasciato tracce profonde, soprattutto nella lingua e nella religione. Nell’Africa settentrionale l’arabo si è sovrapposto ai vari dialetti berberi e l’Islam è diventata la religione di gran lunga dominante, se non esclusiva, mentre in Africa orientale e in alcuni importanti Paesi a sud del Sahara, come il Senegal e gran parte della Nigeria, la penetrazione è stata soprattutto religiosa.

Anche in India l’inglese è tuttora la lingua unificante, al di là dell’altra lingua ufficiale “nazionale”, l’hindi, non da tutti conosciuta, e delle numerose lingue ufficiali riconosciute solo all’interno dei diversi Stati dell’Unione e degli ancor più numerosi dialetti di fatto parlati nel suo vasto territorio. La religione islamica è penetrata nel Nord (ben al di là delle regioni del Pakistan e del Bangla Desh attuali), mentre quella  cristiana è invece presente in misura significativa solo in alcune realtà particolari, come Goa e il Kerala. anche per la preesistente molteplicità di religioni e di culti locali ben radicati.

3) L’acculturazione coloniale ha favorito le nuove migrazioni internazionali dopo la seconda guerra mondiale. Non è un caso che le prime mete di tali migrazioni siano state  proprio le metropoli coloniali: la Gran Bretagna (per i giamaicani, gli indiani, i pakistani, i bangladeshi, i cinesi rifugiatisi a Hong Kong, i nigeriani, i ghanesi, etc.) e la Francia (per gli algerini, i tunisini, i senegalesi, i maliani, gli altovoltiani, etc.), il Belgio (per i congolesi, i ruandesi, i burundesi), il Portogallo (per i capoverdiani, i guineani di Bissau, gli angolani, i mozambicani), la Spagna (per i marocchini) e anche l’Italia (per gli eritrei, i somali, gli etiopici).

4) In una fase successiva la globalizzazione è stato uno dei fattori che più ha concorso a incrementare le migrazioni internazionali. Le nuove tecnologie dei trasporti hanno permesso di ridurre le distanze in termini di tempo e di costi, facilitando spostamenti anche temporanei un tempo impensabili (come insegna, d’altra parte, anche il cancrenoso sviluppo del turismo di massa). Le nuove tecnologie della comunicazione hanno permesso di far circolare in tempo reale a scala planetaria la notizia delle opportunità esistenti in determinate aree (reti famigliari e amicali, posti di lavoro disponibili, risorse abitative, possibilità d’ingresso legali e illegali, sanatorie e regolarizzazioni, etc.). La diffusione della conoscenza delle principali lingue internazionali e degli usi e dei costumi dei Paesi d’immigrazione, grazie anche alla scolarizzazione, ai mezzi di comunicazione di massa e allo stesso turismo internazionale, ha favorito quei processi di socializzazione anticipatoria che i primi studiosi dei flussi migratori avevano ritenuto possibili solo nel caso delle migrazioni interne (così, ad esempio, avevano scritto in Italia Alberoni e Baglioni negli anni ’60). L’omologazione a scala planetaria di determinati consumi ha ridotto le difficoltà insite nell’emigrazione. Le informazioni relative al livello di vita dei Paesi economicamente e socialmente più avanzati ha diffuso d’altra parte quella sensazione di deprivazione relativa che, ancor più della stessa povertà, alimenta il desiderio di emigrare: un desiderio presente soprattutto nei Paesi a un grado di sviluppo intermedio (come il Marocco, le Filippine, il Messico, il Perù, l’Ecuador, la Repubblica Dominicana), specie se affetti da regimi illiberali (Cuba) e da devastanti crisi economiche (Albania, Argentina).

5) La globalizzazione ha altresì influito  profondamente sulle politiche migratorie dei Paesi di approdo. Particolarmente chiaro è il caso dei Paesi europei, ove all’influenza dei processi di globalizzazione si è aggiunta quella del processo di unificazione europea, acceleratosi nel corso degli anni ’90. Un tempo (ancora dieci anni fa, per intenderci) le politiche dei principali Paesi europei d’immigrazione erano chiaramente distinte e profondamente radicate nella loro diversa cultura politica. La Francia prevedeva l’insediamento definitivo di una parte consistente degli immigrati, con la loro assimilazione, secondo il cosiddetto “modello repubblicano d’integrazione”, che mirava a farne dei “buoni francesi”, per far fronte non solo alle ricorrenti necessità del mercato del lavoro, ma anche ai persistenti problemi posti dal calo demografico, iniziato in questo Paese assai prima che altrove. La Germania prevedeva invece, al più, per gli immigrati, un’“integrazione temporanea” (Integration auf Zeit) per meri motivi di lavoro e favoriva un’immigrazione rotatoria che avrebbe voluto impedirne il radicamento definitivo sul suolo tedesco, secondo il vecchio modello dei  Gastarbeiter, cioè dei “lavoratori ospiti” (un modello, emerso nel corso degli anni ’50 e poi tramontato al tempo della crisi del 1973-74,  ma ripescato nella seconda metà degli anni ’80 per tentare di gestire allo stesso modo la nuova immigrazione proveniente soprattutto dai Paesi dell’Est europeo). In ogni caso, la cittadinanza tedesca, attribuita per jus sanguinis, era negata per principio agli stessi figli dei lavoratori stranieri nati durante la loro permanenza in Germania. Il Regno Unito, che aveva conosciuto un’immigrazione in parte diversa, proveniente soprattutto dalle sue vecchie colonie, riconosceva per contro agli immigrati del Commonwealth pieni diritti di cittadinanza (compreso il voto attivo e passivo alle stesse elezioni politiche), ma poco si preoccupava della loro “integrazione”. Riconoscere (a differenza della Francia e della Germania) le loro “comunità”, ma finiva per dar vita a nuovi ghetti etnici, anche per la particolare reattività della cultura anglosassone alle differenze di razza, ivi chiamate col loro nome anche nei documenti ufficiali. Ora la situazione è  sensibilmente cambiata dappertutto e si riscontra un notevole ravvicinamento delle politiche migratorie di questi Paesi  (anche se l’Unione europea ha in proposito soltanto delle limitate competenze secondo il principio della sussidiarietà). In Francia non fa più scandalo parlare di “multiculturalismo”, un tempo considerato una via all’invisa ghettoïsation all’americana. In Germania l’immigrazione non è più concepita come un fatto temporaneo e i figli nati in Germania dagli immigrati stranieri possono accedere quasi automaticamente alla cittadinanza tedesca. Nel Regno Unito l’integrazione degli immigrati costituisce un obiettivo importante delle politiche sociali, che non si limitano più a perseguire le più evidenti discriminazioni razziste. Anche l’Italia, del resto, pur fra dubbi e titubanze, alimentate anche dal succedersi di maggioranze parlamentari e di governo di opposto orientamento politico, ma di pari incompetenza specifica, segue fondamentalmente questa tendenza di lungo periodo a una sostanziale  convergenza delle politiche migratorie europee.

6) Del resto, per il congiunto effetto di migrazioni e globalizzazione la stessa identità culturale dei singoli Paesi tende a venir meno. Si confondono usi e costumi, si “inventano” nuove tradizioni “locali” sul modello di quelle importate, si imitano i comportamenti visti nei telefilm americani o nelle telenovelas brasiliane e messicane. Nel piccolo paesino del retroterra ligure dove mi trovo attualmente, nonostante l’apparente isolamento, le feste “tradizionali” (della Madonna, dell’Unità, della Croce Rossa, etc.) prevedono l’asado introdotto dagli emigrati in Argentina rientrati a casa accanto ai canestrelli e ai testaroli locali, le musiche e le danze spagnole, cubane e brasiliane accanto alle polche e alle mazurche, il rodeo di stile nordamericano accanto al mercato dei cavalli bardigiani. E chi lavora qui tutta l’estate quando si prende una settimana di ferie non va certo al mare nelle splendide Cinque Terre  distanti solo qualche decina di minuti in automobile, ma va sul Mar Rosso, in Messico o a Cuba, da dove magari ritorna con una moglie mulatta…

Non c’è da sorprendersi quindi se il cinese delle povere regioni del sud-est, che sogna la Coca-Cola o gli hamburger della Macdonald (i cui simulacri, come io stesso ho visto, hanno preso il posto delle statue di Mao sui  basamenti al centro delle piazze), decida di venire in Italia, a gestire improbabili ristoranti “cinesi” che riscaldano per gli avventori le scatolette confezionate a Hong Kong dalle intraprendenti multinazionali americane. Né che il senegalese arrivato sul litorale adriatico a vendere statuette “africane” assemblate a Napoli o false Vuitton fabbricate nelle pelletterie toscane in mano ai cinesi veda come un’importante promozione sociale la possibilità a lui offerta dalle volonterose “cooperative multiculturali” della costa di esibirsi a pagamento in danze tradizionali africane che non aveva mai ballato al suo Paese.

7) C’è però un aspetto che non è né idillico, né grottesco. La concorrenza degli immigrati tende a espellere dal mercato del lavoro le fasce più deboli della manodopera autoctona (anziani, donne e giovani).  Mentre scrivo, leggo sulla prima pagina dei quotidiani due notizie solo in apparenza senza collegamento: le previsioni sul numero degli immigrati (molte centinaia di migliaia) che dovrebbero regolarizzarsi con l’ennesima sanatoria (la quinta in quindici anni) richiesta da preti e imprenditori e la notizia della morte di un padre di sei figli che in una cittadina del Sud si era dato fuoco per protesta e per disperazione, non riuscendo a ottenere un lavoro stabile al termine del periodo di “lavoro socialmente utile” (faceva il netturbino) che gli aveva permesso di guadagnare 750 Euro al mese per sei mesi e di campare in un sottoscala con tutta la sua famiglia. Altro che “lavori rifiutati dagli italiani”, in cui, secondo certi sociologi (in primis il solito De Rita) s’inserirebbero gli immigrati stranieri! In ogni caso ciò che i lavoratori italiani a volte rifiutano (nonostante un tasso di disoccupazione generale oscillante attorno al 12% su base nazionale e al 20% nel Sud) non sono certi posti,  ma certe condizioni di lavoro (come ha ben visto fra gli altri Enrico Pugliese): condizioni in contrasto con il livello di sviluppo economico-sociale ormai raggiunto dal nostro Paese. Orbene, l’offerta illimitata di lavoro proveniente dai Paesi poveri  delle periferie del mondo consente ai datori di lavoro (o, per meglio dire, a quelli con il pelo sullo stomaco, che peraltro non sono pochi) di non migliorare tali condizioni, come invece sarebbero costretti a fare, in assenza della comoda alternativa  offerta da questo sterminato “esercito di riserva”, aduso nei Paesi di origine a trattamenti simili o ancora peggiori per un salario molte volte inferiore. Aggiungo, però, per completezza d’informazione, che alcuni  datori di lavoro giustificano la propria scelta, adducendo l’alto livello di tassazione e gli elevati oneri sociali esistenti in Italia e la concorrenza internazionale dei Paesi poveri, anche vicini (come, nel caso del Nord Est italiano, la Slovenia, la Croazia e la Romania, dove del resto non pochi di loro  hanno pensato bene di trasferire almeno una parte dei loro stessi impianti produttivi).

8) Dai Paesi poveri, peraltro, arrivano anche immigrati con un titolo di studio medio-alto, che accettano di far qui lavori che disdegnerebbero al loro Paese. È questo il caso, per fare un esempio, delle diplomate e delle laureate filippine ed ecuadoriane, che vengono in Italia (così come vanno in altri Paesi occidentali) a fare le collaboratrici domestiche. Gioca qui un ruolo determinante la disparità dei trattamenti salariali, aggravata dagli effetti di cambio e dal diverso potere di acquisto della moneta. In ogni caso, per guadagnare lo stesso stipendio che in Italia conseguono come domestiche (senza costi abitativi e di mantenimento, se fisse), queste donne al loro Paese dovrebbero essere funzionarie statali di alto livello, direttrici di banca o imprenditrici di successo. Sono le storture di un sistema globalizzato, sì, ma forse non ancora abbastanza.

9) Esistono poi anche coloro che vengono chiamati nei Paesi dell’Occidente per assolvere delle funzioni qualificate per cui, almeno a breve termine, vi è difficoltà di reperire un sufficiente numero di addetti locali. È il caso tipico dei tecnici informatici indiani, chiamati in Germania con ponti d’oro, o dei programmatori cinesi, negli Stati Uniti. I Paesi sviluppati così si appropriano di importanti risorse umane, sottraendole ai Paesi di origine, che pur avevano pagato il loro “costo di allevamento”. Ciò tende a rendere i ricchi più ricchi e i poveri più poveri (nonostante il beneficio costituito per questi ultimi dalle eventuali parziali rimesse degli emigrati). Peraltro, almeno per queste attività, nei Paesi di origine vi sarebbero ancora scarse opportunità di inserimento a livelli adeguati e ciò limita il danno di tale brain drain.

10) Diverso, e assai più grave, è il caso di quegli specialisti che lasciano i Paesi poveri, ove pure vi sarebbe grande bisogno della loro opera, per esercitare le loro professioni nei Paesi ricchi. È questo il caso tipico dei medici. Vi sono Paesi nel mondo in cui vi è un medico per 10.000, 20.000, 30.000 abitanti. Che senso ha che i medici di quei Paesi vengano a lavorare in Italia, ove ve ne è uno ogni 400 abitanti e i laureati in medicina faticano a trovare un posto? Bisogna peraltro distinguere il caso della mera motivazione egoistica individuale (che andrebbe assolutamente scoraggiata) da quello di chi è costretto a lasciare il proprio Paese per ragioni politiche (come nel caso dei medici cubani, peraltro pagati solo 25 dollari al mese nel loro Paese) o per una di quelle tante insensate guerre che dilaniano il Terzo Mondo (come è stato il caso dei libanesi, dei somali e degli etiopici) o per sfuggire a persecuzioni etniche o di altra natura (come nel caso dei ruandesi e dei burundesi). Diverso è anche il caso di chi ha studiato qui, si è acculturato ai nostri modelli di vita e qui ha stretto rapporti di amicizia o addirittura ha costituito una famiglia. Peraltro il problema degli studenti esteri dovrebbe essere affrontato seriamente, per incentivare il loro ritorno ai Paesi di origine. Non ha alcun senso trattenere qui una larghissima parte dei medici di origine straniera formatisi nelle nostre università e nei nostri ospedali e inviare nei loro Paesi dei “volontari”, dei “medici missionari” o dei “medici senza frontiere” spesso più ideologicamente motivati che tecnicamente capaci di operare in luogo.

Con ciò, caro Fabio, ho concluso in poche cartelle il mio modesto decalogo. Sperando di non aver troppo annoiato o rattristato i tuoi lettori, ti saluto molto caramente.

 

 

Nota bibliografica

 

Mi permetto di segnalare qui i miei specifici contributi cui ho fatto indiretto riferimento nel testo:

 

Sviluppo e sottosviluppo nella nuova divisione internazionale del lavoro, in “Terzo Mondo”, Milano, n. 37-38, 1979, pp. 3-14.

La nuova immigrazione a Milano, Mazzotta, Milano, 1985 (specialmente il capitolo introduttivo sulle nuove migrazioni internazionali).

Migrazioni, divisione del lavoro, cultura, in Lontano da dove. La nuova immigrazione e le sue culture, Angeli, Milano, 1987, pp. 15-65.

L’immigrazione, una sfida per l’Europa, Edizioni Associate, Roma, 1992.

L’abbaglio multiculturale, Seam, Roma, 2000.

Mediterraneo. Di qua, di là dal mare (con Marcella Delle Donne), Ediesse, Roma, 2002.                                      

 

 

 


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